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ETICA RELAZIONALE


Pur con la sobrietà narrativa e biografica che li caratterizza, e nel costante cristocentrismo, i Vangeli nell'insieme offrono un'immagine di Maria come di una una donna storica e povera (nel senso forte biblico: «discente» la definiva Karl Rahner), che appartiene a un tempo e ambiente storicamente determinato, che accoglie i valori del suo tempo e nello stesso tempo li trascende e li consegna ai secoli cristiani.

1. La soggettualità: il dialogo responsabile
Confrontando il racconto dell'annuncio a Maria (Lc 126-38) con quello dell'annuncio a Zaccaria, che si trova prima nello stesso capitolo del vangelo di Luca (1,5-25), si resta colpiti dall'evidente intenzione dell'evangelista di stabilire una corrispondenza tra i due episodi - alcuni esegeti parlano, a questo proposito, di «dittico degli annunci» -; ma una corrispondenza evolutiva, volta a evidenziare costantemente la superiorità di quel che si riferisce a Maria. La fanciulla di Nazaret nell'umiltà del suo quotidiano supera nella fede l'anziano sacerdote in servizio nel Tempio: lo supera non solo sul piano della relazionalità, ma anche su quello della soggettualità. È evidente che qui non pensiamo esclusivamente al «fiat» - troppo filtrato nei secoli attraverso un modello di femminilità puramente ricettiva -, ma anche a tutto l'insieme del dialogo con l'angelo, espressione simbolico-narrativa dello scontro con Dio che si trova al fondo di ogni autentica vicenda di vocazione. Maria ci viene presentata come paradigma dell'ascolto, e l'ascolto è anche umanissima abitudine a riflettere: necessaria a costituire l'ascolto di fede, anche se non sufficiente. L'ascolto dice in primo luogo attenzione, orientamento dello spirito umano verso il progetto di. Dio, fino alla confluenza dello spirito umano con lo Spirito di Dio. La sostanza etica del racconto dell'annunciazione è che Dio tratta Maria come una persona vera e consapevole (cosa che si verifica in tutti i racconti scritturistici di vocazione, ma in questo caso in modo speciale): chiede il suo assenso, non la costringe, non prescinde dalle sue disposizioni interiori. E Maria «assunta al dialogo con Dio, dà il suo consenso attivo e responsabile», come si dice nell'esortazione Marialis cultus (n. 37): né reticente, dunque, né precipitoso. La sua domanda «Come è possibile questo?» a prima vista potrebbe sembrare molto simile alla domanda di Zaccaria «Come riconoscerò questo?» e tuttavia, a differenza della domanda del sacerdote, il suo significato di fondo non è riluttanza a credere, ma bisogno di capire. Infatti l'angelo, che alla domanda a Maria risponde ricordando che «nulla è impossibile a Dio», poi adducendo come segno la parallela vicenda di Elisabetta: non come un «segno» che serve a Maria per credere, bensì come un parallelo che diviene evidente ed eloquente dopo che si è instaurata la comunicazione sul piano della fede.Va rilevato un dettaglio che ci sembra molto significativo in prospettiva relazionale: Elisabetta viene detta parente (sygghenis) di Maria. Di qui, com'è noto, è stata fatta derivare la parentela tra Gesù e il Battista, peraltro scarsamente confermata dal resto della tradizione evangelica. In realtà la sygghenèia di Maria e di Elisabetta, quella che può interessare il terzo evangelista, non agisce sul piano dei legami di sangue, ma nell'orizzonte della fede. L'ascolto, prima e fondamentale caratteristica del discepolo, è anche il dato essenziale a ogni relazione, e agisce su molti piani. Ancora inteso talvolta come realtà puramente ricevente, dunque «passiva» - anche se di solito questo termine viene rifiutato da tutti -, è una della attività più creative e trasformative che esistano; se è ascolto vero, presuppone e genera libertà. È necessaria una fiducia senza riserve nel mistero di Dio che chiama, per avere il coraggio di lasciare spazio al nuovo che trasforma profondamente la situazione preesistente. Lo stesso evento dell'annunciazione è un'icona relazionale: letta nella giusta luce, infatti, l'intera vita del credente è un tessuto di annunciazioni e ogni persona, nonostante le sue personali debolezze, può ben essere in certe circostanze l'angelo dell'annunciazione di un altro.

2. La Serva del Signore vs il Servo del Signore
Alle parole dell'angelo Maria risponde «Eccomi, sono la serva del Signore», e si sa che queste parole, per lungo tempo recepite - anche in epoche di tenerissima, adorante, sovrabbondante venerazione per la madre di Gesù -, sono state recepite accentuando in esse a senso unico l'umiltà e la docilità, con una lettura 'servile' riduttiva e fuori luogo. Lo sapesse oppure no chi consolidava questa lettura carente, qui non operava in primo luogo la meditazione scritturistica (o comunque un fatto teologico), bensì la tendenza a imporre il modello di femminilità e di rapporto uomo-donna che in quel tempo e in quell'ambiente si riteneva più produttivo. A parte il fatto che la sottomissione a Dio è essenzialmente diversa dalla sottomissione a qualsiasi altra autorità terrena anche legittima, anche buona (è infatti l'unica sottomissione che, quanto più è profonda e totale, tanto più sprigiona libertà e autonomia e originalità di risposta), le risonanze qui suscitate tradizionalmente della parola serva costituiscono un classico esempio di sessismo linguistico: se infatti la parola fosse stata declinata al maschile, il «servo del Signore», avrebbe suscitato idee ben diverse, evocando veri e propri leader nella storia del popolo di Dio (pensiamo a Samuele) e soprattutto il misterioso personaggio del Deuteroisaia che salva il suo popolo attraverso l'accettazione di una sorte dolorosa. È un personaggio sofferente, non si ribella all'ingiusta sofferenza e alla malvagità umana che lo colpisce; e tuttavia non è certo passivo, la sua funzione è regale e mediatrice, il suo carattere quasi messianico. Si potrebbe aggiungere che l'iniziale «Eccomi» nella risposta di Maria evoca le grandi chiamate della storia del popolo di Dio: Abramo, Isaia... Da parte di Maria dunque il fatto di rispondere «Eccomi, sono la serva del Signore» esprime una forma di «relazionalità storica», comunitaria; significa collocarsi consapevolmente in continuità con la storia intera del popolo d'Israele di cui è parte, accettare con naturalezza per sé un ruolo unico e fondamentale all'interno di questa storia. Inoltre il fatto di definirsi «serva del Signore» anticipa profeticamente uno stile rinnovato di rapporti all'interno della nuova umanità, fondato sulla centralità del reciproco servizio. Un tale atteggiamento di cui Maria è modello potrebbe chiamarsi a buon diritto umiltà, ma è certo qualcosa di ben diverso rispetto all'umiltà quale viene tradizionalmente inculcata a uomini e donne - ma tanto più a queste ultime - nella formazione ascetica tradizionale. Sempre sulla linea della relazionalità, si potrebbe anche aggiungere che la risposta di Maria denota un'autocoscienza di livello elevato, un'eccezionale disponibilità al cambiamento (il cambiamento richiede senso di identità e autonomia), un senso profondo di creaturalità, una fiducia senza riserve e insieme una consapevole scelta di affidarsi incondizionatamente a Dio. Il racconto dell'annuncio a Maria nel vangelo di Luca costituisce anche un paradigma dell'individuazione-realizzazione, secondo un'idea illuminante di L. Pinkus. Nel racconto dell'Annunciazione si fa evidente anche la natura intimamente dialogica di tutta la storia della salvezza, nelle sue varie tappe: ogni 'parola-evento' di Dio fa tutt'uno con la risposta umana. All'angelo che le offre il segno, da lei peraltro non richiesto, Maria risponde «Eccomi» (Lc 1,38): la parola di Abramo di Samuele, di Isaia, di chi si scopre chiamato da Dio a un destino eccezionale e lo accetta, anche se questo implicherà lo sconvolgimento dei precedenti e più normali schemi di esistenza. La relazionalità presuppone la capacità di andare oltre l'ovvio, la consuetudine, gli schemi. Comincia da quel momento la sua vita come risposta e «peregrinazione nella fede».

3. Riconoscere l'opera di Dio nell'altro
La relazionalità è intimamente solidale e significa rendere omaggio al mistero dell'opera di Dio nell'altro da sé. Appena ricevuto l'annuncio e accolto il mistero delle intenzioni di Dio che la riguardano, Maria non si chiude nel privato, nell'estasi contemplativa: è figura di interiorità, non di intimismo deteriore. Non imprigiona l'opera di Dio nella sua esistenza individuale, ma si mette in cammino, va a far visita alla sua parente Elisabetta, incinta nella sua vecchiaia perché «nulla è impossibile a Dio». Anche qui si può ritrovare un parallelismo-contrapposizione: l'evangelista ha detto prima che Elisabetta, appena compreso il disegno di Dio che la riguarda, rimane nascosta per cinque mesi; Maria invece si alza e si mette in cammino, «in fretta» (Lc 1,39). Nei vangeli in genere e in quello di Luca in modo speciale, questa fretta è caratteristica dell'agire del discepolo: non solo umana disponibilità e sollecitudine, ha qualcosa dell'impazienza divina (che può convivere con la pazienza e la tenerezza di Dio) e dell'urgenza escatologica. Chi ha vissuto con forza l'incontro con il piano di salvezza di Dio non può chiudersi nell'intimità di un'esperienza cara e preziosa, ma va e annuncia, poiché avverte la precisa e urgente responsabilità di recare agli altri il dono che ha ricevuto. Fin dall'epoca patristica, l'interpretazione tradizionale della visita di Maria a Elisabetta - sempre volta a leggere la femminilità come servizio e il servizio in termini prevalentemente materiali e assistenziali - tendeva a leggere questo pronto andare di Maria come volontà di rendersi utile alla sua parente anziana e incinta. Senza voler escludere del tutto questa dimensione del • «prendersi cura» - che è pure essenziale nell'agire del discepolo, uomo o donna che sia, come nell'agire di Gesù stesso, soprattutto nel vangelo di Luca -' oggi questa lettura se assolutizzata appare in tutta la sua insufficienza. Maria va da Elisabetta soprattutto per condividere con lei l'esperienza straordinaria del progetto di Dio accolto nella totalità del proprio essere; per il bisogno di approfondire dialogicamente la rivelazione di Dio che ha sperimentato nell'intimo dell'esistenza, per confermare e venir confermata nella fede. L'annuncio si impoverisce quando venga svuotato di questa dimensione relazionale e solidale. Relazionalità significa essenzialmente accogliere in sé il mistero della presenza di Dio nell'altro, del piano di Dio che riguarda l'altro, anche se non lo si comprende per intero. Così l'incontro delle due madri, che potrebbe sembrare solo un gentile episodio privato, è un mistero di relazionalità: segna l'inizio della pienezza dei tempi e, simbolicamente, l'incontro fra l'Antica e la Nuova Alleanza, attraverso l'incontro affettuoso e il reciproco rendersi omaggio di due donne abitate dallo Spirito e fisicamente portatrici del nuovo di Dio. Nelle parole di Elisabetta, Maria è proclamata «benedetta» come madre, «beata» come credente. Se la benedizione è puro dono di Dio, la beatitudine si riferisce anche a un modo di essere, a una risposta: contiene un'idea di impegno e di testimonianza.

4. Tra «fiat» e Magnificat: relazionalità, coscienza di sé e profezia liberatrice
Il vicendevole rendersi omaggio di Maria ed Elisabetta avvalora il contatto umano e nello stesso tempo è una celebrazione dialogata e potenziata dell'agire di Dio. L'incontro delle due madri culmina nel Magnificat. Nel Magnificat la creatura che parla si proclama umile e sottomessa a Dio, il quale «ha guardato l'umiltà della sua serva» (e l'umiltà qui è la condizione creaturale, assai più e assai prima di una 'virtuosa' disposizione dell'animo); ma nello stesso tempo sovverte dalle radici ogni idea corrente e scontata dell'umiltà. «D'ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata; grandi cosa ha fatto in me l'Onnipotente». Dio è sempre il soggetto che agisce. Maria però assume consapevolmente il suo ruolo nell'agire di Dio, ciò che non è possibile senza un profondo senso di identità personale e senza una sana accettazione di sé, essenziale alla relazionalità umana. In questo senso Maria è «umile», è «serva». Abbiamo qui una donna, come dice una teologa femminista americana (MJ. Weaver), che «fiorisce con l'affermazione di sé e l'attenzione». Proclama inoltre qui che Dio riscatta gli oppressi e capovolge ogni criterio di giudizio terreno, ogni status quo. Sembra incredibile che tanto spesso il culto mariano sia stato adoperato nella storia, implicitamente o esplicitamente, a fini tradizionalisti e immobilisti. In contrasto con l'immagine tradizionale di Maria che accentuava, l'abbiamo detto, aspetti quali umiltà, mitezza, rassegnazione, riserbo e soprattutto silenzio, negli ultimi decenni trentennio è stato valorizzato in Maria con particolare intenzione l'aspetto profetico e sovversivo; e proprio a partire dal Magnificat. Il modello di liberazione che si trova qui espresso da Maria non è di pura rivendicazione odi contrapposizione violenta, bensì un modello trasformativo. Le antitesi salvifiche dell'inno acquistano senso solo in una prospettiva di trasformazione continua della storia in cui agisce lo Spirito. Il.Magniflcat può sembrare a tratti un canto di trionfo, a tratti quasi minaccioso, ma la sua sostanza profonda è la logica di un Dio materno, infinitamente solidale con il genere umano. È un canto di gioia e di speranza, eppure senza nulla di idillico, carico anzi di forte denuncia profetica: coscienza critica della storia in prospettiva escatologica. Maria è «relazionale» e accogliente proprio in quanto comunicativa donna di comunione e di comunicazione, anche se, o proprio perché, nello stesso tempo contemplativa e meditativa. Come ogni grande testo di preghiera, come la vita di ogni vero discepolo, il Magnificat unifica la dimensione cosiddetta verticale e quella cosiddetta orizzontale: rapporto con Dio e apertura al mondo, relazionalità e intro-versione, preghiera e impegno. È inno a un Dio in relazione e proclama di solidarietà relazionale. In primo luogo con i poveri e gli oppressi (non c'è dubbio che vi si possa ravvisare una precisa «scelta di campo» da parte di Dio), ma non solo. È soprattutto il canto gioioso e riconoscente della vicinanza, del coinvolgimento di Dio con il genere umano.5 Delinea un inedito percorso di liberazione per ogni discepola/discepolo di Gesù proprio in virtù di questo forte senso di identità soggettiva che lo pervade, e che non ha nulla di narcisistico: il «senso di sé» non è in conflitto con il «senso di Dio», ma le due dimensioni si rafforzano vicendevolmente e così pure si incontrano e si avvalorano, senza confondersi, la libertà dai condizionamenti della storia e l'impegno nella storia Maria è figura relazionale e accogliente: nella prospettiva cristiana i due valori chiave della relazionalità e dell'accoglienza non sono separabili. Secondo la felice formulazione di LG 53, «accolse nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio», ne divenne cioè nello stesso tempo discepola e madre. Discepola in quanto ascoltò e conservò nel cuore la Parola e la conservò nel cuore; madre, perché accolse nel proprio grembo Colui che è per noi la Parola suprema di Dio. La relazionalità di cui Maria è per noi figura tipica si fonda nella capacità di stare con tutto intero il proprio essere alla presenza di Dio (è il significato più profondo del saluto dell'angelo, «Il Signore è con te»). Ovviamente non parliamo di un dono innato, cosa che tra l'altro renderebbe impossibile e vuota qualsiasi riflessione in chiave etica, ma di un dono di Dio affidato all'essere umano, come tutte le nostre capacità e carismi, sviluppato nell'arco della sua vicenda umana assunta nell'orizzonte storico-salvifico. Maria nei vangeli è figura-chiave dell'apertura alla relazione in quanto la sua collaborazione umana, naturale e spirituale insieme, è necessaria a rendere possibile la nascita del Redentore; ma sopratutto in quanto - donna nuova all'alba dei tempi nuovi - costituisce per noi quasi la cerniera tra i due Testamenti. Al di là delle sue virtù personali, esprime la disponibilità con cui il popolo fedele di Dio accoglie la pienezza dell'Alleanza.

5. Relazionalità e discernimento permanente
Nei secoli passati, non appena Maria veniva resa modello etico per le donne (sulla base di un suo preteso agire storico del quale in verità ben poco sappiamo), diventava automatico associarla a valori quali l'umiltà, la disponibilità, la verecondia e l'interiorità in ascolto - di solito troppo sbrigativamente ridotta al «silenzio». In quest'ultimo caso si tratta, è chiaro, di uno sviluppo ascetico-mistico (ma non solo!) dell'affermazione che ricorre due volte nel cap. 2 del vangelo di Luca, «Maria conservava tutte queste cose meditandole nel suo cuore» (vv.19.5 1). «Nel suo cuore»: dunque, si presumeva, in silenzio; e questo silenzio, che è un dato teologico-spirituale, veniva indebitamente amplificato, fino a diventare un modus vivendi, e assolutizzato, fino a costituire quasi la cifra di un'esistenza intera, sublime ed eccezionale senza dubbio, ma anche silenziosa e repressa. Ormai invece è abbastanza chiaro che il cosiddetto «silenzio di Maria» nei vangeli è piuttosto il «silenzio su Maria» da parte degli evangelisti. Meditare nel cuore è un'espressione biblica spesso riferita ai giusti, uomini e donne, a quelli che vivono alla presenza di Dio. Non vuoi dire che la persona a cui si riferisce sia personalmente, caratterialmente taciturna, ma che è abituata a riflettere: e di solito chi è abituato a riflettere è capace sia di tacere sia di parlare, secondo quanto le circostanze richiedono, secondo quanto detta la coscienza illuminata dallo Spirito. La meditazione incessante del mistero della volontà di Dio, su cui insiste Luca, completa l'immagine di Maria come paradigma di obbedienza e relazionalità, sottolineando la natura della sua obbedienza, non passiva ma dinamica e, diremmo, «problematica», di incessante discernimento. Accogliere la volontà di Dio non è un atto, ma uno stile di vita impostato sull'ascolto. L'atteggiamento di radicale accoglienza espresso nel «sì» di Maria va ben oltre la sua vicenda individuale. Una costante di tutta la storia della salvezza è che Dio si manifesta in modo intensificato nella vicenda personale di singoli individui, non però in modo 'individualistico', bensì per stabilire un rapporto con tutta intera l'umanità, secondo un movimento di concentrazione-dilatazione che è il respiro stesso della relazionalità umana.

6. Relazionalità come attenzione e senso dell'urgenza
Un'icona teologica mariana fondamentale dal punto di vista dell'agire relazionale del discepolo quanto al progredire della storia, e forse con uno sguardo speciale alla vocazione specifica della donna nei «punti di svolta», è l'intervento di Maria a Cana, narrato nel quarto vangelo (Gv 2,1-11).
In questo racconto giovanneo Maria appare come una donna dotata di senso dell'urgenza e di una penetrazione medita del piano di salvezza, in un confronto vincente (l'aspetto più misterioso dell'episodio, per quanto la riguarda) con l'uomo Gesù, che in questa fase sembrerebbe all'inizio ancora perplesso sulla soglia di un'idea un po' astratta e teorica della propria missione. «Non è ancora giunta la mia ora» risponde infatti Gesù a sua madre, non sarebbe ancora tempo di operare segni. Gesù sembra disapprovare l'intervento di sua madre, o comunque non voler reagire ad esso; poi però agirà come implicitamente Maria gli ha chiesto di fare. Dicendo «Non hanno più vino», è come se Maria stesse additando misteriosamente l'insieme dell'esperienza di fede d'Israele nel Primo Testamento: un'esperienza straordinaria di comunione collettiva con Dio, che però adesso è esposta al rischio dell'osservanza formale, dell'esteriorità, della sterilità. «Non hanno più vino», per la ricchezza dei significati simbolici che il vino assume nella Scrittura, è come dire «non hanno più vita», o anche «non hanno più amore». Cana non è tanto un momento della vita di Maria come madre, quanto piuttosto un momento evolutivo della vita di Gesù. Maria influisce su tempi e modi della missione di Gesù e quasi, si potrebbe dire, sulla sua crescita nella fede, vincendo le resistenze che sono in lui. Lo fa con tranquilla autorevolezza, senza pregare, senza insistere, con una fiducia assoluta e, nella sua linearità, quasi sconcertante. Il suo agire appare nuovo e atipico anche semplicemente dal punto di vista del costume: non è -abituale che una donna prenda la parola in pubblico, che sostenga il proprio punto di vista nonostante la disapprovazione maschile (evidente nel «Che cosa ho da fare con te, o donna?»); ma soprattutto è nuovo perché, con le parole rivolte ai servi e con l'atteggiamento che adotta nei confronti di Gesù, assume di fatto una funzione autoritativa, che sembrerebbe più normale riferire alla figura paterna. Il suo intervento poi sollecita la manifestazione pubblica della missione profetica e salvifica di Gesù; e da queste funzioni autoritative nella sfera sociale e religiosa le donne erano rigorosamente escluse, in Israele come quasi ovunque. Maria travalica i confini del ruolo femminile tradizionale e scuote quindi gli schemi di pensiero più consueti: aiuta ! l'essere umano ad acquisire in qualche modo maggiore consapevolezza del proprio infinito e del proprio mistero; induce a fare spazio al 'nuovo' incessante di Dio. In contrasto con la misteriosa solidarietà e la carica profondamente consapevole di questo esordio narrato nel quarto vangelo, nella restante testimonianza evangelica per Maria la comprensione del destino del Figlio non appare come un dato acquisito pacificamente una volta per tutte. Anche lei, infatti, come gli altri parenti - secondo quanto racconta Marco nel cap. 3 -, stenta a comprendere le scelte e Io stile di Gesù visto che si adopera insieme a loro per «normalizzarlo», per renderlo innocuo. Non dev'essere stato né facile né indolore il passaggio esistenziale da madre a discepola.

7. Relazionalità come assunzione della precarietà e della morte
Già nel suo intervento a Cana, Maria appare aperta alla relazione in un senso inedito e complesso, solidale fin dall'inizio con la precarietà e i limiti che sono propri dell'umano e, nello stesso tempo, animata da una fiducia totale nel Figlio. Nel culmine della sua Ora, poi, sempre secondo il quarto vangelo, Gesù affida il discepolo amato alla madre e la madre al discepolo (Gv 19,2627). «E da quel momento» dice con misteriosa semplicità l'evangelista «il discepolo la prese nella sua casa» (o: tra le sue cose, cioè «tra ciò che lo riguardava»). Di Maria non viene neppure detto lo stesso, ma l'idea è già sottintesa nel parallelismo che caratterizza lo stile semitico, nel fatto stesso che Maria venga costantemente indicata come «la madre» di Gesù, e non con il suo nome proprio. Ancora in questo reciproco affidamento viene illuminata una -dimensione della relazionalità umana che, pur mantenendo la sua dimensione personale, non è solo un fatto di pietas: trascende le intime disposizioni dei singoli per diventare un evento ecclesiale di fondazione. La presenza di Maria sul Golgota nel momento della crocifissione è ricordata solo dal quarto evangelista, mentre i Sinottici la ignorano. Attraverso i secoli, la devozione popolare (e non solo, se per 'popolare' s'intende in senso stretto la devozione dei semplici) ha esagerato nel caricare i toni emotivi dell'Addolorata: questa immagine mariana è o è stata cara alla pietà popolare forse più di ogni altra, allo stesso modo, forse, in cui il Cristo sofferente del venerdì santo era amato più del Cristo glorioso della Pasqua o dell'ascensione o della Parusìa; e forse per ragioni abbastanza simili. Anche l'Addolorata è icona di relazionalità, di solidarietà e di trasformazione. Maria sotto la croce appare profondamente solidale da un lato con l'opera di redenzione che si sta compiendo nel mistero, dall'altro con la sofferenza del mondo: quasi raffigurazione di un compito volto all'evoluzione interiore, arduo certamente ma irrinunciabile per ogni cammino di maturazione dei singoli e dell'umanità. Questa evoluzione interiore significa anche saper affrontare la morte, ma non solo. Del resto nel corso della storia molti esseri umani, credenti di qualsiasi religione o anche senza religione, hanno affrontato la morte con grande dignità, o si sono offerti consapevolmente ad essa per un ideale, ma questo, pur se è un agire umano nobilissimo, non significava in tutti i casi che chi era capace di morire si fosse anche riconciliato nel profondo con la morte. Il compito che interpella gli uomini e le donne di oggi, e non soli ma insieme, e tanto più se credenti in Gesù che ha vinto la morte, è anche quello di accompagnare la morte e darle un senso, anche quando si tratti di una morte ingiusta o assurda. Questo arduo lavoro riguarda ogni persona che desideri pervenire a una compiuta identità umana e a un vero rapporto con l'altro, e significa anche imparare a svolgere una funzione materna di fronte al morire. Forse un dovere non delle donne in quanto tali (non credo proprio che ci siano qualità femminili «per natura», a parte ciò che è strettamente connesso con i dati biologici), ma forse in primo luogo delle donne in questo momento storico, è anche quello di aiutare il genere umano a riconciliarsi con la realtà della morte e a caricarla di senso. Senza questo arduo lavoro interiore è impossibile una comprensione-accettazione piena della vita - connotata, tra l'altro, e avvalorata dalla stessa provvisorietà -, quindi è impossibile impegnarsi autenticamente nella promozione della storia umana, sia in prospettiva credente sia in prospettiva laica. Il cristianesimo ha troppo spesso ceduto alla tentazione di un dolorismo ambiguo, ha dato l'impressione di adorare la croce come fine a se stessa e non come strumento al servizio della vita. L'icona dell'Addolorata, mentre esprime solidarietà con tutta la vicenda di un'umanità sofferente, significa e anticipa la trasformazione finale della storia e del cosmo; ci ricorda anche che la sofferenza non è parte ineliminabile della condizione umana, non è automatica, non è un fato, non è connessa con le leggi dell'evoluzione, ma è per gran parte il frutto di meccanismi storici e di scelte personali. La presenza silenziosa di Maria sotto la croce, ricordata dal quarto evangelista, è una presenza piena di dignità, di attenzione e, ancora una volta, di «ascolto». La pietà popolare forse ha ecceduto (pensiamo al teatro liturgico, all'arte sacra, alle processioni del venerdì santo :..) con le manifestazioni di dolore, gli svenimenti e le sette spade infisse nel cuore, in luogo della spada ricordata nella profezia di Simeone. È un'esagerazione che non manca di una sua nobiltà, comunque, anche perché il sette è il numero della pienezza, e in qualche modo attraverso le sette spade si intendeva dire che Maria in quel momento sperimenta un dolore totale, è partecipe di tutto il dolore del mondo.

8. Relazionalità di un inedito rapporto madre-figlio
Si sa che, se si prescinde dai racconti dell'infanzia, i passi che riguardano Maria nei Vangeli, oltre che scarsi, sono fin troppo scami e quasi sempre abbastanza sconcertanti per il lettore non iniziato. Non solo Gesù parla pochissimo a sua madre o di sua madre, ma in quelle occasioni il suo parlare sembra volto a prendere le distanze da lei come madre, talvolta anche in modo un po' brusco e sbrigativo, che contraddice la nostra immagine di Gesù ... o del figlio ideale. Tutto quanto ci cerca di desumere dai Vangeli su un piano puramente psicologico e biografico è generalmente fecondo solo di equivoci e destinato all'insuccesso. Eppure c'è una considerazione che ci permetteremmo di avanzare anche se può sembrare 'semplificatrice' fino al semplicismo e anacronistica. Semplicemente il fatto che, come tutti sanno, per ogni essere umano - ma tanto più se di sesso maschile - il rapporto con la madre è fondamentale e determinante. Quel che non si può mettere in dubbio per quanto concerne Gesù, secondo la testimonianza concorde emergente dai vangeli, è il suo essere uomo nuovo, inedito rispetto alle attese e alle usanze del suo ambiente, anche e soprattutto per quanto si riferisce ai rapporti con le donne: Gesù appare come il modello supremo di uomo integrato e riconciliato. La libertà e la trasgressività profetica del suo agire sono tali che gli stessi evangelisti ne hanno recepito la novità solo in parte, e nel trasmetterla mostrano a volte un certo imbarazzo e uno sforzo, forse inconsapevole, di sfumare e normalizzate quella novità per non sconcertare troppo i destinatari. Non crediamo fantastico supporre che un uomo così straordinariamente libero, giunto a integrate come pochi altri il femminile nel proprio modo di essere, abbia avuto con la propria madre un rapporto inedito per qualità e libertà; che pertanto anche sua madre sia stata una donna nient'affatto comune, almeno per quanto concerne l'apertura della mente e del cuore. La nostra cultura occidentale oggi insiste molto in termini spirituali sul distacco dalla madre: talvolta, intenzionalmente o no, l'indispensabile distacco dalla madre viene inteso in modo scorretto.e ideologico e penalizzante per le donne, come una sorta di trionfo del maschile sul femminile, arbitrariamente ridotto alla sola maternità, spesso nei suoi aspetti meno illuminati. In realtà il distacco dalla madre, più che una rottura, esige al contrario una ricomposizione nel profondo: non significa rompere i ponti con la madre, ma piuttosto accogliere nel più profondo di sé ciò che la madre significa. Si rende possibile quando il figlio ha sufficientemente integrato in sé, quasi diremmo metabolizzato il modello femminile materno e per questa via ha raggiunto l'equilibrio affettivo, la capacità di relazionarsi. Se Gesù nel corso di tutta la sua vita pubblica ci appare spesso volto a relativizzare i legami parentali (così forti tra l'altro nella sua epoca e nel suo ambiente, più cli quanto lo siano nella cultura di cui abbiamo l'esperienza diretta), ciò non è volto a svalutare sua madre, ma ad evidenziare un cambiamento di priorità nella logica del Regno. In termini un po' più psicologici, il culmine della relazionalità per Maria si trova nella capacità progressivamente conquistata di affrancarsi dal modello materno: cioè a tutto ciò che abitualmente si interiorizza in modo irriflesso, in fatto di schemi e di piani di esistenza, attraverso la madre e tutta la lunga linea di donne da cui si discende: si tratta di rinunciare all'immagine di sé assunta in rapporto all'ambiente, al profondo senso di sicurezza personale e storica (una sorta di vittoria sul tempo e sulla morte, quasi proiezione di sé nel futuro) che è legata al fatto di generare fisicamente, naturalmente una vita nuova.

Bibliografia
SEBASTIANI L., Maria e le domande attuali dell'etica relazionale, in Theotokos XV (2007) n. 2, pp.491-507; ID., Maria ed Elisabetta: icona della solidarietà, Paoline Editoriale Libri, Milano 1996; PINKUS L., Maria, realizzazione totale e perfetta della persona umana, in AA. VV., La donna: memoria e attualità (vol. II: Donna ed esperienza di Dio nei solchi della storia), Libreria Editrice Vaticana, Roma 2000, 162-205; WEAVER M. J., New Catholic Women: A Contemporary Challenge to Traditional Religious Authority, Harper & Row, San Francisco 1985; CARR A., La grazia che trasforma: tradizione cristiana ed esperienza delle donne, Queriniana, Brescia 1989; WOLFF H., Gesù, la maschilità esemplare: la figura di Gesù secondo la psicologia del profondo, Queriniana, Brescia 19882.

VEDI ANCHE
- AMBITI DELL'ESISTENZA UMANA
- ETICA CRISTIANA
- MODELLO DI ESISTENZA CRISTIANA
- MODELLO DI SANTITÁ
- MODELLO ESEMPLARE
- MORALE CRISTIANA
- VOCAZIONE UNIVERSALE ALLA SANTITÁ






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