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GV 19,25-27



[25]Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala.
[26]Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!».
[27]Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.

Nel passato questi versetti erano considerati e interpretati ordinariamente come una entità isolata. Grazie a una miglior conoscenza della composizione del quarto vangelo, grazie anche alla miglior comprensione della stretta unità degli avvenimenti del Calvario, è apparso che la scena di Maria e del discepolo ai piedi della croce (vv. 25-27) è strettamente legata ai versetti che la precedono immediatamente (la tunica senza cucitura), e ai versetti che la seguono («Tutto è compiuto»). Essa è anche formalmente in parallelismo con Giovanni 2,1-11 (le nozze di Cana). Solo in questo doppio contesto, immediato ma anche remoto - di grande portata teologica, sia messianica che ecclesiologica - si può cogliere il senso profondo dei vv. 25-27. Apparirà in tutta evidenza che questa scena di Maria e del discepolo ai piedi della croce significa molto di più che la pietà filiale di Gesù nei confronti di sua madre; il contesto evidenzierà la dimensione messianica ed ecclesiologica dell’episodio. Per maggior chiarezza esaminiamo questo contesto in tre tappe.

1. Parallelismo con la scena delle nozze messianiche
Che ci sia un rapporto tra le nozze di Cana e l’episodio della Croce è ammesso dalla maggior parte degli esegeti contemporanei, particolarmente in relazione a due punti. Come aveva fatto a Cana di Galilea, Gesù si rivolge qui a sua madre usando il titolo «Donna». Questo titolo deve essere letto sullo sfondo delle profezie veterotestamentarie sulla «Figlia di Sion» ed ha chiaramente un significato messianico. Ed è ancora durante le nozze di Cana che Gesù fa notare: «La mia ora non è (già) venuta?». cosa che contiene un riferimento implicito all’ora della sua morte e della sua glorificazione sulla Croce. È là, quindi, che egli darà in abbondanza il «vino buono» dei beni della salvezza, la pienezza della rivelazione. Le due scene formano, per così dire, una inclusione nella quale si trova compresa tutta la vita pubblica di Gesù. Agostino aveva già notato lo stretto legame fra le due pericopi: «Questa è l’ora della quale Gesù, nel momento di mutare l’acqua in vino, aveva parlato alla madre, dicendo: “Che c’è tra me e te, o donna? La mia ora non è ancora venuta”. Egli aveva annunciato quest’ora, che non era ancora giunta, e nella quale, morendo, avrebbe riconosciuto colei dalla quale aveva ricevuto questa vita mortale». Questo parallelismo è importante: il senso messianico delle nozze di Cana implica che anche l’episodio parallelo della Croce si situa in una prospettiva messianica.

2. La stretta unione con la scena della tunica «indivisa»
La prima cosa che bisogna notare è che con un artificio letterario le due scene sono per così dire agganciate l’una all’altra. Traduciamo molto letteralmente: v. 24b Ecco, da una parte ciò che fecero i soldati. v. 25 D’altra parte stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre... Attraverso l’uso nel testo greco delle particelle . 141 (m¨¦n...d¨¦), procedimento piuttosto raro in Giovanni, le due pericopi sono legate tra loro in una maniera particolarmente stretta. La tradizione ha sempre visto nella scena della tunica «indivisa» un grande simbolo dell’unità della Chiesa. Ciò che i soldati non fanno (non dividono la tunica di Gesù; Giovanni dice bene: «dividere», e non «strappare»), è visto dall’evangelista come l’annuncio di ciò che nella scena seguente sta per realizzarsi positivamente: la nuova comunità messianica si costituisce nella sua unità sotto la Croce. Maria e il discepolo ne sono la prefigurazione. Dopo l’antica disunione di Israele, la Figlia di Sion realizza ora la sua unità nel nuovo popolo di Dio. Non nel senso che la Chiesa non conoscerà più divisioni, ma nel senso che al momento della sua nascita il popolo di Dio, superando le sue divisioni passate, è ricondotto all’unità in Cristo sulla croce. Dal parallelismo delle due scene si può, a giusto titolo, con Barrett e Feuillet, concludere che esse devono avere fondamentalmente lo stesso senso teologico. Barrett scrive molto bene: «Se è giustificato vedere nel riferimento di Giovanni alla tunica indivisa di Gesù un simbolo della unità della Chiesa radunata attraverso la sua morte, possiamo vedere qui una illustrazione di questa unità». Il testo chiave è il commento che Giovanni aggiunge alla profezia di Caifa in 11, 47-52: «”È meglio che un solo uomo muoia”...Egli (Caifa) non disse questo da se stesso, ma in qualità di sommo sacerdote profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione - e non soltanto per la nazione ma ancora per radunare nell’unità i figli di Dio dispersi». La formula greca ινα συναγαγη εις εν (ina sunagagh¨¦ eis en) è talmente concisa che è molto difficile renderla in modo esatto. Abitualmente si utilizza la parola astratta «unità», e si traduce come abbiamo fatto noi (è difficile, in effetti, fare altrimenti nelle nostre lingue moderne): «Per radunare nell’unità». Tuttavia il testo letteralmente dice: «Per raccoglierli in uno solo» (al neutro εις εν). Questo «solo» luogo in cui i figli di Dio divisi sono raccolti è verosimilmente Gesù stesso sulla croce: è in lui, e attorno a lui, che l’unità si realizza per tutti quelli che credono in lui e che «guardano» il suo costato trafitto (19,37). Concretamente, lo diremo più avanti, queste parole sono Maria e il discepolo che Gesù amava: nella loro funzione simbolica essi rappresentano qui l’insieme del nuovo popolo di Dio. C. Rapporto con la pericope seguente (soprattutto con il versetto 28). L’esegeta inglese G. Bampfylde ha pubblicato uno studio filologico sulla costruzione di Giovanni 19,28. Egli giunse alla conclusione (molti commentari lo ammettono) che la proposizione finale «perch¨¦ tutta la Scrittura si compisse» non deve essere collegata a «Gesù disse», che segue (come la Bibbia di Gerusalemme), ma a «tutto era compiuto», che precede immediatamente (cfr. la TOB). Questo vuol dire che il compimento delle scritture non consiste nel fatto che Gesù dice: «Ho sete», ma in ciò che si è realizzato nell’episodio precedente, dunque nella scena di Maria e del discepolo ai piedi della croce. Se questo è vero, dobbiamo leggere: «Dopo questo (la scena precedente), sapendo che ormai tutto era stato compiuto perch¨¦ la scrittura fosse perfettamente adempiuta, Gesù disse: “Ho sete”» (19,28). È dunque in ciò che Gesù dice a sua madre e al suo discepolo che tutta la Scrittura si compie. Il significato simbolico dell’episodio della tunica indivisa si realizza nella scena di Maria e del discepolo ai piedi della croce: là, in queste due persone, era rappresentato il popolo messianico che Dio voleva costituire; là nasce la Chiesa. In questo modo Gesù «compie sino in fondo» la sua missione messianica, così come era stata descritta nella Scrittura. Ora («ormai») può dir in tutta verità: «Tutto è compiuto». Nei versetti 25-27 è dunque descritto l’ultimo atto messianico di Gesù. Questa scena, che si trova al centro dei cinque episodi del Calvario, costituisce, per così dire, il compimento della storia della salvezza. Qui l’«ora» di Gesù raggiunge la sua pienezza. Ciò che egli compie qui è molto di più che un atto di pietà filiale nei confronti della madre. Nella pienezza della sua «ora», egli pone l’atto messianico attraverso il quale conclude la sua opera di redenzione e manifesta in modo conclusivo il suo amore per noi. A. Feuillet scriveva con ragione: «L’evangelista stesso, in 19,28, ci chiede di vedere nella scena che ha appena narrato il culmine dell’opera messianica di Gesù e la manifestazione suprema del suo amore salvifico».

3. Le parole di Gesù
Dobbiamo innanzi tutto esaminare più a fondo le parole di Gesù a sua madre: «Donna, ecco tuo figlio», e al suo discepolo: «Ecco tua madre». Più avanti torneremo sul versetto finale 27b che descrive la realizzazione dell’ultima raccomandazione di Gesù. Una delle acquisizioni dell’esegesi moderna è l’aver scoperto che si ha in questo caso un genere letterario particolare. Gli esegeti si ponevano la questione: davanti a quale genere letterario ci troviamo qui? Alcuni pensavano - cosa che è certamente da escludere - che si tratti di una formula di adozione. Ma all’inizio degli anni Sessanta, il carmelitano francese M. de Goedt pubblicò su questo argomento un articolo che è diventato classico e che ha ricevuto praticamente l’approvazione di tutti. La novità della sua interpretazione consiste nel fatto che egli ha dimostrato che qui ci troviamo davanti a una formula tecnica - egli la chiama «schema di rivelazione» - che si presenta quattro volte nel vangelo di Giovanni (1,21; 1,36; 1,47; 19,25-27). Questo schema letterario si compone di quattro elementi:
- Le persone A e B (ma ce ne possono essere altre);
- la persona A vede la persona B e
- guardando B, A dichiara, riguardo a B, qualche cosa che in greco comincia sempre con ιδου o ιδε (idù o ide): «ecco»;
- segue quindi un titolo che dice, annuncia o rivela qualcosa della persona B.
Per far vedere concretamente ciò che l’autore vuole dire, partiamo da un caso parallelo chiarificatore, cioè, 1,36, ove si tratta di Giovanni Battista al Giordano: «Il giorno dopo, Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli. Fissando gli occhi su Gesù che passava egli disse “Ecco l’Agnello di Dio”». I quattro elementi dello schema di rivelazione sono qui facilmente individuabili:
- Giovanni con due discepoli presso il Giordano e Gesù che passa,
- Giovanni-Battista guarda Gesù, - e dice: ecco,
- l’Agnello di Dio. Con questa dichiarazione Giovanni Battista rivela (cfr: v. 21) che lo sconosciuto che passa è il Messia di Israele.
Se ammettiamo che nella scena ai piedi della croce (v. 25.27) viene usata dall’evangelista una formula simile, allora questo include che le parole di Gesù, rivolte a sua madre e al discepolo, fanno parte di uno schema di rivelazione. Concretamente questo significa che Gesù morendo sulla croce, rivela che sua madre, in quanto «Donna», con tutta la risonanza biblica di questa parola, sarà ormai anche la madre del «discepolo», perch¨¦ quest’ultimo, come rappresentante di tutti i «discepoli» di Gesù, sarà ormai il figlio della madre di Lui. In altre parole egli rivela la nuova dimensione della maternità di Maria, una dimensione spirituale, e una nuova funzione della madre di Gesù nell’economia della salvezza; ma in fondo correlato egli rivela nello stesso tempo che il primo compito dei discepoli consisterà nell’essere «figli della madre di Gesù». Integrati nella struttura di questo schema di rivelazione, i due titoli «madre» e «figlio»indicano dunque una nuova relazione tra la madre di Gesù e il discepolo. Questa relazione è richiesta e voluta da Gesù stesso nel contesto dell’avvenimento messianico ed ecclesiologico della croce. Qui dobbiamo tener presente ciò che è stato messo così chiaramente in luce dall’esegesi moderna, cioè che Giovanni ha la tendenza costante a far funzionare le persone nel suo vangelo come personificazione di un gruppo, e in questo senso come simboli, come dei «tipi». Egli non fa questo per volatilizzarle nel vuoto o nella mitologia, ma per farle vedere come rappresentative di un gruppo determinato. Così vediamo, per esempio, che nel quarto vangelo le conversazioni di Gesù si verificano quasi sempre con persone isolate. Anche questi individui rappresentano allora una categoria di persone nella loro relazione a Gesù. Gli esempi principali sono: Nicodemo, la donna samaritana, Maria e Marta, le sorelle di Lazzaro. Qualcosa di simile vale anche per le due persone presenti ai piedi della croce. Maria e il discepolo adempiono qui a una funzione di rappresentazione (diremo più avanti in riferimento alla Chiesa).

4. Il discepolo che Gesù amava

Il «discepolo che Gesù amava» è un discepolo riguardo al quale la tradizione ha pensato, molto verosimilmente, che si trattasse dell’apostolo Giovanni, «ma che, non senza un’intenzione particolare, non è mai chiamato con il nome di Giovanni» (TOB); è come se volesse suggerire che in questo momento egli non interviene come una persona individuale. Il carattere stereotipo ed enfatico della formula «il discepolo che Gesù amava» attira l’attenzione su due grandi temi giovannei: la condizione stessa del discepolo e l’amore di Gesù per il discepolo. Non bisogna intendere questa espressione in un senso esclusivo, come se si trattasse dell’unico discepolo che Gesù amava o di una preferenza che Gesù avrebbe avuto per questo discepolo. In questo senso F.-M. Braun scrive: «La proposizione relativa ον ηγαπα (on egapà, che egli amava) è meno l’indicazione di un amore di predilezione per il Discepolo che una spiegazione che mira a situare il Discepolo nella sfera dell’Ag¨¢pê». Nel quarto vangelo, dice ancora Braun, i «discepoli» sono in generale gli «amici» di Gesù (cfr. 15, 13-15). «Il discepolo che Gesù amava» rappresenta dunque i discepoli di Gesù che come tali sono accolti nella comunione con il Cristo. Questa interpretazione è stata presentata, più di una volta, anche nelle encicliche pontificie, tra gli altri, di Leone XIII. Attualmente è stata accettata da diversi esegeti, anche non cattolici. Così, per esempio, M. Dibelius scrive che con questa formula l’evangelista vuole designare «il tipo stesso di discepolo (...). Il discepolo amato è uomo di fede che non ha bisogno di prove (20,8). Egli è testimone del mistero della croce (19,35) e ai piedi della croce diviene il figlio della madre di Gesù, come rappresentante dei discepoli che, nella loro relazione con Dio, sono divenuti i fratelli di Gesù (20, 17)». M. Thurian, nel suo libro,dice pressappoco la stessa cosa: «Il discepolo designato come “colui che Gesù amava” è senza dubbio la personificazione del discepolo perfetto, del vero fedele di Cristo, del credente che ha ricevuto lo Spirito. Non si tratta qui di un affetto particolare di Gesù per uno dei suoi apostoli, ma di una personificazione simbolica della fedeltà al Signore». Questo modo di vedere assume grande importanza per il significato ecclesiologico della scena ai piedi della croce. Dobbiamo tenerlo ben presente quando tratteremo del ruolo di Maria, perch¨¦ qui sorge un piccolo problema (Maria e il discepolo rappresentano entrambi la Chiesa): ma, come mostreremo, è un problema più apparente che reale.

5. La Madre di Gesù e la nuova comunità messianica

A questo punto dobbiamo richiamare alla mente quanto abbiamo precedentemente detto riguardo al contesto insieme remoto e immediato della scena ai piedi della croce: il parallelismo con le nozze di Cana e il fatto che questa scena si situa al centro del racconto dei cinque episodi del Calvario. Perch¨¦ è precisamente attraverso queste correlazioni che la scena di Maria e del discepolo ai piedi della croce prende un significato nettamente messianico ed ecclesiologico. Inoltre non possiamo perdere di vista che le parole di Gesù esprimono una rivelazione. Con tutti questi dati davanti agli occhi possiamo ora cogliere meglio il significato centrale della madre di Gesù in questa scena.
a) Il titolo «Donna»
Come a Cana, qui Gesù si rivolge a Maria chiamandola «Donna» e non «Madre», cosa che sarebbe stata più naturale. Se il titolo «Donna» è interpretato come la personificazione e l’immagine della «Figlia di Sion», allora la dimensione messianica ed acclesiologica di tale titolo diventa chiara. Su questo sfondo - sviluppato molto bene da A. Serra - dobbiamo situare alcuni importanti testi profetici riguardanti la «Figlia di Sion» (tra cui Is 60, 4-5; 31,3-14; Ba 4,36-37; 5,5; ecc.): la «Figlia di Sion» o la «Madre Sion» richiama i suoi figli dall’esilio perch¨¦ formino con lei il nuovo popolo di Dio sul monte Sion. Giovanni applica questo, per trasposizione, al mistero della croce e lo concretizza nelle persone di Maria e del discepolo ai piedi della croce: «Solleva i tuoi occhi intorno e guarda i tuoi figli radunati: ecco che i tuoi figli giungono da lontano e le tue figlie sono portate in braccio» (Is 60,4, LXX). C’è, molto probabilmente, un nesso letterario tra questo testo di Isaia e la formula di rivelazione di Giovanni 19,26. Se consideriamo il testo di Isaia, o altri testi analoghi, come sfondo del versetto di Giovanni, questo diventa molto suggestivo. Maria, la «Madre Sion», realizza qui, nella sua persona concreta e rappresentativa, ciò che veniva annunciato nella grande tradizione profetica. Il discepolo che diventa suo «figlio» è la personificazione dei «figli di Israele» che attorno a lei (la «Madre Sion») formano ora il nuovo popolo di Dio sul monte Sion, alla croce. Il titolo «Donna» con il quale Gesù si rivolge a sua madre, qui più ancora che a Cana, sembra essere l’eco di questa lunga tradizione profetica sulla «Nuova Sion», che a più riprese viene presentata con il simbolo di una donna (la «Figlia di Sion», la «Vergine Israele», ecc.), e questo in rapporto con la sua maternità messianica ed escatologica. Accanto a questo sfondo veterotestamentario bisogna ancora e soprattutto segnalare alcuni testi paralleli degli scritti giovannei stessi, che gettano una viva luce sui nostri versetti 25-27. C’è innanzitutto Giovanni 16,21, sul quale si basa espressamente Ruperto di Deutz: «La donna, al momento di partorire, si rattrista, perch¨¦ è giunta la sua ora; ma quando ha generato dimentica le doglie, per la gioia che è venuto al mondo un uomo». In questo testo Gesù parla della sua passione e della sua morte usando l’immagine delle doglie del parto. Tra 16, 21 e 19, 25-27 ci sono chiaramente tre punti di contatto: la donna, la maternità, l’ora. L’immagine della donna che partorisce torna spesso nella tradizione biblica e giudaica. Questa donna è la comunità messianica, Sion personificata nella «Donna» che sta sotto la croce di Gesù. In riferimento a 16, 21, A. Feuillet scrive: «Gesù presuppone qui l’identificazione della sua ora con l’ora della Donna (Sion) che deve dare alla luce il nuovo popolo di Dio rappresentato dal suo discepolo». I contatti letterari tra i due passi ci permettono di supporre che l’evangelista, scrivendo il testo di 16,21, abbia pensato all’«ora» di Gesù e alla «Donna» che egli diede come «madre» al discepolo. A motivo di questa funzione di Maria nell’ora di Gesù, i versetti 25-27 non possono in nessun modo essere compresi in senso semplicemente individuale e morale. Maria rappresenta una collettività, o meglio, in lei nasce il nuovo popolo messianico che genera i suoi figli. «Agli occhi di Cristo - scrive altrove A. Feuillet - ella rappresenta Sion e (...) egli intende attribuirle la maternità metaforica soprannaturale che i profeti avevano predetto per Sion». Un altro passo parallelo da considerare è un testo dell’Apocalisse (12,1-8). Qui è sufficiente indicare alcuni punti di contatto. Chiunque sia l’autore dell’Apocalisse, è certo che il libro fu elaborato nella tradizione giovannea. Ora, in Apocalisse 12, si tratta allo stesso modo - in un contesto messianico - di una donna nelle doglie del parto. Secondo la maggior parte degli esegeti, il testo descrive metaforicamente la comunità messianica, la Chiesa. Per due volte (vv.3 e 5) si fa riferimento esplicito a Isaia 66, 7, dove viene descritta la Sion messianica che dà alla luce un figlio. D’altra parte, secondo diversi autori, questa donna si riferisce anche, indirettamente, a Maria, la madre del Messia, come immagine della Chiesa. Il parallelismo con Giovanni 19,25-27, in cui si presenta allo stesso modo l’appellativo «Donna», è confermato dalla funzione comunitaria ed ecclesiologica che Maria adempie ai piedi della Croce.
b) Significato personale e significato ecclesiologico
Non bisogna tuttavia interpretare la scena di Maria e del discepolo ai piedi della croce in senso immediatamente ed esclusivamente ecclesiologico. Maria e il discepolo prediletto rimangono, in fin dei conti, delle persone individuali, che mantengono la loro funzione personale e il loro significato proprio nel mistero della salvezza. Senza dubbio, il mistero diventa qui più ampio, ma non al punto di volatilizzare interamente le persone concrete e di fare di esse dei puri simboli. La madre di Gesù mantiene la sua funzione materna e il discepolo che Gesù amava deve diventare sempre di più un vero discepolo e figlio di Maria. Questo vale sia per lui che per tutti i discepoli che egli rappresenta. Origene dice questo molto bene in un celebre testo al quale abbiamo fatto allusione all’inizio di questo capitolo e che citiamo adesso: Si deve dunque osar dire che di tutte le Scritture i vangeli sono le primizie e che tra i vangeli la primizia è costituita dal vangelo di Giovanni, di cui nessuno può cogliere il senso se non si è appoggiato sul seno di Gesù e non ha ricevuto da Gesù Maria come Madre. E per essere un altro Giovanni, bisogna diventare tale che proprio come Giovanni ci si senta designato da Gesù come se fosse Gesù stesso. Poich¨¦, secondo coloro che hanno di lei una giusta opinione, Maria non ha altri figli che Gesù; quando dunque Gesù dice a sua madre: «Ecco il tuo figlio», e non «Ecco, quest’uomo è anche tuo figlio», è come se le dicesse: «Ecco Gesù che tu hai generato». In effetti, chiunque è arrivato alla perfezione non vive più lui, ma vive in lui Cristo (cfr. Gal 2, 20) e, poich¨¦ Cristo vive in lui, è detto di lui a Maria : «Ecco il tuo figlio», il Cristo. È importante mantenere unito il significato personale e il significato ecclesiologico della maternità di Maria. Diventando la madre di tutti i discepoli di Gesù, Maria diventa madre di tutta la Chiesa. Questo titolo di «Madre della Chiesa», si ricorderà, è stato dato a Maria da Papa Paolo VI dopo il Concilio. Esso è solidamente fondato nel passo di Giovanni che stiamo esaminando. Non c’è nessuna contraddizione nel dire che Maria è nello stesso tempo immagine della Chiesa e madre della Chiesa. Come persona individuale ella è madre di Gesù, e diventa la madre di noi tutti, la madre della Chiesa. Ma la sua maternità corporale nei confronti di Gesù si prolunga in una maternità spirituale verso i credenti e verso la Chiesa. E questa maternità spirituale di Maria diventa l’immagine e la forma della maternità della Chiesa. La maternità di Maria e la maternità della Chiesa sono entrambe molto importanti per la vita filiale dei credenti. Per diventare figli di Dio dobbiamo diventare figli di Maria e figli della Chiesa. Gesù è il suo unico figlio, ma noi diventiamo a lui conformi se diventiamo figli di Dio e figli di Maria. Ricordiamo qui ancora il testo del prologo (1,12,13) che parla del potere che abbiamo ricevuto di diventare figli di Dio, secondo il modello di Colui che non è stato generato da «un volere d’uomo», ma che è «stato generato da Dio». Nella misura in cui approfondiamo la nostra fede in lui, il Figlio unigenito del Padre, crescerà la nostra vita di figli di Dio. Ciò che viene annunciato nel prologo trova il suo compimento nella maternità spirituale di Maria ai piedi della croce: Maria, che al momento dell’Incarnazione ha concepito e generato corporalmente Gesù (in modo verginale), concepisce e genera spiritualmente i discepoli di Gesù (qui ancora, in modo verginale).
c) Madre e archetipo della Chiesa
Dopo tutto ciò che è stato finora detto sui versetti 25-27, vediamo che in questo testo molto denso di Giovanni vengono integrati diversi elementi. Presso la croce Maria viene effettivamente inserita nella missione messianica di suo figlio. Ella è presentata come la «madre» dei discepoli di Gesù. Questa funzione la situa nel prolungamento di quella della «Figlia di Sion» nell’Antico Testamento. Questa funzione di Maria ha un carattere sia individuale che comunitario. Ella è la madre di Gesù e dei discepoli. Le nuove relazioni tra la «Donna» e il «discepolo» che si stabiliscono presso la croce in forza della parole di Gesù, sono la manifestazione dell’amore estremo di Gesù al momento della sua «ora» (cfr. 13,1). Con tutto questo davanti agli occhi possiamo sintetizzare l’interpretazione di Giovanni 19,25-27 nel modo seguente. Maria e il discepolo prediletto rappresentano entrambi la Chiesa: «Ricapitolando tutte queste considerazioni - scrive R.H. Lightfoot - diventa possibile pensare che la madre del Signore e il discepolo prediletto che a partire da questa ora la prende “con s¨¦” rappresentano la Chiesa e i suoi membri, nella “nuova creazione” che ha ricevuto lo Spirito Santo». Insieme essi personificano la Chiesa, ma entrambi in modo differente. Il discepolo che Gesù amava simboleggia i «discepoli di Gesù» come tali, cioè tutti i credenti, e, in questo senso, tutta la Chiesa. Maria, la madre di Gesù, simboleggia la Chiesa stessa, nella sua funzione materna. In quanto tale ella è il «tipo», l’immagine della Chiesa e la madre di tutti i credenti: «Dopo il titolo e il ruolo di “madre di Dio”, ella riceve il titolo e il ruolo di “figura della Chiesa- Madre”. Noi comprendiamo la maternità della Chiesa meditando sulla maternità di Maria, madre del Signore e madre del discepolo prediletto». La dottrina secondo la quale Maria è la figura della Chiesa è classica in tutta la tradizione: «Maria-Ecclesia, Ecclesia-Maria. Questi due nomi si congiungeranno continuamente nella riflessione dei Padri della Chiesa»160. Da tutto questo deriva molto chiaramente che la dottrina mariana di Giovanni è integrata nella sua ecclesiologia. Come dicevamo già prima, tutta la scena della croce ha, in Giovanni, una portata principalmente ecclesiologica; ma questo soprattutto nella sua parte centrale, nelle parole di Gesù a sua madre e al suo discepolo. Così possiamo concludere con A. Feuillet: «Ci sembra anacronistico che Giovanni abbia potuto celebrare la maternità spirituale di Maria, che sarebbe come autonoma, senza rapporti stretti con la maternità della Chiesa (...). Se la maternità propriamente divina della Vergine Maria è messa in rilievo soprattutto da san Luca, è senza dubbio san Giovanni che è più impegnato a mostrare in lei il prototipi della Chiesa».
d) Il versetto 27b
Questo mezzo versetto ha una grande importanza per l’interpretazione fondamentale di tutta la scena del Golgota. La traduzione della Bibbia di Gerusalemme - «A partire da quella ora il discepolo la prese con s¨¦» - non rende il significato profondo del testo greco: ελαβεν ο μαϑητης αυτην εις τα ιδια (¨¦laben mahetes, autèn eis ta ¨ªdia). Il verbo λαμβανω (lamb¨¢no), qui impiegato, ha tre significati nel vangelo di Giovanni. Quando si tratta di un oggetto materiale, λαμβανω ha il senso attivo di «prendere»; per esempio: «Gesù prese i pani» (6, 11). Quando il verbo λαμβανω ha come complemento diretto una realtà puramente spirituale, esso significa in senso passivo «ricevere», per esempio quando Gesù dice ai suoi discepoli: «Ricevete lo Spirito Santo» (20, 22), o nel prologo: «Della sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto una grazia al posto di una grazia» (1,16). Sono questi i due casi estremi: il verbo si presenta sia con un oggetto puramente materiale che con una realtà esclusivamente spirituale. Ma vi è una terza serie di casi: quando il complemento del verbo λαμβανω è una persona vivente; di solito si tratta della persona stessa di Gesù. Qui non si può più tradurre n¨¦ con «prendere» n¨¦ con «ricevere». Non si «prende» una persona vivente come un pane o un libro, e non la si «riceve» nemmeno come la grazia o lo spirito Santo. Nelle lingue germaniche non c’è nessun verbo per rendere esattamente questa sfumatura; le lingue latine hanno un verbo eccellente: in italiano è «accogliere», in francese «accueillir». In realtà questo verbo esprime già un atteggiamento di fede come si può vedere in tre o quattro testi in cui il verbo λαμβανω è usato in questo senso e dove è accostato al verbo «credere». Concretamente si tratta ogni volta della persona di Gesù che viene o «accolta» con fede o rifiutata dalla incredulità degli uomini. Troviamo un esempio espressivo di questo accostamento dei verbi «accogliere» «credere», nel prologo: «È venuto in casa sua ed i suoi non l’hanno ricevuto (ου παρελαβον,u par¨¦labon). Ma a tutti coloro che l’hanno accolto (ελαβον, ¨¦labon), egli ha dato il potere... a coloro che credono nel suo nome» (1,11-12). Ancora in altri passi del quarto vangelo troviamo questa stessa relazione tra λαμβανω (con il senso di accogliere) e «credere» (5, 43-44; 13, 19-20). Anche là si tratta di «accogliere» Gesù. Un’unica volta il verbo non si riferisce alla persona di Gesù: e precisamente nella scena ai piedi della croce dove il verbo ha come complemento la madre di Gesù, Maria. Qual è il suo significato? Certamente non che il discepolo «prese» Maria per condurla presso di s¨¦ nella sua casa. Questa interpretazione è troppo materiale. Ma questo non significa nemmeno che egli la «ricevette» passivamente («ricevette» da chi?). L’oggetto del verbo è qui la persona vivente di Maria; come nei casi precedenti, si tratta di un’«accoglienza nella fede», nel senso di un atteggiamento di fede, di una reazione positiva al testamento di Gesù. Il discepolo mette in opera nella sua vita ciò che Gesù gli ha appena comandato, cioè di diventare il figlio di Maria. Egli deve in altri termini, diventare un vero credente: credente nei confronti di Maria e nei confronti della Chiesa. Ma sono le ultime tre parole del versetto a porre il problema maggiore: εις τα ιδια (¨¦is ta ¨ªdia), che la Volgata traduce «in sua». Come bisogna comprenderle? E come tradurle? Si conosce la versione corrente: «Il discepolo la prese (o la accolse) con s¨¦», cosa che di solito si intende nel senso di «nella sua casa». Questa presa di posizione ha suscitato lunghi dibattiti; non possiamo far altro, qui, che proporre un succinto riassunto dell’interpretazione che la nostra analisi dettagliata del vocabolario e dei paralleli, crediamo, impone. È vero che εις τα ιδια significa spesso «in casa», «presso di s¨¦», «nella propria patria», ecc. ma in questo caso l’espressione è sempre usata con un verbo che descrive uno spostamento materiale. Uno parte per un viaggio e dopo una lunga assenza torna a casa sua. Oppure , si rimanda qualcuno a casa. Si trovano degli esempi nel Nuovo Testamento, p. es. in Atti 21, 6: «Salimmo sulla nave. Essi ritornarono, allora, a casa». Ma nella scena della croce ελαβεν (¨¦laben) non descrive uno spostamento materiale. Come abbiamo detto, questo verbo indica l’inizio di un atteggiamento di fede. Si tratta, in un certo senso, di un «movimento», non però di un cambiamento di luogo, ma di un movimento puramente spirituale, la prima tappa del cammino della fede. Uno spostamento fisico del discepolo, certo, potrebbe verificarsi insieme a quest’atteggiamento di fede; ma ciò rimane totalmente al di fuori della prospettiva del versetto e di tutta la pericope, che si situa su un piano unicamente teologico. Tuttavia se si tratta di un atteggiamento spirituale, qui viene aggiunto εις τα ιδια. Qual è allora il senso di queste tre parole? Non si tratta certamente di una casa, ma ciò che appartiene «in proprio» al discepolo, come suggerisce il ripetuto uso di ιδιος (¨ªdios) in Giovanni (per es. 10,4). Bisogna comprendere εις τα ιδια nel senso di un’appropriazione metaforica, in relazione al discepolo: egli l’accolse «come appartenente a s¨¦, come sua propria» (G. Blaquière). Ma quale traduzione dare a questo significato metaforico? Perch¨¦ la preposizione εις in Giovanni mantiene un senso dinamico, descrive sempre un movimento verso l’interno (fisico o metaforico). Il commentario del card. Toledo, che data ai tempi del Rinascimento, ma che rimanda qui ad Ambrogio, servirà da punto di partenza per l’esegesi che stiamo per proporre. Ambrogio, secondo Toledo, parla a questo proposito di «beni spirituali» (spiritualia bona) che il discepolo aveva ricevuto da Gesù. Toledo riassume questa esegesi di «in sua » di Giovanni 19,27b in una bella formula: «Inter sua spiritualia bona». Traducendo letteralmente, questo significherebbe: «Tra i suoi beni spirituali». Se questa formula è difficile da riprendere nelle lingue moderne, essa permette almeno di vedere chiaramente ciò che vi viene inteso: «fra le cose proprie» (cfr. Red. Mater, n. 45). Nella sua grande trilogia La chiesa del Verbo Incarnato, C. Journet ha compreso questo testo nella stessa maniera: «Egli la prese (diciamo piuttosto: “egli la accolse”) nella sua intimità», nella sua vita interiore, nella sua vita di fede. Questa interiorità del discepolo non è altro che la sua disponibilità ad aprirsi nella fede alle ultime parole di Gesù e ad eseguire il suo testamento spirituale, diventando il figlio della madre di Gesù, accogliendola come sua madre nella sua vita di discepolo: la madre di Gesù, ormai, è anche sua madre. È interessante menzionare inoltre - cosa notata da diversi autori - che la formula εις τα ιδια presenta un netto parallelismo con il versetto 11 del prologo. Nel momento della sua Incarnazione Gesù è venuto nella sua proprietà, εις τα ιδια. È letteralmente la stessa formula. La «proprietà» di Gesù non è un luogo, ma il popolo di Israele. L’idea di «proprietà», di «possesso», si trova in primo piano. Questa proprietà è «la sua», è costituita «dai suoi», che accolgono (o non accolgono) il Messia. Qui, ancora, si tratta di un atteggiamento di fede (cfr. v. 12b).

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