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  «Il discepolo l’accolse con sè» (Gv 19, 27)  
Spiritualità

Di P. Ruggero Poliero dei Servi di Nazareth - Incontro di spiritualità AIASM a Sasso Marconi del 21.02.2016.



L’evangelista prima di focalizzare l’attenzione sulla madre di Gesù e "il discepolo che egli amava" in una scena dagli accenti solenni e commoventi, descrive la divisione delle vesti di Cristo e il sorteggio della sua tunica da parte dei quattro soldati che l’avevano crocifisso. Una piccola particella greca (mèn=mentre) posta alla fine del brano che vede per protagonisti i soldati (cf. Gv 19, 24), di solito trascurata dai traduttori, fa capire che la scena della tunica e quella successiva della madre sono contemporanee. Si trova in correlazione infatti con la frase successiva per la presenza della particella corrispettiva greca (cf. Gv 19, 25). Mentre la morte si avvicina, dall’alto della croce Gesù sta per pronunciare parole importanti, decisive, le ultime: come un testamento solenne per l’umanità, il tesoro più grande della sua vita. Il Figlio di Dio non è preoccupato per sé, non è concentrato sui suoi dolori; gli atroci tormenti della passione e crocifissione non lo rinchiudono in se stesso. Sta per offrirsi in sacrificio per tutti (cf. Lc 22, 19-20), non può non pensare alla moltitudine di coloro che sperano in lui (cf. Mc 14, 24). Nella prima delle sue parole dà agli uomini la grande promessa del perdono (cf. Lc 23, 34), nella seconda spalanca le porte del regno dei cieli ad un malfattore appeso come lui al patibolo (cf. Lc 23, 43), quasi a garantire che nessuno è escluso dall’abbraccio d’amore che sprigiona dalla potenza della sua croce. Gesù non può spirare senza aver adempiuto fino in fondo la volontà del Padre, senza che prima «tutto» sia compiuto (Gv 19, 30). Deve ancora fare il regalo più bello all’umanità. Nudo sulla croce, staccato da tutto, appeso fra il cielo e la terra, non possiede più nulla se non una madre, sua madre Maria, e si appresta a donarcela come il bene più prezioso e caro. Preparata dall’eterna sapienza del Padre per donare al Figlio unigenito il corpo di carne per opera dello Spirito Santo, ora secondo il disegno d’amore del Padre Maria viene offerta a noi come madre sulla croce dal Figlio nello Spirito, per prolungare sull’umanità redenta la stessa materna e premurosa sollecitudine che riversava nella pienezza dei tempi sul frutto del suo grembo. Giovanni ci trasmette la terza grande fatidica parola di Gesù sulla croce e con profondità psicologica la descrive in concomitanza alla divisione delle vesti e al sorteggio della preziosa tunica "sacerdotale" di Cristo perché «senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo» (Gv 19, 23). Senza precisarlo chiaramente l’evangelista fa intuire che quella tunica era opera della madre di Gesù. Proprio per questo motivo il sorteggio suscita nella mente del condannato quei teneri ricordi affettivi che lo spingono a fissare la sua attenzione sul gruppo di amici presenti ai piedi della croce. Ormai il crocchio dei curiosi si è allontanato e gran parte dei nemici se n’è andato. Rimangono soltanto i soldati di guardia e il piccolo gruppo dei fedeli. Piccolo gruppo. Gli apostoli sono fuggiti. Lo stesso Pietro, per timore o più probabilmente per la vergogna del suo tradimento, non è qui. A disonore degli uomini, il gruppo è formato da donne, eccetto il più giovane del folto clan dei pescatori, Giovanni, nel quale l’amore ha avuto la meglio su timori e dubbi. Al centro del gruppo sta la madre del moribondo, Maria, che ha accanto a sé altre tre donne, se seguiamo l’interpretazione che preferiscono gli esegeti di oggi, o due se ci atteniamo a quella classica. "Stavano presso la croce di Gesù - dice l’evangelista - sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala". Sappiamo già chi era quest’ultima: la donna dalla quale, come dice san Luca, erano usciti sette demoni (8, 2) e sicuramente la stessa donna che secondo lo stesso evangelista, abbiamo visto asciugare i piedi di Gesù in casa di Simone il fariseo (7, 36-50). Anticamente si riteneva che la sorella di sua madre e Maria di Cleofa fossero la stessa persona, mettendo solo una virgola fra le due indicazioni. Oggi gli studiosi preferiscono pensare che questa sorella di sua madre fosse la moglie di Zebedeo e madre di Giovanni e di Giacomo il maggiore, la Salome citata da san Marco, mentre la Maria di Cleofa (cioè Maria moglie di Cleofa) potrebbe essere quella che san Marco chiama madre di Giacomo il minore e di Giuseppe. Ma siamo nel campo delle supposizioni. Sappiamo, sì, che il piccolo gruppo stava vicino alla croce. Forse lo stesso Gesù avrà fatto in quel momento cenno che si avvicinassero perché aveva da dir loro qualcosa di importante. Non è inverosimile perché - come scrive il Lagrange - "nessuna legge impediva ai parenti di avvicinarsi ai condannati: i soldati difendevano le croci contro un eventuale colpo di mano o per impedire qualsiasi forma di tumulto; ma non allontanavano né i curiosi, né i nemici, né le persone amiche". C’era davvero poco da temere da quel gruppetto composto da quattro donne e un ragazzo. I soldati stessi dovevano aver compassione di quel reo al quale, nell’ora della verità, erano rimasti così pochi sostenitori (cf. J. L. M. DESCALZO, Gesù di Nazaret, vita e mistero, pp. 1235-1236). Sappiamo anche che stavano vicino alla croce: e questo "stavano" (stabant) in latino ci dice chiaramente che erano in piedi, con grande dignità... Che Maria abbia potuto avere qualche momento di abbattimento rientra nella sua condizione umana. Che fosse sorretta da Giovanni è normale per una madre. Ma certamente, dalla croce, Gesù non vide una donna fuori di sé. Pur essendo straziata dal dolore ella era là intrepida, pronta ad assumere la tremenda eredità che suo figlio stava per affidarle. Gesù inchiodato al legno per primo si rivolge alla madre che guarda con immenso affetto. Maria è in piedi sotto la croce, in agonia col suo Figlio. Accanto a lei, per sostenerla nell’"ora" tremenda, il discepolo fedele, amato da Cristo.

«Donna, ecco il tuo figlio!» (Gv 19, 26).

Non si tratta di una semplice attenzione filiale di Gesù per sua madre, di una giusta preoccupazione per il suo avvenire materiale dettata dal desiderio di assicurarle assistenza e protezione. Cristo al cuore della sua opera salvifica intende affidare a Maria la missione universale di essere madre di tutti i fratelli e sorelle redenti dal suo sangue. Come a Cana di Galilea agli albori del suo ministero pubblico, così sulla croce al culmine della sua azione redentrice, Gesù chiama Maria "donna" (=nuova Eva) invece che "madre" perché vuole così porsi al di sopra delle relazioni familiari e considerare Maria come la donna impegnata senza limiti di estensione nell’opera della salvezza. Maria dal giorno dell’incarnazione dell’eterno Verbo del Padre continuerà ad essere chiamata Madre di Dio. Dall’ora colma di sofferenza dell’immolazione del suo Figlio sul Golgota comincerà ad essere invocata come Madre di tutti i credenti, di quanti cioè accolgono Gesù nella fede e diventano simili a lui, sull’esempio del "discepolo che Gesù amava". «Ogni uomo divenuto perfetto non vive più, ma è il Cristo a vivere in lui (cf. Gal 2, 20); e poiché il Cristo vive in lui, è detto a Maria: "Ecco tuo figlio", cioè Cristo» (ORIGENE, Commento al Vangelo di Giovanni, I, 6, 23). A lei «Madre nell’ordine della grazia» (CONCILIO VATICANO II, Lumen gentium, n. 61), Cristo affida la totalità dei suoi discepoli, ma nella loro irripetibile individualità: «Ecco il tuo figlio!». Per una madre i figli non sono dei numeri; per Maria ognuno di noi, intravisto nel Cristo, non svanisce nell’anonimato, non è senza volto, senza nome... L’amore materno di Maria si rivolge ad ogni figlio personalmente, si interessa di tutti i particolari concreti dell’esistenza, offre a ciascuno la certezza di essere amato come fosse il solo a ricevere premure e affetto.

«Ecco la tua madre!» (Gv 19, 27)

Immediatamente dopo aver parlato alla madre, dall’alto della croce Gesù fissa lo sguardo sul discepolo che è «lì accanto a lei» e gli ingiunge: «Ecco la tua madre!» (Gv 19, 27), non solo perché abbia cura di lei e la prenda con sé "nella propria casa" (traduzione legittima ma insufficiente a rendere il pieno senso del versetto), ma soprattutto perché possa introdurla nella sua intimità, nel proprio vissuto affettivo. Non basta che Maria assuma la sua nuova missione, è necessario che anche il discepolo prenda coscienza di questa maternità di Maria. È ciò che avviene sul Calvario, quando Gesù, rivolto al discepolo, gli dice: "Ecco tua madre". Dicendo ciò Gesù gli rivela la missione a cui ha chiamato Maria e lo pone di fronte alle sue responsabilità. Ora noi sappiamo che quel discepolo, già entrato nella sfera dell’amore del Padre e del Figlio, accetterà il comando di Gesù. Il testo dice che "da quell’ora il discepolo l’accolse con sé" cioè "come un bene prezioso".

«Da quell’ora il discepolo l’accolse con sè»(Gv 19, 27).

Spieghiamo questa traduzione:
- La parola "ora" già la conosciamo e sappiamo che qui segna il compimento dell’opera messianica di Gesù, compimento delle Scritture anche per Maria, inizio per lei di una nuova maternità. Ebbene, il discepolo fa suo l’evento messianico ed accoglie Maria come Madre.
- "L’accolse". Non traduciamo l’espressione greca con "la prese in casa sua", come fanno tanti. Maria non è un oggetto che si prende, è una persona che si accoglie, nel senso pregnante del verbo: si tratta di un’accoglienza piena di affetto e di fede nella parola di Gesù.
- "L’accolse come un bene prezioso". È il senso a cui sono giunti i più recenti studi sull’espressione evangelica. Un articolo del gesuita biblista belga Ignace de la Potterie († 2003) porta questo bellissimo titolo: "Da quell’ora il discepolo l’accolse nella sua intimità". Esso dice tutto l’affetto con cui il discepolo che Gesù amava ubbidì al suo Maestro. Altri come s. Ambrogio, parlano dei "beni spirituali" ricevuti in eredità da Gesù, e tra questi c’è la Madre sua. Charles Journet (†1975) teologo svizzero e cardinale, ha compreso nello stesso modo queste parole evangeliche quando dice: "Egli la prese (diciamo con de La Potterie: l’accolse) nella sua intimità, nella sua vita interiore, nella sua vita di fede. Questa interiorità del discepolo non è altro che la sua disponibilità ad aprirsi nella fede alle ultime parole di Gesù e ad eseguire il suo testamento spirituale diventando il figlio della madre di Gesù, accogliendola come sua Madre nella sua vita di discepolo: la madre di Gesù, oramai, è anche sua madre".
Questa è la nostra fede. Non siamo orfani. Accanto al Padre e al Figlio c’è Maria, e poi lo Spirito che ci riunisce in una comunione perfetta. Nella Chiesa tutti continuiamo a chiamarla la "Madre di Gesù" e allo stesso tempo la chiamiamo anche "Madre nostra". La Chiesa ha un volto mariano; è Gesù che lo vuole e noi come discepoli a lui fedeli l’accogliamo come sua preziosa eredità (cf. M. GALIZZI, Vangelo secondo Giovanni. Commento esegetico-spirituale, pp. 336-337). Senza Maria manca qualcosa (molto!!) al nostro essere discepoli secondo la volontà di Cristo: «Se vogliamo essere cristiani, dobbiamo essere mariani, cioè riconoscere il rapporto essenziale, vitale, provvidenziale che unisce la Madonna a Gesù, e che apre a noi la via a Lui ci conduce» (PAOLO VI, Omelia al Santuario di Bonaria CA, 24.IV.1970).

Quale posto occupa la Madonna nella nostra condizione di fedeli laici (o consacrati e sacerdoti)?

È proprio vero che viviamo in profonda intimità con la Madre di Dio? Ci affidiamo a lei? La sentiamo come un bene prezioso per la nostra vita spirituale o la pensiamo un ornamento superfluo, una suppellettile che può esserci o no esserci? Tanti mali aggrediscono la compagine ecclesiale perché in particolare noi laici impegnati, (sacerdoti e persone consacrate) non diamo fiducia alle parole di Cristo e non obbediamo al suo comando supremo, non facciamo spazio a Maria, non la accogliamo sinceramente nella nostra "casa". Soffriamo deficienze morali nella Chiesa per una netta diminuzione della familiarità affettiva con Maria. Non tanto nel popolo semplice, che va a Medjugorje o che ascolta ogni giorno Radio Maria, ma nei preti, nei religiosi, nelle religiose, nei laici impegnati, in coloro che procedono nello spirito del concilio Vaticano II. Percepiamo il rapporto tra tale raffreddamento e carenze, crisi affettive, disordini emotivi che affliggono oggi l’élite ecclesiastica. Con la conseguenza, più in generale, della diminuzione dello spirito "mariano" nella Chiesa; probabilmente ricordiamo tutti che Hans Urs von Balthasar ha sottolineato la necessità di coniugare sempre il "principio petrino" con il "principio mariano", intendendo per "principio mariano" lo spirito di accoglienza, di apertura, di serenità, di pace, di ottimismo, di disponibilità, di intuizione, di ascolto, di affetto profondo. Il contrario di questo spirito mariano sono amarezza, rigidità, imposizioni, mancanza di scioltezza, legalismi, puntigli, durezze (cf. C. M. MARTINI, "Da quel momento la prese con sé". Maria e gli "affetti" del discepolo, pp. 34-35). Il servo di Dio p. Mariano da Torino, conosciuto e stimato come il cappuccino "parroco degli italiani" per i 17 anni di assidua presenza in TV, ripeteva: «Se abbiamo ancora dei difetti, se non siamo santi, ciò dipende dal fatto che non amiamo abbastanza la Vergine immacolata». Potesse ognuno di noi dire di Maria "sede della Sapienza", ciò che il discepolo diceva della Sapienza nell’Antico Testamento: «Ho dunque deciso di prenderla a compagna della mia vita, sapendo che mi sarà consigliera di bene e conforto nelle preoccupazioni e nel dolore... Essa conosce che cosa è gradito ai tuoi occhi e ciò che è conforme ai tuoi decreti» (Sap 8, 9. 9, 9). Maria, madre nostra, compagna di vita e consigliera impareggiabile conosce quali sono i desideri di Dio nei nostri riguardi. Chi vive nella sua intimità e impara a confidarsi, ascoltarla e imitarla in ogni cosa, chi vive in unione a lei e si lascia guidare dalla sua presenza materna, avanza decisamente nell’amore di Dio, vive sotto l’azione dello Spirito Santo, si forma ad immagine dell’uomo nuovo (cf. Ef 4, 23-24) e diviene per tutti fonte di vita e di grazia. «Si ricordi che Maria è il grande ed unico stampo di Dio, atto a modellare immagini viventi di Dio, con poca spesa e poco tempo. Chi trova questo stampo e vi si getta dentro, vien presto trasformato nell’immagine di Gesù Cristo, che questo stampo rappresenta al naturale» (L. M. G. DI MONTFORT,Trattato della vera devozione a Maria, n. 260). Chi ama Maria e si lascia da lei umilmente plasmare, assume pian piano i suoi stessi lineamenti spirituali, le sue fattezze interiori, le sue mirabili virtù. Specchiandosi in lei, il cristiano, il religioso, il sacerdote acquista la bellezza stessa di Maria, riflesso dell’eterna bellezza che rifulge sul volto di Cristo. Ammiriamo gli esempi di s. Giovanni Paolo II, il papa del "Totustuus!" o Maria, formatosi fin da giovane operario nella fabbrica di Solvay e poi da universitario, alla scuola del Monfort. S. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) il grande teologo e devoto di Maria, la definisce nei suoi scritti "acquedotto" che porta l’onda della grazia dalla Sorgente che è Gesù Cristo, e "mediatrice" di ogni grazia perché è volontà di Dio darci tutto per mezzo di Maria. Sua l’appassionata invocazione: "Respicestellam, voca Mariam!" nelle tentazioni, nei pericoli, nei turbamenti, nei peccati, nelle difficoltà, nei dubbi.

Inserito Lunedi 8 Aprile 2019, alle ore 12:17:46 da latheotokos
 
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DOTTORE IN S. TEOLOGIA CON SPECIALIZZAZIONE IN MARIOLOGIA
DOCENTE ALL'ISSR "SAN LUCA" DI CATANIA

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