Maria Assunta partecipe della risurrezione di Cristo: dalla Kenosi alla gloria
Data: Sabato 1 Agosto 2015, alle ore 11:26:18
Argomento: Dogmi


Intervento di Candido Pozo in AA. VV., L'Assunzione di Maria Madre di Dio. Significato storico - salvifico a 50 anni dalla definizione dogmatica, PAMI, Città del Vaticano 2001, pp. 247-262.



L'inno cristologico della lettera ai Filippesi

All'inizio delle nostre riflessioni vale la pena fissare l'attenzione sullo schema logico che nella lettera ai Filippesi ha il suo famoso inno cristologico (2, 5-11). Per il proposito che adesso guida le nostre considerazioni, sarebbe irrilevante discutere qui se si tratta di un inno cristiano prepaolino che Paolo ha fatto proprio (come hanno pensato, fra altri, E. Lohmeyer, T. Arvedson, O. Cullmann e J.R. Geiselmann), o se procede dalla penna dello stesso Paolo, il quale anche in altre occasioni introduce, nella sua prosa, cadenze e ritmi simili a strofe, e arriva, come nella pericope sulla carità (1 Cor 13), a comporre veri inni1. M'interessa molto di più notare le tre parti che configurano la struttura dell'inno:
1a. - la preesistenza di Cristo (v. 6);
2a - il suo abbattimento (la sua κένωσις) per la sua Incarnazione e per la sua vita terrena (v. 7-8);
3a - l'esaltazione di Gesù da parte del Padre (v. 9-11).
Da un punto di vista teologico riveste una grande importanza l'uso del verbo κενóω in forma riflessiva col senso di svuotarsi, spogliarsi. S'indica così che Cristo nella sua umanità «si privò della gloria divina esterna che poteva avere»2. Il sostantivo corrispondente κένωσις) acquista, nell'uso cristiano, un senso tecnico col quale si indica l'abbassamento del Figlio di Dio nell'Incarnazione3. In contrasto con la forma di Dio (μορφή Θεοϋ) che gli corrispondeva, prese la forma di servo (μορφή δουλóυ). Questa forma di servo viene assunta dal Figlio per il fatto stesso di farsi «simile agli uomini e [d'essere] riconosciuto da tutto il suo esterno come uomo». Si prolunga però con un grado ulteriore (s'umiliò: εταπείνωσεν εαυτóν) facendosi ubbidiente (υπήκοος) - ubbidire è l'atteggiamento che corrisponde al servo -, durante tutto il percorso della sua vita, «fino alla morte, morte di croce». Si tratta della morte più ignominiosa che sarebbe possibile immaginarsi e che fa sì che i suoi discepoli siamo obbligati a predicare un «Cristo crocifisso, che è uno scandalo per i giudei, una stoltezza per i gentili» (1 Cor 1,23). La morte di croce è il grado supremo della κενωσις del Figlio di Dio. In ogni caso, Gesù ha accettato la morte di croce per ubbidienza, ed è l'ubbidienza che da valore morale al suo sacrificio. La lettera agli Ebrei ci presenta Gesù che avendo ricevuto un corpo (e di fronte all'inefficacia dei sacrifici della Legge antica), si offre al Padre: «Ecco io vengo [ ... ] per fare, o Dio, la tua volontà» (Ebr 10, 7). Per questa donazione, la vita di Gesù acquista unità di senso e resta radicalmente orientata alla croce. Ad essa si dirige consciamente desiderandola, come voluta dal Padre, mentre è futura: «C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!» (Lc 12, 50)4. Arrivato il momento, nel Getsemani, malgrado la naturale ripugnanza che sente di fronte alla prospettiva della sua morte violenta, accetterà la volontà di suo Padre: «non quel che voglio io, ma quello che vuoi Tu» (Mc 14, 36). In questo modo, perché Gesù abbracciando la croce adempie la volontà del Padre, la passione stessa si converte in scuola di ubbidienza (cf. Ebr 5, 8). L'umile sottomissione del Servo piacque infinitamente al Padre e appunto per questa umile ubbidienza il Padre «lo ha esaltato, gli ha largito il Nome-sopra-ogni-nome affinché nel nome di Gesù [nel nome che Gesù riceve dal Padre nella risurrezione] ogni ginocchio si pieghi in cielo, sulla terra e nello sheol5, e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è Signore a gloria di Dio Padre» (Fil 2,9-11). Non esiste nessun dubbio che il nome che il Padre concede a Gesù per la sua ubbidienza, è il nome di Jahvé. Che altra cosa può significare per un giudeo come Paolo l'espressione il Nome-sopra-ogni-nome? Nell'inno dunque il nome di Gesù (il nuovo nome che Gesù possiede) significa quel nome supremo che Gesù riceve dal Padre per la sua ubbidienza fino alla morte di croce: il nome di Jahvé, la cui traduzione greca nei LXX è Kύριος. Così la professione di fede conclusiva confessa la divinità del Messia Gesù. Naturalmente non si tratta che Gesù abbia raggiunto la sua divinità, per la sua ubbidienza nella passione, in un momento posteriore ad essa. Lui preesisteva all'Incarnazione dall'eternità (εναρχή) come Λóγος (Gv 1, 1) e benché prese forma di servo, non perse la sua intima realtà di Persona divina. Lui ontologicamente è stato sempre «al disopra di ogni cosa, Dio benedetto nei secoli» (Rm 9, 5). Ma allo stesso modo che la sua κένωσις consistette nell'abbandono della gloria esterna che gli corrispondeva per la sua divinità, la sua esaltazione dopo la sua ubbidienza implica che si rivesta adesso di quella gloria esterna che gli era dovuta. Iddio, risuscitando il Crocifisso, ha fatto Gesù «Signore e Messia» (At 2, 35), come si dice nel sermone che Luca mette in bocca a Pietro il giorno della Pentecoste. La risurrezione di Cristo non è omologabile coi miracoli di risurrezione che Lui operò nella sua vita pubblica. In essi i risuscitati (la figlia di Giairo, il figlio della vedova di Naim o Lazzaro) erano restituiti alla vita terrena e restavano di nuovo sottomessi alla legge della morte. Nel caso della risurrezione di Cristo, Costui non è restituito alla vita mortale, bensì è esaltato, alzato, fino alla destra del Padre (cf. At 2, 33)6 e perciò rivestito d'immortalità. L'affermazione della sua risurrezione è congiunta a quella della sua esaltazione. Per capire quest'ultima, non si può dimenticare che «Gesù ha ricevuto per la sua esaltazione partecipazione alla sovranità di Dio»7 che è «il solo che possiede l'immortalità» (lTm 6, 16) e che può fare che un corpo mortale si rivesta d'immortalità (cf. 1Cor 15, 5354)8.

Partecipi della sua morte e della sua risurrezione

Nella stessa lettera ai Filippesi, San Paolo traccia un'impressionante programma di vita cristiana, consistente in ciò che ciascuno di noi, a riguardo di Cristo, può avere nella «partecipazione alle sue sofferenze [alle sofferenze di Cristo], diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3, 10-11). Si traccia così un modo di vivere l'esistenza terrena che consiste nel partecipare alla κένωσις di Cristo; in questo modo parteciperemo anche, un giorno, alla sua esaltazione. Qui sulla terra, ciascun discepolo di Cristo deve realizzare quello che San Paolo diceva di se stesso: «Completo quello che manca nella mia carne ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24). Ho messo in connessione diretta le parole «nella mia carne» con le parole «quello che manca», perché mi preoccupava il rischio di suggerire, se avessi unito «quello che manca» con «i patimenti di Cristo», che a tali patimenti in loro stessi potesse mancare qualche cosa9. Ogni cristiano è invitato a vivere assumendo uno stato di κένωσις nella sequela di Cristo. Tale invito procede dallo stesso Gesù: «Se qualcuno vuoi venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9, 23). A coloro che credono in questo modo coerente, Gesù promette la risurrezione gloriosa alla fine della storia dell'umanità: «Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in Lui abbia la vita eterna; ed Io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (Gv 6, 40). Così la risurrezione di Gesù non è un fatto chiuso in se stesso: «Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che dormono» (lCor 15, 20). La parola απαπχή suggerisce un processo che si apre con la risurrezione del Signore per estendersi un giorno - l'ultimo giorno nella terminologia del c. 6 di San Giovanni - alla nostra propria risurrezione10. E la stessa idea espressa in Col 1, 18: Cristo è «il principio, primogenito di coloro che risuscitano dai morti». La nostra risurrezione gloriosa per la quale parteciperemo all'esaltazione di Gesù, avrà luogo in un momento temporale conclusivo della storia dell'umanità, in connessione con un evento concreto che chiamiamo Parusia11. Così San Paolo scrive ai Tessalonicesi: «Il Signore, lui stesso, al segnale dato, alla voce dell'arcangelo, allo squillo della tromba divina, discenderà dal cielo; e da prima i morti in Cristo risusciteranno; poi noi, i viventi, i rimasti, saremo insieme con essi rapiti sulle nubi in aria incontro al Signore» (1Tess 4, 16-17)12. Con più sobrietà descrittiva, ma con grande esattezza tecnica, s'esprime nella prima lettera ai Corinzi: «Come tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo riavranno la vita. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia [απαπχή]; poi, alla sua parusia, quelli che appartengono a Cristo» (1Cor 15, 22-23). Il testo stabilisce una distinzione fondamentale: mentre Cristo, come primizia che garantisce la risurrezione futura dei suoi, è ormai risuscitato, quelli che appartengono a Cristo, risusciteranno in connessione con la venuta gloriosa dello stesso Signore risorto, cioè, con la sua Parusia13. Riteniamo con chiarezza questi due estremi: Cristo e quelli che sono di Cristo. È in questo contesto che dobbiamo riflettere sul senso della Assunzione di Maria.

La singolarità della partecipazione di Maria alla kenosi di Cristo

Forse sarebbe preferibile denominare il passaggio del Vangelo di Luca che di solito chiamiamo «L'annuncio a Maria» (Lc 1, 26-38), «La vocazione di Maria». Infatti, anche come genere letterario, il racconto non appartiene a quello degli annunci, bensì a quello delle vocazioni. Un racconto di annuncio culmina nel comunicare il contenuto di quello che si vuole annunciare, mentre i racconti di vocazione hanno il loro fine nel chiedere e donare una risposta. Così capita nella pericope che ci occupa14. Maria, dopo aver proposto la difficoltà che per essere Madre del Messia potrebbe significare il suo proposito di verginità (v. 34), e avendo ascoltato la risposta alla difficoltà che l'angelo le offre (v. 35a), accetta pienamente la chiamata che Dio le fa per mezzo dell'angelo: «Ecco la serva del Signore; si faccia di me secondo la tua parola» (v. 38). Nella risposta di Maria chiama l'attenzione il rilievo con cui appare la sua presentazione come «serva» (δουλη). A causa dell'importanza di questo termine, è facile scoprire un certo parallelismo con l'importanza che ha nell'inno cristologico della lettera ai Filippesi, questa stessa parola applicata a Gesù in maschile. Anzi, se in quest'inno la servitù ontologica di Cristo, per la sua natura umana, si prolunga nell'atteggiamento corrispondente di ubbidienza, anche nel caso di Maria la sua proclamazione come serva del Signore (δουλη Κυρίου) è accompagnata dalla sua donazione a compiere la volontà di Dio: «si faccia di me secondo la tua parola». Benché sia molto diffusa e frequente la traduzione «si faccia in me secondo la tua parola», traduco «si faccia di me» che mi sembra corrisponda con più esattezza all'originale greco15. D'altra parte, si percepisce così meglio la totale donazione di Maria nelle mani di Dio. Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica Mariana, ha notato che questa donazione piena di Maria nella sua risposta all'angelo è in «piena consonanza con le parole del Figlio che, secondo la Lettera agli Ebrei, entrando nel mondo dice al Padre: "Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato... Ecco io vengo.., per fare, o Dio, la tua volontà" (Ebr 10, 5-7)»16. Anche nel caso di Maria ci troviamo dinanzi ad un atto di offerta che darà senso unitario alla sua vita. Per lui «Maria si è abbandonata a Dio completamente, manifestando "l'obbedienza della fede" a colui che le parlava mediante il suo messaggero e prestando "il pieno ossequio dell'intelletto e della volontà". Ha risposto, dunque, con tutto il suo "io" umano, femminile, ed in tale risposta di fede erano contenute una perfetta cooperazione con "la grazia di Dio che previene e soccorre" ed una perfetta disponibilità all'azione dello Spirito Santo, il quale "perfeziona continuamente la fede mediante i suoi doni"»17. Le circostanze concrete in cui Maria porta a compimento la sua ubbidienza di fede, sono semplici e povere. Lei è una contadina di Nazaret. A suo riguardo, come capitò a Natanaele a riguardo di Gesù, il Figlio di Maria, poteva sfuggire, in modo spontaneo, la domanda: «E può venire qualche cosa di buono da Nazaret?» (Gv 1, 46). In questo segue Maria le opzioni di suo Figlio. Lei ha accettato di essere Madre del Messia. Ma questa Maternità non si esaurisce nel fatto biologico. Accettando questa Maternità, Maria unisce il suo destino al destino del Figlio: le gioie di Gesù saranno le sue gioie, e le tristezze e sofferenze di Gesù saranno tristezze e sofferenze anche sue. Per quanto riguarda i dolori nella vita di Maria, bisogna ricordare, la profezia di Simeone (Lc 2, 34-35), che il Papa Giovanni Paolo II, in modo suggestivo, considera «come un secondo annuncio a Maria»18. Quest'annuncio contiene due elementi: di Gesù si dice che sarà «segno de contraddizione» (Lc 2, 34), cioè, «bandiera discussa» secondo la traduzione liturgica spagnola (il tema impressiona fortemente Giovanni Paolo II, che, come si sa, negli Esercizi Spirituali che, da Cardinale, predicò a Paolo VI, concentrò intorno a lui tutte le sue considerazioni)19; come conseguenza di questo combattimento intorno a Cristo e della opposizione che si fa a Gesù, Maria dovrà soffrire: «e tu stessa avrai l'anima trafitta da una spada» (Lc 2, 35). Da una parte, Simeone esprime «la concreta dimensione storica nella quale il Figlio compirà la sua missione, cioè nell'incomprensione e nel dolore»20; dall'altra, annuncia a Maria «che dovrà vivere la sua obbedienza di fede nella sofferenza accanto al Salvatore sofferente, e che la sua maternità sarà oscura e dolorosa»21. Appare così una singolare partecipazione di Maria nella situazione kenotica di Gesù, in quella situazione per la quale Gesù si fa ubbidiente fino alla morte di croce (cf. Fil 2, 8). La vita di fede di Maria non fu priva della prova dell'oscurità. Questo è palese a Nazaret durante il lungo periodo di vita nascosta di Gesù. Il Papa indica che in questi anni, per adoperare espressioni di San Giovanni della Croce22, Maria vive la «notte della fede» in quanto che un «velo» copre la realtà del mistero23; l'uso di questa terminologia è normale nel Papa: non si dimentichi che la tesi di laurea di Karol Wojtyla fu su «La fede in San Giovanni della Croce»24. Probabilmente non abbiamo meditato abbastanza questi aspetti del mistero di Maria quando abbiamo fatto riferimento alla sua lunga convivenza materna a Nazaret. A Lei aveva detto l'angelo, da parte di Dio, cose gloriose su suo Figlio («sarà grande, e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo; a lui darà il Signore Iddio il trono di Davide suo padre, e regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà fine»: Lc 1, 32-33). Deve crederlo «di giorno in giorno»25, benché passano gli anni non soltanto dell'infanzia, ma anche della prima giovinezza di Gesù fino ai trent'anni senza che paradossalmente faccia niente di quello che sembrava dover aspettarsi dal Messia. Maria convive a Nazaret con un Gesù sconcertantemente consacrato a mansioni che non sembravano affatto avere relazione con la sua missione, nemmeno sembrano trovarsi in consonanza con la descrizione contenuta nell'annuncio dell'angelo. È perciò meraviglioso contemplare «in questo modo che Maria, per molti anni, rimase nell'intimità col mistero di suo Figlio e avanzava nel suo itinerario di fede»26. Realmente Maria «viveva nell'intimità con questo mistero solo mediante la fede»27. Il «velo» si fa specialmente denso al Calvario. Lì accanto alla Croce, mentre manteneva il suo «sì» dell'Annunciazione, aveva senza dubbio da ricordare, ancora una volta, le parole grandiose dell'angelo: «sarà grande, e sarà chiamato Figlio del Altissimo; a lui darà il Signore Iddio il trono di Davide suo padre, e regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà fine» (Lc 1, 32-33). Avendo presenti nella sua memoria queste parole, le credeva anche allora, quando «stando ai piedi della Croce, Maria è testimone, umanamente parlando, della completa smentita di queste parole»28. In nessun momento della sua vita appare, come in questi momenti, l'eroicità della «obbedienza della fede» di Maria di fronte agli «imperscrutabili giudizi» di Dio, le cui «vie sono inaccessibili» (cf. Rm 11, 33)29. In nessun momento della vita di Maria si manifesta così chiaramente la sua associazione all'opera redentrice di Cristo nei suoi aspetti più dolorosi. Il grande tema teologico che esprime la singolare associazione di Maria a Cristo, è il tema della Nuova Eva. Appunto dalla singolarità dell'associazione di Maria a Gesù che s'esprime in questo tema, cioè, dall'unione strettissima di Maria a Gesù nel combattimento contro il nemico infernale, deduce il Papa Pio XII, nella Costituzione apostolica Munificentissimus Deus con la quale definì l'Assunzione, che la partecipazione di Maria alla glorificazione di Cristo dovete essere singolare30. La presentazione di Maria come «nuova Eva» appare per la prima volta in San Giustino verso l'anno 15031 e, poco più tardi, in un arco temporale sommamente breve, in un modo sostanzialmente identico, in Sant'Ireneo32 e Tertulliano33. L'idea comune a quest'impostazione della teologia del secolo II la si può sintetizzare in questi termini: la prima Eva dialoga col diavolo, disubbidisce a Dio e con ciò porta sull'umanità morte e rovina; Maria, seconda Eva, dialoga con l'angelo, ubbidisce a Dio e da alla luce il Salvatore e con Lui la salvezza. In modo parallelo a quello con cui la prima Eva fu collaboratrice di Adamo nell'opera della rovina, la seconda, cioè, Maria, collabora col nuovo Adamo, Cristo, nell'opera salvatrice. Si tratta, dunque, d'un tema che si trova in San Giustino, Sant'Ireneo e Tertulliano ormai molto elaborato e, inoltre, con uno sviluppo che è uniforme in tutti loro. Tutto fa supporre che questa tematica non è stata creata da San Giustino, ma che è anteriore a lui34; orbene, se il tema esiste ormai elaborato prima dell'anno 150, si può dire che stiamo praticamente toccando i tempi della predicazione apostolica35. È fuori d'ogni dubbio che la predicazione apostolica presentava Cristo come «nuovo Adamo»; così è stato trasmesso nel Nuovo Testamento (cf. i Cor 15, 45). Le testimonianze convergenti dei Padri (questa convergenza, come abbiamo visto, si dà ormai dal secolo II) farebbero pensare che codesta predicazione apostolica vedeva accanto a Lui la figura femminile di una «nuova Eva». In questa dottrina di eccezionale autorità per la sua stessa antichità che tocca praticamente l'epoca apostolica, alla singolare cooperazione della prima Eva nell'opera della rovina si contrappone una cooperazione ugualmente singolare della «nuova Eva» con Cristo nell'opera della riparazione. Nessun'altra persona umana è stata associata all'opera salvatrice di Cristo in questo modo. Lei, soltanto Lei, diede il «sì» che ha permesso la realizzazione dell'Incarnazione redentrice36; un «sì» per il quale s'unì anche intimamente allo sviluppo della donazione di Gesù per la salvezza degli uomini che culminerebbe nella sua crocifissione; Maria s'unì dunque alla κένωσις posteriore di suo Figlio.

La singolarità della partecipazione di Maria nella esaltazione di Cristo: l'Assunzione corporale di Maria

Ho indicato ormai che il Papa Pio XII, nella Costituzione apostolica Munificentissimus Deus, quando espone il principale fondamento teologico dell'Assunzione di Maria, deduce la necessità d'una speciale partecipazione della Santissima Vergine alla vittoria di Cristo partendo dalla sua speciale partecipazione nel combattimento del Salvatore contro il demonio. In modo deliberato ho adoperato formule che insistono in ciò che nell'Assunzione di Maria ha luogo una sua speciale partecipazione nell'esaltazione di Cristo. Non credo, in nessun modo, che definendo questa verità, Pio XII volesse esprimere «qualche cosa evidente comune a tutti i cristiani» («eine gemeinchristliche Selbstverstendlichkeit»), come notava F. Courth37. Ormai in anteriori opere mie, ho indicato i paradossi che implicherebbe voler ridurre il contenuto del dogma alla mera affermazione che in lei è avvenuto quello che avviene in tutti i cristiani alla loro morte. Risulta curioso che l'esistenza di voci che livellano essenzialmente la partecipazione di Maria nella vittoria di Cristo a quella degli altri cristiani39, è un fenomeno quasi contemporaneo della definizione di Pio XII. Entro il mese di novembre del 1950, abbracciava questa posizione O. Karrer con un articolo pubblicato su un conosciuto giornale svizzero40. Nella stessa linea si collocava D. Flanagan nella rivista «Concilium»41, appellandosi inoltre al fatto che mentre il Beato Pio IX, quando definì l'Immacolata Concezione di Maria, l'aveva presentato come qualche cosa concessa a Lei «singulari omnipotentis Dei gratia et privilegio», qualsiasi espressione di questo tipo è assente dalla formula definitoria dell'Assunzione42. A proposito di quest'ultimo punto, conviene indicare che benché nella formula stessa della definizione dell'Assunzione, questa non viene presentata come privilegio, non è vero che ciò avvenga nell'insieme della Costituzione apostolica Munficentissimus Deus. Al contrario, si dice in essa espressamente che, per la sua Assunzione, Maria raggiunge «come la corona suprema dei suoi privilegi»43. Del resto, credo che coglie il senso la teologa norvegese K.E. Børresen quando indica la ragione per la quale nel caso dell'Assunzione non s'insiste nella nota di privilegio con l'assolutezza con la quale s'insistette quando si definì l'Immacolata. A mio avviso, Børresen vede giustamente che le differenze d'espressione nel caso dell'Assunzione e nel caso dell'Immacolata Concezione hanno altre radici, diverse della pretesa non differenziazione della sorte escatologica di Maria a riguardo di quella degli altri cristiani, radici che devono esporsi in modo più sfumato. Nel dogma della Immacolata si tratta d'una esclusività fondamentale della condizione di Maria paragonata con quella degli altri uomini. Nel caso dell'Assunzione esiste una differenza nella realizzazione anticipata del destino finale e della resurrezione gloriosa, alla quale tutti i giusti sono destinati. L'anticipazione di questa risurrezione comune indica il proprio del dogma mariano, ma, allo stesso tempo, segnala un destino comune futuro verso il quale si dirigono tutti i giusti; questo spiega che, nella definizione stessa (non si può dire lo stesso dell'insieme dottrinale della Costituzione apostolica), non siano stati adoperati termini di singolarità che avrebbero suggerito piuttosto qualche cosa di esclusivo della sua condizione. Infatti, la «Professione di fede» di Paolo VI interpreta il proprio dell'Assunzione di Maria come una partecipazione anticipata alla risurrezione gloriosa di suo Figlio: «La Beatissima Vergine Maria,- Immacolata, al termine della sua vita terrena, fu assunta in corpo e anima alla gloria del cielo, e, resa simile al Figlio suo che è risorto dai morti, raggiunse in anticipo [in antecessum] la sorte di tutti i giusti»45. Da parte sua, la Congregazione per la Dottrina della Fede insiste sullo stesso modo di capire il dogma dell'Assunzione: «La Chiesa nel suo insegnamento circa il destino dell'uomo dopo la morte esclude qualsiasi interpretazione che porta a svuotare il senso dell'Assunzione di Maria quanto a quello che le è riferibile in modo unico; nel senso cioè che la glorificazione corporea della Vergine anticipa quella glorificazione che è destinata a tutti gli altri eletti»46. Di nuovo, in un documento magisteriale, si rigetta la tendenza a livellare il caso dell'Assunzione di Maria e quello che avviene ai giusti, non bisognosi di purificazione, immediatamente dopo la morte, e si colloca la singolarità dell'Assunzione di Maria, nel fatto di implicare una glorificazione corporale anticipata a riguardo della risurrezione finale dei giusti. L'applicazione del concetto d'«anticipazione» a una realtà escatologica, come è l'Assunzione, produce difficoltà in alcuni teologi. La tendenza a negare la esistenza di ogni tipo di categorie temporali nelle realtà escatologiche (come invece si farebbe parlando a riguardo di esse di un prima e un dopo), tendenza che è caratteristica dell'«atemporalismo», ha ancora un certo grado di diffusione fra teologi attuali, non soltanto protestanti47, ma anche cattolici48. Non è possibile intavolare qui una dettagliata discussione sulle difficoltà che questa tendenza ha nella escatologia. L'ho fatto in altre occasioni49. Basti adesso indicare che benché non è possibile applicare all'aldilà le categorie del nostro tempo terrestre, questo non significa che l'uomo, che è un essere creato, resti per la morte escluso da ogni nozione di tempo50. Infatti, la nozione d'eternità che propose Boezio, contiene non solo l'affermazione di una vita interminabile (nel più pieno senso del termine, cioè, senza inizio né fine), ma anche quella di una possessione pienamente simultanea e perfetta di essa 51. Risulta impossibile pensare che un essere creato, cioè, un essere che non-abbia una perfezione infinita, sia capace di una possessione così assoluta (senza successione di atti) della sua propria vita52. Questo obbliga ad introdurre una nozione di tempo diversa di quella di «tempo fisico», e che Ratzinger chiama «tempo antropologico»53, «tempo umano» e «tempo-memoria»54. Mentre il «tempo fisico» si misura per il movimento corporale (quello delle lancette d'un orologio o, in ultimo termine, degli astri), il «tempo antropologico» sarebbe implicato nella successione di atti psicologici per la quale l'anima possiede la sua propria vita. Ovunque c'è una successione di atti, si può distinguere un prima ed un dopo, il che è evidentemente, in qualche modo, una categoria temporale, qualsiasi sia il modo col quale questa successione possa percepirsi nello stadio escatologico. Questa nozione è intelligibile perché San Paolo (1 Ts 4, 13-18) parla della risurrezione dei morti con formule di futuro55; come pure che soltanto così acquista senso il tema dell'attesa delle anime dei martiri, della quale parla Ap 6, 9-1 156. In ogni caso, una corretta teologia dell'Assunzione, consapevole del fatto che Maria è anticipatamente risorta, deve sottolineare il profondo senso religioso di questo dogma. Ci sono dei motivi seri per affermare che la risurrezione gloriosa del corpo dà al beato un aumento intensivo della possessione beatifica di Dio e non soltanto una gioia accidentale. La glorificazione corporale è stata data a Maria perché per essa si ottiene la più perfetta possessione di Dio57.

NOTE
1 Sulla questione basti rimettere a A. SEGOVIA, Carta a los Filipenses, in La Sagrada Escritura. Texto y comentario. Nuevo Testamento, v. 2 (Madrid 1962), 753-754.
2 F. ZORELL, Lexikon graecum Novi Testamenti (Parisiis 1931) s.v. κενóω
3 G.W.H. LAMPE, A Patristic Greek Lexicon (Oxford 1961) s.v. κένωσις
4 Cf. N. GELDNHUYS, Commentary on the Gospel of Luke (Grand Rapids-Michigan 1956), 366.
5 Più esattamente οί καταχθóνιοι sono gli abitanti dello sheol Cf. ZORELL, Lexicon graecum Novi Testamenti, S.V. καταχθóνιος: una traduzione più letterale dovrebbe dire che si pieghi ogni ginocchio da parte dei refaim ossia degli abitanti dello sheol.
6 Cf. R. PESCH, Die Apostelgeschichte (Apg 1-12) (Ztìrich-Neukirchen 1986), 124.
7 J. ROLOFF, Die Apostelgeschichte (Gòttingen 1981), 59.
8 ZORELL, Lexicon graecum Novi Testamenti, s.v. άθανασια, traduce «rivestirsi d'immortalità» come «immortalem fieri».
9 Cf. J. HUBY, Saint Paul. Les Epitres de la captivité (Paris 1935), 49.
10 Dal punto di vista filologico, M. ZERWICK, Analysis philologica Novi Testamenti graeci, 20 ed. (Romae 1960) p. 386, indica che il termine fa allusione alle primizie che s'offrivano come garanzia per il resto della raccolta. Cf. anche B. SPORLEIN, Die Leugnung der Auferstehung. Eine historisch-kritische Untersuchung zu I. Kor 15 (Regensburg 1971), 71.
11 Cf. P. BENOIT, Resurreccién al final de los tiempos o inmediatamente después de la muerte?: Concilium n°. 60 (diciembre 1970), 99-111.
12 Cf. P. HOFFMANN, Die Toten in Christus. Eine religionsgeschichtliche und exegetische Untersuchung zur paulinischen Eschatologie (Münster i.W. 1966), 224.
13 HOFFMANN, Die Toten in Christus, p. 344-345; H.M. SHIRES, The Eschatology of Paul (Philadelphia 1966) p. 86-87; H.A. WILCKE, Das Problem eines messianischen Zwischenreichs bei Paulus (Züirich-Stuttgart 1967), 85.
14 Cf. K. STOCK, Die Berufung Marias (Lk 1, 26-38): Biblica 61 (1980) 457-491; ID., La vocazione di Maria: La 1, 26-38: Marianum 45 (1983), 94-126.
15 Γένοίτο con dativo significa che «mi avvenga».
16 Enc. Redemptoris Mater, 13: AAS 79 (1987), 376.
17 Ivi: AAS 79 (1987), 375.
18 Enc. Redemptoris Mater, 16: AAS 79 (1987), 379.
19 K. WOJTYLA,
Signo de contradicción. Meditaciones, trad. esp. (Madrid 1978).
20 Enc. Redemptoris Mater, 16: AAS 79 (1987), 379.
21 Ivi
22 Subida del Monte Carmelo 2, 3, 4-6, in Vida y Obras completas de San Juan de la Cruz [BAC 15], 8 ed. (Madrid 1974), 486.
23 Enc. Redemptoris Mater, 17: AAS 79 (1987), 381.
24 La fe en San Juan de la Cruz, trad. esp. (Madrid 1979).
25 Enc. Redemptoris Mater, 17: AAS 79 (1987), 380.
26 Ivi: AAS 79 (1987) 381.
27 Ivi
28 Enc. Redemptoris Mater, 18: AAS 79 (1987), 382.
29 Cf. ivi.
30 DS 3901.
31 H Dialogus cum Tryphone Iudaeo 100, 5-6: ed. G. ARCHAMBAULT, t. 2 (Paris 1909), 124 (PG 6, 712). Per la priorità di questo testo cf. J. A. DE ALDAMA, Maria en la Patristica de los sigios I II (Madrid 1970), 268.
32 Adversus haereses 5, 19, 1: SC 153, 248 (PG 7, 1175); Demonstratio apostolicae praedicationis, 33: SC 62, 85; Fuentes Patristicas 2, 124-128. Si veda il commentario al primo dei due testi citati che fa A. ORBE, Teologia de San Ireneo. Comentario al Libro V del «Adversus haereses», v. 2 (Madrid 1987), 263-278.
33 De carne Christi 17, 5: CCL 2, 905 (PL 2, 782).
34 Cf. ALDAMA, Maria en la Patristica de los sigios I y II , 296
35 Cf. ALDAMA, Maria en la Patristica de los sigios I y II , 298
36 Cf. A. FEUILLET, La Vierge Marie dans le Nouveau Testament, in H. MANOIR, Maria, v. 6 (Paris 1961), 34.
37 Maria, die Mutter des Herrn (Vallendar 199 1), 111.
38 Cf. C. POZO,
Maria en la obra de la salvación, T ed. (Madrid 1990), 13-15; 322-324.
39 Informazione su questo tipo di posizioni e sull'insieme della problematica può trovarsi in C. BALI, De Assumptione B.V. Mariae in recenti theologia, in
Διακονια Πίστεως, Homenaje a J.A. DE ALDAMA (Granada 1969), 185-215; POZO, El dogma de la Asunción en la nueva escatologίa: Estudios Marianos 42 (1978) 173-188.
40 Das neue Dogma und die Bibel:
Neue Zürcher Zeitung, 26 di novembre di 1950.
41
La Escatologia y la Asunción: Concilium n°. 41 (enero 1969), 135-146.
42 Ivi., 138-139.
43 DS 3902.
44 K.E. BØRRESEN, Anthropologie Médiévale et Théologie Mariale (Oslo 1971), 116; si veda Ivi., 118-119.
45 Sollemnis Professio fidei, 15: AAS 60 (1968) 438-439. Sulle formule che adopera questa Professione di fede per confessare l'Assunzione di Maria cf. POZO,
El Credo del Pueblo de Dios. Comentario teológico, 2 ed. (Madrid 1975), 141-143.
46 SACRA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera Recentiores Episcoporum Synodi, 6: AAS 71 (1979), 941.
47 È ben saputo che la tendenza nasce con due conosciuti teologi protestanti: K. Barth e E. Brunner; referenze ad essi in POZO,
La venida del Seňor en la gloria, 2 ed. (México-Santo Domingo-Valencia 1998), 61, note 63 e 64.
48 Basti citare CHR. SCHUTZ (in collaborazione con E. VALYJ-MAGY), Vollendung, in J. FEINER-L. VISCHER, Neues Glaubensbuch. Der gemeinsame christliche Glaube, IV, 22, 4 ed. (Freiburg-Basel-Wien 1973), 542, che propone allontanarsi da pensare il destino dei morti con modelli di tempo. Anche H. KONG, Ewiges Leben (München 1982), 148.
49 Cf. POZO,
Teologίa del más allâ, 3° ed. (Madrid 1992), 304-308; ID., La venida del Seňor en la gloria, 2° ed., 61-64.
50 Cf.  J. RATZINGER, Jenseits des Todes: Internationale Katholische Zeitschrift 1(1972), 237.
51 «Aeternitas igitur est interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio». BOEZIO, Philosophiae consolatio 1. 5, prosa 6, 44: CCL 94, 101 (PL 63, 858).
52 Così lo riconosce a ragione J. L. RUIZ DE LA PENA, La otra dimensiòn, 3° ed. (Madrid 1986),<395.
53 Jenseits des Todes: Internationale Katholische Zeitschrift 1(1972), 235-237.
54 Eschatologie. Tod und ewiges Leben, 6° ed. (Regensburg 1990), 152.
55 Cf. O. CULLMANN,
Immortalité de l'âme ou Résurrection des morts (Neuchtel-Paris 1956) p. 66-67.
56 Cf. A. AHLBRECHT, Tod und Unsterblichkeit in der evangelischen Theologie der Gegenwart (Paderborn 1964), 139-141.
57 Cf. F. WETFER, Die Lehre Benedikts XII. vom intensiven Wachstum der Gottesschau (Romae 1958), 234-236.







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