Maria, ''via pulchritudinis'' a Dio in Dante Alighieri
Data: Mercoledi 23 Settembre 2015, alle ore 17:02:51
Argomento: Cultura


Un articolo di Anna Maria Chiavacci Leonardi, in Theotokos XIII (2005), n. 2, pp. 195-203.

La via pulchritudinis per andare a Dio attraverso Maria non appare in forma diretta nel poema dantesco. Essa vi è tuttavia presente, in modo alto quanto discreto, come è proprio di tutto ciò che riguarda la Vergine nella Commedia. Della madre di Gesù non è mai descritta la bellezza in nessun modo. Non lo è della Maria storica, quale appare nella seconda cantica, di cui sono ricordati solo alcuni atti e parole, sempre improntati a mitezza, dolcezza e premurosa carità; non lo è della Maria gloriosa del cielo, della quale conosciamo soltanto il «compiangersi» (Inferno 11,94) e l'intervento soccorritore dell'inizio, e la muta risposta degli occhi alla preghiera di Bernardo alla fine. Soltanto due parole, nella visione dell'Empireo, riveleranno la seconda funzione che essa assolve nel poema, oltre a quella di impersonare la misericordia divina, e cioè l'offrire il fondamento appunto a quella via pulchritudinis che tutto il poema dantesco celebra, sulla traccia della Scrittura, come cercheremo di mostrare.

1. la bellezza come manifestazione di Dio: le matrici biblica e platonica in Dante

A magnitudine et speciei creaturae cognoscibiliter poterit horum creator videri («Dalla grandezza e bellezza delle creature si potrà conoscere visibilmente il loro creatore»: Sap 13,5). E questa l'idea della grande tradizione biblica, che intende la bellezza come visibilità del divino nel creato, mezzo cioè con il quale Dio si rende sensibilmente percepibile, in quanto il bello (a differenza del buono e del vero), è gustato dalla mente, ma percepito dai sensi. Il tema della bellezza terrena come ricordo di quella divina e generatrice di amore è notoriamente svolto da Platone in alcune delle più alte pagine del Simposio e del Fedro. Ma se di platonismo si può parlare solo entro certi limiti per quanto riguarda la poesia stilnovista - come ha ben chiarito Bruno Tardi - l'affinità con il pensiero platonico appare invece ben evidente nell'opera di Dante, che sembra muoversi in singolare, profonda sintonia con il grande filosofo ateniese, al di là della stessa conoscenza che egli poteva averne, in via diretta o indiretta, come gli altri del suo tempo. Il rapporto tra il filone platonico del pensiero greco e la tradizione biblica cristiana in cui si muove Dante è ben noto, ma in questo particolare caso sembra definirsi nel modo più evidente quella corrispondenza tre i due rami della tradizione culturale mediterranea che più tardi costituirà un'unica identità, quella dell'Occidente, nella quale l'universo porta nel suo ordine razionale e armonioso l'impronta del suo unico creatore, che lo rende intelligibile - e rende amabile il suo fattore - all'uomo, unica creatura, con l'angelo, dotata di «intelletto e amore». Di questa concezione del mondo creato, quasi specchio di Dio, in quanto realtà che a lui somiglia, con il quale il creatore attrae l'uomo a sé, è espressione poetica - forse la più alta - il grande poema dantesco, nel quale la bellezza assume la stessa funzione adescatrice che le attribuisce il testo biblico:
Chiamavi il cielo e 'ntorno vi si gira
mostrandovi le sue bellezze etterne
(Purgatorio XIV,148-149);
mentre il valore di somiglianza, o impronta («orma») del divino creatore, è riconosciuto, all'inizio del Paradiso, in quell'ordine armonioso che regge l'intero universo:
e cominciò: le cose tutte quante
hanno ordine tra loro, e questa è forma
che l'universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l'alte creature l'orma
dell'etterno valore, il quale è fine
al quale è fatta la toccata norma
(Paradiso 1,103-108).
Concetto - questo della somiglianza - espresso in modo definitorio anche nella Monarchia: «cum totum universum nihil aliud sit quam vestigium quoddam divine bonitatis» (De Monarchia I, VIII, 2). Se leggiamo ora la defnizione che Tommaso, riprendendo Dionigi l'Areopagita, dà della bellezza, apparirà che l'ordine ne è appunto componente essenziale, insieme allo splendore, o «claritas»: «Pulchritudo consistit in quadam claritate et debita proportio» (Summa Theol., II-IIae, q. 180,2,3). Quell'ordine, che è «debita proportio», o armonia tra le diverse parti, è quanto noi chiamiamo bellezza, alla quale si aggiunge un particolare alone di luminosità (la «claritas») , non altrimenti definibile, ma tuttavia percepibile. Ora tale definizione della bellezza è riconoscibile nell'apertura stessa della terza «sublimis cantica» del poema dantesco:
La gloria di colui che tutto muove
per l'universo penetra e risplende
in una parte più e meno altrove
(Paradiso 1,1-3).
La gloria di Dio, cioè la sua sublime essenza in quanto percepibile agli uomini, «penetra e risplende», cioè invade con la sua luce l'intero universo (ecco la claritas) , e ciò avviene in modi diversi, come in gradazione - «più e meno» - (ed ecco la debita proportio, o ordine, come sarà detto poco dopo). E subito proseguendo si ricorda che quella luce o splendore, nella sua fonte prima, è il termine ultimo dell'umano desiderio, ciò a cui l'uomo supremamente aspira («il suo disire»), cioè l'oggetto del suo amore. Questo grande esordio richiama dunque, all'entrata nel regno celeste, l'idea della bellezza come visibilità del divino che attrae irresistibilmente a sé l'uomo, idea che è alla base di tutto il mondo poetico dantesco.

2. La bellezza della Donna come via al mondo celeste

È cosa ben nota che la poesia della giovinezza di Dante ha quasi come solo argomento l'amore suscitato in lui, fin dall'infanzia, dalla bellezza di una giovine donna, Beatrice, nella quale sembrava manifestarsi la stessa realtà celeste:
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare
(Vita Nuova, XXII,6).
Questo motivo, già presente nella lirica dell'amore cortese (ripreso e rinnovato in Italia da quel movimento poetico che Dante chiamò «dolce stil novo», e del quale egli stesso fu il maggiore rappresentante), vedeva nella bellezza femminile, assomigliata a quella angelica, un richiamo alla virtù che ingentiliva i cuori di chi la guardasse, e risvegliava in essi l'amore. Tale specie di attrattiva, che tocca la sfera spirituale, è propria di una qualità di bellezza che si distingue tra tutte le altre bellezze create. Se tutto l'universo è infatti, nella sua bellezza naturale, un riflesso del suo creatore, c'è tuttavia un particolare luogo nel quale tale qualità appare in modo privilegiato, ed è il volto dell'uomo. Nell'uomo infatti, fatto a immagine di Dio, e non solo a sua somiglianza - come Dante stesso precisa nella Monarchia (I,V111,2) - in quanto dotato di intelligenza e amore, quel divino riflesso ha una valenza che la natura non conosce. Se leggiamo i testi più noti della Vita Nuova apparirà chiaro che quella bellezza femminile che così fortemente attrae e vince il cuore dell'uomo non è tanto una bellezza fisica, quanto spirituale. Beatrice infatti, nel sonetto sopra citato, il più celebre tra quelli a lei dedicati (Vita Nuova XXVI, 5-7) appare «gentile e onesta», aggettivi che definiscono i tratti dell'anima, non del corpo; e lo stesso può dirsi del suo portamento («ella si va [ ... ] benignamente d'umiltà vestita»). Tale è anche l'effetto da lei prodotto in chi la vede passare, come ci dicono altri componimenti, sempre della Vita Nuova («fugge dinanzi a lei superbia ed ira»: ivi, XXI,2) mentre le altre donne che l'accompagnano appaiono vestite «di gentilezza, d'amore e di fede» (ivi, XXVI,11). Ma tale motivo letterario, che resta negli altri stilnovisti circoscritto all'amore umano, diventa in Dante ragione di vita, che seguendo la via tracciata dalla Scrittura porta l'uomo a risalire alla fonte prima di quella bellezza, cioè a Dio suo creatore. Di fatto, sarà la stessa donna, con la stessa bellezza, a condurlo fisicamente, nel poema, dalla terra fino al cielo divino. Quando, nel primo canto del Paradiso, nel giardino dell'Eden, Dante si staccherà da terra salendo verso il cielo, ciò gli accadrà col guardare fissamente nel volto di Beatrice, che a sua volta tiene gli occhi fissi nel cielo. Che in quel volto umano Dante trovasse nella sua giovinezza la luce che lo teneva sulla via di Dio, è esplicitamente detto poco prima, là sulla cima del Purgatorio, dove il poeta, per bocca della stessa Beatrice, fa aperta confessione del suo traviamento, avvenuto dopo la morte di lei:
Alcun tempo il sostenni col mio volto;
mostrando li occhi giovinetti a lui
meco il menava in dritta parte volto
(Purgatorio XXX, 1 21-123).
E Dante stesso - il personaggio Dante - riprenderà:
Piangendo dissi: «Le presenti cose
col falso br piacer volser miei passi
tosto che '1 vostro viso si nascose»
(Purgatorio XXXI,34-36).
Quella stessa bellezza, divenuta dopo la morte «spirital bellezza grande» (Vita Nuova, XXXIII,8), sarà quella che ora lo condurrà di cielo in cielo fino all'Empireo, in quella salita dove il solo segno percepibile del progredire sarà il suo accrescersi. Così Dante dice all'entrata nella stella di Venere
Io non m'accorsi del salire in ella;
ma d'esservi entro mi fe' assai fede
la donna mia, ch'i' vidi far più bella
(Paradiso VIII,13-15).
E lo stesso fatto sarà osservato in modo più esteso all'arrivo in Giove (Paradiso XVIII,52-63). Tale invenzione narrativa è figura della funzione primaria della bellezza, quella di generare l'amore, quasi risvegliandolo nell'animo dell'uomo, amore che trova pace solo quando raggiunge l'oggetto del suo desiderio, come è teorizzato in Purgatorio XVIII,19-33. Ma questo amore ridesto può essere rivolto soltanto a colei che lo ha suscitato, come è proprio della lirica d'amore cortese e stilnovista:
Per quella via che la bellezza corre
quando a svegliare Amor va nella mente
passa Lisetta baldanzosamente
come colei che mi si crede torre
(Rime CXVII,1 -4).
Oppure può dirigersi verso Colui che di quella bellezza è l'autore. Ed è questa la strada seguita da Dante nella Commedia, dove Dio stesso appare impegnato nell'attirare l'uomo, come fa un cacciatore con la sua preda, mostrandogli le bellezze dei cieli, come dice Virgilio esortando Dante a guardare in alto:
li occhi rivolgi al logoro che gira
lo rege eterno con le rose magne
(Purgatorio XIX,62-63).
Alla bellezza dell'universo non resiste lo stesso creatore, che la contempla «dentro a sé» come un innamorato, come è detto in uno straordinario testo del canto X del Paradiso, dove il poeta invita il lettore a levare gli occhi verso la perfetta armonia del moto degli astri:
E lì comincia a vagheggiar ne l'arte
di quel maestro che dentro a sé l'ama
tanto che mai da lei l'occhio non parte
(Paradiso X,10-12).
La bellezza del creato, da Dante contemplata e amata in tutte le sue forme, appare nella Commedia su tre diversi livelli. Assente nell'inferno, dove regna il suo contrario, la ripugnante deformazione di tutto ciò che in natura è armonioso e attraente - la selva contorta dei suicidi, i corpi travolti degli indovini, le trasformazioni bestiali dei ladri, il fiume di sangue, la pioggia di fuoco - essa si mostra nel Purgatorio nelle sue più amabili forme terrene, in particolare nel dolce splendore del giardino dell'Eden, dove acque, aria, fronde, canto di uccelli, colori di fiori, attraggono tutti i sensi dell'uomo per il cui diletto erano stati creati. È la bellezza che diremmo della natura. Ma nel Paradiso la scena cambia. Qui dove non c'è più paesaggio, se non il variare della luce dall'uno all'altro cielo, le forme della bellezza terrena entrano solo per via di similitudine. Paradossalmente, la terra serve di paragone al cielo, con i suoi aspetti più intensi e delicati (ricordiamo il plenilunio del canto XIV, il prato di fiori sotto il sole del XXIII, il lento sparire delle stelle all'alba nel XXX).Tra le luci dei cieli tolemaici che si attraversano, le luci, raffigurate in similitudine, del firmamento visibile sulla terra, e le luci dentro le quali si mostrano a Dante i beati, è tutto un sovrapporsi di bellezza fatta di sola luce che accompagna la salita verso il cielo divino, luce che potremmo chiamare la bellezza dell'anima, della quale infatti la luce che avvolge i beati è l'espressione (cf. Paradiso XXI,55-56). Su di essa risplende l'unica bellezza corporea percepibile a Dante in quel mondo astrale, il volto e il sorriso di Beatrice, grazie al quale soltanto quella salita è possibile. Tale bellezza non è qualitativamente diversa da quella che Dante contemplava in terra, ma diventa sempre più ardua a essere sopportata dalla sua vista mortale, come è detto nell'ultimo cielo, quello dei contemplanti (Paradiso XXI,4- 12), finché, all'entrata nell'Empireo - cielo non più fisico ma spirituale - essa cambia natura. Ora Dante, che ha potuto ritrarla nei suoi versi da quando la vide il primo giorno, non può più seguirla con le sue parole umane:
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l'ultimo suo ciascuno artista
(Paradiso XXX,3 1-33).
Quella bellezza è ora tale, che solo il suo creatore può goderla (vv. 1921). Ciò significa che la bellezza umana è ora fatta uguale a quella divina, secondo la grande idea proprio della fede cristiana, per cui l'uomo è fatto «consorte» della natura stessa di Dio (cf. 2Pt 1,4), come Dante ricorda in forma allusiva al momento in cui comincia la sua salita, nel primo canto del Paradiso (Paradiso 1,67-72). Ed ecco, nella grande scena dell'Empireo che ora si apre, tornata Beatrice al suo «beato scanno», lasciato per scendere a guidare Dante al cielo di Dio, la sua figura cederà il posto a Colei del cui volere in realtà essa era l'esecutrice, come è narrato nel secondo canto dell'Inferno.

3. Maria, Via Pulchritudinis per l'incontro con Dio

In questo preciso momento, in cui Beatrice lascia Dante, la preghiera stessa che egli le rivolge ci rivela la sua funzione, più che di intermediaria, quasi di controfigura terrena della persona celeste a cui appartiene il ruolo salvifico da lei svolto. Quella preghiera infatti è come un anticipo, quasi un duplicato, di quella che Bernardo, da parte di Dante, innalzerà a Maria nell'ultimo canto. Questa è un ringraziamento per tutto ciò che egli ha veduto:
Di tante cose quant'i' ho vedute,
dal tuo podere e da la tua bontate
riconosco la grazia e la virtute
(Paradiso XXXI ,82-84).
Quella è una richiesta per l'ulteriore, ultima visione, che resta da affrontare dopo il molto già visto:
Or questi, che dall'infima lacuna
e l'universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una
(Paradiso XXXIII,32-34).
E alla fine, la stessa domanda viene rivolta a ambedue: che l'uomo da loro salvato mantenga, una volta tornato sulla terra, la condizione raggiunta Così a Beatrice:
La tua magnificenza in me custodi,
sì che l'anima mia, che fatta hai sana,
piacente a te dal corpo si disnodi
(Paradiso XXXI,88-90).
E così a Maria:
Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi
(Paradiso XXXIII,34-36).
Il rapporto tra Beatrice e Maria, la quale appare subito dopo l'allontanarsi della prima, è reso in maniera evidente attraverso il ritornare delle stesse parole e degli stessi concetti: la «magnificenza», che sarà attribuita a Maria in Paradiso XXXIII, 20, è attribuita ora a Beatrice; all'una si chiede che l'anima di Dante resti sana, quando egli sarà tornato in terra, all'altra che sani restino gli affetti; entrambe compiono lo stesso gesto in risposta della preghiera (lo sguardo muto rivolto all'oratore in segno di assenso, e poi risollevato verso Dio, dall'una all'etterna fontana, dall'altra all'etterno lume). In questo straordinario passo, che prelude all'ultima visione, Dante finalmente ci mostra Colei grazie alla quale tutto il viaggio narrato nel poema si è svolto. Ma qui incontriamo una delle più grandi invenzioni della poesia dantesca. Lassù, sulla cima della rosa dove Bernardo indica a Dante di guardare, noi non vediamo nessun volto. Come dicemmo in principio, Maria non è mai descritta nella Commedia. E qui, dove finalmente appare, ecco che ciò che noi vediamo, che Dante vede, è la stessa bellezza, la bellezza fatta persona, e il cui gesto è il sorriso:
Vidi a lor giochi quivi ed a lor canti
ridere una bellezza, che letizia
era ne li occhi a tutti li altri santi
(Paradiso XXXI,133-135).
Quel gesto - che appartiene solo all'uomo nel creato - ci dice che quella bellezza non è una realtà astratta, ma viva, che comunica, che ama, che si dona: esso è infatti il gesto - l'unico - di tutti i beati incontrati nei cieli, da Piccarda a Giustiniano a Cacciaguida alla stessa Beatrice, e sarà, all'interno della Trinità che appare nell'ultima visione, il gesto con cui lo Spirito comunica l'amore tra il Padre e il Figlio (Paradiso XXXIII,124-126). Quella bellezza e quel sorriso che hanno sollevato Dante fino all'Empireo divino, e che già in terra lo conducevano sulla via di Dio, sono infine impersonati nella più «alta» delle creature, in cui è impresso il più forte segno della visibilità di Dio nel creato. È come se le massime manifestazioni sensibili del divino fossero tutte raccolte in lei, la cui faccia, come dice Bernardo, più di ogni altra «si somiglia a Cristo» (Paradiso XXXII,85-86). La via pulchritudinis per andare a Dio attraverso Maria, più che nelle immagini pittoriche, che inevitabilmente ritengono del terreno, trova forse la sua espressione più profonda in questa estrema invenzione del poeta che solo tentò di comunicarci con i suoi versi anche un minimo barlume, «una favilla», della gloria divina.

 







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