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  Videro il Bambino con Maria sua madre (Mt 2,10-11) 
Bibbia

Dal libro di Gianfranco Ravasi, L'albero di Maria. Trentun "icone" bibliche mariane, Edizioni Paoline, Cinisello balsamo 1993, pp. 218-227.



«Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano: Dov'è it re dei giudei che è nato? Abbiamo visto la sua stella sorgere e siamo venuti per adorarlo... Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro it Bambino con Maria sua madre, e prostratisi, lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra». (Matteo 2,12.10-11)

Già nell'arte paleocristiana i Magi porgono i doni al Bambino che siede in braccio a sua Madre, posta su un trono con gradini (la porta lignea di Santa Sabina a Roma, 430 circa); altre volte la Madre di Dio troneggia al centro, circondata simmetricamente dai Magi e dai pastori; talora, come in Santa Maria Antiqua a Roma (VIII sec.), il primo re mago si genuflette davanti a Maria e al Bambino, mentre Giuseppe sta alle spalle della Vergine e un angelo indica la stella e il cammino. Nel Medioevo, Soprattutto nei timpani delle cattedrali gotiche, la rappresentazione dell'adorazione dei Magi incornicia ritratti della Madonna, mentre nelle Successive pale d'altare comincia a infittirsi di particolari il fondale della scena. Nel Rinascimento la centralità della Madre col Bambino viene sminuita dal gusto per l'abbigliamento sfarzoso dei Magi e per le curiosità del loro corteo esotico. Curiosità che si accentuano con l'arte barocca che esaspera l'aspetto scenografico (Tiepolo nella sua «Adorazione dei Magi» di Monaco, del 1753). E comunque certo che l'asse centrale della narrazione celeberrima dei Magi è proprio in quel versetto: «Videro il Bambino con Maria sua madre e, prostratisi, lo adorarono». La Theotókos appare qui nella sua funzione fondamentale di generare e di offrire al mondo il suo Figlio divino.

Il racconto di Matteo (2,1-12), spesso superficialmente letto come una fiaba orientale, piena di profumi e colori esotici, è in realtà denso di simbolismi e carico di riferimenti teologici allusivi, e un intarsio di citazioni e di temi biblici. Siamo, quindi, in presenza - come nel resto del vangeli dell'infanzia di Gesù - di una sintesi cristologica distribuita sui fili sottili di una trama dalle maglie storiche molto larghe e allentate e dagli schemi di pensiero molto fitti e tesi. Un modo errato di leggere e meditare questa pagina è quello di perdere di vista il Cristo e Maria e lasciarci conquistare troppo dai Magi. E stata una tentazione antica: nelle catacombe romane questi personaggi appaiono negli affreschi già nel II sec., due secoli prima del troppo normali e modesti pastori. La tradizione li ha fatti re, li ha contati in tre, li ha resi razzialmente differenziati (bianco, giallo, nero), ha attribuito loro nomi diversi secondo le vane culture (in Occidente Gaspare, Melchiorre, Baldassarre), ha disseminato le loro reliquie da Milano a Colonia, nei tre doni ha visto segni particolari (l'oro per la regalità di Cristo, l'incenso per la divinità, la mirra per la sua passione e morte).

Il cuore del brano è, invece, Cristo e la domanda a cui si risponde e duplice: dove nasce il Cristo e donde egli proviene? Entrambe le risposte sono affidate alla citazione del profeta Michea, testo che già conosciamo e che Matteo cita e adatta nel v. 6: «E tu Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo Israele» (Mic 5,1). Betlemme, patria di Davide, e la discendenza davidica sono le due risposte che vengono offerte: Gesù Cristo è, quindi, il Messia davidico-regale, annunziato dalle Scritture. Noi ora sottolineiamo un altro dato. Nell'interno del racconto e in contrappunto, si oppongono luce e tenebre, rappresentazione del bene e del male, del due campi della storia. Sul bimbo Gesù e sua madre si proietta il grande duello della vicenda umana, tipizzato in Erode e nei Magi. A Betlemme, la città di Davide, si oppone Gerusalemme, la città di Erode; alla ricerca omicida di Erode si contrappone quella amorosa dei Magi; alla paura succede la gioia; all'interrogativo «Dov'è il re dei Giudei?» subentra il gioioso «Videro il Bambino e sua madre»; alla notte si sovrappone la stella che illumina l'oscurità; la stella indica ma anche scompare; i sommi sacerdoti e gli scribi conoscono la veritàa sul Messia ma non lo sanno riconoscere. Emerge, allora, accanto all'accoglienza, il rifiuto, incarnato in Erode, nei sacerdoti e in «tutta Gerusalemme».

Ma il vertice è rappresentato dalla luce. Sullo sfondo della narrazione, infatti, incombe la stella sulla quale, come afferma un grande esegeta, p. Lagrange, ci informa molto di più la teologia che non l'astronomia. C'è chi è ricorso, come Keplero, a una «nova» o «Supernova», cioè a una di quelle stelle deboli e lontane che improvvisamente, per settimane o mesi, crescono in intensività visiva a causa di una colossale esplosione interna; c'e chi si affida alla cometa di Halley (apparsa, però, nel 12/11 a.C.) e chi ipotizza una congiunzione astrale Giove-Saturno e cosi via. In realtà, il riferimento più «illuminante» è alla Bibbia stessa, forse all'oracolo del mago Balaam, un pagano come i Magi, che benedice Israele per diretta vocazione divina dicendo: «Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele...» (Nm 24,17). Il passo era poi divenuto nel giudaismo un testo messianico. L'Apocalisse chiama Cristo «la stella del mattino» (Ap 2,28; 22,16). La luce diventa poi il compendio del Natale di Cristo all'interno di tutta la tradizione cristiana.

Vogliamo, allora, sostare su questo tema che avvolge Maria e il suo Bambino. La stessa data del Natale, il 25 dicembre, come è noto, è stata scelta per sostituire la festa pagana del dio Sole, almeno a partire dal IV sec. san Leone Magno, ancora nel V sec., polemizzava con una consuetudine del cristiani romani inficiata di paganesimo: essi «prima di mettere piede nella basilica dell'Apostolo Pietro a Natale, si soffermavano sui gradini, voltavano la persona verso il sole che sorgeva e, piegando il capo, s'inchinavano verso di esso per rendere omaggio al suo disco splendente» (Sermone 27 su1 Natale). La sua conclusione vale anche per noi oggi: «Lascia pure che la luce del corpo celeste agisca sui sensi del tuo corpo ma con tutto l'amore infiammato dell'anima tua ricevi dentro di te quella luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo!». E così che il più antico mosaico cristiano, quello del mausoleo dei Giulii (III sec.), raffigura il Cristo-sole, sfolgorante sul suo carro trionfale. É così che Maria, come la Chiesa, verrà rappresentata come la luna dalla tradizione medievale e verrà cantata «stella mattutina» nelle Litanie Lauretane, sulla scia del titolo attribuito al Cristo dall'Apocalisse, come sopra si è ricordato. É così che in un'antica iscrizione sepolcrale romana il battezzato là sepolto e chiamato êliópais, «figlio del sole».

Quando a Roma sfrecciavano le trenta corse dell'Agone del Sole, quando il popolino si prostrava verso il sole che sorgeva all'alba, la Chiesa si riuniva a celebrare la manifestazione del vero sole che procedeva dal grembo di Maria. La notte natalizia era illuminata dallo  «sp1endore di Cristo, vera luce del mondo», come diceva la liturgia. Il grembo di Maria nella patristica diventa parallelo al grembo della terra, cioè il sepolcro: da entrambi il Cristo esce splendente alla vita. Non per nulla nell'antica tradizione cristiana Natale e Pasqua erano intimamente associati. In un'omelia natalizia greca erroneamente attribuita a Giovanni Crisostomo si esalta così il dono luminoso e «primaverile» del Natale di Cristo da Maria: «Dopo la fredda stagione invernale sfolgora la luce della mite primavera, la terra germina e verdeggia di erbe, si adornano i rami degli alberi di nuovi germogli e l'aria comincia a rischiararsi dello splendore del sole. Ma per noi c'è una primavera celeste, è il Cristo che sorge come un sole dal grembo della Madre Vergine. Egli ha messo in fuga le fredde nubi burrascose del diavolo e ha ridestato alla vita i sonnolenti cuori degli uomini dissolvendo coi suoi raggi la nebbia dell'ignoranza».

Il simbolismo della luce, che segna l'incontro tra Dio e l'uomo nella nascita del Cristo, ci porta a un'altra immagine dominante nel racconto dei Magi, quella del cammino. La stella indica una strada, e una specie di rivelazione cosmica come la colonna di fuoco che guidava 1'Israele dell'Esodo. Infatti essa è chiamata nel testo evangelico «la sua (del Messia) stella». La griglia geografica che regge l'intero Capitolo 2 di Matteo è fitta di nomi: Oriente (Babilonia o Persia per i Magi), Gerusalemme, Betlemme, Giudea, Egitto, Rama, Galilea, Nazaret. Ma non è una carta topografica fissa; lo spazio biblico è dinamico, sulla base della tipologia abramitica, esodica, escatologica: «Noi siamo sempre forestieri come i nostri padri», confessa Davide (1Cr 29,15) e la Lettera agli Ebrei ci ammonisce: «Noi non abbiamo quaggiù una città stabile ma cerchiamo quella futura» (13,14). Anche Dio è pellegrino col suo popolo, nomade con esso attraverso il santuario mobile dell'arca dell'alleanza; anch'egli è «l'ospite che percorre la sua strada» (R. M. Rilke), che bussa alla porta per essere accolto alla mensa (Ap 3,20); è il pastore che cammina col suo gregge lasciando che il sole batta anche su di lui e la morsa della sete attanagli la sua gola (Sal 23); tra poco, nel racconto di Matteo, diverrà profugo nel Figlio che conoscerà l'amarezza della persecuzione e dell'esilio.

Il viaggio dei Magi è, così, il simbolo della vita cristiana intesa come sequela, ricerca, come cammino sulle orme del Cristo, come distacco dalle cose e dall'inerzia. Chi è convinto di possedere tutto e di avere il monopolio della verità è simile ai sacerdoti di Gerusalemme, freddi esegeti di una Parola che non li coinvolge né converte. Chi e troppo ben piazzato nella Gerusalemme della storia, non cerca quella celeste. Chi è seduto nella sua città non ha bisogno di Betlemme, anzi, Betlemme gli appare come un insignificante villaggio di provincia. Eppure, coi Magi, «molti vengono dall'oriente e dall'occidente e siedono a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel Regno dei cieli» (Mt 8,11). Tra costoro c'è chi ha ancora la fede esitante e, come ha detto Paolo nel suo discorso ateniese, «va a tentoni» nel cercare Dio (At 17,27). C'è, però, anche il credente limpido, che, pur coi silenzi di Dio e l'oscurarsi temporaneo della stella, resta fedele e alla fine giunge al «Bambino e a Maria sua madre». É significativo il quadretto finale del racconto dei Magi: essi sono ormai raffigurati come perfetti credenti, «prostrati in adorazione» v. 11). Lo scopo del loro pellegrinaggio non era, infatti, quello di andare in cerca di un personaggio celebre per interrogarlo o di assistere a colpi di scena spettacolari. No, essi affermano senza esitazione a chi li interroga: «Noi siamo venuti per adorarlo» (v. 2).

Questo dovrebbe essere il motto di ogni pellegrinaggio, anche di quello che spesso molti intraprendono verso la Terrasanta o verso i santuari mariani. Non si dovrebbe andare alla ricerca di miracoli apologetici o spettacolari, si dovrebbe invece giungere in luoghi santi e santuari per vedere il Bambino e sua Madre e per adorare il Signore Gesù. L'appello che sigilla un canto di Isaia potrebbe idealmente riassumere le due dimensioni simboliche del racconto del Magi che abbiamo voluto esaltare, quelle della luce e del cammino: «Casa di Giacobbe, vieni! Camminiamo nella luce del Signore!» (2,5). La luce di Cristo, progressivamente, si rifletterà su di noi e ci illuminerà, trasformandoci a immagine della sua gloria, penetrandoci di immortalità. La sua stella ci renderà stelle lucenti: «I Sapienti risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (Dn 12,3). Il pastore protestante Jean de Saussure ha scritto questa bella riflessione su Maria: «Amiamo nella Vergine il riflesso della luce di Dio nella sua forma più pura. Amiamo in lei la figura della Chiesa che tu ci hai dato per madre e di cui tu ci vuoi figli. Maria dà alla Chiesa un volto di tenerezza e di dolce luce. Perché, dovunque tu fossi, Maria era con te, alla luce del tuo volto, dalla mangiatoia alla croce e né i Magi la poterono distrarre dall'una né i soldati allontanare dall'altra. Così dev'essere la tua Chiesa, illuminata dal tuo volto e sempre a te vicina, madre fedele che mai da te si allontana».

L'icona della Madonna dei Magi è, quindi, immersa nella luce ma e anche espressione limpida della fede in Cristo a cui sono chiamati tutti i popoli della terra. La scoperta che i Magi fanno davanti a quel quadretto a prima vista così quotidiano e familiare solleciterà la tradizione cristiana a celebrare la venuta gioiosa delle nazioni a Cristo. La stessa liturgia dell'Epifania, così solenne nelle chiese d'Oriente, lo attesta. Noi vorremmo scegliere tra le tante testimonianze una voce poco nota. Sotto il patronato di Teofilo di Alessandria, morto nel 412, ci è giunta un'omelia sulla fuga della Sacra Famiglia in Egitto, sicuramente posteriore (VI-VII sec.), destinata a essere pronunziata nel santuario di monte Coscam in Egitto, memoria del soggiorno leggendario di Gesù bambino profugo coi suoi genitori in quel luogo. Ecco come lo pseudo-Teofilo esalta l'incontro dei Magi col Bambino e sua Madre: «Essi erano lieti di grande letizia perché avevano visto il fanciullo e, adorandolo, gridarono: Te beato, o re grande, che dissolverai tutti i regni del mondo! Tu sei venuto nel mondo per rompere ogni potenza del nemico, come trovammo scritto nei libri del nostri padri antichi, i quali furono prima di noi!». L'istante di quell'incontro decisivo tratteggiato in poche righe da Matteo fiorirà prepotentemente sotto la penna di uno del grandi Padri della Chiesa: Efrem siro (IV sec.). Si tratta di una soghita, cioè di un inno dialogato, che vede per protagonisti Maria e i Magi. La Madre di Gesù li interpella e svela loro tutta la sua vicenda e il mistero di quel suo figlio. Inizialmente sono i Magi a esaltare Gesù, mentre Maria reagisce con umiltà, mettendoli quasi alla prova. Poi li interroga sulla ragione di questa loro scelta strana di mettersi in viaggio alla ricerca del bambino; espone anche le sue paure: «Io ho paura che Erode, quel cane arrabbiato, mi insidi con la sua spada e mieta il dolce grappolo prima ancora della sua piena maturazione... Gerusalemme è un torrente di sangue dove  i buoni sono uccisi; appena si accorgerà del bambino, lo cercherà. Parlate in segreto, non alzate la voce!». Alla fine svela in pienezza il mistero del Figlio, in un dialogo serrato che sfocia in un finale di pace: «Portate pace nei vostri paesi, pace grande sia nella vostra terra... Si rallegri la Persia del vostro annunzio, esulti l'Assiria! Splenda il Regno di mio Figlio!...».

Non potendo citare integralmente il carme, che si compone di 53 strofe, citiamo solo alcune battute del dialogo iniziale tra Maria e i Magi.
- Maria: Io non ho tesori regali né mai ebbi ricchezza. La mia casa è umile e l'abitazione misera. Non chiamate, quindi, re mio figlio!
- Magi: Tesoro grande è tuo figlio, ricchezza che tutti arricchisce...
- Maria: Voi vedete che il bimbo tace e che la casa della madre è vuota e povera; non vi è nulla di regale. Come allora può essere re?
- Magi: Si, è vero, vediamo un bimbo che tace, dolce e umile, come tu dici. Però lo abbiamo visto accendere gli astri in cielo perché annunzino un messaggio.
- Maria: Questo re cercatelo tra le genti e poi adoratelo. Forse avete smarrito la strada e il re nato dev'essere un altro!
- Magi: Credi a noi, fanciulla: la stella ha condotto noi esperti presso tuo figlio senza mai deviare strada per condurci direttamente qui!
- Maria: Il bimbo è piccolo, non porta corona e non possiede trono. Che cosa trovate in lui per venire a offrirgli tesori come a un re?
- Magi: É piccolo perché egli lo volle ed è bimbo dolce e umile finché non si sia manifestato. Verrà un tempo in cui tutte le corone s'inchineranno per adorarlo.
- Maria: Il figlio mio non ha eserciti né legioni né schiere e tace all'ombra della sua povera madre...
- Magi: Gli eserciti di fuoco del tuo figlio percorrono il cielo. Uno di loro venne da noi e ci chiamò seminando terrore nel nostro paese... Il tuo figlio è antico, o Vergine, più antico dei giorni e più anziano di tutti. Adamo è più giovane di lui ed è tuo figlio a dirigere tutte le creature!

 

Inserito Giovedi 5 Gennaio 2017, alle ore 10:04:36 da latheotokos
 
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DOCENTE ALL'ISSR "SAN LUCA" DI CATANIA

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