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  La concezione verginale e il dato irrinunciabile degli argomenti esegetici 
Bibbiadal libro di René Laurentin, I Vangeli dell'infanzia di Cristo, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1986, pp. 325-554

Se ci atteniamo alle regole normali e oggettive di qualsiasi critica delle testimonianze (indipendentemente dall'a priori circa il possibile e l'impossibile), la concezione verginale si presenta come un dato serio e solido. Essa è affermata in maniera indipendente dai due vangeli dell'infanzia di Luca e Matteo. Le loro discordanze su tutto il resto valorizzano questa concordanza sorprendente. Questo dato occupa in essi, in maniera molto diversa, un posto centrale, che è stato confermato dallo studio semiotico: questa informazione spezzava la genealogia davidica, tanto importante allora e tanto essenziale al loro primo progetto, obbligandoli a ripensare tutto da capo. I due evangelisti hanno saputo farlo andando contro corrente rispetto alle loro culture, ebraica per Matteo, pagana per Luca (cf 1,1-4). Essi assumono il dato malgrado la carenza di antecedenti biblici. La sola pietra di paragone esistente era la profezia d'Is 7, 14. Ma essi hanno dovuto interpretarla in un senso molto diverso dalla tradizione ebraica, che non vi vedeva affatto una concezione verginale. Tale dato, imbarazzante dal semplice punto di vista culturale, era anche poco credibile, ieri come oggi. Una Vergine che partorisce era cosa che si prestava allo scetticismo, addirittura all'ironia La letteratura ebraica ne è testimone, come vedremo presto. Se dunque gli evangelisti hanno accettato questo dato, contrario agli stessi propositi di Matteo (stabilire per genealogia l'ascendenza davidica di Cristo), lo hanno fatto perché esso si imponeva come un fatto. Invano si è cercato di trovare in essi una ragione determinante situata in un a priori. Chi l'ha trovata, l'ha trovata solo sfigurando profondamente il loro testo e, molto spesso, le loro fonti presunte. Significativa è la distanza radicale che essi prendono dalle idee del loro tempo, vale a dire dalle teogamie e dalle idealizzazioni o allegorie fuliginose care agli gnostici. Noi non specificheremo queste constatazioni ormai assodate. Ci limiteremo a esaminare gli slogan correnti, che hanno assunto l'apparenza d'un « consenso scientifico » fatale al realismo evangelico della concezione verginale.

1. Autenticità del testo

Lc 1,34 e Mt 2,14.18-20 non sono altro che un'« interpolazione », ha detto la critica radicale da Hillmann (1891) e Harnack (1910) a Grundmann (1961). Ma il testo ha resistito a questa eliminazione, frutto di presupposti che gli erano estranei. La critica testuale non fornisce la minima variante favorevole all'eliminazione. Il testo è assunto integralmente da tutte le edizioni critiche7. La sua coerenza interna interdice similmente l'eliminazione. L'obiezione è oggi superata.

2. Convergenze molteplici

La concezione verginale è « marginale, isolata nel Nuovo Testamento », si è aggiunto. Questo slogan, infaticabilmente ripetuto dalla fine del secolo scorso, non coglie meglio la realtà. Anzitutto Matteo e Luca, così diversi per le loro informazioni e per la loro teologia, attestano in maniera distinta e indipendente la concezione verginale. Su questo punto i loro contesti differiscono notevolmente: per Matteo, Giuseppe è l'« uomo » di Maria (1,16) e Maria « sua sposa » (1, 20.24). Per Luca ella è solo la sua « fidanzata » anche a Natale: pista che seguirà più tardi il Protovangelo di Giacomo. Matteo presenta l'origine del Figlio di Dio come una nuova creazione; Luca come una nuova forma della presenza escatologica di Jahve in mezzo al suo popolo, sulla linea dell'arca dell'alleanza ecc. Tuttavia i due vangeli convergono in affermazioni sorprendentemente nuove e senza precedenti.
1. Gesù è stato realmente « generato »8, I due evangelisti adoperano lo stesso verbo gennaô, che esprime la realtà di questa generazione umana. Essi l'adoperano al passivo, che maschera il soggetto, al fine di manifestare il carattere trascendente dell'origine paterna di Cristo. Gesù è sì generato, ma non si può dire che Dio lo genera come un uomo. Egli gli dona in maniera indicibile di nascere nella razza umana. Di più ancora, i due evangelisti designano Gesù come « il generato » al participio neutro: e
To... gennêthen (Mt 1, 20)e To gennomenon (Lc 1,35).
2. Non è Giuseppe ad averlo generato (Mt 1,16.18-25; Lc 1,31.34-35; 3, 24 lo escludono con insistenza).
3. Maria è la sola origine umana di Gesù per Matteo (1, 16.18. 20.23) come per Luca (1, 27.35): l'uno e l'altro (Mt 1,23 e Lc 1,27) adoperano il termine parthenos con riferimento a Is 7,14.
4. L'origine divina non è riferita al Padre, cosa che avrebbe evocato un principio maschile, bensì allo Spirito Santo (Mt 1,18.20; Lc 1,35): designazione di Dio al femminile in ebraico, al neutro in greco. Si è spesso trascurato questo dato significativo, che esclude radicalmente ogni modello teogamico. J. Legrand, che l'ha rilevato molto bene, ha creduto di doverne dedurre che Matteo attribuisce a Maria un ruolo maschile9 e che sarebbe qui tributario degli gnostici. Egli non si spinge sino a sostenere un'inversione dei ruoli maschile e femminile, perché la prospettiva gnostica era una specie di transessualità, con le donne che accedevano alle qualità degli uomini. In ogni caso la prospettiva gnostica è perfettamente estranea a quella di Matteo. Questo confronto e altri manifestano a quali trappole siano sfuggiti i nostri due evangelisti.
Le convergenze ad un tempo storiche e teologiche di Matteo e di Luca10, nelle loro prospettive totalmente diverse, sono tanto più sorprendenti in quanto non sono attribuibili a una fonte comune, come l'hanno ben dimostrato, in modi diversi e convergenti, Xavier Léon-Dufour e L. Legrand. Luca e Matteo hanno ricevuto la concezione verginale non come un racconto (cosa che avvalorerebbe la tesi del theologoumenon), ma come un « enunciato », precisa l'analisi di Legrand11. Noi diremmo con maggior Precisione: l'enunciato del fatto che si è imposto contro corrente della nascita insolita, che sembra aver gettato il discredito sull'origine di Cristo. L'oggettività invita a prendere la misura di questa convergenza, tanto coerente, quanto stupefacente, di due testimoni indipendenti.

I due vangeli dell'infanzia sono assolutamente « isolati nel Nuovo Testamento », si aggiunge. Neppure questo è fondato. I riscontri sono tenui, ma molteplici e convergenti, nel resto del Nuovo Testamento. Gli altri due vangeli fanno riferimento a questa nascita insolita, che fu ritenuta presuntamente adulterina.
1. In Mc 6,3 la domanda ironica e sprezzante degli abitanti di Nazaret (gli abitanti dei villaggi erano perspicaci, allora come oggi, nell'individuare una gravidanza prematura): - Non è il figlio di Maria? sembra significare: "Questo falegname, di cui non si conosce nemmeno il padre!".
2. In Gv 8, 41 i farisei, accusati da Gesù di non essere dei veri figli di Abramo, replicano con queste parole sferzanti: "Noi non siamo nati dalla fornicazione (ek porneias)! Noi abbiamo un solo padre: Dio". Tali parole sembrano testimoniare il sospetto creato da questa nascita insolita. L'ironia del dialogo sta in questo: "Voi siete figli del diavolo (8, 41.44) e non « figli di Dio » (8, 42)", dice Cristo ai suoi avversari; "Siamo noi i figli di Dio e non tu, che sei nato da un adulterio", rispondono i farisei (8, 41), ribattendo infine l'accusa di essere figli del diavolo (ossesso: 8, 48.52). Il pensiero soggiacente dell'evangelista è che essi hanno torto su tutta la linea: Gesù solo è Figlio di Dio e nato da una Vergine (cf Gv 1,13). Essi non sono né figli di Dio, né figli di Abramo. La loro infedeltà ne fa dei figli del diavolo, padre della menzogna e della prostituzione, che indica nella Bibbia l'infedeltà stessa. Codesti testi evangelici concordano con l'antica tradizione ebraica, secondo la quale Gesù sarebbe nato da un adulterio, e tendono a confermarne l'antichità. Celso (verso il 177-180) accusava esplicitamente Gesù d'aver inventato lui stesso la sua nascita da una « vergine ». In realtà, egli aggiunge: « è originario d'un villaggio della Giudea ed è nato da una donna del luogo, povera filatrice convinta d'adulterio. Ella fu cacciata dal marito, falegname del suo stesso stato... Ripudiata dal marito, vergognosamente vagabonda, diede alla luce Gesù in segreto» (Contra Celsum 1,28, ed. Sources chrétiennes 132, pp. 150-152). E ancora: « La madre di Gesù fu cacciata dal falegname che l'aveva chiesta in matrimonio, per esser stata convinta d'adulterio ed esser rimasta incinta ad opera d'un soldato chiamato Panthêr » (1,32, p. 163). Il nome di Panther è un anagramma di parthenos, vergine13. Colui che i cristiani dicevano: « Nato da una Vergine » (ek parthenou), Celso lo dice nato da Panthêr. Questo sviluppo può aver avuto origine dalle voci, che aveva fatto correre a Nazaret la gestazione prematura di Maria, gestazione di cui abbiamo appena sentito gli echi singolari.

Il vangelo di Giovanni è stato addotto come prova contro la concezione verginale per il fatto che, in 6,42, cita l'obiezione degli ascoltatori increduli: « Non è il figlio di Giuseppe? », senza refutarla. Ma stando alla struttura stessa dei dialoghi polemici in Giovanni14, l'obiezione del miscredente non è eliminata con la sua refutazione, bensì mediante superamento e approfondimento dell'essenziale: Gesù è Figlio del Padre, del « suo proprio Padre » (6,18). Altri esempi di questa struttura ironica del dialogo sono stati analizzati sopra. Diversi concernono precisamente l'origine di Cristo: gli avversari gli rimproverano di non essere nato a Betlemme (7,42); i lettori di Giovanni (fine secolo I) sapevano che questo rimprovero era privo di fondamento. In 6,42 i miscredenti ricusano la ripetuta affermazione di Gesù: « Io sono disceso dal cielo » (6,33.38.41.50.51.58); no, egli è il figlio di Giuseppe, replicano (6, 42). «Costui non è il figlio di Giuseppe, di cui conosciamo il padre e la madre? Come può dire ora: "Io sono disceso dal cielo"?» (6, 42). Gesù rimprovera loro questo mormorio. Per l'evangelista è lui che ha ragione: tuttavia egli non è venuto dal cielo come un aerolito, ma come Verbo preesistente fattosi carne (1,14) senza « volere di carne » (1,13 )15. La concezione verginale è esplicita in quest'ultimo versetto: «Colui che non è nato né dal sangue né da un volere di carne, né da un volere d'uomo ma da Dio » (1,13). Questa lettura al singolare, attestata dalle più antiche citazioni patristiche, è stata adottata dalle ultime monografie su questo versetto: J. Galot16, Hofrichter17, I. de la Potterie18, che le prolunga, e dalla Bible de Jérusalem. Tale interpretazione è confermata dalla dipendenza del prologo giovanneo da Luca 1-2. I contatti di pensiero e di termini sono numerosi, come aveva già dimostrato Resch all'inizio di questo secolo. I due prologhi (Lc e Gv) sono strutturati mediante lo stesso contrasto tra Giovanni e Gesù, qualificato come luce e gloria (Lc 2,32; Gv 1,19.14) nel quadro d'una opposizione legge-grazia (Lc 1,5-30; 2, 40.52; Gv 1,16-17) e fatto oggetto d'una cattiva accoglienza (Lc 2,7 e Gv 1,11). Stesso riferimento al mistero della concezione verginale:

Luca 1, 34-35

Non conosco uomo
La potenza dell'Altissimo
ti coprirà con la sua ombra
Per questo egli sarà chiamato
Figlio di Dio
Cresceva in grazia (2, 40.52)
Giovanni I, 13-14

nato non da volere di uomo
ma da Dio
Egli ha piantato la sua tenda fra di noi

Figlio unico del Padre
pieno di grazia e di verità

I contatti di fondo superano i contatti terminologici: Gesù è da Dio soltanto e, nei due testi, la sua presenza corporea è significata con le espressioni usuali per indicare la presenza di Dio nell'arca dell'alleanza. In ambedue i casi troviamo l'immagine della shekinah con riferimento al tabernacolo, luogo coperto dall'ombra di Dio e da lui riempito secondo Lc 1,35, con riferimento a Es 40,35; abitazione di Dio che pianta la tenda (eskênosên) della sua presenza tra gli uomini secondo Gv 1,13. Se la tradizione testuale ha esitato tra il singolare e il plurale (Colui che è nato: Cristo, o Coloro che sono nati: i credenti), lo si deve al fatto che Giovanni non dissocia, ma identifica simbolicamente la nascita eterna (1,14), la nascita storica e la nascita battesimale di Cristo. Per lui non si tratta di « tre nascite » ma della nascita eterna del Figlio di Dio che progredisce nel tempo: a Natale (con l'incarnazione) e tra i cristiani mediante la fede e il battesimo (Gv 1,12). É attraverso il « potere » dato ai cristiani di « diventare figli di Dio » mediante la fede in colui che « non fu generato dal sangue, né da un volere di carne, né da un volere d'uomo, ma da Dio » che la nascita eterna è conosciuta. Se le espressioni di Gv 1,13 (esclusione del sangue, della carne e dell'uomo) sono ovvie per indicare la nascita verginale, è pure vero che esse la significano solo in riferimento alla nascita eterna e alla nascita dei «figli di Dio» (1,12), che è l'esperienza cristiana. L'oscillazione della tradizione testuale dipende da questa implicazione e non ha grande importanza per il senso. Gv 1,13 reinterpreta la concezione verginale, affermata in Lc 1,34-35, in funzione della preesistenza e della nascita sperimentata dalla comunità cristiana. In poche parole, tre vangeli su quattro parlano effettivamente della concezione verginale. E Marco, che non è esplicito al riguardo, sembra farvi eco in 6,3. Inoltre egli è il solo dei quattro evangelisti a non nominare Giuseppe.

Più generalmente ancora, nell'insieme del Nuovo Testamento Gesù, spesso chiamato figlio di Davide, non è mai formalmente collegato a Giuseppe (garante di tale discendenza). Le rare eccezioni sono solo apparenti. Nel vangelo dell'infanzia secondo Luca la duplice menzione di Giuseppe come padre (2,33.48) è formalmente corretta dallo stesso Gesù (2,49). Altrove l'espressione è messa in bocca ad avversari o increduli che obiettano e fanno la figura dell'ilota ubriaco, che non capisce. Tali menzioni di Giuseppe come « padre » si trovano nei soli vangeli che parlano esplicitamente della concezione verginale (Lc 2, 48; cf 1,34; 3,23, corretta da un « così si riteneva »; 4,22; Mt 13, 55, Gv 1 45; 6, 42). Gli altri libri del Nuovo Testamento ignorano completamente questo padre umano. L'apostolo Paolo, per il quale Gesù è venuto dalla razza di Davide (Rm 1,3; cf 2 Tm 2, 8), evoca l'incarnazione in termini che non si oppongono alla concezione verginale, ma al contrario ne connotano il modo esclusivamente femminile. La cosa è paradossale in questo apostolo che si vuole misogino. Egli riserva positivamente questo posto alla donna. Tale situazione si spiega in virtù dell'esperienza fondamentale da lui fatta: la manifestazione diretta del Cristo risuscitato, rimasta la sua visione fissa. Egli prova difficoltà a risalire fino all'incarnazione, che percepisce solo per contrasto come abbassamento e « kenosi » (a differenza di Giovanni, che coglie la gloria nella carne e nella stessa croce). Come ha dimostrato Vicent Cernuda, Paolo prova difficoltà a esprimere questo mistero:
- Egli non dice che Gesù è « generato » dalla stirpe di Davide, ma che egli è « venuto », « avvenuto » (ginomai e non gennaô: Rm 1,3 e Ga 4,4)19.
- Egli dice « venuto da una donna », espressione quanto mai sorprendente, che lo riferisce a una madre e non a un padre umano (Ga 4,4). Sarebbe stato più naturale e ovvio dire: « nato da un uomo ».
- Similmente in Rm 8,3 e Fil 2,7 egli parla soltanto di somiglianza o di forma umana, come se non arrivasse a dire che Cristo (« venuto » così all'essere umano) è nato uomo.
In breve, la sua teologia dell'origine di Cristo non contiene alcun tratto che si opponga alla concezione verginale, bensì dei tratti sorprendenti che concordano con essa. Vicent Cernuda tende a dimostrare ch'essi la implicano20 e conclude: «San Paolo ha conosciuto la concezione verginale e l'ha trasmessa... come elemento integrante dell'incarnazione. Se è vero che questo mistero non costituisce di per se stesso un momento caratteristico della teologia paolina, non è meno vero che le allusioni stilizzate (analizzate sopra) rivelano la profondità, con cui l'Apostolo ha meditato questo tema nei suoi due versanti: - l'assunzione dell'umanità concreta (da parte di Cristo ecc.), - l'attuazione verginale. Egli propone... (questa) cristologia in una filigrana ammirabile..., come in sigle. Le sue formule arcaiche confermano che la concezione verginale, considerata come illusoria in questi ultimi tempi, apparteneva alla tradizione cristiana più antica (Est. Bibl. 36, 1978, 289).
Questo riferimento in profondità si verifica strutturalmente nella totalità del Nuovo Testamento. Salvo i contesti in cui gli evangelisti hanno eliminato l'ambiguità, Gesù non è mai riferito ad altro padre che a Dio.
In breve, la concezione verginale è ben presente come un dato fondamentale soggiacente al Nuovo Testamento. Se essa affiora in maniera così sporadica e malagevole, lo si deve alla sua posizione marginale nell'infanzia discreta di Cristo, ove rimase per lungo tempo un segreto di famiglia meno attuale della risurrezione. Ciò dipende inoltre dalla difficoltà di esprimere questa novità all'origine del Figlio di Dio. Eliminare queste convergenze laboriose e difficili significherebbe dar prova d'una profonda incomprensione nei confronti d'una delle prese di coscienza più profonde, che progrediscono in seno alla prima generazione cristiana.

3. Un dato arcaico

Questa analisi ci dispensa dal soffermarci su un'altra obiezione, su cui pure si è formato una specie di consenso: le affermazioni della concezione verginale sono « tardive » nel Nuovo Testamento. Questo slogan è un vestigio della teoria sorpassata21, secondo la quale il vangelo dell'infanzia sarebbe una composizione aggiunta in un secondo tempo ai vangeli di Matteo e di Luca. L'ipotesi è squalificata, ma lo slogan resta. Non si sostiene più la prima, ma si dice ancora: la concezione verginale compare solo « in due vangeli dell'ultimo terzo del secolo I »22. Il termine « tardivo » è senza portata in questa prospettiva, poiché i libri del Nuovo Testamento sono stati tutti scritti nella seconda metà del secolo I. La differenza di uno o due decenni non ha qui grande peso. È poi sicuro che i vangeli sono posteriori alle lettere di Paolo e all'anno 70? Robinson ha messo in luce la fragilità del consenso stabilitosi al riguardo, e nessuno ha refutato la sua tesi che colloca la loro composizione fra il 50 e il 60. Se poi ci si interroga sulla preistoria delle tradizioni orali o sulle fonti scritte, di cui i vangeli si son serviti, non c'è motivo di considerare i vangeli dell'infanzia come tardivi. Tutt'al contrario, Matteo 1-2 e Luca 1-2 presentano un carattere arcaico, giudaico, paleo-testamentario, che ha colpito tutti gli esegeti. Essi testimoniano tradizioni antiche, conservate nelle prime comunità giudeo-cristiane.

4. Una novità

L'autenticità coerente dei testi sulla concezione verginale ha resistito alle obiezioni propriamente bibliche, per cui si è dovuto ripiegare su un'altra ipotesi scaturita dagli stessi presupposti: non più la disintegrazione del testo di Luca, ma gli influssi che avrebbero determinato una simile costruzione: la concezione verginale era un modello così corrente che gli evangelisti furono costretti ad adottarlo, si è ripetuto. Ma la verifica di questa ipotesi è deludente. Si sono cercati dei modelli determinanti nelle religioni pagane greco-romana ( Perseo, Romolo ), egiziane ( Horus e i faraoni ) e nei filosofi (Platone, Apollonio di Tiana ), nonché nelle religioni orientali (Buddha, Krishna, figli di Zoroastro) e nello stesso Messico, a volte citato!23. Il solo esempio d'un contatto terminologico impressionante è il testo di Plutarco: «Non è impossibile che lo Spirito di Dio (pneuma theou: come in Lc 1,35) s'accosti a una donna e con la sua virtù (dynamis) faccia germinare in lei dei principi di generazione » (cf  il gennomenon di Lc 1,35) (Vita di Numa Pompilio 4. 4; cf lo studio di A PAUL, L'Évangile, 1968, pp 79-81). La concezione dell'eroe è qui attribuita allo Spirito e alla dynamis (stessi termini che in Lc 1, 35 e l. 17); e Plutarco precisa nelle sue Questioni conviviali (8, l. 2, trad. L. Pautigny, Paris 1904, p. 69) che Dio « non genera mediante seme » (dia spermatos), né « per coito » (dia synousías), ma con un'altra forza (dynamis). Siamo dunque di fronte a un'analogia, perché Plutarco spiritualizza e rettifica il modello teogamico in direzione della trascendenza; ma questo autore, nato nel 48-49 e morto verso il 125, è posteriore ai vangeli, per cui, se c'è stato influsso, questo non è stato esercitato da Plutarco su Matteo e Luca, ma viceversa. Il cardinale Ratzinger (oggi Papa Benedetto XVI) non faceva che esprimere un consenso già largamente acquisito, quando scriveva un paio di decenni fa: « Le leggende extra-bibliche di questo tipo sono profondamente diverse dal racconto della nascita di Gesù sia nel loro vocabolario che nella loro morfologia concettuale; la divergenza centrale sta nel fatto che, nei testi pagani, la divinità appare quasi sempre come una potenza fecondante, generatrice, ossia sotto un aspetto più o meno sessuale, e quindi in veste di "padre" in senso fisico del bimbo redentore. Nulla di tutto ciò compare... nel Nuovo Testamento: la concezione di Gesù è una nuova creazione, non una generazione da parte di Dio. Pertanto Dio non diventa il padre biologico di Gesù  » (Introduzione al cristianesimo, Queriniana, Brescia 1969, pp. 221-222).
La ricerca sul versante delle tradizioni ebraiche è stata ancor più deludente. Si è invocato soprattutto Is 7,14. Ma mai la tradizione ebraica l'ha interpretato nel senso d'una concezione verginale. Is 7,14 non adoperava il termine vergine, ma ragazza, fanciulla. I LXX l'hanno tradotto (due secoli prima di Cristo) con parthenos, ma ciò non implica uno sviluppo nel senso della concezione verginale. Se così fosso stato, il testo greco avrebbe mantenuto il dato più significativo del testo ebraico, ove è la ragazza a ricevere l'incarico di imporre il nome al figlio. Invece nei LXX questo incarico è affidato ad Acaz. Tale versione non esplicita quindi, bensì elimina la miglior insinuazione della concezione verginale. La versione dei LXX è pertanto in regresso rispetto al testo ebraico, seguita su questo punto da Matteo, per il quale è Giuseppe a imporre il nome e non la Madre, come nel testo originale d'Is 7,14 e in Lc 1,31. Inoltre il termine greco parthenos (vergine) non ha nulla di pregnante: Dina, la figlia di Giacobbe, è detta « vergine » dopo esser stata violentata. Sichem dice a suo padre Camor: « Prendimi in moglie questa vergine» (Gn 34,4). Nella tradizione ebraica la menzione d'una vergine (in Is 7,14 e altrove) non evocava tanto la verginità della madre, quanto piuttosto la nascita del primogenito, di colui che apriva il seno (la matrice), secondo un'espressione corrente nella Bibbia e nella tradizione ebraica. Cosa che Luca del resto echeggia in 2,7 egli adopera il termine prótotokos, poi in 2,23 cita Es 13,2: « Ogni maschio che apre il seno sarà consacrato al Signore » (SDB 8, 1972, pp. 482-500).
Nella tradizione ebraica il testo giudicato il più vicino e il più esplicativo dei vangeli dell'infanzia è il De cherubin, in cui Filone spiega come i patriarchi, uniti alla sapienza, concepiscono mediante essa 24: «Coloro, di cui il legislatore garantisce la virtù con la sua testimonianza, non sono presentati come conoscenti donne, si tratti di Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè o di qualche altro animato dallo stesso spirito. Infatti, dal momento che la donna rappresenta (tropikôs) la percezione sensibile e che il sapere si costituisce distaccandosi dalla percezione sensibile e dal corpo, ne segue che gli amanti della sapienza escludono la percezione e non acconsentono ad essa. E ciò è senza dubbio naturale. Quelle che abitano con quegli uomini sono donne secondo il linguaggio, ma virtù di fatto: Sara, sovrana e reggente; Rebecca, perseverante nel bene; Lia, rifiutata ma infaticabile nella pratica continua del bene..; Sefora, la moglie di Mosè, che si eleva veloce dalla terra al cielo per contemplare le essenze divine e beate e il cui nome significa « piccolo uccello ». Quando  noi parliamo della concezione e del parto delle virtù, i superstiziosi si turino gli orecchi o si allontanino. Mistero divino!.. Ed ora, ecco come bisogna affrontare la spiegazione del mistero. Il marito si unisce alla sposa, l'essere umano maschile si unisce all'essere umano femminile, obbedendo alla natura, ed essi avranno delle relazioni intime in vista della procreazione di figli.  Ma le virtù, che hanno una discendenza così numerosa e così perfetta, non è conforme alla Legge che siano il retaggio d'un marito mortale. D'altra parte, se esse non ricevono seme da un altro, giammai da sole partoriranno. Chi dunque mette in esse il seme del bene, se non il padre di tutto ciò che è, il Dio non generato e che genera tutto? Egli dona il suo seme e fa dono del prodotto che ha seminato e che è parte di lui stesso. Dio infatti non produce niente per se, poiché non ha bisogno di niente, ma per chiunque chiede di ricevere ». Questo breve estratto, che potremmo prolungare, basta a farci capire come siamo lontano dai vangeli dell'infanzia. Anzitutto siamo in piena allegoria. Sono le virtù dei patriarchi e non la loro genealogia ad essere in questione. Filone non parla dello Spirito Santo (termine femminile in ebraico), ma di Dio, che appare come generante, con una differenza radicale da Matteo; inoltre parla con insistenza del suo seme (senza dubbio spirituale, ma che Luca e Matteo hanno accuratamente evitato) e conclude: «Mosè mostra Sara come concepente nel momento in cui Dio la visita nella sua solitudine (Gn 21,1) e come partoriente non per colui che le ha fatto visita, ma per colui che arde dal desiderio di incontrare la sapienza e che si chiama Abramo. E la sua lezione è ancora più chiara, quando dice di Lia che « Dio le aprì la matrice » (Gn 29,31). « Aprire la matrice » è compito dell'uomo. E avendo concepito, ella partorì non per Dio, poiché egli si basta da solo e sussiste assolutamente di per se stesso, ma per colui che si addossa il lavoro faticoso al fine di ottenere il bene: Giacobbe. In questo modo la virtù riceve i semi divini da colui che è causa di tutto, ma partorisce per uno di quelli che l'amano e che è preferito a tutti gli altri pretendenti » (De cherubim, in Oeuvres, Paris 1963, t. 3, pp. 39-41. Testo analogo in Legum allegoria, ivi 3, pp. 180-181: studio più dettagliato in A. PAUL, L'Evangile, 1968, pp. 70-75).
L'immensa ricerca condotta da più di un secolo25 per giustificare, per fas et nefas, l'ipotesi secondo la quale Matteo e Luca parlerebbero di concezione verginale sotto la pressione determinante d'una corrente culturale cercata invano, urta contro una triplice difficoltà ben individuata da R. E. Brown26:
a. Non è assodato che i testi allegati siano stati conosciuti dai cristiani.
b. Nella misura in cui essi possono essere stati conosciuti, non hanno esercitato alcuna attrattiva. L'orrore per le mitologie pagane, attestato in Sp 14, 24-27 (cf Rm 1, 24), è patente nel Nuovo Testamento. É chiaro ch'esso ha comandato la difficile formulazione di Matteo 1-2 e Luca 1-2, vale a dire il suo allontanamento radicale da ogni specie di teogamia.
c. I modelli allegati non hanno alcun parallelismo in Matteo 1-2 e Luca 1-2: « In breve, non esiste nel mondo delle religioni pagane un esempio chiaro di concezione verginale, che potrebbe aver fornito in maniera plausibile a dei cristiani del secolo I l'idea d'una concezione verginale di Gesù, conclude giustamente R. E. Brown in The Birth, p. 523 ».
Si è tentato di trovare un altro modello ebraico nella nascita di Melchisedek secondo l'Enoch slavo. Ma questo testo è tardivo e molto posteriore ai nostri vangeli. E la tradizione ebraica ch'esso echeggia è quella che ispira la lettera agli Ebrei, là ove essa dice in maniera più radicale che Melchisedek era « senza padre, senza madre, senza genealogia » (7,3), al fine di farne un tipo di Gesù Cristo, « Figlio di Dio e sacerdote eterno ». Questo testo ci fa toccare con mano quanto la cultura dell'epoca invitava a dire: Gesù non ha né padre, né madre; egli è disceso dal cielo. Questo theologoumenon era nell'aria, se i nostri evangelisti fossero stati tentati dalla finzione27. E dal momento ch'essi accettavano il fatto d'una madre e d'una gestazione, sarebbe stato opportuno ridurla a 7 mesi, come facevano le tradizioni ebraiche sulla nascita d'Isacco, come ha fatto il Protovangelo per lo stesso Giovanni Battista28, oppure allungarla a 10 mesi o più, come ha fatto Virgilio per il suo messia Pollione nella quarta Egloga29.
In breve, la tradizione ebraica ignorava ogni modello di concezione verginale (eccettuato Filone in un modo allegorico), e la polemica di Giustino contro gli ebrei nel suo Dialogo con Trifone è una testimonianza antichissima (metà del secolo II) di questa interpretazione. Quel che possiamo trovare nella tradizione ebraica o pagana non sono dei modelli suscettibili d'aver determinato i testi straordinariamente nuovi di Matteo 1 e Luca 1, ma degli antecedenti, delle pietre di paragone, che hanno offerto una specie di sostrato archetipo a queste novità cristiane. Tali testi hanno potuto aiutare a concepire l'influsso di Dio in una generazione umana.
a. Un primo modello è attestato in un testo di Ras Shamra, anteriore di sei secoli a Is 7, 14: « Ecco che una ragazza ha partorito un figlio ( poema di Nikkal, riga 7. Gr. Driver, Caanite mythe, Edinburgh 1956, p. 125^). La ragazza sembra essere una dea-madre, qualificata come vergine.
b. I faraoni sarebbero nati dall'unione della loro madre con un dio (testi studiati da H. Cazelles, « La mere du roi-Messie dans l'Ancien Testament », in Maria Ecclesia 5 ( 1959) 39-56, con bibliografia p. 146).
Inoltre troviamo un tema analogo nella Genesi, ove Eva attribuisce a Dio la nascita di Caino e Set: « Ho acquisito un uomo con Jahve » (Gn 4,1); « Jahve m'ha dato una posterità » (4,25).
Questi precedenti presentano più differenze che analogie con la concezione verginale. Nel caso degli egiziani l'azione del dio non escludeva che il faraone « conoscesse » sua moglie. La stessa cosa dicasi della Bibbia, ove Adamo « conobbe » Eva nel senso biblico (sessuale) del termine (Gn 4,17.25). In breve, qui come altrove, se gli autori biblici hanno potuto trarre profitto da temi del loro ambiente, l'hanno fatto a prezzo di rettifiche e reinterpretazioni profonde. Questo processo era corrente da lunga data. Esso costituisce la differenza tra il diluvio babilonese, sordido litigio tra gli dèi, e il diluvio biblico in cui Dio, creatore e punto supremo di riferimento dell'etica, domina il flagello castigando il peccato e rilanciando l'umanità da un capostipite puro. Non meno profonda è la differenza tra l'inno egiziano al dio sole e il Salmo 104, che lo parafrasa, ma per ridurre il sole alla condizione d'un astro, creato da Dio come gli altri astri (Sal 104,19 in riferimento a Gn 1,16). Parimenti Matteo e Luca escludono radicalmente ogni compromissione carnale nella concezione verginale: lo Spirito Santo non genera ecc. Essi sono impregnati della trascendenza di Dio. I testi che hanno potuto preparare il terreno alla concezione verginale, così come l'esprimono in maniera nuova i nostri due vangeli, erano solo delle vaghe prospettive.

5. Una tradizione imbarazzante

In mancanza di influssi, il solo mezzo per eliminare la concezione verginale è stato quello di farne un theologoumenon, l'espressione fittizia d'un'idea teologica. La ragione che si adduce suona così: allora la divinità di Cristo non poteva esser espressa senza ricorrere a questo mito. In mancanza d'un modello, bisognava che la genesi mitologica fosse nel cervello dell'evangelista, e degli accostamenti fittizi hanno cercato di fornire una dimostrazione in questo senso. J. de Freitas Ferreira ha dimostrato bene che il movente di questa teoria non è esegetico, ma filosofico. É secondo i presupposti dell'idealismo kantiano, applicati alla storia da Hegel, che D. F. Strauss ha messo a punto il modello del theologoumenon che domina l'esegesi a partire da allora. Ma la concezione verginale, lungi da essere un'esigenza dell'ambiente circostante, è stata una difficoltà cruciale e addirittura uno scandalo per Luca e soprattutto per Matteo. Essa contrariava la preoccupazione apologetica di mostrare che Gesù era figlio di Davide, nonché l'intenzione stessa che aveva spinto Matteo a cominciare il suo vangelo con una genealogia. Questo dato venuto da ambienti giudeo-cristiani qualificati costituiva dunque una difficoltà notevole. Niente preparava i nostri evangelisti a risolverlo. Essi hanno saputo andare più lontano dello stesso apostolo Paolo (Ga 4, 4) nella sua soluzione, non percorrendo una via facile, ma assumendo l'originalità stessa di questa novità significativa.

Conclusione

Dopo tante ipotesi, che si sono rivelate altrettanti vicoli ciechi, la soluzione critica ovvia sta nel riconoscere che la concezione verginale è un dato della tradizione trasmesso nell'ambiente giudeo-cristiano. I due evangelisti l'hanno raccolto per vie diverse come un dato di fatto. Maria ne sembra la fonte ovvia, e Luca si riferisce alla sua memoria in 2,19.51. Tale è la conclusione cui conduce lo studio ovvio dei testi. La tradizione era un vero scandalo per i giudei e una stoltezza per i pagani. Essa suscitava da ambedue i lati scetticismo o ironia, esattamente come oggi. Se Matteo e Luca avessero voluto fabbricare un theologoumenon adattato all'uomo del loro tempo, avrebbero detto che Cristo era disceso dal cielo, oppure che era figlio di Davide mediante Giuseppe. Quel che hanno ritenuto di dover assumere andava controcorrente. L'opposizione antica alla concezione verginale non era affatto motivata dalla preoccupazione di ristabilire una nascita ordinaria e una paternità di Giuseppe. Essa ricusava l'umanità di Gesù Signore. Per gli gnostici (Cerdone, Cerinto, Saturnino, i carpocrati, Marcione) e per i manichei30 la difficoltà non stava nel carattere verginale della concezione, ma nel fatto stesso che il Verbo si fosse fatto carne. Dal che le scappatoie del docetismo o della preesistenza senza contaminazione terrena. All'origine del cristianesimo la concezione verginale è stato il test contro tutti coloro che tendevano a negare l'umanità di Gesù. Fin dall'origine si verifica quel che esprimerà più tardi l'antifona: Cunctas haereses interemisti. La Vergine Maria è, all'origine di Cristo, il segno specifico dell'incarnazione, su cui si sono infrante le eresie portate a rifare Cristo secondo il gusto del giorno, ricusando sia la sua umanità, sia la sua divinità. Queste antiche lezioni dell'ilota ubriaco non dovrebbero premunirci contro le reiterazioni di questo errore? W. Pannenberg (Jesus God and Man, edizione inglese, Westminster, Philadelphia 1968, p. 143) credeva di vedere un'opposizione tra concezione verginale (caricaturata) e la preesistenza di Cristo: « Nel suo contenuto la leggenda della nascita verginale di Gesù sta in una contraddizione inconciliabile con la cristologia dell'incarnazione del Dio preesistente, che troviamo in Paolo e Giovanni ». No. Secondo Matteo e Luca e secondo tutta la tradizione patristica, che ne ha raccolto l'esperienza e il senso, la concezione verginale è il segno specifico e della trascendenza di Cristo e della verità dell'incarnazione31. Essa indica la sua origine divina e l'umile realtà umana della sua concezione, gestazione e nascita. In Luca la preesistenza del Figlio di Dio è già soggiacente. Essa affiora nel fatto ch'egli dice Cristo Figlio dell'Altissimo (1,32a) prima di dirlo figlio di Davide (1,32b) e soprattutto nell'identificazione di Gesù con Dio, la cui venuta teocratica era annunciata dai profeti. L'esplicitazione attuata in questo ambiente giudeo-cristiano di dipendenza giovannea va più lontano di quanto sembri a prima vista.


NOTE
7 Sopra, critica testuale di Luca, pp. 29-30.
8 Ambedue adoperano il verbo gennaô al passivo e designano Gesù come il generato al participio neutro: To gar en auté gennêthen (Mt 1,20): aoristo. To gennomenon (Lc 1,35): presente con valore di futuro.
9 J. LAGRAND, How was the Virgin Mary 'Like a Man' (yk gbr)? A Note on Mt 1, 18b, and Related Syriac Christian Texts, in Nov. Test. 29 (1980) 97-107. L'autore si riferisce ad antichi apocrifi: - Odi di Salomone 19, l0a: « Ella mise al mondo come un uomo, mediante la volontà ». - Vangelo di Filippo, logion 17: « Alcuni hanno detto: " Maria ha concepito di Spirito Santo". Essi sono nell'errore. Non sanno quel che si dicono. Quando mai una donna ha concepito da una donna? » (ed. R. Mc Wilson, London 1962, p. 31). L'obiezione si riferisce al fatto che il nome dello Spirito Santo è femminile in ebraico: ruah. - Vangelo di Tommaso, logia 25, 22 e 114: « Le donne non sono degne della vita », dice Pietro che vuoi escludere Mariam (Maria Maddalena). Ma Gesù dice: « La renderò maschio, perché diventi anche lei uno spirito vivente, simile a voi, maschi, perché ogni donna che si farà maschio entrerà nel regno dei cieli ». Queste speculazioni gnostiche sono estranee a Matteo e a Luca. L'autore insiste felicemente (pp. 106-107) sul fatto che non si tratta d'un'inversione, ma d'un superamento della dualità dei sessi (come nelle relazioni di parentela secondo Mt 12, 48).
10 Contesti teologici. Matteo e Luca inquadrano la concezione verginale in maniera diversa: - Luca l'inserisce in una teologia della filiazione divina analoga a quella di Paolo (Rm 1,3) che per parte sua non esplicita la concezione verginale. - Matteo non collega il fatto con la filiazione divina che affiora solo più avanti nel suo vangelo. Egli lo fa indubbiamente per evitare ogni suggestione teogamica. Viceversa stabilisce un legarne tra la concezione verginale e il nome di Emmanuele, Dio-con-noi, che risponde a un'idea centrale del suo vangelo, alle ultime parole di questo, che sono anche la ultime parole di Cristo in 28,20 «Io sono con voi per sempre » ecc. Non potendo opporre su questo punto Matteo a Luca si è contrapposto Luca 1 a Luca 2, che ignorerebbe la concezione verginale. - Qui la nascita è riportata senza riferimento alla verginità (2,7) - Maria ignora che Gesù è Figlio di Dio in LC 2,49-50, si è sottolineato. 1. Alla prima obiezione bisogna opporre la designazione insolita di Maria come « fidanzata » di Giuseppe (emnêsteumê: vale a dire concessa in matrimonio prima della coabitazione). Questo appellativo datole nel momento del parto, quando la vita comune e la coabitazione (realizzate secondo Mt 1,18-25) richiedevano la partecipazione di Maria al viaggio a Betlemme, ricorda ch'ella non e sua moglie, a dispetto delle lezioni facilitanti. Inoltre Luca, che pur segue Mic 4,5, non parla di dolori del parto (come invece farà Ap 12,2), ma mostra Maria padrona di se stessa e libera nel suoi movimenti per fasciare il bambino e deporlo lei stessa nella greppia. 2. Alla seconda obiezione l'esegesi oggettiva risponde che l'incomprensione di Maria non riguarda affatto la filiazione divina, come abbiamo visto chiaramente sopra.
11 L. LEGRAND, L'Annonce, 1980, pp. 255-256.
13 Il nome di Panthera è attestato nella prosografia romana Esso non è dunque una semplice creazione di Celso a partire dal termine parthenos. La formula cristiana huios parthenou ha soltanto guidato la scelta dei calunniatori tra i nomi conosciuti. San Giovanni Damasceno (749) (De fide orthodoxa, I. 4, PG 95, 1155-58) ha curiosamente ripreso il nome di Panthera per farne un antenato di Maria: « Dunque dalla stirpe di Natan, figlio di Davide, è nato Levi. Levi generò Melchi e Panther. PANTHER generò Bar Panther, perché così si chiamava egli. Bar Panther generò Gioacchino. Gioacchino generò la santa Madre di Dio » (sopra, p. 454).
14 Rinviamo alla analisi minuziosa di I. DE LA POTTERTE su Gv 6, 42 in La Madre di Jesús, Madrid 1969, pp. 26-33. Egli schematizza la struttura chiasmica del testo, che suppone la verità conosciuta al di là del testo.
15 I. DE LA POTTERIE, La Mère de Jésus et la Conception virginale du Fils de Dieu, étude de théologie johannique, in Marianum 40 (1978) 41-90 mostra bene che le voci dei giudei avversari di Gesù fanno da contraltare (in una composizione chiasmica) alle affermazioni di Gesù, che si riferisce al suo solo Padre celeste dicendo di essere da Dio (Gv 6,46). Similmente in 1,45 la designazione di Natanaele: « Gesù, figlio di Giuseppe », è ripresa gradualmente in uno schema di rivelazione, in cui Gesù è successivamente Messia (1,45), Figlio di Dio (1,49) e Figlio dell'uomo, su cui scendono e salgono gli angeli di Dio nel senso trascendente di Daniele (1,51). In questo primo testo non v'è opposizione da parte di avversari (contraddetti da Gesù: « Non mormorate », 6,43), ma un triplice superamento della designazione empirica iniziale.
16 J. GALOT, Étre né de Dieu (Jn 1,13), Institut Biblique, Roma 1969.
17 P. HOFRICHTER, Nicht aus Blut, sondern Monogenen aus Gott geboren... Joh 1,13-14, Echter Verlag, Wurzburg 1978.
18 I. DE LA POTTERIE, La Madre de Jesús, Fe católica, Madrid 1979, pp. 35-72, 80-92 e La Mère de Jésus, in Marianum 40 (1978) 59-90. I lavori di J. Galot, P. Hofrichter e I. de La Potterie fanno solidamente prevalere la lettura al singolare di Gv 1,13, ma divergono sul senso. In ebraico il plurale « non da sangui » designa il più delle volte le elusioni di sangue (tanto per citare solo i Salmi: 5, 7; 9, 13; 26, 9; 51, 16; 55, 24; 59, 3; 106, 38; 139, 19), mentre alcuni impieghi si riferiscono all'ambito sessuale: Es 4,25-26 (circoncisione); Lv 20,18 (le mestruazioni), 12,4.5.7 e Ez 16, 6.9 (il parto). Secondo Hofrichter l'espressione « non da sangui » escluderebbe ogni causa biologica delta nascita del Verbo fatto carne: tanto il principio femminile che quello maschile. É la radicalità urtante di questa esclusione che avrebbe imposto il cambiamento del singolare: Colui che è nato, nel plurale: Coloro che sono nati. I. de La Potterie si domanda se non abbiamo qui una prima espressione della verginità in partu (nascita miracolosa senza effrazione né effusione di sangue). J. Winandy, Note complémentaire, in Nouvelle revue théologique 104 (19821 428-431, pensa che il plurale haimata (sangui) non si riferirebbe al sangue materno, ma all'ascendenza carnale, nella quale il sangue si sarebbe moltiplicato per generazione. A sostegno di questa interpretazione egli cita 2 Sam 21, 2; At 11, 26 secondo il testo occidentale e il Traité du Sanhédrin tradotto da J. Bonsirven, Texte rabbinque, Roma 1955, p. 507. Egli tradurrebbe di conseguenza: « Lui che non è nato da un'ascendenza carnale ». L'interpretazione apparentemente più ovvia, secondo la quale ek haimatôn si riferirebbe alla congiunzione del sangue paterno e del sangue materno non è esclusa. La questione è complessa e rimane aperta.
19 A. VICENT CERNUDA, La génesis humana de Jesucristo según S. Pablo, in Est. bíbl. 36 (1978) 57-77, 267-289. Vedi nella bibliografia la serie degli articoli di questo autore, tutti dedicati a questa questione.
20 A. Vicent Cernuda, articolo in preparazione su Eb 1, 6: « Quando introduce il primogenito nel mondo »: altro testimone che il mistero dell'incarnazione percorre il suo cammino controcorrente nella cultura del secolo I.
21 J. DE FREITAS FERREIRA, Conceiçao, 1980, pp. 109-114. Questo « consenso » apparente non spiega forse come Conzelmann si sia sbarazzato dei vangeli dell'infanzia per stabilire la sua teologia di Luca, l'errore più patente, oggi riconosciuto dallo stesso autore, d'una ricerca di valore?
22 R E. BROWN, The Birth, 1977, p. 526.
23 T. BOSLOOPER, The Virgin Birth, London 1962, pp. 135-167.
24 FILONE, De Cheruhin 12, 15; cf A. PAUL, Mt 1-2, 1969, pp. 70-76; R. E. BROWN, The Birth, p. 524.
25 A PAUL, L'Évangile de l'enfance selon Mt, 1968, pp. 79-88; la sua metodologia lo spinge a sottolineare più le analogie che non i contrasti.
26 R E BROWN, The Birth, p. 523.
27 Il tema « senza padre né madre » ha influenzato la concezione verginale dei vangeli dell'infanzia? E quanto ha sostenuto H. Cousin in Lumière et Vie 19-t4 n. 119, pp. 106-111, invocando l'Enoch slavo. Il carattere tardivo di questo scritto sembra escludere ch'esso sia una fonte dei vangeli dell'infanzia. Ma il tema (attestato nel caso di Melchisedek) « senza padre, né madre, né genealogia » secondo Eb 7,3, è molto antico: nell'antico Oriente « Il re è detto o si dice figlio d'un Dio o d'una dea. Questa non è una semplice immagine..., anche se la personalità degli dei mesopotamici non è ben definita. Il fedele ne percepisce l'esistenza solo attraverso i fenomeni che condizionano la sua propria vita (fisica, politica, psicosomatica, aiuto e illuminazione personale...). Gudea e Hammurapi sono figli di vari dèi e dee. Sia Giudea (verso il 2200) che Assurbanipal (verso il 660 a.C.) proclamano che dio è loro padre e che essi non hanno né padre, né madre, mentre d'altro canto Assurbanipal si proclamava figlio del suo predecessore Assarhaddon. La parentela divina non è la parentela naturale » ecc. (H. CAZELLES, Le Messie, Desclée, Paris 1978, pp. 43-44; cf  Journ Cuneiform. Stud. 1978, p. 37). Nella lettera 286 d'El Armana (ed. S. A. A. MERCER, Tell-el-Armana Tablettes, Toronto 1939, p. 707, riga 9) Abedi-Iba, re cananeo di Gerusalemme (1350 aC) scrive al faraone ch'egli non ha né padre, né madre, secondo alcune traduzioni. Ma bisogna tradurre: « Né mio padre, né mia madre m'hanno stabilito in questo luogo ». Questi resti hanno tutt'altra problematica e tutt'altro contenuto della concezione verginale. La paternità divina si articola con la paternità umana (sia per questi re che per i faraoni). Invece in Luca 1 e Matteo 1 la figliazione divina esclude il padre umano, e Dio non svolge affatto il ruolo del padre umano, ma un ruolo trascendente. L'evoluzione concettuale non farà che esplicitare questo dato soggiacente a Luca 1 e Matteo 1, parlando della preesistenza di Cristo e dicendo ch'egli « è divenuto ciò che non era, senza cessare di essere quel che era: Figlio di Dio » da sempre, secondo una concezione di Dio ben diversa da quella delle religioni circostanti. Questa espressione affiora già in Paolo, come vedremo più avanti. Egli evita di parlare di incarnazione, di umanizzazione e anche della nascita di Cristo e preferisce dire che Gesù è « divenuto » uomo (Rm 1,3; Ga 4,4; cf Rm 8,3; Fil 2,7; similmente Eb 1,6 e le monografie di A. Vicent Cernuda ). La diagnosi perentoria di A. Vanhoye, il quale ricusa ogni distinzione fra gennaô (escluso) e ginomai (il solo adoperato da Paolo) e attribuisce il consenso stabilito su questa distinzione (Legault, Schlier, Grelot ecc.) a una ripetizione irriflessa di Lagrange, ci sembra misconoscere la complessità del problema filologico, semantico e culturale soggiacente (Marianum 40, 1978, 237-247).
28  Una gestazione di sette mesi è attribuita a: - Isacco: « L'ho formato nella matrice di colei che lo partorì, comandandole di rendermelo in fretta al settimo mese. Per questo ogni donna che partorisce il settimo mese vedrà vivere suo figlio, perché io ho chiamato su di lui la mia gloria » (PSEUDO-FILONE, Antichità bibliche 23, 8, ed. Sources, pp. 186-187); - Samuele è stato allegato in questo stesso senso secondo Filone, LAB 51, 7. in Rech. Sc. rel. 1967, p. 496, ma l'edizione definitiva di Filone, LAB (Sources 229, p. 236) non permette di chiamare in causa questo caso. - Maria, secondo il Protovangelo di Giacomo 5,2, ed. Strycker, pp. 86-88: « Il settimo mese Anna partorì ». Ma il Protovangelo non precisa la durata della gestazione di Gesù e rispetta su questo punto la sobrietà del vangelo.
29 « Una gestazione di dieci mesi » è attribuita a Pollione dalla quarta Egloga di Virgilio verso 61 (c. 40 a. C ) Da una vergine (verso 6) nasce il suo eroe dell'età dell'oro e della pace. Ma non si tratta di concezione verginale. La madre è la Signora Giustizia e la sua famiglia è puramente simbolica. I Padri della Chiesa hanno celebrato questa anticipazione poetica. Ma Girolamo, l'esegeta, non si è lasciato ingannare al riguardo e ha visto in essa un prodotto confuso dell'ignoranza (Lettera 53, PL 27, 544-545). Cf M. J. LAGRANGE, Le prétendu messianisme de Virgile, in Rev Bih 31 (1922) 552-572 ricca bibliografia in R. E. BRO~X~N, The Birth, 1977, pp. 564-570.
30 R. E. BROWN, The Birth, p. 528.
31 Luca non si limita a collocare la figliazione divina prima della figliazione davidica (diversamente dal testo fonte di 2 Sam 7,14 e con ben altro rilievo), ma in questo contesto chiama Dio l'Altissimo (Hypsistos: designazione molto rara nel Nuovo Testamento: 9 volte). Tale designazione connota la trascendenza (l'altezza) e nello stesso tempo la preesistenza.


 

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