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  La Grande Panaghia del Segno di Jaroslav 
Arte

Da Sante Bambolin, Maria Tempio di Dio, in AA. VV., Maria e l'Eucaristia, Centro di Cultura Mariana "Madre della Chiesa", Rom1 1999, pp. 247-258.



 L’icona della Grande Panaghia richiama il tema antico dell’orante, della donna velata con le mani alzate in atteggiamento di preghiera: simbolo della pietas, dell’anima del defunto, del fedele che si rivolge a Cristo. Mi sembra che da questo tipo, attraverso lenti passaggi (l’orante con le sembianze del defunto, l’orante come l’anima fedele, l’orante come simbolo della Chiesa in preghiera), si sia giunti a quello della Madonna Orante, dando alla figura dell’orante il volto definitivo della madre di Cristo, che diventa così l’Orante per eccellenza, la madre del Cristo e della sua Chiesa. Pregare in piedi, con le braccia distese e le palme delle mani rivolte verso l’alto, era il gesto di preghiera più naturale e più antico, sia presso i giudei che presso i pagani. I cristiani l’assunsero, seguendo anche una loro convinzione di fede, bene espressa dall’esortazione dell’apostolo Paolo: «voglio che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure, senza ira e senza contese» (1Tm 2, 8). I Padri della Chiesa approfondirono il significato di questo gesto, collegandolo alle braccia allargate dal Cristo sulla croce; e nel rito bizantino, ogni sera la Chiesa canta: «come incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera» (Sal 140, 2). Ora per comprendere questa icona con lo sguardo penetrante dei profeti, mi sembra necessario illustrarne il soggetto con alcuni testi biblici e liturgici e precisare il tipo realizzato dalla Grande Panaghia, per poi descriverla, evidenziandone il semantismo cromatico ed astratto, che sembra sintetizzarsi nella stessa figura cruciforme della madre.

Alcuni testi sul tema

Il testo biblico che dà il tema all’icona recita così: «Il Signore continuò a parlare ad Achaz: “Chiedi per te un segno dal Signore tuo Dio, profondo come l’abisso oppure eccelso come il cielo”. Ma Achaz rispose: “non lo chiederò e non metterò alla prova il Signore”. Allora Isaia disse: “Ascoltate, o casa di Davide, è forse poco per voi stancare gli uomini, che stancate anche il Signore mio Dio? Pertanto il Signore stesso darà un segno: ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio e lo chiamerà Emanuele”» (Is 7,10-14). Achaz, re di Giuda (736-716), si rifiutò di entrare in coalizione con Retsin, re di Aram, e Pecach, re d’Israele, contro l’Assiria; allora costoro lo assediarono. Achaz, dapprima incerto, contro il consiglio di Isaia, si appellò al re dell’Assiria, Tiglat-Pilezer, il quale venne a sconfisse Retsin e Pecach. Damasco perse così la sua indipendenza nel 732; più tardi, nel 721, anche Samaria perse l’indipendenza; e infine anche Giuda dovette pagare un tributo all’Assiria. Il segno che il Signore liberamente diede ad Achaz, per incoraggiarlo a decidersi e a confidare in Lui, fu la nascita d’un suo figlio. Però per tutto il contesto e per l’interpretazione globale posteriore, tale fatto assunse poi un significato messianico: la vergine diventa Maria e l’Emanuele divenne il Messia. Tale interpretazione è confermata dal vangelo di Matteo, il quale dopo aver narrato come avvenne la nascita di Gesù Cristo, commenta: e «tutto questo avvenne, perché‚ si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio, che sarà chiamato Emanuele, che significa Dio con noi”» (Mt 1, 22-23). Nella Liturgia il soggetto viene celebrato con questo ottoico di S. Giovanni Damasceno, nei vespri della domenica (1° tono): «Celebriamo la gloria di tutto l’universo, Colei che dagli uomini fu seminata e genera il Signore, la celeste Porta, Maria la Vergine, canto degli Incorporei e vanto dei fedeli. Ella fu mostrata Cielo e Tempio della Divinità; ella, dopo aver abbattuto il muro dell’inimicizia, introdusse la pace, ed aprì l’abitazione regale. Pertanto, possedendo costei come àncora della fede, abbiamo a difensore il Signore da lei generato. Si faccia animo dunque, si faccia animo il popolo di Dio: che egli, l’Onnipotente, farà guerra ai nemici! Ecco s’è adempiuta la profezia di Isaia: da Vergine infatti generasti, e dopo il parto rimanesti come prima, poiché‚ era Dio il generato che rinnova le nature. Deh! Madre di Dio, non trascurare le suppliche dei tuoi servi, ma, o tu che porti sulle braccia il Pietoso, muoviti a pietà dei tuoi servitori, ed intercedi perché‚ siano salvate le anime nostre. Avendo Gabriele fatto a te risuonare, o Vergine, l’Ave, con quella voce prendeva carne nella santa tua arca, come disse il giusto David, il Signore di tutte le cose. Apparisti più ampia dei cieli, avendo portato il tuo Creatore. Sia gloria a Chi ha in te inabitato, sia gloria a Chi da te è proceduto, sia gloria a Chi ci ha liberato, mediante il tuo parto».1 Altro testo assai significativo, per il nostro tema, è il megalinario jEpi; soi; caivrei, cantato dal coro nella liturgia bizantina di san Basilio: «In te, o piena di grazia, si rallegra tutta la creazione: il coro degli angeli e tutto il genere umano; o santa dimora e spirituale paradiso, vanto delle vergini! Da te Dio ha preso carne ed è diventato Bambino, Lui che fin dall’eternità è il nostro Dio. Infatti Egli fece Suo trono il tuo seno, rendendolo più vasto dei cieli. In te, o piena di grazia, si rallegra tutta la creazione».

Iconografia dell’Orante

Il gesto dell’orante, compiuto anche oggi dal sacerdote durante la celebrazione eucaristica, è molto antico: «S’incontra all’inizio del terzo secolo sugli affreschi catacombali: 1) con valore prettamente simbolico, come immagine dell’anima del defunto; 2) spesso con l’aggiunta del nome, come rappresentazione di una determinata persona, la cui individualità viene accentuata da un ricco vestiario specifico; 3) come la più antica raffigurazione catacombale di personaggi veterotestamentari che, salvati da una situazione penosa, possono essere considerati, in certo qual modo, prototipi del defunto: Noè nell’arca, Abramo ed Isacco, gli adolescenti nella fornace, Daniele nella fossa dei leoni, Daniele e Susanna».2 Più tardi, a partire dai secoli nono-decimo, viene raffigurato, sul petto della Vergine Orante, un medaglione recante l’effigie di Gesù Bambino. Nasce così un nuovo tipo d’icona mariana, chiamato anche Madonna del Segno. Infatti «dopo la vittoria sulle eresie iconoclaste, si diffusero diverse composizioni del Salvatore Emanuele in un medaglione, talvolta con un nimbo a croce: il cerchio, nella semantica medioevale, era simbolo dell’eternità. L’abbinamento del Logos eterno, il Salvatore Emanuele, con un’immagine della Madonna è il mistero della nascita del Divino in mezzo agli elementi umani».3 In Occidente, con la fine dell’arte catacombale, si andò perdendo questo modello; in Oriente invece, soprattutto in territori slavi, il tipo dell’Orante, la Madonna del Segno (Znamenie), rimase fino ai nostri giorni. Mi sembra però che per cogliere, in profondità, il significato di questa icona, si debba idealmente collocarla nel posto assegnatole dall’iconostasi classica, nella quale essa si trova in seconda fila, quella dei profeti, come compimento della profezia di Isaia sull’Emanuele, ed occupa quindi un posto centrale, sotto la Trinità e sopra il Cristo della Deesis: è lei quindi il ponte tra l’antica e la nuova Alleanza. «L’ordine dei profeti rappresenta la Chiesa veterotestamentaria, da Mosè fino a Cristo, il periodo sotto la legge. Comprende immagini dei profeti che reggono anch’essi dei rotoli, con i rispettivi brani profetici riferiti all’Incarnazione. Al centro di quest’ordine, l’icona della Madre di Dio del Segno, con il Bambino sul grembo; è il segno annunciato dal profeta: “Ecco, una Vergine concepirà, partorirà un Figlio e sarà chiamato Emmanuele” (Is 7, 14), che significa “Dio con noi” (Mt 1, 23)».4 Talvolta la Vergine Orante è collocata anche nell’abside del santuario ed è perciò chiamata la Vergine Platytera, la più estesa dei cieli perché‚ contiene, nel suo grembo, la persona del Verbo creatore, per il quale è stato fatto tutto ciò che esiste. In questo modo l’Orante fa corpo con il muro; di qui, la Grande Panaghia è anche denominata Muro incrollabile, quasi a sottolineare la sua intercessione e protezione a favore dei fedeli raccolti in preghiera. Si veda il mosaico della Vergine con Bambino nell’abside del duomo dell’isola di Torcello (Venezia, sec. XIII). Evidentemente la Vergine Platytera testimonia la divina maternità di Maria, ossia la divinità del Figlio nato Uomo da lei. «Il termine Platytera, per designare la Madre di Dio, si è propagato dopo il Concilio di Efeso, ma si legge per la prima volta in un papiro del sesto secolo. Eccone il testo: “Ave, Madre di Dio, o pura di Israele! Ave, o tu il cui seno è più vasto dei cieli! Ave, o Santa, o Trono celeste!”».5

Descrizione dell’icona

La figura eretta della Grande Panaghia di Jaroslav si caratterizza per una grande simmetria: braccia aperte, i due cerchi degli arcangeli in alto fanno simmetria con le estremità del tappeto in basso. I bordi del maphorion (mantello) tracciano una linea ascendente parallela a quella tracciata dalle braccia alzate in atteggiamento di preghiera. «Sul suo petto c’è un medaglione che reca un’immagine di Cristo Emanuele con le mani aperte in atto di benedizione. Nell’angolo destro superiore si trova un cerchio con un’immagine di S. Gabriele arcangelo. L’icona è solenne e monumentale, e viene identificata con l’immagine della Chiesa, “colonna e sostegno della Verità” (1Tm 3, 15). Il volto rivela sapienza, e la sua bellezza casta si unisce misteriosamente a grande ieraticità».6 La Vergine è rappresentata in piedi, nel gesto della donna velata orante; nel capo velato, il volto perfetto è raccolto dal mantello rosso ciliegia, come da un casco. Il corpo è coperto da una lunga veste verde, che lascia vedere appena le punte delle scarpe rosse; è rivestito in modo da farne quasi una colonna: particolare che accentua la posizione eretta della Vergine e che richiama il suo gesto coraggioso di stare ritta ai piedi della croce. Inoltre la lunga veste, anche per il suo colore, richiama certamente la pienezza di santità, che è in lei, per la sua carità. Si legge infatti che «la veste di lino sono le opere giuste dei santi» (Ap 19, 8). I piedi poggiano sul tappeto rosso, come conviene ad una regina. Il mantello copre il capo, le spalle e, sollevato armonicamente dalle braccia aperte in segno di preghiera, copre il petto con ricchi drappeggi e cade ai fianchi, evidenziando la veste e quasi offrendo protezione. Sopra il mantello, sul capo e sulle spalle, sono disegnate tre stelle con otto punte, segno dell’integrità verginale e della regalità di Maria. Le stelle, che si trovano quasi sempre in tutte le icone della Vergine, significano che Maria resta vergine, fisicamente e spiritualmente, prima, durante e dopo il parto. Sant’Agostino commenta scrivendo: «Rallegriamoci, fratelli, gioiscano e si allietino le genti. Questo giorno per noi venne reso sacro non dall’astro solare che vediamo, ma dal suo Creatore invisibile quando, divenuto visibile per noi, lo partorì la Vergine Madre, feconda pur rimanendo integra, anche lei creata dal Creatore invisibile. Vergine nel concepirlo, vergine nel generarlo, vergine nel portarlo in grembo, vergine dopo averlo partorito, vergine per sempre [Concipiens virgo, pariens virgo, virgo gravida, virgo feta, virgo perpetua]» (Discorso 186, inizio). Però le stelle probabilmente significano anche la regalità di Maria: sulla stella del capo talvolta si centra l’aureola, e i servi nell’antichità baciavano le spalle dei loro signori. Il medaglione sul petto contiene Gesù Cristo, per significare il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio: Gesù fiorisce dalla carne di Maria, come stelo da seme che si depone in colei che da secoli lo Spirito di Dio preparava come culla e trono del Cristo. Gesù indossa il chitòn, che sembra un lembo del mantello della madre, con sopra l’himàtion, e apre le braccia fino ad uscire dal cerchio, con un gesto di abbondante benedizione. Sopra le mani di Maria altri due cerchi raccolgono la rappresentazione degli arcangeli Michele e Gabriele, che mostrano il monogramma di Cristo in un cerchio bianco. I colori usati, su giallo oro, sono il bianco, il verde e il rosso nelle sfumature della porpora e dello scarlatto. Il giallo oro costituisce il fondo, così che la figura esce dalla luce, ma forma riflessi luminosi anche sugli altri colori con leggere striature d’oro. Bianche sono le aureole della Vergine, del Cristo e degli arcangeli; bianchi sono pure i cerchi che contengono gli arcangeli e il monogramma di Cristo; è il bianco della gloria divina e dell’immortalità. La veste della Vergine è verde: colore della giovinezza e della fecondità, che serve ad esprimere l’amore che dà vita e quindi le opere della carità. I grandi riflessi gialli dorati rendono luminoso il verde ed accentuano la simbologia della santità, realizzata con la pratica dell’amore. Rosso porpora sono il chitòn del Bambino e il mantello della Vergine, per significare che il Re e la Regina stanno insieme. Rosso scarlatto sono l’himàtion, portato dal Cristo, e il tappeto sul quale la Vergine poggia i piedi con scarpe purpuree. Il rosso scarlatto, reso splendente sulle spalle di Gesù dai riflessi d’oro, richiama il manto scarlatto che i soldati di Pilato gli misero addosso (Mt 27, 27-29) e quindi la sua regalità derisa durante la passione e il supplizio della crocifissione; offre quindi anche un chiaro riferimento alla redenzione dell’uomo a prezzo del suo sangue e alla remissione dei peccati. Il tappeto, sul quale la Vergine poggia i piedi, è forse quella «terra santa» (Es 3, 5) sulla quale Mosè stette a piedi scalzi: è la situazione nuova dell’uomo redento; e lei, la madre, è il primo frutto della redenzione, la prima concittadina dei santi che vi può sostare con i piedi calzati.

Lettura del simbolismo astratto

L’icona è un rettangolo verticale, con i lati nella proporzione di 3 a 5, suddiviso in quindici piccoli quadrati, disposti in tre colonne di cinque quadrati e in cinque file orizzontali di tre quadrati, in modo da formare una specie di reticolato, nel quale ad ogni particolare è assegnato il suo posto. L’ottavo quadrato, quello mediano della terza fila, raccoglie il grembo della Vergine e contiene il centro d’irradiazione di tutta l’icona, il punto di vista interno, espresso da un triangolo ideale con la punta rivolta allo spettatore, cui suggerisce la posizione da interiorizzare per potersi costruire l’icona nel suo immaginario. Il numero otto, che cade nel quadrato centrale, è probabilmente simbolico, perché‚ risulta «l’ottavo quadrato» comunque si contabilizzino i quadrati del reticolato. L’otto infatti richiama l’ottagono, forma preferita dai battisteri, e designa «l’ottavo giorno», il giorno della risurrezione del Cristo, il primo dopo il sabato (dopo il sette), il giorno senza tramonto dell’azione liturgica e la rigenerazione a vita nuova. Il maphorion della Vergine suggerisce un quadrilatero che ha la forma di un trapezio isoscele, ossia di un triangolo isoscele con il vertice fuori dell’icona: è la preghiera della Chiesa che sale a Dio Padre, affinché il suo Regno venga. Visti verticalmente, i quindici quadrati formano tre rettangoli verticali di cinque quadrati ciascuno. I cinque quadrati mediani strutturano il rettangolo riservato al corpo dell’Orante: scendendo, il primo quadrato contiene il capo aureolato della Vergine; il secondo, il medaglione del Bambino; e gli altri tre, la colonna del suo corpo, dalla cintola ai piedi. I rettangoli laterali sono riempiti, in modo simmetrico, dai medaglioni degli arcangeli, dalle braccia alzate dell’Orante, dal panneggio del suo mantello e dalle sporgenze del tappeto. Visti orizzontalmente, i quindici quadrati formano due quadrilateri: un quadrato (le tre file inferiori) sormontato da un rettangolo orizzontale (le due file superiori). Dal quadrato sale la preghiera della terra, espressa dal trapezio isoscele; anzi il quadrato sembra perdere la sua rigidità, trasformandosi in trapezio: non sarà forse il cuore di pietra che si intenerisce e diventa un cuore di carne? Dal rettangolo superiore, dalla Vergine aureolata tra gli angeli, scende il frutto dell’Incarnazione, il Dio Bambino, l’Emanuele che si offre allo spettatore nel grembo fecondo dell’Orante, ossia nella sua Chiesa. La parte superiore dell’icona raccoglie in perfetta armonia tre cerchi, due alle estremità della prima fila e uno mediano nella seconda fila; i due superiori formano come un’asta di stendardo; e, più sotto nel mezzo, il cerchio, nel quale sta il Cristo benedicente, segna un movimento in discesa. Infatti la disposizione dei tre medaglioni suggerisce un triangolo con la punta verso il basso, movimento discendente enfatizzato dalla posizione delle braccia dell’Orante: alla preghiera della Vergine Orante, il Cielo risponde con la Benedizione del Verbo, fattosi carne nel suo grembo, offre a tutti la possibilità di diventare figli di Dio.

La madre cruciforme

Il corpo della Vergine sta, come colonna e fondamento della rivelazione, nel mezzo dell’icona e riempie la serie centrale dei cinque quadrati del reticolato, mentre le braccia si aprono in forma di croce, così che i quadrati, occupati dal corpo dell’Orante, formano una croce nell’icona. Se teniamo poi presente il posto assegnato all’icona nell’iconostasi, la Madonna del Segno, che fa da ponte tra la Trinità di Dio (nella fila dei patriarchi) e la Deesis (nella fila dei santi intercessori neotestamentari), si trasforma in Croce: l’Orante diventa Croce. Il Cristo, Verbo incarnato, prima di stendersi sulla croce di legno del Calvario, si distende nella croce di carne di sua madre. È il suo processo kenotico che lega in un mistero unico incarnazione, passione, morte e risurrezione: «Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 6-11). Si specifica così il significato della discesa: il triangolo, che indica chiaramente la discesa del Figlio di Dio che prende carne nel grembo della Vergine, significa pure la morte in croce del Cristo. Proprio sulla via dell’Incarnazione il Verbo di Dio incontra la Croce, la croce del corpo della madre, che è poi la Chiesa. La croce, davanti alla Trinità di Dio, diventa l’eterna Orante: è il Cristo, Agnello immolato «prima della creazione del mondo» (1Pt 1, 19-20), che offre se stesso; è la Chiesa che con Cristo offre se stessa. Nell’icona l’offerta è rivolta allo spettatore, che, se l’accoglie, può ricostruirsi l’icona collocandosi nel quadrato ottavo, nel grembo dell’Orante, per realizzare in sé il mistero pasquale della morte e della risurrezione.

NOTE
1 G. GHARIB, Le icone mariane, Città nuova, Roma 1987, p. 160.
2 G. HEINZ-MOHR, Lessico di iconografia cristiana, Istituto Propaganda Libraria, Milano 1984, p. 254.
3 V. IVANOV, Il grande libro delle icone russe, Paoline e Patriarcato di Mosca, Torino 1987, p. 35.
4 L. USPENSKIJ, La teologia dell’icona: storia e iconografia, La Casa di Matriona, Milano 1995, p. 186.
5 G. GHARIB, Le icone mariane, op. cit., p. 165.
6 V. IVANOV, Il grande libro delle icone russe, op. cit., p. 29.
 

Inserito Domenica 12 Giugno 2016, alle ore 23:16:57 da latheotokos
 
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DOCENTE ALL'ISSR "SAN LUCA" DI CATANIA

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