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  La nascita di Cristo Signore in Luca 2,1-20 
Bibbia

Dal libro di René Laurentin, I Vangeli dell'infanzia di Cristo. La verità del Natale al di là dei miti, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1986, pp. 241-262.



La sequenza del Natale è ben indicata da un triplice cambiamento di tempo (sei mesi), di luogo (Betlemme) e di agenti1: dopo Giovanni Battista e i suoi genitori è la volta di Giuseppe, di Maria e di Gesù. AI1'interno di questa sequenza, che comincia con egeneto, i cambiamenti topografici e attoriali, ugualmente punteggiati da egeneto (2, 6.15; cf 2,13), daranno vita a quattro sub-sequenze nella continuità progressiva del tempo:
1 Il censimento, in cui Giuseppe e il solo agente del trasferimento da Nazaret a Betlemme (2,1-5).
2. La nascita di Gesù (2, 6-7), in cui Maria (apparsa nell'orbita di Giuseppe 2,5) diventa il solo agente a soggetto (per il parto)
3 L'annuncio ai pastori (2,8-14): nuovi soggetti, soli beneficiari della triplice manifestazione celeste l'angelo del Signore, la gloria del Signore, quindi l'esercito celeste.
4. La visita dei pastori alla greppia (2,15-20) e la triplice ripercussione della loro congiunzione con Cristo diffusione della buona novella (2,17), meditazione di Maria (2,19), azione di grazie dei pastori (2,20), di modo che questa scena finisce nella lode, come la visitazione.

1. Il censimento: 2, 1-5

La sequenza di Natale comincia come quelle precedenti con un programma terreno, che sfocia nell'irruzione inattesa d'un programma celeste, in cui Dio si manifesta. Qui il programma terreno è quello del potere supremo: «Cesare Augusto», cui si deve lo stabilimento dell'ordine romano. Tale potere si affaccia prima che sappiamo come gli agenti di Luca2 saranno da esso interessati: «Or avvenne in quei giorni un decreto, emesso da Cesare Augusto, affinché fosse censito tutto l'universo» (pasan ten oikoumenên: Lc 2, 1). Cesare Augusto non gioca solo il ruolo d'un dato cronologico come Erode in 1,5 o Tiberio Cesare in 3,1. Egli è posto nel ruolo di destinatore universale, con ridondanza del termine greco pas (tutto, in 2,1.3). Egli intende censire la totalità del «mondo abitato» (oikoumenê). Tutto il potere è incentrato su di lui, ignorando quel che è al di fuori della sua presa. L'imperatore, destinatore universale, ingloberà quindi il Messia e i suoi genitori. Il seguito localizza il censimento menzionando l'autorità regionale e sottolineando il carattere universale e migratorio della misura: «Questo primo censimento avvenne quando Quirinio era governatore della Siria3, e tutti andavano a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe salì dalla Galilea, dalla città di Nazaret, verso la Giudea, alla città di Davide chiamata Betlemme, perché egli era della casa e della discendenza di Davide» (2, 24).  Si passa dal gradino supremo e universale, caratterizzato dalla ridondanza del termine tutto, al caso individuale di Giuseppe. Questo personaggio finora passivo e senza impiego trova qui, per la prima volta, un ruolo attivo: egli realizza questo viaggio imposto, che la prima parola greca della frase, anebé, presenta come una salita. Il racconto è attento a indicare l'ascendenza dei movimenti, che si dipartono da Nazaret (luogo basso), punto di partenza dell'evento principale (1,26-38), in direzione di Gerusalemme, luogo alto per la sua altezza e per la sua importanza di capitale e di unico luogo di culto. Si tratta della seconda delle quattro salite, che punteggiano Luca 1-2: dalla visitazione (nelle colline di Giuda) alle due salite a Gerusalemme, che chiuderanno il vangelo dell'infanzia (2,22-52). Il racconto non drammatizza l'esodo della Sacra Famiglia, come farà la tradizione successiva, né drammatizza la sua povertà, che tuttavia esprimerà in termini di privazioni e anche di rigetto (2,7). L'insistenza e tutta sulla topografia. Luca oppone con una precisione eccezionale le due regioni, Galilea e Giudea, e le due città (questo termine e ripetuto), che sono il punto di partenza e il punto di arrivo, Nazaret e Betlemme. Quest'ultima è subito enfaticamente indicata come la «città di Davide». L'espressione è strana, perché questa locuzione, usata una cinquantina di volte nella Bibbia, indica Gerusalemme, la capitale conquistata dal fondatore della dinastia. Luca elimina subito l'ambiguità precisando: «chiamata Betlemme»; lui che è ordinariamente vago in materia topografica (cf  Lc 1,39), enuncia qui i nomi e le regioni con un'abbondanza eccezionale di precisazioni per evitare ogni confusione; Egli preferisce collegare Gesù alle umili origini di Davide a Betlemme piuttosto che alla gloria regale di Gerusalemme; perché propende per la povertà, per la povertà di Cristo alla nascita, dopo quella di sua madre in 1,48, e per quella dei pastori che caratterizzeranno la scena. Gerusalemme acquisterà più avanti tutta la sua importanza (2,22ss.) su un registro per nulla politico, bensì religioso, a motivo del tempio e del culto e senza riferimento a Davide; se questi è menzionato qui con insistenza (2,4.5.11), lo è per identificare il luogo: della nascita di Gesùi con il luogo della sua origine. Il viaggio a Betlemme è presentato come l'applicazione particolare del principio generale «che tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella sua città». Giuseppe collocato nel suo ruolo di figlio di Davide (menzionato in 1,27: «della casa di Davide»; ripreso in 1,69 e 2,4). Si tratta della cerniera stessa del racconto, risultante tanto più deliberata in quanto Betlemme viene caratterizzata con l'aggettivo possessivo («SUA città»), in apparente contraddizione con 1,27 e soprattutto 2,39, ove Nazaret è indicata come la città dei genitori di Gesù: «LORO città». Il testo precisa con una certa ridondanza che questa città è il luogo di origine (oikos: casa) e di discendenza (patria: 2, 4). Non si vede ancora dove il racconto intende parare, né in che modo riguardi Cristo, poiché la paternità di Giuseppe è stata esclusa in 1,33-35. Il versetto 5 progredisce verso l'essenziale. Esso ci dice che non soltanto Giuseppe a a farsi registrare. Egli sale a Betlemme «per farsi censire con Maria, sua fidanzata, che era incinta» (2,5). Giuseppe è congiunto a Maria, congiunto al Messia in gestazione. Il censimento riguarderà dunque due persone e ben presto tre, poiché il bambino nascerà a Betlemme. Vediamo così compiersi il programma, che era stato posto nell'annuncio dell'angelo a Maria: «Il Signore gli darà il trono di Davide, suo padre» (1,32). Questo oracolo era un'eco della profezia messianica di Natan (2 Sam 7,12-17). Secondo una progressione considerevole Lc 2,4-14 non reimpiega più tale profezia, bensì Mic 5,1-5: «E tu Betlemme di Efrata, la più piccolo dei clan della Giudea, da te nascerà colui che deve regnare su Israele (cf Lc 1, 32-33) nel tempo in cui partorirà colei che deve partorire (stessa ripetizione di questo verbo in Lc 2,7). Egli pascolerà il suo gregge e sarà grande (cf Lc 1, 32...). Egli sarà Pace (termine ripreso dal cantico degli angeli in 2,14: Pace in terra)». Questo oracolo di Dio, destinatore supremo, risuona in contrasto col programma del legislatore Cesare Augusto, posto in 2,1. L'ironia del racconto sta nel fatto che il censimento, cui Gesù si sottomette passivamente («per essere censito»: 2,5), manifesta la sua qualifica regale e sovrana di Messia. Tale qualifica davidica mediante Betlemme (città di Davide) sarà confermata dall'oracolo celeste, che lo dichiarerà Messia-Signore (2 11), re «il cui regno non avrà fine», secondo Lc 1,33. Dio destinatore (autore delle profezie e degli oracoli) si serve del potere cieco di Augusto (grande manipolatore delle popolazioni) per autenticare il Re-Messia come discendente del fondatore della dinastia (prova qualificante per il Re-Messia). Tale qualificazione come figlio di Davide era necessaria agli occhi del popolo, che darà tanto spesso a Gesù questo titolo. Luca non aveva ancora manifestato in che modo Gesù, che non era figlio di Giuseppe, poteva ben meritare il titolo di figlio di Davide. Egli fonda tale qualificazione sulla sola congiunzione topografica: cosa sottolineata dal curioso reimpiego del termine emneusteumene per qualificare Maria come sua fidanzata «incinta» Se il termine «fidanzata» stava bene in 1,27, stupisce al momento della nascita e della coabitazione ufficiale, secondo Mt 1,18-25, tanto che numerose versioni preferiscono tradurre «sua sposa». Tale termine insolito ha la funzione di ricordare (nella scia di Lc 1,34) che Maria «non conosce uomo» e che Gesù non è figlio di Giuseppe. Esso indica anche che Maria fa questo viaggio non a titolo di figlia di Davide (Luca non le dà questa qualifica, così come non gliela dà Matteo), ma con Giuseppe, capofamiglia e erede di questa discendenza regale, sottomesso al decreto di Cesare Augusto. Ella lo accompagna perché concessagli in matrimonio, legame giuridico questo più forte dei fidanzamenti occidentali, dal momento che Luca tace sulla conclusione ufficiale del matrimonio e sulla coabitazione (Mt 1,20-25).

2. La nascita: 2,6-7

Nd racconto della nascita Giuseppe scompare. La funzione di soggetto passa a Maria soltanto. La nascita è descritta con una sobrietà sorprendente, a confronto del racconti haggadici della nascita di Mose o dei ricami poetici di Virgilio sulla nascita del suo messia Pollione; Questa sub-sequenza centrale comincia con un nuovo egeneto enfatico: «E avvenne che, mentre erano là, si compirono i giorni del suo parto, ed ella partorì il suo figlio primogenito. Lo avvolse in fasce e lo adagiò in una greppia, perché non c'era posto per loro nel caravanserraglio»(2, 6-7). Tutta l'attività è attribuita alla sola Maria. Lei partorisce, lei fascia e depone il bambino, senza che nulla faccia pensare a difficoltà, dolore o intervento ostetrico, come immaginerà meno di un secolo più tardi il Protovangelo di Giacomo (19-20), facendo accorrere levatrici, inutili per il parto, utili per la constatazione della verginità. Maria avvolge in pannolini e adagia lei stessa il figlio nella greppia. Lei è il soggetto del fare in questo programma terreno. Dato che Luca reimpiega Michea 4-5, che sembra identificare la Madre del Messia, identificando Maria con la Figlia di Sion (4,10)5, stupisce ch'egli racconti la nascita di Gesù senza il minimo riferimento a Mic 4, 9-10: «Il dolore t'ha colpito come la donna che partorisce, Contorciti dal dolore e grida, Figlia di Sion, come la donna che partorisce, perché ora uscirai dalla città e dimorerai in piena campagna... Là tu sarai liberata». Luca ripete due volte il termine partorire, come la sua fonte Mic 5,2, ma elimina ogni dolore. Descrive Maria serena e libera nei suoi movimenti: particolare che ha esercitato un influsso sulla tradizione cristiana del parto senza dolore6. Egli colloca la nascita nella città di Davide (termine ripetuto con insistenza: 2,3.4.11), non nella campagna, che troviamo nel versetto seguente coi pastori. Il tema dell'esilio non è, al suo posto in Luca 2, poiché il racconto insiste sul rimpatrio del Messia nella «patria» (2,4). Giuseppe, che era tutto per la localizzazione della nascita, non è più niente per la nascita in quanto tale di Gesù. La povertà di questi e manifestata indubbiamente senza accenti drammatici, ma non senza un vigore sobrio. Gesù è avvolto in fasce, legato, coricato in una mangiatoia, luogo specifico per animali, come risulterà più esplicitamente in Lc 13,15. Gesù nascente non è qualificato come infante (brephos, che troveremo in 2,12.16), ma anzitutto come «primogenito» (2, 7), termine raro ma di grande valore nel Nuovo Testamento8. Esso connota la nuova creazione. L'impiego dell'articolo determinativo, ton huion prótotokon (che Lc 2,4.11 ha omesso per indicare la città di Davide), sottolinea l'importanza che Luca annette a questo titolo. Il termine significa a volte figlio unico (monogenês: Salmi di Salomone 13, 8; 18,'4; 4 Es 6,58), fa parte del vocabolario corrente e non altera la modestia della descrizione. Esso conviene all'erede regale e al Figlio di Dio, ma ha soprattutto la funzione di preparare il seguito: la consacrazione dei primogeniti (2, 23). La povertà significata dalla mangiatoia è spiegata col fatto che non c'è posto per essi nel katalyma9. Questo termine indica un luogo ospitale, che il contesto inviterebbe a tradurre con caravanserraglio: il khan, aperto ai viaggiatori delle carovane di passaggio; ma può trattarsi d'un alloggio ospitale, ove non c'era posto nella sala di soggiorno. La Sacra Famiglia si sarebbe allora accomodata per il parto nella sala annessa, che serviva da stalla. Di qui la mangiatoia. La sfumatura «non c'era posto per essi» (en autois topos en to katalymati, 2,7) può riferirsi alla condizione pregnante di Maria (cf 2,5). Il parto avrebbe imbarazzato gli altri: «Ils n'avaient pas leur place dans l'hotellerie», traduce E. Delebecque, Evangile de Luc, Paris 1976, pp. 11-13, cioè la locanda non era un posto per loro. Il tema sarà ripreso e rafforzato dal prologo di Giovanni (1,11), basato riga dopo riga su Luca 1-2: « Egli venne in casa sua (cf  la sua città, Lc 2,3), e i suoi non lo ricevettero» (Gv 1,11). Il Messia nasce nell'u-topia, nel senso etimologico di questo termine, che significa non-luogo. Certo, egli nasce in una città davidica e regale, che gli è consona, ma in questo luogo non c'è posto per lui. La povertà, che sarà messa pienamente in risalto nel vangelo di Luca, comincia dalla sua nascita. Gesù condivide la situazione povera e precaria dell'antenato Davide, antecedentemente alla sua promozione, e quella dei pastori che stanno per comparire, cosa che suggerisce l'isotopia tra il termine mangiatola (2,7.12. 16), pastori (2, 8.15.17.18.20), gregge (2,8). Tale isotopia'accosta il Messia a Davide, ai pastori, ma anche ai pastori (poimenes) della Chiesa, nella quale e stato scritto il vangelo, perché questi pecorai del Natale assumeranno simbolicamente, la funzione di evangelizzatori10.

3. L'annuncio ai pastori: 2, 8-14

La sequenza successiva debutta con la presenza di nuovi agenti, in un luogo nuovo benché vicino (stacco azionale e topografico): «Vi erano dei pastori in questa regione (chora connota i campi e la campagna), che vegliavano accampati le vigilie della notte sui loro greggi» (2,8). Come il termine chora, cosi anche agraulountes, che significa accamparsi per la notte in piena campagna, situa i pastori nella campagna, in opposizione a Gesù situato con insistenza nella città di Davide (2,4.11). I pastori sono nella notte11. Non, in opposizione al giorno (hérnera), adoperato con un valore puramente cronologico in 2,1.6, bensì alla luce che sta per spuntare nello scenario notturno (2,9). Questo clima di veglia armonizza con le parabole escatologiche: «L'angelo del Signore apparve loro, e la gloria del Signore li avvolse con la sua luce» (perielampsen: 2,9). Questo contrasto notte-luce ha contribuito a ispirare la fissazione della festa di Natale nel solstizio d'inverno e la sua celebrazione mediante veglia notturna con messa a mezzanotte. Questo impatto poetico, ispiratore della tradizione, non è cosi estraneo come sembra alla semiotica ben compresa. Ma l'importante non sta qui. Dio destinatore, che avevamo intravisto in filigrana, non era ancora stato menzionato nel capitolo 2. Ed eccolo apparire all'improvviso in 2, 9. Si tratta d'una nuova teofania (1,35), più esplicita di quella precedente. Il termine gloria compare per la prima volta in Luca 1-2 e indica, in termini di luce, la manifestazione diretta di Dio sulla terra. Qui questa manifestazione non è annunciata al futuro come in Lc 1,35, ma descritta. La gloria di Dio non è solo implicata, come in Lc 1,35, dal reimpiego di Es 40,35, ma esplicitamente menzionata. A Natale la presenza di Dio non è più inglobata nel seno di Maria, ma inglobante: essa avvolge i pastori. Questa nuova teofania è la sola che sia indicata come un fatto visibile e sensibile in Luca 1-2. Tutte le altre sono astratte o senza clamore: Gesù, nascosto nel seno di sua Madre in 1,35. 41-45, rimarrà ancora nascosto nella mangiatoia in 2,7.12.16. Egli rimarrà un bambino povero e senza splendore nelle due teofanie del tempio (2, 27-32.49). La teofania annunciatrice di Natale è analoga alla trasfigurazione (9, 29.32) per il suo splendore visibile. La constatazione più significativa è che la gloria di Dio non viene a trasfigurare Cristo bambino, ma avvolge i pastori; Questo segno prodigioso ha lo scopo di introdurli all'umiltà della greppia. A partire dal secolo II questa congiunzione paradossale parve così fuori luogo che il Protovangelo di Giacomo traspose la gloria dai pastori a Cristo stesso, facendolo nascere in uno sfolgorio di luce: «E una nube oscura copriva la grotta e la levatrice disse: "I miei occhi hanno visto delle cose meravigliose oggi: la Salvezza è nate per Israele". E subito la nube cominciò a ritirarsi dalla grotta, e una grande luce apparve in questa, tanto che gli occhi non la potevano sopportare. E a poco a poco questa luce cominciò a ritirarsi finché apparve un bambinello» (Protovangelo 19,2). Lacuni presepi odierni fanno della mangiatoia di Gesù una fonte di luce. Luca e estraneo a questa mitologia. A questa teofania visibile, unica nel suo genere, succede il messaggio ai pastori: «Essi furono presi da grande timore. Ma l'angelo disse loro: "Non temete, perché ecco che vi evangelizzo (euaggelizomai) una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: Oggi vi è nato un Salvatore, che è Cristo Signore, nella città di Davide» (2, 9-11). Si tratta di un'annunciazione, sviluppantesi secondo uno schema analogo alle prime due (a Zaccaria e a Maria: 1,5-38):
- Manifestazione dell'angelo (1,11.26 e 2, 9-10).
- Timore e parole rassicuranti: «Non temete» (1, 13.30 e 2, 9-10).
- Annuncio del bambino meraviglioso (al futuro in 1,13.17. 31-33.; al presente in 2, 11.12: «Oggi vie nato») con titoli che lo qualificano.
- Segno dato (1,2036-37 e 2, 12).
- Lode analoga a quella della visitazione (1,41-56 e 2, 13-14).
- Separazione con partenza degli angeli negli ultimi due annunci (1,36 e 2,15).
Ma un annuncio non è uno schema prefabbricato. Quello di Natale è molto diverso. Esso si colloca in una cornice universalistica: «censimento di tutta la terra» e manifestazione dell'esercito celeste nella sua «moltitudine» (2,13). La gioia annunciata (in 2,10) non riguarda più l'avvenire (1,14.28), ma il presente («oggi»: 2,11). Il messaggio indirizzato ai pastori è una buona novella, destinata a una diffusione ch'essi realizzeranno in 2,18. Troviamo qui per la prima volta il termine evangelizzare, caro a Luca, che lo adopera 10 volte nel suo vangelo, contro 1 volta negli altri (Mt 11,5), e 15 volte negli Atti. La gioia annunciata non è solo per i pastori (per voi: hymin), bensì per «tutto il popolo» (2, 10; cf 1,14).  Il bambino è qualificato con tre titoli nuovi, titoli non più solo ontologici come nell'annunciazione (Figlio dell'Altissimo, 1,32; Figlio di Dio, Santo, 1, 35), ma titoli funzionali, che lo riferiscono precisamente al popolo:
- SALVATORE esplicita il senso del nome di Gesù (1,31), senso già prospettato a partire dall'inizio da numerose allusioni etimologiche (1,31.47.69.71.77; cf 2,30).
- CRISTO (ebraico: Messia), vale a dire UNTO con l'unzione regale, appare qui per la prima volta nel vangelo di Luca (cf 2,26). Esso era senza dubbio insinuato in 1,32-33, ma è esplicitato solo nella città di Davide» (2,4.11), perché qualifica il Messia.
- SIGNORE era comparso in maniera ancora ambigua nella profezia di Elisabetta (1,43). Qui il titolo di Signore è proclamato in maniera diretta e forte, come nelle professioni battesimali di fede, le quali confessano che Gesù è Signore12. Questo terzo titolo sfocia sul piano ontologico. Esso contrasta in maniera stupefacente con la povertà del segno correlativo dato ai pastori. I quattro termini che contraddistinguono tale segno accumulano i caratteri dell'umiltà:
- infante13 (impotente, senza parola),
- fasciato (legato),
- adagiato, deposto (come lo sarà nella tomba), secondo il duplice valore di keimenôn14
- in una mangiatoia, luogo animalesco, segno di marginalizzazione, al di fuori dell'ambiente umano, ove il Messia non è stato accolto (2,7).
In che senso la greppia è un segno? Lo si è voluto spiegare in riferimento al lamento di Is 1,3: «Il bue conosce il suo possessore e l'asino la greppia del suo padrone. Israele non conosce, il mio popolo non comprende». Il fervore dei pastori, che sapranno riconoscere la greppia, sarebbe l'opposto all'allontanamento d'Israele secondo Isaia. L'allusione non è evidente15 anche se sembra aver ispirato la tradizione e l'iconografia cristiana16 che mette alla greppia il bue con
l'asino del Protovangelo di Giacomo17. Non andiamo a cercare troppo lontano il segno18 che sta nel contrasto stesso: la gloria di Dio (2,9) si rivela nella povertà terrena. Il neonato passivo, legato, adagiato, nascosto è il Salvatore Cristo-Signore (2,11). Qui bisogna saper discernere la gloria apparsa solo per un istante, come segnale, nella notte dei pastori. Questo segno è orchestrato da parte del cielo con un'ampiezza, che risponde al censimento universale di Augusto: «La moltitudine dell'esercito celeste» indirizza a Dio la sua lode, che fa pensare al Magnificat (1,50-53): «E avvenne subito, con I'angelo, la moltitudine dell'esercito celeste, che lodava Dio dicendo: "Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace19 in terra agli uomini ch'egli ama"» (2, 14)20. Il cantico esprime con una densità breve l'ammirabile scambio cielo-terra, Dio-uomo (riferito al solo amore di Dio), la congiunzione del destinatore coi destinatari.

4. La visita e l'evangelizzazione: 2, 15-20

La sequenza celeste finisce con uno stacco azionale: la partenza degli angeli ci riconduce alla sola terra, e i pastori si apprestano a riconoscere il segno nella più rigorosa umiltà terrena, spoglia di qualsiasi luminosità: «E avvenne (kai egeneto) che, quando gli angeli furono partiti per il cielo, i pastori dissero tra di loro: "Andiamo a Betlemme e vediamo questo grande evento, che il Signore ci ha fatto conoscere"» (2, 15). I pastori nottambuli non han ricevuto la consegna di andare al presepio. Son essi a decidere di andarvi. Non lo fanno per chiarire un dubbio. La loro marcia è spontanea, rapida, come quella di Maria nella visitazione (1, 39): «Essi andarono in fretta e trovarono Maria, Giuseppe e il neonato adagiato nella mangiatoia» (2,16). É attraverso Maria e Giuseppe (i primi ad esser menzionati, perché son più visibili) che i pastori scoprono il bambino nascosto nella mangiatoia. Il segno, ricevuto a voce, diventa constatazione, e malgrado l'umiltà radicale di quanto essi scoprono, la loro fede non rimane delusa, per cui la diffondono e la partecipano: «Vedendo, essi fecero conoscere la parola-evento (rbêma), che era stata loro detta a proposito di questo bambino; e tutti gli uditori si meravigliavano di quel che loro dicevano i pastori» (2,17-18). Il loro ruolo è la diffusione della buona novella (del vangelo: 2,10) che han ricevuto. L'umile parola dei pastori sostituisce quella degli angeli e non crea delusione, nonostante la mediocrità del segno e di coloro che l'annunciano, bensì meraviglia (ethaumasan: 2,18). Maria, che era soggetto-operatore della nascita (2,5-7), non partecipa a questa funzione di comunicazione. La sua parte è tutta interiore e contemplativa21: «Quanto a Maria, ella conservava tutte queste parole-eventi, confrontandoli nel suo cuore» (2,19). Questa funzione di memoria interiore prolunga quella degli abitanti della Giudèa, che già «ponevano nel loro cuore» (1,66) le parole-eventi della nascita di Giovanni Battista. Ma la loro memoria era caratterizzata da una domanda: «Che sarà dunque questo bambino?» ; quella di Maria, invece, a motivo della sua ampiezza indicata dal termine panta (tutte), da un confronto attivo. Il verbo syntêreo, conservare, osservare, esaminare, ha un significato più sintetico, più contemplativo ma anche più attivo che il verbo porre, adoperato in 1,66; e soprattutto la meditazione di Maria è caratterizzata dal termine symballousa22. Questo verbo, da cui deriva la parola simbolo, indica il confronto che fa scaturire il senso (quelle stesse relazioni, in cui la semiotica tenta di coglierne la produzione). Nell'ambiente culturale in cui Maria si colloca, in Luca 1-2 il confronto ha per oggetto parole-eventi, un confronto ben caratterizzato dal duplice senso del termine rhémata (ebraico: dabar) e quindi non inferiore a quello dei pastori (programma del fare, a volte sopravvalutato dalla semiotica). L'ultimo versetto (2,20) torna a parlare dei pastori e esprime la loro azione di grazie con lo stesso termine, ainountes, che caratterizzava quella degli angeli in 2,13. Questi uomini prolungano gli angeli nell'evangeilzzazione come nella lode: «I pastori se ne tornarono glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto conformemente a quanto era stato loro detto» (2 20).

5. Formalizzazione


Formalizzando ora Lc 2, 1-20, diciamo: tutto comincia con la congiunzione di Gesù, Re Messia, con la città del re Davide. Il fatto che questa qualificazione regale sia ordinata dall'imperatore terreno e un'ironia. Augusto, il primo romano che ha assunto questo titolo divino, è solo lo strumento cieco di Dio, vero destinatore. Ma questo si manifesterà soltanto nel versetto 9. É quindi in questo luogo predestinato che si realizza la nascita in termini semiotici, disgiunzione di Gesù da Maria, sua Madre, e congiunzione con la povertà, di cui la mangiatoia è il segno terreno: disgiunzione dall'habitat umano, ove non è stato ricevuto (2,7), congiunzione con l'habitat animalesco, che insinua l'incarnazione del Signore. Il simbolismo e affine a quanto Giovanni esprimerà audacemente dicendo «Il Verbo si fece carne». Qui compaiono nella notte i pastori, simbolo di vigilanza e di povertà, primi destinatari e messaggeri della Buona Novella. Essi erano congiunti con la notte, e Dio realizza la loro congiunzione con la propria luce: la gloria (2,9). Dio stesso li avvolge. Il destinatore supremo (nascosto nella scena precedente, dove lo si intravvedeva soltanto come manipolatore di Cesare Augusto) apppare direttamente per questi poveri. Essi hanno coscienza di Dio, mentre Cesare non ne aveva e si credeva Dio, «Augusto» (Lc 2,1), secondo il nome che si era arrogato. Mediante l'angelo essi ricevono la parola, che rivela loro la nuova presenza di Dio sulla terra: la presenza del Salvatore-Cristo-Signore, che ha per segno la povertà. Qui viene decifrato il senso del nome di Gesù-Salvatore. Il titolo di Cristo (Messia) gli viene dato per la prima volta (2,11) nella città di Davide, unitamente al titolo divino di Signore. Il messaggio è seguito da una celebrazione, che impegna «la moltitudine dell'esercito celeste» (l'universo dall'alto dopo l'universo dal basso). La sua lode celebra la congiunzione del cielo e della terra, perché vi è correlazione tra le due frasi di questo cantico: «Dio lodato nel più alto dei cieli» e la pace donata «agli uomini ch'egli ama» (2,14); il movimento discendente e il movimento ascendente esprimono una reciprocità, un circuito di comunione. Dopo di che gli angeli si ritirano, il cielo si chiude e rimane solo la terra. I pastori vanno spontaneamente, senza nostalgia, verso il Segno terreno di povertà che è stato loro indicato. Là si realizza la loro congiunzione col Messia: la congiunzione cielo-terra,. Dio-uomini, Signore-pastori e ormai compiuta in lui. Tale è il senso profondo di questo simbolismo umilé. Il seguito è diffusione, conseguenza terrena: i pastori fanno conoscere il Messia. La buona novella dell'umile congiunzione del cielo con la terra si estende agli altri destinatari. I pastori prolungano l'evangelizzazione (2,18) e la lode (2,20) degli angeli, mentre Maria (curiosamente menzionata tra le due funzioni dei pastori: evangelizzazione e lode) medita a lungo termine quel che diventerà il vangelo del1'infanzia23. In breve, il movimento va dal terreno (censimento, nascita in condizioni precarie) al celeste, per esprimere la congiunzione terra-cielo nel Salvatore-Cristo-Signore, che è anche adgiato-nella-mangiatoia: egli realizza la congiunzione di Dio con l'umanità al livello dei poveri. Questa mangiatoia (2,7-12.16) è situata a Betlemme (2,4.15), il cui nome significa «casa del pane» secondo l'etimologia popolare. Non è impossibile che tale simbolismo cerchi già di dire che il Figlio di Dio fatto uomo è venuto per darsi in cibo. Anche se non è esplicitato, ciò appartiene alla coerenza e alla potenza poetica del testo. Il gioco delle comunicazioni (congiunzioni-disgiunzioni), della loro organizzazione, della loro dinamica non deve far dimenticare il senso, forte e nuovo, trasmesso in questa maniera umana e semplice. Il lavoro della semiotica deve condurre al riposo del settimo giorno, alla contemplazione.

NOTE
1 La suddivisione è ben attestata dalla serie degli egeneto (analisi nel testo) e dal triplice cambiamento temporale, locale e azionale: TEMPO: i «giorni » ancora vaghi di 2,1 si riveleranno essere il compimento dei giorni della nascita di Cristo all'inizio della sequenza in 2,6 nove mesi dopo l'annunciazione, precisazione cronologica importante per le 70 settimane che scandiscono il vangelo dell'infanzia; LUOGO: «Da Nazaret in Galilea», ove Maria era tornata in 1,56, a «Betlemme della Giudea» (2, 4); AGENTI: Giovanni Battista e i suoi genitori sono scomparsi a beneficio di Giuseppe, dimenticato dopo 1,27, che riappare in primo piano nella sequenza del censimento (2,4). Maria, che compare nella sua orbita (2,5), passa in primo piano in 2,6. La suddivisione di questa sequenza è stata analizzata bene da A. GUEURET, Luc 1-2, pp. 105-125.
2 Luca detiene il primato nell'uso del termine tutto, più di un quarto degli impieghi del Nuovo Testamento.
3 P. BENOIT, Quirinius, in SDB 9 (1977) 693-720, con bibliografia 717-720.
4 Su Maria FIDANZATA in 2,5 vedi sopra, critica testuale, pp. 28-29.
5 Sopra, pp. 76-79, 87, 223.
6 S. Girolamo commenta: « Qui nessuna ostetrica (obstetrix), nessun intervento premuroso d'una donnicciola (muilercula). Lei stessa fu madre e levatrice» (Adversus Helvidium, PL 23,192). Il suo commento si colloca in una lunga serie di testi antichi. Già le Odi di Salomone (in cui J. Carmignac vede l'opera d'un «qumraniano convertito al cristianesimo» verso la fine del secolo I, in Qumran Probleme, Berlin 1963, pp 75-108) commentavano la Vergine divenuta madre con molta tenerezza partorì senza dolore, affinché niente fosse fatto invano. Ella non richiese una levatrice, perché Egli l'aiutò a partorire volontariamente (16,6-11). Stessa affermazione nell'Ascensione d'Isaia, in Ignazio d'Antiochia e Lattanzio.
7 Phatnê: Luca è il solo dei quattro evangelisti a usare questo termine e lo fa tre volte nel racconto della nascita: 2,7.12.16 e una volta in 13,15. Si è discusso fra le due accezioni: scanno o mangiatoia. La seconda accezione, quella più corrente, sembra corrispondere meglio a una culla ed è stata fatta propria dalla tradizione e dall'iconografia.
8 Prototokon: Rm 8,29; Col 1, 15.18; Eb 1,6; 11, 28; 12, 23; Api,5.
9 Sul katalyma (caravanserraglio) vedi nota fuori testo, p. 249.
10  A. SERRA, Sapienza, 1982, pp. 218-221 analizza esaustivamente questo riferimento dei pastori di Betlemme ai pastori della Chiesa: contatti di vocabolario e di struttura testuale.
11 SuIL'ora e sulla data del Natale vedi nota fuori testo, p. 305.
12 Rm 10, 9; 1 Cor 12,3; Col 2,6 e l'antica invocazione aramaica marana tha. Vedi nota fuori testo, pp. 256-258.
13 Sulle designazioni di Gesù bambino, sopra p. 149.
14  É il verbo keimai (2,12.16; cf 2,34) che Luca adopera anche in 23,53 per parlare di Gesù deposto o adagiato nella tomba, secondo la duplice accezione del termine Questa isotopia e stata percepita dalla tradizione iconografica allorché essa stilizza la greppia in forma di bara, in cui il bambino e legato con bende come lo sarà nel sepolcro.
15 Is 1,3 e Lc 2,7: Origene è stato il primo a proporre questo riferimento (Omelia 13, Su Luca, ed. Sources, 87, p. 214). R. E. BROWN, The Birth, 1977, p. 399 ammette questo accostamento tenue a Is 1,3, forse a motivo della sua propensione a spiegare i testi con la proiezione di theologoumena. Ma il solo contatto consiste nel termine phatné, visto che Luca non ha ripreso né I'asino, né il bue di Is 1,3. Perché dunque Brown, cosi severo nel caso di altri accostamenti fondati su molteplici analogie di temi e di termini, accetta tanto facilmente questo?
16 La greppia ha ispirato la pittura delle catacombe nel secolo IV (J. WILPERT, Le pitture 1, p. 187; M. J. LAGRANGE, Luc, p. 72).
17 L'asino figura nel Protovangelo di Giacomo fin dal secolo II (17,31 ed. di Strycker, p. 143), ma come cavalcatura.
18 Il termine segno, che designa la greppia in Lc 2,12, si ritroverà nella profezia di Simeone (2,34) per caratterizzare il Messia: segno non più d'umiltà ma di contraddizione.
19 IL Messia sarà pace, diceva Mic 1,4. Lc 2,14 sembra concludere le allusioni a Michea con questo contatto significativo. Pace sarebbe quindi un titolo ulteriore per it Salvatore-Cristo-Signore (2, 11).
20 1 testi di Qumran hanno imposto quest'interpretazione.
21 Su Lc 2,19.51 vedi la monografia esaustiva di A. SERRA, Sapienza, 1982.
22 La ricorrenza del prefisso syn va rilevata nei due verbi syntêreo e symballô di 2, 19.
23 A proposito di 2,19 A Gueuret ha ragione di opporre l'interlorità della, meditazione di Maria al ruolo evangelizzatore dei pastori e della profetessa Anna (Serra, citato nella nota 21, ne rende conto bene). Ma. sembra meno giusto dire: «E piuttosto il suo non-sapere ad essere sottolineato» (p. 124), o assimilare tale atteggiamento meditativo al «mutismo di Zaccaria» (p. 261). Il ritornello del ricordo non ha questo valore negativo. L'evangelista, che si basa su testimoni oculari (1,2), sembra indicare qui (come enunciatore) che tale meditazione matura è fonte del suo vangelo. Maria esercitava la sua memoria in maniera attiva; precisa egli. E il termine symballousa è ben scelto per esprimere il processo comparativo della meditazione midrashica. Ciò denota un sapere a lungo termine, il cui progresso è normale, perché Gesù bambino è ancora nascosto. La menzione dell'incomprensione iniziale dei discepoli ha questo stesso valore nel vangelo: essa manifesta che i testimoni per eccellenza (At 1,1-2; 2,32; 3,15; 10,39-42 ecc.), i Dodici (At 1,21-22), hanno avuto difficoltà a credere. Ciò rafforza la credibilità della loro testimonianza. Questo processo e ancora corrente oggi nell'apologetica delle riunioni carismatiche. La testimonianza d'un vecchio oppositore convertito convince.

Inserito Giovedi 15 Dicembre 2016, alle ore 10:37:26 da latheotokos
 
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