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  La mariologia trinitaria nella letteratura italiana del Novecento 
Cultura

Un articolo di Ferdinando Castelli S.J. su La Civiltà Cattolica del mese di aprile 2001



 

Scorrendo le antologie della letteratura d’ispirazione religiosa si resta colpiti dalla presenza di testi mariani. Recentemente A. Lacchini e C. Toscani hanno pubblicato un elegante volume di circa 500 pagine, splendidamente illustrato, che raccoglie una massa di testi poetici di autori italiani ispirati a Maria. Anche autori estranei al cristianesimo, dinanzi alla madre di Gesù, avvertono una particolare attrattiva che traducono in pagine soffuse di misteriosi richiami. Basta sfogliare il volume Mater Dei di don G. De Luca per rendersene conto. Come spiegare tale attrazione? La risposta è semplice: Maria è l’incarnazione della bellezza, divina e umana. Ora, essendo l’uomo fatto per la bellezza, non può non essere attratto da colei nella quale la bellezza increata si riflette in pienezza. Non soltanto: in Maria, nuova Eva, sono espressi il nostro destino, la tenerezza materna, l’ideale femminino; e l’homo viator scopre in lei un approdo di pace.
L’ispirazione mariana della letteratura italiana trova in Dante un’espressione poeticamente e teologicamente perfetta. Egli ha il merito di aver visto Maria all’interno del mistero della Redenzione: Dio-Trinità l’ha eletta fin dall’eternità ad essere la madre del Verbo, termine fisso d’eterno consiglio; madre e figlia di Dio che le è padre e figlio; insieme vergine e madre, Vergine madre, figlia del tuo figlio. Petrarca nella canzone alla Vergine bella tocca vertici altissimi di poesia, ammantati di teologia, ma non raggiunge la forza teologica di Dante. I bellissimi versi della canzone sono la testimonianza della sua inquietudine psicologica e della catarsi di un’anima che ha vanamente amato e che infine si volge a colei che può placare i suoi tormenti e restituirlo al vero amore. Anche Boccaccio, negli ultimi tempi della sua vita, toccato dalla grazia, ha invocato Maria come guida e madre di misericordia
Dal secolo XIV in poi l’ispirazione mariana della poesia non si spegne, ma viene a mancare di vigore teologico. Sotto l’influsso umanistico, che ha staccato gli animi da una concezione teologica e religiosa della vita, anche la poesia mariana subisce un processo di impoverimento. Ci sono eccezioni (Vittoria Colonna, Torquato Tasso), ma generalmente essa è priva di autentico calore religioso. Nell’Ottocento Manzoni le ridona un’ispirazione genuinamente cristiana, ma accanto a lui e dopo di lui essa è carente di afflato poetico, sa di retorica, è monotona nei toni. alcuni poeti poi (Severino Ferrari, Arturo Graf, Giosuè Carducci Giovanni Pascoli e perfino D’Annunzio) dedicheranno alla Vergine rime e versi, ma come a un ideale di bontà.
Nel Novecento l’ispirazione mariana della nostra letteratura è piuttosto diffusa e modulata su diversi registri. Generalmente però è puro sentimento, che si esaurisce nell’esaltazione dell’innocenza, della maternità, della bellezza e della nostalgia dell’Alto; talvolta è intuizione di realtà trascendenti di cui si captano frammenti senza scoprirne il Tutto. Soltanto quando il poeta è illuminato dalla fede, le sue parole rivolte alla Theotokos diventano genuina poesia mariana. Non si può chiedere a Carducci, a Rilke quanto si chiede a Gertrud von Le Fort, a Claudel a Rebora. Qui tenteremo una veloce ed essenziale carrellata sulla mariologia trinitaria degli autori italiani del Novecento.

«E tu, la Pura, il Creatore esprimi»

Chi è Maria? Nella raccolta poetica Miryam di Nazareth Elio Fiore (1935-2002) chiede: Uomini, conoscete il suo cuore? l’anima di Maria? L’interrogativo lascia perplessi perché in lei si densa un mistero che sconfina nella Trinità. Il poeta lo tratteggia in versi semplici ed essenziali:
Figlia del Figlio,
germinata dall’Amore del Padre e del Paraclito.
Dio disceso in lei per ristabilire
la Giustizia e la Pace, la Vita eterna.
Per sconfiggere la Morte e le Tenebre.
Uomini, conoscete il suo Cuore?.


Clemente Rebora (1885-1957), durante la sua vita appassionata, tesa tra nostalgia dell’Assoluto e pesantezza del vivere, ha tenuto lo sguardo fisso sull’Immacolata sia per irrobustirsi nella fiducia sia per carpirne i lineamenti. Ha espresso in un verso il risultato del suo indagare: E tu, la Pura, il Creatore esprimi. Nella visione reboriana, Dio «esprime», cioè manifesta se stesso e modella il creato.
L’Amante Padre aveva in suo consiglio
la Tuttabella a modellar le cose
secondo l’Esemplare di suo Figlio [...].
Così il creato, ov’è più meraviglia,
sorse per lei; e stelle e rose, e i cuori
presero in lei a palpitar di Dio
quando da lei il Sol che tutto avviva
sorse in luce d’amor per ogni nato [...].
E tu, la Pura, il Creatore esprimi.


Dio Padre crea ogni cosa nel suo Verbo. Maria è il riflesso del Verbo; conseguentemente si può affermare che la creazione è modellata su di lei. Da tale visione circolare Rebora – poeta e teologo – trae una conclusione che riecheggia il famoso testo paolino nella Lettera ai Romani (8,19-23):
O creazion, che ansiosa aneli,
non più al peccato ma servir d’ascesa
marianamente per Gesù al Padre: perché, finito il tempo, giunga l’ora
- assorbita in vittoria e guerra e morte
- allor che il Padre ogni lacrima asciughi:
e sia, ecco, tutto in tutti il nostro Dio.

Si noti l’avverbio marianamente: il nostro tendere a Dio deve percorrere i sentieri percorsi da Maria, illuminati dalla sua luce, poiché Dio l’ha resa guida del nostro pellegrinaggio terreno. La visione poetico-teologica di Rebora si dilata e abbraccia i grandi misteri della fede. In essi il Poeta vede la Vergine come corredentrice e mediatrice di grazia; è anche la Regina della storia perché il flusso della Grazia, inaugurato dalla Redenzione, vivifica le nostre grazie alla sua materna mediazione, sì che possiamo essere introdotti alle Nozze celesti, gloriando al Padre per la Madre il Figlio.

«Albergo santo del Figlio»

L’episodio dell’Annunciazione, nella poesia come nella pittura è ricorrente. Il concentrarsi in esso di tempo e di eternità, di risonanze angeliche e umane, di storia e di mistero, di attesa e speranza genera un tumultuare di sentimenti che orientano al mistero trinitario. Qui la poesia diventa adorazione, stupore, fioritura di gioia. Lo spazio di una stanza si dilata in dimensioni sconfinate, le voci dei protagonisti si perdono negli sfondi dell’amore divino, l’ansia dei secoli si placa, la terra è riconsacrata.
Nella poesia Il nome di Maria Marcello Camillucci (immagina che l’umanità attenda il dischiudersi della pupilla di Dio per leggervi dentro il nome misterioso/ che avrebbe ricongiunto terra e cielo. Quando la divina pupilla si dischiude, la voce che non si ascolta senza morire giunge sulla terra. È una voce grave come quando, sul Giordano, scese la Colomba sull’Atteso. Quel nome, ancora celato ad Israele,/ era il tuo, Maria, esclama il poeta, dopo aver ascoltato la voce dell’Alto: In Te, piena di grazia, mi sono compiaciuto, albergo santo del Figlio, virgineo ospizio della croce perché da patibolo infame si mutasse in ara di misericordia e gloria.
Narrando il mistero dell’Incarnazione Luigi Santucci si sente sconvolto, tra incanto e stordimento. «”Lo Spirito Santo verrà su di te [...] “. Tu hai accettato questo sposo sconfinato, senza occhi per guardarti, nascosto in tutte le cose eppure sì crudelmente lontano, e gli hai risposto il tuo sì.
In Ferruccio Parazzoli (1935-) lo stordimento di Santucci diventa sgomento «Qual bambino che nasce e viene posto nel presepe, esiste la sua natura divina, fin dall’eternità, così come esige Dio, poiché egli stesso è quel Dio uno e trino che, nel Figlio, viene a condividere la natura umana». Questa verità dogmatica sgomenta lo scrittore e lo sospinge sull’orlo di un abisso. Deve farsi violenza per non precipitarvi. A tale scopo si aggrappa alla verità rivelata e la proclama come un canto di vittoria: «Lo Spirito Santo che è “Signore e dà la vita”, è mandato a santificare il grembo della Vergine Maria e a fecondarla divinamente, facendo sì che ella concepisca il Figlio eterno del Padre in un’umanità tratta dalla sua».
In conseguenza dell’Incarnazione la nostra non è più una Waste Land, una terra desolata, ma un santuario, perché in essa, col Verbo incarnato, abita la Trinità e non se ne allontanerà più. «Allora il cielo si confuse con la terra» scrive Marco Beck. «Punto di contatto rimase (e rimane: “Ecco, sono con voi fino alla fine dei tempi”) quel corpicino palpitante [...]. Il Verbo incarnato riposò sul petto ansante di Maria, avendo già compiuto il suo primo miracolo: Dio era nato da una donna».
Il poeta Giovanni Cristini (1925-98) si chiede perché il Verbo è voluto nascere da una donna e discendere in mezzo a noi/ nel nero fiume del mondo. La risposta spalanca l’abisso dell’amore di Dio. Il Verbo si è fatto uomo per diventare albero pietra sangue e fuoco cioè vita, roccia di salvezza, sangue redentore, fuoco d’amore. Maria pronuncia il suo «sì», e sulle nostre oscure radici fiorisce 1′amore.
Rebora riprende gli stessi motivi e li sviluppa su uno sfondo trinitario che richiama la meditazione sull’Incarnazione degli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola. La Trinità decreta la partecipazione dell’uomo alla vita divina e attende che Maria acconsenta di esser la madre del Messia. «Ave…» L’Angelo è lì. Forse l’atroce che sedusse Eva? «Non temere, darai alla luce Gesù». «Come? Non so quaggiù». «Tutto può Dio: di Spirito avrai il Suo Figlio». «Ecco. Sì». Fulge la Croce. I versi della lirica sono lapidari, le parole si perdono nell’eternità: rivelano la volontà di Dio che invita a nozze? l’umanità, e la volontà di Maria che acconsente al progetto trinitario: S’immola, avvampa il cuore:/ «Conoscan Te, Signore,/ i miei fratelli!». «Annunciazione»
Il tumultuare di sentimenti e di pensieri che si avverte dinanzi al mistero dell’Annunciazione è stato espresso da Laura Bosio in Annunciazione, opera colta, densa di contenuto, ben costruita; Il personaggio narrante (l’Autrice) riferisce di una sua visita alla pinacoteca di Volterra. «In una fuga di marmi e di campagna tra una spirale di veli, atterra un angelo [...]. Un giglio brandito in una mano, l’indice puntato nell’altra, protende il viso in un atrio di colonne dove una donna indietreggia lasciando cadere un libro. Lo sguardo di quella Madonna dipinta da Luca Signorelli non l’abbandonerà mai più. Da quel giorno interroga Annunciazioni» (p. 13). Il volume è la storia di queste interrogazioni effettuate nelle terre della storia biblica, della poesia, della pittura, della mitologia e della mistica. La Bosio non ha inteso comporre un’opera di catechesi né di ricerca scientifica; ha raccolto e ordinato una miriade di tasselli riguardanti l’Annunciazione, per comporre un mosaico che riecheggiasse la ricchezza e la profondità dell’evento evangelico.
Maria è lo «specchio in cui Dio riflette la sua immagine. Vetro che lascia trasparire ogni oggetto senza venirne alterato. Di vetro è il vaso in cui si rinfrescano i gigli delle Annunciazioni» (p. 117). Certo, Dio è inimmaginabile, ma in Maria ci è dato intravedere, analogicamente qualche raggio della divinità. Per esempio, la santità l’amore che si dona, la bellezza nella sua interezza. Quando l’io narrante si chiede quale sia il tratto distintivo di Maria, la risposta è perentoria: il silenzio, non 1′ubbidienza. «Ma l’ubbidienza non è forse ascolto profondo? Oboedientia da ob-audio, ascolto profondo di ciò che sta sotto, oltre la parola immediatamente udita. Silenzio di Dio e silenzio di Maria. Nel primo, la sorgente pura del Verbo, l’origine senza origine, l’inizio di tutto ciò che esiste nella gratuità della creazione. Nel secondo, la preparazione, lo spazio aperto, il grembo pronto ad accogliere la parola, il nuovo inizio». Elencando i simboli sotto i quali si cela la Vergine – «Perla che genera perle nella sua conchiglia», «Giardino inebriante», candida», «Albero», «Specchio di Dio» – l’attenzione si sofferma su «Maria. Un libro. Un corpo sigillato da contemplare, da interrogare, da interpretare [...]. Un testo difficile da comprendere in cui la mano del Padre ha scritto il Verbo incarnato [...]. Scriba ispirato: lo Spirito santo. Stilo infallibile: la lingua di Dio» (p. 128).
La validità di Annunciazione risulta non soltanto dalla ricchezza tematica e dalla sapiente struttura letteraria, ma anche dalla capacità di trasportare il lettore, con passo leggero e ardito, nelle regioni del mistero cristiano per mostrargli il capolavoro della Trinità: la Vergine Madre. Contemplandola nella tela del Signorelli, la Bosio riporta un testo illuminante di Semej Bulgakov (nel volume L’Ortodossia): «In Maria si è attuata l’idea della Sapienza nella creazione del mondo; ella è la Sapienza nel mondo creato; è in lei che la Sapienza è stata giustificata, e perciò la venerazione della Vergine si confonde con quel la della Sapienza. È nella Vergine che si sono unite la Sofia celeste e la Sofia del mondo creato, lo Spirito santo e l’ipostasi umana. Il suo corpo è diventato completamente spirituale e trasfigurato. Ella è la giustificazione, il fine, il senso della creazione; ella è, in questo senso, la gloria del mondo. In lei, Dio è già tutto in tutti» (p. 55 s).

«E lo Spirito/ di Lui che ti possiede e feconda»

David Maria Turoldo (1916-92) è il poeta del Novecento che più di ogni altro ha cantato la Vergine, inquadrandola negli sfondi biblici e trinitari. Ciò perché la sua poesia si alimenta della Rivelazione intesa come vita, senso di ogni realtà, tensione dinamica e trasformante; è visione, preghiera, canto d’amore dal timbro appassionato e virile. Maria per Turoldo è la palma di Cades,/ orto sigillato per la santa dimora ~…],/ cattedrale del Silenzio,/ anello d’oro/ del tempo e dell’eterno. E’ colei che porta la nostra carne in paradiso/ e Dio nella carne. Un suo privilegio colpisce in particolare il Poeta: Maria è l’innamorata sposa dello Spirito Santo. Colomba, Vergine-sposa, o Donna, eterno sospiro della stesso Iddio 1…]. Fanciulla radiosa del Cantico, «astata creatura» cui solo Iddio sfiorerà la bocca di sorgiva, sei il dispiegato vessillo dell’Amore nella valle dei Terebinti. Consapevole che Dio ha voluto fare del suo grembo il suo fiordo, Maria intona il Magnificat, inno di un’anima che è naufragata nel mare di Dio, sospesa tra il suo nulla e la sua grandezza, estasiata dalle meraviglie che l’Altissimo opera, servendosi di una povera sua ancella.
Il suo canto si spande per l’universo. Vela a pieno vento la voce si spande per l’universo, il Magnificat cantando dell’anima tua naufragata nel divino mare: e lo sguardo di Lui che ti guarda dolcissimo, e ancora t’inonda come dolcissima luce, e lo Spirito di Lui che ti possiede e feconda!… Poiché sposa dello Spirito Santo e madre del Verbo, Maria è associata all’opera trinitaria della Redenzione. Ora noi siamo i congiunti di Dio, sarà la terra per sempre il paese/ delle sue la stanza o riviera/ ove si abbracciano l’uomo e il suo Dio. Perché tali nozze siano feconde, Maria è sempre all’opera. Caravella che porti il Signore sotto la vela bianca, regina e amante e madre, Egli torni fanciullo a giocare… Andrai – così ti preghiamo – per l’Europa e l’Asia a deporre il tuo frutto dietro le alte mura [...]. Emigrerai pellegrina e subito e ovunque partorirai tuo figlio gioia e unità delle cose, o eterna madre. Dinanzi alla piccola,/ e immensa fanciulla di Galilea, ma anche l’unica, la incoronata regina, la sposa dello Spirito, Italo A. Chiusano (1926-95) ha avvertito un senso di timore, e le ha chiesto di poterle parlare come si parla alla mamma che capisce e compatisce patisce tutto.
Ferruccio Ulivi (1912-) pensa che anche Giuseppe, quando se la vide davanti, dopo l’annuncio dell’Angelo, fu colto da una leggera vertigine. Il volto di lei appariva «uguale e irriconoscibile; meglio ancora, segreto, come infuso di un significato vagamente estraniante, e in definitiva irraggiungibile». Il Figlio che porta in grembo la rende, nello stesso tempo, irraggiungibile e vicina. Irraggiungibile per il mistero che la abita, vicina perché è anche madre nostra.

«Interrogatorio a Maria»

In Interrogatorio a Maria di Giovanni Testori (1923-93) la mariologia trinitaria è il tema portante, svolto in un linguaggio poetico, turgido di immagini che sanno di sangue e di carne, talora ossessivo e violento, ricco di contrasti, tra popolare e teologico, poesia moderna e lauda medievale. Il soggetto è semplice. Un coro (greco) di fedeli prega la Madonna di ritornare tra noi: Noi Ti chiamiamo, di Te sete, fame bisogno abbiamo. Vieni; porta disserrata, speranza disarmata, cima altissima e innevata! Tu sai; parlare Ti dobbiamo . E Maria si presenta, muovendosi nella folla. Non giovane sposa, ma donna sciupata dagli anni e dalle sofferenze; viene dal grembo del suo Grembo, cioè dall’onnipresente realtà di Dio. Nell’immenso Io di Dio, assieme a lei, ci ritroviamo tutti noi, famiglia immensa e intera, bellissima foresta; lei vede tutti nella Realtà trinitaria dove ogni persona acquista una fisionomia nuova e una vocazione trascendente; è la madre di tutti perché è la madre di colui che ha assunto la carne di tutti: fu me, fu te, fu ognuno. Perché il Verbo si incarnasse bisognava che nel grembo di sua madre ci fossero tutte le vite apparse e che sarebbero apparse nei secoli futuri. Con la Madre di Dio siamo nella Trinità: Io sono là, con Lui; siedo nella Sua casa, dentro la Trinità. È immensa e insieme chiara, non si comprende ed è di già compresa. La mia maternità fu di tutte le vite somma, fusione ed unità (p. 23). L’unione di tutti in Maria, in Cristo e nella Trinità induce il coro a interrogare la Vergine sul suo concepimento per opera dello Spirito Santo. Come è avvenuto? Cosa ha sentito nel suo ventre in quel momento? Una carezza, un precipizio, una dolcezza, un lampo, come se in me scendesse oltre lo spazio, dell’Esistente, del Non-nato e della Sua eterna carità, il respiro, la gloria, la bellezza, il fiato (p. 25). Incoraggiato da queste confidenze, il coro formula domande ancora più intime. Le risposte sono quelle di una donna la cui volontà è riempita di Lui, che era Spirito eterno; e si lascia da Lui trasportare su quei lidi dove il concepimento diventa liturgia d’amore, concentrazione di eternità, possesso trasfigurante. La carnalità resta tale, ma trasfigurata perché rende l’amata tempio divino.
In me che il Padre perforava dentro il mio grigio nulla, fecondandomi lo Spirito erigeva la Sua grotta, la Sua culla (p. 29). In quel momento Maria intuisce che l’amore è dolore: accettando di essere grembo del Verbo, è ferita, lacerata da una spada perché dinanzi agli occhi le si presenta la passione del Figlio, che si sarebbe ripetuta nel tempo. Anche qui e sempre/ vien preso, vien sputato,/ vien ferito, assassinato. E’ il dolore del parto Mater Ecclesiae, e anche il dolore del Salvatore che s’incarna qui, qui muore,/ qui si reincarna e qui rimuore. Dopo aver descritto il Golgota di oggi, Maria supplica di non infierire più sul Figlio. NO! Non battetelo più non stringete più sul capo la dura corona delle spine! Chiede anche che lo si invochi con i suoi titoli più propri: Amore dell’Essere Santissimo e increato, amore della Santa Trinità, Parola fatta carne. Un’ultima domanda: è possibile la distruzione dell’umanità? che l’eccidio del suo centro e del suo seme/ sia spento, sia fermato e soffocato? La risposta di Maria è rassicurante e tragica, nello stesso tempo: incarnandosi in lei, con la sua morte e risurrezione, il Verbo ha vinto la «Bestia» e ha recuperato il destino umano. Occorre, però, che l’uomo, con «un’umile e tenace volontà», accetti di vivere di lui e con lui. L’interrogatorio volge al termine. In uno slancio d’amore materno, la Vergine rivolge un invito e un appello. L’invito: Stringiamoci; abbracciamoci; baciamoci così in Lui; in Cristo, dentro la Santa Trinità. L’appello: ricorriamo alla preghiera affinché la nostra intelligenza e il nostro cuore siano vivificati nel Cristo Signore. Cosi vivendo siete, fratelli, il Suo Presepe, la Sua casa, la Sua rosa (p. 53 s).

«Maria, diafano ostensorio dei Tre»

Giuseppe Centore (1932-) è poeta dal volo ardito; ama gli sbalzi e i colori forti sì che seguirlo è faticoso. Talvolta la sua ispirazione raggiunge i toni alti e rivela misteriose zone di luce, come avviene nella lirica Inventario d’amore a Maria. In una rapida sequenza di quadri presenta la Vergine come concentrazione di magnificenze umane e divine. Nella quinta strofa si legge: Maria, veliero di speranze senza approdi se non a Dio diafano ostensorio dei Tre. Mite lembo d’arcobaleno. Perché «ostensorio» della Trinità, è sogno d’azzurrità, brina di fuoco, ancora e neve e tempio dai tetti d’oro, mare verde a picco su baratri di luce; fastigio di Sapienza; sillaba intatta e ramo di gemmato silenzio; primavera d’Angeli e di stelle. Nell’ultima strofa Maria è rappresentata come la mistica Rosa, simbolo della bellezza verginale e dell’amore di Dio per ogni uomo. Marza un firmamento bianco di pensieri una lontana eternità d’Amore per me per te concisi in una Rosa.
La contemplazione estatica di questa «Rosa», fiorita nel della Trinità, ispira gli inni mariani della poetessa Cristina Lagopesole. Fanno parte del volume Il libro del pellegrino composto di 145 inni, salmi, cantici, laudi: un corpus poetico che rimanda il lettore alla migliore tradizione innografica dell’Oriente e dell’Occidente, e alla teologia mistica di ogni tempo. Negli otto inni mariani la presenza della Trinità è negli sfondi, misteriosa e dinamica. Maria l’avverte quando è in attesa del Figlio: Figlio che sbocci nel mio ventre [...] Tu che sei l’Eterno, in me sei tempo, sei il mio Bambino [...], quando lo contempla e ne intuisce il mistero: Benedetto il giorno in cui le tue mani plasmarono il Volto del mio Figlio. lo facesti d’Amore, con pioggia di gigli ~….]. Di tempo e Tempo è la sua sostanza, di terra e Cielo il suo sguardo. essere ed Essente, misura e Sconfinamento.
Particolarmente bello è l’ultimo inno Dormitio Virginis: la Madre ha lasciato la nostra terra e si è addormentata nella «Luce increata», ma resta nei nostri occhi, presenza di cielo e di luce. Dormi Fiore della terra, Madre. In te riposa il cuore col Germoglio, lo zampillo dell’Amore eterno. Dormi, piccola, profusa di Luce increata, avvolta nella notte dal riflesso di Dio, custodito in eterno, perché eterno è l’Amore. Dormi nel profondo, nel libro degli occhi, nelle creature che in te sospirano e vedono. «Digli che ho sete e secca è la cisterna»
Come tema letterario, la presenza di Maria si afferma, su toni intensi e sofferti, quando gli scrittori prendono coscienza della miseria umana e del peccato, e avvertono il bisogno di un aiuto per ritornare a Dio. Maria allora si presenta come ianua coeli, attraverso la quale tale ritorno è possibile. Colei che ha generato il Salvatore, lo rigenera in coloro che a lei ricorrono. Rinati in lui, mediante l’opera dello Spirito vivificante, si è resi degni d’invocare Dio come padre nostro. Tra le liriche più vibranti alla Ianua coeli è Rosa autunnale di Domenico Giuliotti (1877-1956). Per la freschezza d’ispirazione e l’intensità di sentimenti don Giuseppe De Luca – così attento nei giudizi – si augurava che tutti la sapessero a memoria. Trentasett’anni, Vergine, è che vo stanco e cencioso come un vagabondo, lungo il torto viottolo del mondo, e quando e dove poserò non so. Ma tu, che d’ogni sconsolato errante segui, dall’alto, le intricate péste, volgi i begli occhi al tuo Figliol celeste, digli che m’apra le sue braccia sante. Digli che ho sete e secca è la cisterna, digli che ho fame ed ho per pane sassi; digli che, a notte, sugli incerti passi, mi si spegne, guizzando, la lanterna. Tuo Figlio, o Madre, è pane ed acqua e luce che pienamente illumina e ristora; Egli, accogliendo l’anima che implora, seco, se degna, al Padre la conduce. L’invocazione continua, tra rimpianti e speranza. Il fardello dei peccati è pesante, ma il poeta ricorda alla Vergine che suo Figlio è l’amore che sana e sbenda, per condurre al Padre. La fiducia nella Madre e l’amore del Figlio gli permettono di attraversare umano carcere tristo e raggiungere il sole in cui sfavilla Cristo.
Antonio Corsaro (1909-92), poeta ermetico teologicamente ispirato sottolinea il perché di tale fiducia: Cristo risorto appare a sua e le chiede di restare tra noi, superando l’impazienza dell’anima – Madre – O Figlio ancora bianco di sepolcro – Più non tramonta questa aurora Ma tornerò dal Padre e Tu rimani donna rimani ancora perché la terra di troppo dolore ne morrebbe se anche Tu venissi.
Nel suggestivo volume Cominciò in Galilea Stefano Jacomuzzi (1924-96), raccontando l’episodio evangelico delle nozze di Cana mette sulla scena Maria, Gesù e il Padre celeste, invisibile. Quando lei presenta al Figlio il disagio degli sposi per la mancanza di vino, i suoi occhi implorano ma non lo guardano come quelli di una madre che guarda il figlio. «Mi guardava – osserva Gesù, come se io fossi distantissimo, e non proprio di fronte a lei. La Madre intuisce che quel suo Figlio è anche il Figlio dell’Altissimo, pertanto da lei distantissimo. Gesù, in silenzio, invoca il Padre l’acqua davanti al suo Dio arrossisce». Il Padre non può non ascoltare la preghiera di Maria. Lei resta tra noi per ascoltare le nostre suppliche e per condurci al Padre. Brilla alla nostra notte tenebrosa stella mattutina. D’un mattino sereno alba serena ad un meriggio eterno ella conduce. Meriggio eterno, folgore. Meriggio eterno, Sole. Meriggio eterno, sovrarisplendente volto di Dio. Vultus tuus meridies.. Il volto di Maria è un meriggio di luce, perché riflette la Trinità.


 

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