PORTALE DI MARIOLOGIA - L'annuncio a Maria in Luca 1,26-38
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  L'annuncio a Maria in Luca 1,26-38 
Bibbia

Dal libro di René Laurentin, I vangeli dell'infanzia di Cristo. La verità del Natale al di là dei miti, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1989, pp. 204-218.



Presentazione dei personaggi

La sequenza dell'annunciazione comincia con un cambiamento totale di tempo1, di luogo (a Nazaret in Galilea) e di agenti:

Il sesto mese l'angelo Gabriele fu inviato da Dio in una città della Galilea di nome Nazaret, a una vergine concessa in matrimonio a un uomo di nome Giuseppe, della casa di Davide, e il nome della vergine era Maria.
 
Ancora una volta ci viene presentata una coppia, ma in funzione della comparsa dell'angelo che apre la sequenza: tutto comincia con l'impatto del Signore. D'altro lato è la donna e non l'uomo ad esser nominata per prima come destinataria del progetto di Dio. Giuseppe è nominato soltanto in funzione di lei, per il fatto ch'ella «gli è concessa in matrimonio». Nell'ambiente culturale ebraico il termine emnêsteumenê significa qualcosa di più di un fidanzamento, significa un matrimonio concluso2, non comprendente ancora la coabitazione, precisa Matteo (1,18.20.24). Luca però non lo precisa. Solo Giuseppe è qualificato come discendente di Davide: funzione che entrerà in azione più avanti (in 2, 3-4) per indicare il collegamento di Gesù con la discendenza davidica. L'ascendenza di Maria non viene qualificata, a differenza di quella di Elisabetta: essa non ha importanza, è estranea al racconto. Maria conta come interlocutrice del Signore (mediante l'angelo, che ne salvaguarda la trascendenza). La sua importanza è sottolineata non soltanto dalla priorità accordatale nell'enumerazione, bensì anche dal fatto che è menzionata due volte e soprattutto due volte qualificata come Vergine (1,27). Tale pleonasmo, che non è frutto di mancanza di abilità, programma il seguito, che sarà esplicitato da 1, 34: ella non ha realizzato la sua congiunzione con Giuseppe, il fidanzato. Il contrasto è tanto più sorprendente, in quanto il beneficiario del primo annuncio era Zaccaria: l'uomo senza la sua donna.


L'annuncio

Luca non dice che l'angelo appare: egli entra, e il seguito evita la precisazione: «in casa sua», che avrebbe sottolineato una coabitazione non realizzata. Il termine pros (verso) è puramente vettoriale:

Entrando verso di lei disse: Rallegrati, oggetto-della-grazia-di-Dio, il Signore è con te
(1, 28).
 
Tutto comincia con delle parole (audizione e non visione come per Zaccaria):
- Anzitutto l'invito a gioire (1,28) d'una gioia gratuita, il cui oggetto non è precisato come lo era stato per Zaccaria in 1,14.
- Poi un nome dato dall'alto, che qualifica di qui in avanti Maria. Non si tratta d'una qualificazione dinastica come quella di Giuseppe, d'un'eredità umana; la sua qualificazione è pura grazia (charis è la stessa radice di kecharitomenê). Tale è il senso, che sarà esplicitato dalle altre parole dell'angelo:

Hai trovato grazia
(charin) presso Dio (1,30).

Tale appellativo manifesta ciò che Agnès Gueuret chiama «il ruolo figurativo dei genitori nei confronti dei figli». La relazione di Zaccaria col popolo prefigurava quella di Giovanni Battista, futuro profeta (1,10.16-17). Quella di Maria prefigura Cristo che sarà alla fine caratterizzato dalla sua grazia (2, 41.52). Maria e tutta riferita a Dio, è per eccellenza (per antonomasia) oggetto del suo favore (del suo amore, della sua grazia).

A queste parole ella fu profondamente turbata, e rifletteva: Che e dunque questo saluto?
(1, 29).

Il timore di Maria non è passivo come quello di Zaccaria, che e «piombato» su di lui (1,12). Il suo turbamento (più vivo, evento più profondo: prefisso di) è riflesso e attivo: ella si domanda (attraverso un processo dialogale o dialettico indicato con forza dal verbo dielogizeto) che cosa significa questo saluto. Il primo versetto sembrava forse annunciare il programma d'una giovane coppia, chiamata ad avere dei figli. In tal caso sarebbe stato Giuseppe (come Zaccaria) l'indicato a ricevere l'annuncio. Ed egli era qualificato a tale scopo in quanto «figlio di Davide», padre potenziale d'un Messia. Invece è scomparso dal racconto. Soltanto alla Vergine (al singolare) l'angelo dice:

Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio Ecco che concepirai e partorirai un Figlio e lo chiamerai col nome di Gesù (1, 30).

Ella sola è qualificata per imporre questo nome prescritto dall'alto (1,31b). Tale trasposizione della funzione paterna (in contrasto con Zaccaria)3 rafforza l'esclusione semiotica di Giuseppe, senza che il racconto dica ancora il perché. Gesù viene quindi qualificato con titoli, che superano quelli di Giovanni Battista. Essi non lo qualificano tanto mediante un fare, come nel caso del precursore - convertire, profetizzare, andare innanzi -, quanto piuttosto mediante l'essere4:

Egli sarà grande, sarà chiamata Figlio dell'Altissimo. Il Signore gli darà il trono di Davide suo padre, egli regnerà sulla casa di Giacobbe per i secoli, e il suo regno non avrà fine (1, 32-33).

Il qualificativo GRANDE, senza restrizioni (a differenza di Giovanni Battista in 1,15), tende ad assumere una portata trascendente. Ma soprattutto il bambino riceve in primo luogo il titolo di «FIGLIO DELL'ALTISSIMO » (1,32a): un titolo divino prima del titolo umano, che lo collega a «Davide suo padre» con promessa del trono (1,32b). In 2 Sam 7,14, che Luca reimpiega qui, il Messia era promesso a Davide anzitutto come suo figlio, e soltanto dopo di questo il profeta aggiungeva: «Io sarò per lui un padre, ed egli sarà per me un figlio». Questi termini vaghi esprimevano semplicemente i sentimenti paterni di Dio. Il verbo utilizzato: «Egli sarà chiamato» non è restrittivo, ma piuttosto enfatico. In quei tempi tale espressione significava: Egli sarà e sarà riconosciuto come tale. L'uso del termine Altissimo (Hypsistos) per designare Dio sottolinea che questo bambino viene dall'alto, cosa confermata dal ritorno del medesimo termine al vertice del messaggio, in 1,35. L'Altissimo viene a congiungersi al luogo basso di Nazaret e a quella che Maria chiamerà la sua bassezza o umiltà (tapeinosis: 1,48). Il più alto va verso il più basso. Le ultime parole: Il suo regno non avrà fine confermano il superamento d'un regno umano. In breve, il Messia è descritto con un'accumulazione inaudita di termini trascendenti, che attualizzano e rafforzano la profezia di Natan (2 Sam 7,14), ripresa in Lc 1, 31-33.


L'obiezione: 1, 34


Come Zaccaria, anche Maria avanza un'obiezione, ma molto diversa:

Come avverrà questo, poiché io non conosco uomo? (1, 34).

La Vergine fidanzata a un UOMO obietta ch'ella NON CONOSCE UOMO. Tale disgiunzione è opposta alla congiunzione iniziale e costituisce la cerniera del racconto. Maria adopera un presente di stato, come quando diciamo: non bevo, non fumo. É quindi un proposito quello ch'essa esprime. Il racconto non ci parla né del motivo, né delle circostanze di tale proposito singolare, motivo e circostanze che possiamo solo intravvedere alla luce dei primi tentativi di celibato a Qumran5, né di come si sia giunti al matrimonio (cosa normalmente spiegata con ragioni sociologiche), né ci dice se e come Giuseppe condivideva tale risoluzione, e neppure come Gesù avrebbe potuto esser chiamato figlio di Davide senza essere figlio di Giuseppe, unico aggancio a questa «casa» o famiglia ( 1, 27; 2, 4). A differenza di Matteo, Luca non dice niente di tutto questo e si contenta di rimediare alla rottura biologica con un riaggancio geografico in 2, 4.11. Diversamente che nel caso di Zaccaria, l'obiezione di Maria è accettata e onorata:

Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra (episkiasei soi), per questo il generato sarà chiamato Santo, Figlio di Dio.


La risposta: 1,35-37

La risposta conferma a Maria che l'uomo non c'entrerà minimamente in questa nascita, che dipende da Dio soltanto. La disgiunzione dell'uomo era richiesta da questa congiunzione esclusiva con Dio. Il Figlio di Dio (1,32.35) diventerà figlio di Maria (1,31) solo per un processo trascendente. La maniera in cui Lc 1,35 esprime tale congiunzione divina tra il Figlio, la madre e Dio è degna di considerazione. Luca prende le distanze da ogni forma di teogamia. Come Matteo, usa il verbo gennaô (generare) al passivo, evitando di dire che è Dio a generare. Il soggetto rimane occulto, ineffabile. L'azione divina è significata coi termini Spirito (femminile in ebraico e neutro in greco) e Dynamis (femminile). Viene sottolineata la trascendenza, poiché Dio è situato al di sopra (in una sublimità significata dall'appellativo raro di Altissimo, 1,35) mediante l'impiego congiunto della preposizione epi e del prefisso ep (due volte in 1,35a: epeleusetai, episkiazein). Non l'azione di Dio è situata in Maria, ma questo generato che è Santo e Figlio di Dio. Più che da questo espediente grammaticale, la trascendenza è indicata dall'immagine qui adoperata: la nube celeste, la shekinah (presenza di Dio). Come abbiamo visto, episkiazein è il termine adoperato dai LXX in Es 40,35 (fonte di Lc 1,35) per tradurre l'ebraico shakan. Altra particolarità significativa: Dio è detto Spirito, con il qualificativo di Santo: formula adatta per indicare un'azione spirituale, non biologica. E la potenza non viene esplicitamente riferita a un effetto somatico, ma alla shekittah, quindi alla trascendenza della presenza. «Lo Spirito Santo verrà su di te» è l'espressione che ritroviamo in Luca per il battesimo di Gesù (3,22): «Lo Spirito Santo scese su di lui ». Ma in 1,35 Luca evita di dire che egli scende, prendendo così ulteriormente le distanze da ogni teogamia, contrariamente a ogni facilità verbale. Egli adopera per Maria la formula, con cui Cristo annuncerà agli apostoli la Pentecoste: Lo Spirito Santo VERRÀ su di voi (At 1,8). Maria non scompare in questa teofania. La duplice menzione di Dio è riferita a lei con insistenza:

Lo Spirito Santo verrà su di TE e la potenza dell'Altissimo TI coprirà con la sua ombra.

La cosa può stupire, poiché l'azione di Dio riguarda anzitutto il Figlio di Dio veniente in Maria, come risulterà in 1,35b. Questo rilievo dato alla madre in 1,35a non è difetto di teocentrismo ma si spiega con l'identificazione tra la madre e il bambino in gestazione, che provocherà altre singolarità espressive nel racconto della visitazione. Là troveremo curiosamente riferito alla madre ciò che concerne il figlio, sia nel caso di Maria e Gesù che in quello di Elisabetta e Giovanni Battista. Si tratta del lato concreto e popolare dell'espressione. L'importante è che l'azione di Dio non è indicata tanto come efficiente (malgrado il termine dynamis), quanto piuttosto come presenza, secondo lo schema con cui la Bibbia significava la presenza di Dio su e nell'arca dell'alleanza6. La concezione di Maria sembra eclissarsi in 1,35, che colloca il Figlio di Dio nella posizione di Jahve che prende possesso dell'arca. In Es 40,35 la presenza della nube sull'arca dell'alleanza si accompagna alla presenza immanente della Gloria, vale a dire di Dio stesso che riempie la dimora. Lo stesso schema viene applicato a Maria in 1,35a, come abbiamo visto. Ma in 1,35b ella si eclissa: più niente tu e te. «Ciò che è generato» (in lei) è oggettivamente qualificato con due titoli divini: Santo e Figlio di Dio:
- Santo è il nome specifico di Dio, «il Santo d'Israele», «il solo Santo», perché «Santo è il suo nome» e «nessuno è Santo come Jahve »7.
- Figlio di Dio conferma in un contesto più denso il titolo di Figlio dell'Altissimo dato sopra e la sua priorità sulla condizione di figlio di Davide.
L'associazione di questi due titoli in un contesto, che evoca la manifestazione di Dio abitante l'arca dell'alleanza, dona al secondo una portata ben diversa da quella del frammento di Qumran detto Testo del Figlio di Dio8. Il verbo klêthêseta, «sarà chiamato»9, non relativizza, ma sottolinea (anzi enfatizza) tale titolo. In questo ambiente culturale il nome è l'essere, come l'alito è la persona. Dire: «Gesù è chiamato Signore» è tanto forte e forse anche più forte che dire: «Egli è Signore» (1 Cor 8,6; At 10,36 ecc.). Ciò significa contemporaneamente ch'egli è e che è riconosciuto in maniera assoluta come tale, cosa espressa con enfasi da Fil 2,9, dove Cristo è qualificato mediante il nome divino, che Dio aveva rivelato a Mosè e che gli ebrei non pronunciavano:

Dio gli ha dato il Nome (divino) che è al di sopra di ogni nome, affinché nel nome (umano) di Gesù (che ha diritto a questo nome divino) si pieghi ogni ginocchio nel più alto dei cieli, sulla terra e negli inferi (signoria universale) e ogni lingua proclami: Gesù Cristo è Signore (equivalente del tetragramma YHWH, che gli ebrei avevano per norma dl non pronunciare mai).

In poche parole, la concezione verginale non è una replica delle concezioni teogamiche, essa non è esplicitamente riferita a un'azione formale e biologica di Dio, ma è presentata come segno trascendente della venuta escatologica di Dio. Chiarissima è l'ellissi del testo sulla realizzazione corporea, che scopriamo molto concretamente dai suoi effetti nell'episodio della visitazione. In un racconto carico di senso l'ellissi risponde spesso all'essenziale. Ricordando questo riferimento di Lc 1,35 a Es 40,35  possiamo dar l'impressione di evadere dalla semiotica, ma la semiotica non ha per scopo di ridurre ogni racconto alla grammatica elementare delle fiabe. Essa deve prendere in considerazione il senso integrale tal quale esso è inscritto nel testo, con la sua novità eventuale. E se il senso pone dei problemi, sarebbe un cattivo metodo schivarlo o eluderlo. La semiotica è una disciplina oggettiva, chiamata ad estendersi secondo la misura dei testi. Se essa ha forgiato i suoi primi strumenti formalizzando quella che è la «congiunzione» d'una madre con un figlio qualificato come «oggetto-bene», deve render conto anche della congiunzione di Dio con gli uomini, ivi compresa la forma nuova ch'è il Cristo Figlio di Dio. I primi autori cristiani si son trovati imbarazzati nel formulare tale novità, essenziale nel Nuovo Testamento10. Neppure l'espressione più profonda e più forte: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14) è adeguata. Essa non esprime bene l'umanità di Gesù. Più esatto sarebbe dire: «Il verbo si fece uomo». E Luca 1 lo dice meglio in un linguaggio meno metafisico, insistendo sull'identificazione del figlio di Maria col Figlio di Dio, trasponendo a Cristo attributi o testi appartenenti a Dio. In breve il programma narrativo, che poteva sembrare essere la nascita d'un bambino annunciata a una giovane coppia, subisce qui una trasformazione profonda per esprimere una novità che è significata solo al futuro. E poiché tale novità è indicibile, neppure la sua realizzazione sarà formalmente espressa (come più avanti la risurrezione, di cui nessuno degli evangelisti descrive la realizzazione). La concezione umana del Figlio di Dio sarà manifestata solo dai suoi effetti al momento della visitazione, allorquando la presenza del Figlio di Dio riempie di Spirito Santo Giovanni Battista e sua madre. La novità da esprimere ricorre al linguaggio figurato dell'arca dell'alleanza11. La novità in rapporto a queste figure dell'Antico Testamento sta nel fatto che questo modello simbolico di congiunzione tra Dio e il suo popolo si umanizza. La presenza irradiante di Dio in un'arca di legno (Es 40,35) diventa la concezione della Vergine, Figlia escatologica di Sion (Lc 1,35) e nuova arca dell'alleanza senza espressione di alcun irradiamento, perché la presenza diventa essenziale. Il racconto comincia a dire con il lessico di Es 40,35 e poi di 1 Sam 6 in 1,39-56 quel che esprimeranno le teofanie successive del battesimo (3,21-22), della trasfigurazione (9,28-36) ecc. Questo i Padri hanno compreso, quando hanno chiamato Maria «arca viva dell'alleanza». Tale immagine era ricca di senso in un'epoca, in cui l'arca dell'alleanza, scomparsa da secoli al tempo della cattività babilonese, non era più che un passato mobilitato dai profeti al servizio della speranza escatologica12. In 1,35 (vertice della scena) Maria riceve un figlio (il Figlio di Dio) ch'ella non aveva chiesto. In 1,36 riceve in sovrappiù un segno neppure esso richiesto, a differenza di Zaccaria. Ciò prolunga il contrasto tra la legge e la grazia. Il segno dato a Maria è la concezione di Giovanni Battista (legame con la scena precedente ):

Ecco che Elisabetta, tua parente, ha concepito un figlio nella sua vecchiaia, ed è il sesto mese per lei che dicevano sterile, perché niente è impossibile a Dio (1,37).

La menzione del sesto mese, già indicato in 1,26, accentua un dato importante per la cronologia del compimento. Le ultime parole sottolineano che l'incredibile miracolo è frutto della stessa potenza di Dio destinatore: notare l'impiego della radice dyna in 1,35: la potenza (dynamis) dell'Altissimo; 1,36: niente crea impotenza (adynatêsai) per Dio13; cf 1,49: o Dynatos, il Potente che rovescia i potenti, dynastas, dai loro troni.


Il consenso: 1,38

Maria conclude la scena con un atto di fede. In contrasto con Zaccaria muto, ella partecipa all'azione. Dopo esser stata qualificata gratuitamente da Dio stesso (1,28.30.35), si qualifica a sua volta. Accoglie col suo consenso spirituale la congiunzione somatica con Dio annunciata al futuro in 1, 35:

Ecco la serva del Signore, mi avvenga secondo la tua parola (1, 38).


Capovolgimento

La semiotica conferma il contrasto esaminato sopra dal punto di vieta letterario. Zaccaria era presentato in posizione superiore a Maria secondo le opposizioni:
- Gerusalemme-Nazaret.
- Alto-basso.
- Uomo-donna.
- Sacerdote-paesana della Galilea.
- Sposo con vocazione ad essere padre-vergine inappagata (cf Gdc 11,37-38) e tuttavia non desiderosa di figli (1,34).
Ma questi vantaggi sociologici sono capovolti in favore di Maria:
- Zaccaria qualificato secondo la legge, Maria secondo la grazia
- Lui passivamente smarrito di fronte all'angelo (1,12), lei in riflessione dinamica (1,29)
- La sua domanda biasimata, quella di Maria ammessa e ricompensata (1,19-20.36-37)
- Lui castigato e squalificato, lei qualificata (1,35.38).
- Lui muto e impotente, lei partecipante; Dio, che adempie la sua opera senza Zaccaria (1,20), la realizza con Maria (1, 38.45).


Formalizzazione

Riassumiamo l'annunciazione in termini più formalmente semiotici: il racconto comincia con un triplice stacco: spaziale, temporale, attoriale. Viene presentata una nuova coppia, che sembra essere soggetto (come nella sequenza precedente), ma qui il termine amphoteroi (ambedue: 1,6-7) non compare. Giuseppe, l'uomo, figlio di Davide, è in secondo piano e scompare. Maria, benché priva di qualifica terrena, è la sola destinataria del messaggio e della doppia missione (biologica e sociale: dare alla luce e imporre il nome al figlio). Senza desiderare altro che Dio, è per grazia (1,28.30) di Dio che ella riceve il bambino (congiunzione), normalmente escluso dal suo proposito di non conoscere uomo (1,34). Ma si tratta molto più d'un bambino. Il racconto toglie ogni fondamento biologico (1,34-35) al suo titolo di figlio di Davide (1,27.32b) e lo qualifica anzitutto (1,32a) e in ultima istanza (1,35b) come Figlio di Dio, Santo per eccellenza. Il Figlio di Dio (1,32.35) diventa figlio di Maria (1,31) per un processo che è annunciato e significato (1,35), ma non descritto. Vi è un'ellissi sul fatto della concezione, annunciata (1,31) ma non descritta. Maria, qualificata dalla grazia di Dio (1,28.30), si qualifica con una domanda in armonia prestabilita col disegno di Dio (1,34) e con un'adesione perfetta (1,38), in contrasto con l'incredulità (e il mutismo) di Zaccaria. La prova qualificante sfocia nella prova principale: la concezione del Figlio di Dio, la cui realizzazione non sarà raccontata ma manifestata dalle sue conseguenze: la visitazione (1,39-56). La disgiunzione di Maria dall'uomo (1,27.34) è correlativa alla sua congiunzione con Dio solo, che viene su di lei e in lei (trascendente e immanente: 1,35). Il vertice del racconto è l'identificazione del Figlio di Dio (di Dio stesso) col figlio di Maria: siamo contemporaneamente di fronte alla venuta del Messia e alla venuta teocratica di Dio, annunciata per gli ultimi tempi. Il Messia è qualificato come Figlio di Dio (1,32a) prima di essere qualificato come Messia (1,32b-33). É qualificato sul piano dell'essere e non del fare, come Giovanni Battista, cosa che farà sentire le sue conseguenze nel vangelo dell'infanzia e in tutto il vangelo. L'analisi semiotica deve spingersi fino a queste constatazioni e addentrarsi nello spessore del testo, se non vuole minimizzare e far la caricatura dell'annunciazione. Non si tratta della storia d'una giovane coppia che riceve un figlio, fosse pure il Messia. Si tratta della Vergine, figlia di Sion, personificazione del popolo, che riceve il Figlio di Dio come suo figlio, in ciò non tanto regina quanto piuttosto «serva» (1,38). Mettendo la semiotica al servizio di questo testo nuovo diamo la vera misura e al testo e alla semiotica stessa.

NOTE
1 IL SESTO MESE (1,26.36; cf 1,25) è un punto fermo tra due ritornelli del compimento (1,23 e 2,6, tra cui s'interpone il ritornello larvato di 1,57, senza impiego del termine «giorno»), prospettato dai 6 mesi di 1,36 e dai 3 mesi di 1,56.
2 Su questa situazione matrimoniale vedi sopra, p. 30, nota 25.
3 NOME IMPOSTO DAL PADRE ZACCARIA (1,13) E DALLA MADRE  MARIA (1,31). Questo contrasto sorprendente (messo in rilievo dall'identità della formula: «Gli darai il nome ») non va esagerato. Nella Bibbia, su 46 casi, l'imposizione del nome viene effettuata 28 volte dalla madre, 18 volte dal padre. Secondo uno studio inedito di M. Orsatti (Luca 1,34 tesi presentata alla Gregoriana), nei testi più antichi è la madre a imporre il nome (Gn 4,25; 19,37; 29,32-35; Gdc 13,24; 1 Sam 1,20), mentre nei testi più recenti e il padre. In Gn 4,25 Eva impone il nome a Set (documento F) mentre in 5,3 è Adamo a farlo (P). Un cambiamento analogo vi è forse in 16,11 e 16,15 per Ismaele, ma con maggior incertezza circa il documento. Questo cambiamento potrebbe indicare un passaggio da una civiltà matriarcale a una civiltà patriarcale. Questa potrebbe esser la ragione per cui è la ragazza a dare il nome all'Emmanuele secondo il testo ebraico (verso il 732), mentre è Acaz, il padre, a farlo secondo la traduzione dei LXX (secolo III). In Luca 1-2 Zaccaria viene invitato a imporre il nome a Giovanni Battista (1,13). Elisabetta cercherà di sostituirlo momentaneamente, dato il suo mutismo (1,60), tuttavia sarà lui ad adempiere la sua missione (1,62-63). Similmente è Giuseppe l'invitato a compiere questo atto paterno e a imporre il nome a Gesù.
4 GIOVANNI É QUALIFICATO IN ORDINE A UN FARE, GESÚ SUBITO MEDIANTE IL SUO ESSERE, secondo la pertinente analisi di A. GUEURET, Luc 1-2, analyse sémiotique, 1980, p. 65: «Giovanni (1,17) è posto dal destinatore (D 1) in ordine a un fare, mentre per Gesù il fare è già realizzato ed egli è qualificato secondo l'essere».
5 R. LAURENTIN, Structure, 1956, pp. 180-188, e più avanti, nota fuori testo, p. 555.
6 Non è possibile opporre queste due modalità della presenza su e in, che sono correlative (sopra, pp. 79-82; stessa correlazione nel caso di Simeone in 2,25-26).
7 Sul termine Santo come specifico di Dio e definente Dio cf R. LAURENTIN, Sainteté de Marie et de l'Église, in Études mariales 11 (1953) 5-7.
8 Sulla portata dell'espressione «Figlio di Dio» vedi nota fuori testo, p. 209.
9 Frequenza del verbo kaleô (chiamare) in Luca 1-2: 14 volte: 5 volte per Giovanni Battista: 1,13.59.60.61.62 (cf 1,36); 3 volte per Gesù: 1,31.32.35 (trilogia); altre 3 volte in 2,21 (due volte); 23 (seconda trilogia); cf 2,4 per Betlemme. Questo verbo ha una funzione nella strutturazione dinamica del testo: cf sopra, p. 99 (cosa che sarà confermata dalla semiotica). Allo stesso modo onoma (nome) ritorna 13 volte in Luca 1-2, di cui: 4 volte per Giovanni: 1,18.59.61.63: questi tre ultimi impieghi formano una trilogia; 2 volte per Gesù: 1, 31 e 2, 21, che si corrispondono; 1 volta per Dio: 1, 49. In Matteo 1-2 kaleô compare solo 6 volte e onoma 3 volte.
10 Vi ritorneremo sopra più avanti, segnatamente a proposito di san Paolo.
11 L'arca dell'alleanza è identificata con Maria da Luca (1,35 e 1,39-56) così come dagli omileti greci. Per Giovanni essa si identifica con Cristo, che ha piantato la sua tenda fra di noi (1,14) e il cui corpo è il NUOVO tempio (2,21). Questa tipologia è utilizzata dai Padri prima di quella di Maria arca dell'alleanza.
12 Se ne conservava solo un vestigio: il propiziatorio (ebraico: kapporeth; greco: hilastêrion): coperchio d'oro puro racchiuso nel Santo del Santi, che il sommo sacerdote aspergeva col sangue delle vittime nella festa del Kippur (espiazione). Già i profeti valorizzavano il tempio più dell'arca (Gr 3,16; cf 2 Mac 2,4-8). Gr 31,33 intravvedeva già un'alleanza che si sarebbe fatta nei cuori, al di là del simbolo dell'arca dell'alleanza: «L'arca dell'alleanza di Jahve non verrà più in mente, non se ne avrà ricordo, non la si rimpiangerà più, non se ne farà un'altra » (3, 16).
13 L'espressione positiva dynamis (in 1,35) è confermata dalla doppia negazione ouk adynatêsai (niente di impossibile). Il ritorno della stessa radice dyna in 1,35 e 1,37 e quasi intraducibile.

 

Inserito Sabato 21 Settembre 2013, alle ore 10:41:20 da latheotokos
 
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