Romano il Mèlode, omileta cantore di Maria
Data: Lunedi 2 Febbraio 2015, alle ore 17:16:22
Argomento: Patristica


Un articolo di Paolo Riva in La Madonna della neve, n. 1 - gennaio 2015, pp. 8-9.



Romano il Mélode, è il più grande poeta della Chiesa greca. Nativo di Emesa in Siria, visse presso il santuario mariano di Ciro a Costantinopoli. Rese perfetto il genere del kondakion e la sua omiletica ha qualcosa di miracoloso.

La città di Homs, in Siria, in questi tempi tragicamente famosa, insieme ad altre città del Medio Oriente per i combattimenti che quotidianamente la devastano, un tempo si chiamava Emesa e, con questo nome, ha dato i natali a numerose personalità dell'antichità cristiana. Fra questi forse il più noto è Romano (490-560), il maggiore dei poeti sacri della Chiesa greca soprannominato il Mèlode per antonomasia.

Recatosi a Beirut per perfezionare gli studi e ordinato diacono, si trasferì a Costantinopoli, quando regnava l'imperatore Atanasio I (491-518).Visse presso il santuario mariano detto «di Ciro», svolgendo per tutta la vita le mansioni di diacono. Presso questo santuario concluse la sua esistenza nel 560 e fu proclamato santo. La sua festa si celebra tuttora il primo di ottobre.

Romano ha lasciato un'opera esclusivamente poetica. Egli portò ad un raro grado di perfezione un genere poetico di origine siriaca, chiamato in seguito kondakion: si tratta di una composizione più o meno lunga comprendente, oltre alla strofa introduttiva detta proemio, un certo numero di strofe aventi lo stesso ritornello e legate tra loro dall'acrostico nel quale includeva il proprio nome. I kondakia di Romano sono vere omelie poetiche; egli vi commenta un brano biblico, un evento ecclesiale, una festa di Cristo o della Madonna, o una vita di un santo. La tradizione gli attribuisce più di un migliaio di inni, ma ce ne sono pervenuti meno di cento, di cui solo sessantatre sono autentici.

La tradizione attribuisce il carisma poetico di Romano ad un intervento miracoloso della Madonna che egli era solito venerare nel celebre santuario mariano di Blacherne. Nella sua opera egli celebra la sua Benefattrice in due diversi modi: invocando la sua intercessione in chiusura di molti suoi inni e consacrando a lei alcuni dei suoi migliori kondakia. Egli ha celebrato cosi la sua natività (l'inno che ci è pervenuto può valere quale antica testimonianza dell'introduzione di questa festa dell'8 settembre nella Chiesa di Costantinopoli, sotto l'imperatore Giustiniano); l'annunciazione (2 inni), dove sorprende l'angelo Gabriele in un atteggiamento di turbamento davanti alla prima risposta della Vergine e mormora fra sé: «Neppure qui mi si crede. Prima fu nel tempio, ed ora è a casa della Vergine. Lo stesso accadde per il dubbio: là fu di Zaccaria; qui è di Maria. Eppure non posso né mi azzardo a dare prove. Non ho potere di soffocare la sua voce come feci per il vegliardo. Allora fui capace di ridurlo al silenzio, ma ora tremo al solo dire: Ave, Vergine e sposa».

Ancora, canta la maternità divina di Maria in relazione al Natale, e mette in risalto i suoi interventi negli episodi della Presentazione di Gesù al tempio, delle nozze di Cana, e la sua presenza ai piedi della croce.

La dottrina mariologica di Romano resta profondamente ancorata a quella dei Padri della Chiesa anteriori: Maria è vista alla luce del mistero del suo Figlio. Le prerogative maggiormente poste in rilievo sono la maternità divina di Maria e la sua perpetua verginità, pur soffermandosi su alcuni tratti umani della sua figura. Per Romano, Maria è il testimone per eccellenza dell'Incarnazione, la discepola prescelta e, soprattutto, la mediatrice a favore di tutto il genere umano che Romano volentieri raffigura nei primi avi da lei, nuova Eva, ricevuti nella grotta e dei quali ella perora la causa presso il suo divin Figlio.

«Ponete fine ai lamenti; mi farò vostra avvocata presso il Figlio mio. Intanto non più tristezza, perché ho messo al mondo la gioia. Sono venuta al mondo per rovesciare il regno del dolore, io, piena di grazia... Mettete dunque freno alle lacrime; accettate me come vostra mediatrice presso colui che da me è nato, perché l'autore della gioia è lo stesso Dio generato dall'eterno. Non vi agitate più; bandite ogni turbamento: io vado da lui, piena di grazia» (Inno II del Natale).

Il Mèlode si sofferma volentieri sulle prefigurazioni veterotestamentarie, quali Eva, Sara, il roveto ardente, il mar Rosso, la verga di Aronne, il vello di Gedeone, la nube leggera, ecc. La porta chiusa di Ezechiele rappresenta la verginità perpetua di Maria; il monte, dal quale secondo Daniele si è staccata la pietra senza opera d'uomo, è il simbolo della maternità verginale di lei; essa è il tronco di lesse dal quale è sbocciato il fiore che è Cristo; è l'arca dell'alleanza che ha portato dentro di sé Dio stesso. Romano ha saputo interpretare meravigliosamente la mentalità del suo tempo e la religiosità profonda del popolo cristiano, creando una poesia nuova, capace di esprimere fede e devozione autentiche e di imprimere all'occasione un pathos intenso al fasto della liturgia bizantina. I suoi inni hanno fortemente marcato, in senso positivo, l'evoluzione successiva della poesia religiosa, nonostante la presenza di qualche appesantimento oratorio, provocato dalla foga della polemica o dalla speculazione teologica, e nonostante l'una o l'altra esagerazione nell'uso delle immagini e delle metafore.

IL NOSTRO DIO NEONATO
Potenze angeliche, procedete in testa; abitanti di Betlemme, preparate il presepe: il Verbo nasce, la Sapienza appare. Chiesa, abbraccialo per la gioia della Madre di Dio. Popoli, diciamo: «Benedetto sei tu, nostro Dio neonato, gloria a te!». Giuseppe, alla vista delle Potenze celesti che accorrevano per adorare l'Incarnato, fu colpito dal mistero del nato Sovrano, dei Magi che adoravano con doni il figlio della Vergine. Egli perciò diceva: «Benedetto sei tu, nostro Dio neonato, gloria a te!». Noi che possediamo nel Neonato la vittoria sui nemici, rovesciamo il regno di Belial: per la nascita di Cristo, il tiranno è stato incatenato. Adoriamo quindi il tuo frutto, Madre di Dio benedetta, acclamando con fede: «Benedetto il Neonato, Figlio della Vergine figlia di Dio». Sei apparsa Monte spirituale, o Vergine: da te infatti si è staccata la pietra angolare che il profeta vide annientare la statua: egli stesso ha spezzato il potere del tremendo corruttore degli uomini. Perciò diciamo: «Benedetto sei tu, nostro Dio neonato, gloria a te!». Quale intelligenza mortale spiegherà il tuo parto? Come ti chiameremo, o gloriosissima Maria? Da te si è incarnato il Fattore della creazione. «Salve a te», dirò all'Agnella, «Salve a te», griderò alla Vergine. Popoli, diciamo: «Benedetto sei tu, nostro Dio neonato, gloria a te!». (Romano il Mèlode, Sticherà di Natale).

 

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