Un approfondimento di Cettina Militello in A. Langella - G. Falanga (a cura di), La figura di Maria nella predicazione e nella pietà oggi, Verbum Ferens, Napoli 2013, pp. 51-60.
Il termine “sorella” riferito alla Madre del Signore non è particolarmente frequente nella tradizione cristiana. Lo dobbiamo, nel periodo immediatamente successivo al Concilio Vaticano II, a Paolo VI. Negli stessi anni, la “sororità” o “sorellanza” è stata una parola d’ordine delle filosofe e teologhe femministe, espressione di un mondo nuovo in cui le donne godessero piena autonomia e potessero incontrarsi in modo solidale.
1. SORELLA E SORORITÀ
Io stessa ho ritenuto la “sororità” una categoria fruttuosa per la mariologia. E ciò per molte ragioni. Innanzitutto perché consentiva di recuperare Maria all’interno della storia e dell’esperienza delle donne, acquisendola come compagna e sorella. Inoltre perché sembrava idonea a modulare la mariologia “al femminile”. In questi ultimi anni questo nesso è andato incrinandosi. Dire e pensare Maria come sorella appare sospetto alle donne che vedono naufragare nell’indifferenza delle più giovani l’utopia di una rete sororale. Inoltre, espressione di una relazione familiare sempre più rara, il termine evoca un rapporto difficilmente esperito e, come ogni altro termine relazionale funzionale (figlia, sposa, madre), se ne avverte (e se ne respinge) l’ipoteca patriarcale. Detto altrimenti madre, figlia, sposa, sorella non dicono, con il nome proprio, un soggetto femminile, ma ne evocano la funzionalità o la relazionalità bio-sociale. La perplessità delle donne si accompagna alla difficoltà del dire Maria in un contesto di massimalismo devozionalista: sembra quasi che il Concilio non ci sia stato! In esso appare a molti addirittura irriverente chiamare “sorella” la Madre del Signore. Eppure, crediamo, la sororità conserva uno spessore antropologico e teologico rilevante. Il nodo è ultimamente ecclesiologico, tanto relativamente a Maria che relativamente alle donne. Il termine “sorella” è specialissimo nella catena relazionale. Dice innanzitutto l’avere in comune il padre e la madre, o uno almeno dei due genitori. E, nella rete familiare, il riconoscersi come fratelli e, più ancora, riconoscere una donna come sorella, ingenera una relazione “gratuita”. Fraternità e sororità, pur inquinati da condizionamenti patriarcali, esprimono una relazionalità affettuosa, libera, disinteressata, soprattutto priva di domanda sessuale. Per inciso, è la ragione per cui le religiose vengono chiamate “sorella”. Fratello e sorella hanno, poi, una valenza più ampia di quella a cui siamo abituati. Lo stesso legame tribale, etnico, nazionale o l’appartenenza a un circolo, a una casta, a una categoria particolare e ristretta, giustificano l’uso del termine. Fratello e sorella si chiameranno l’un l’altro i cristiani indicando con ciò il comune orizzonte di fede. Nel secondo millennio, con forte connotazione anti-istituzionale e residua nostalgia della comunità primitiva, a chiamarsi fratelli e sorelle saranno i membri del gruppi pauperistici, marginali e non. Queste istanze fatte proprie dalla modernità – si veda la rivoluzione francese – restano ai margini della post-modernità, popolata di individualità assolute, la cui disperante solitudine rende obsolete fraternità e sororità.
2. LA VALENZA BIBLICA
Tutto ciò è ben lontano dal sentire biblico. Ritroviamo al femminile un uso metaforico del termine non meno vivo di quello iscritto nel legame di sangue. Sicché chiamare una donna “sorella” evoca un riconoscimento di lei gratuito e disinteressato; appella al riconoscimento di un legame solidale al di fuori sia da ogni ipoteca di possesso che di soggezione legale. La forza gratuita e liberante che il termine nasconde fa sì che lo stesso amore coniugale possa inglobarne le suggestioni. “Sorella” è così la sposa del Cantico (cf. Ct 4,9. 12; 5,1-2; 8,1) come pure la sposa che Tobia guarda come compagna da accogliere e rispettare (Tb 8,4.7). Insomma, per la sua valenza reale e metaforica insieme, nella Scrittura, “sorella” è termine riassuntivo della relazionalità al femminile. Lo prova Pr 7,4, in cui è la Sapienza a essere chiamata “sorella”, a conclusione di un circolo di transitività che abbraccia anche i termini di sposa e madre. Non possiamo dimenticare neppure – come avviene d’altra parte al maschile – la transitività che intercorre tra sororità e amicizia. Anzi, nella difficoltà indubbia di declinare al femminile l’amicizia – relazione possibile e degna solo tra maschi – proprio la Scrittura ci testimonia come all’amata si addicano insieme i termini di amica e di sorella.
3. MARIA “NOSTRA SORELLA”
Se “sorella” è termine di gratuità, di relazionalità non inficiata dal possesso o dal desiderio; se soprattutto per estensione di prossimità mette insieme la suggestione del legame di sangue con la consapevolezza d’appartenere alla medesima umanità, si capisce la ragione che ha indotto non pochi padri a invocare Maria come “sorella”. Atanasio, Efrem il Siro, Epifanio di Salamina, Cirillo Alessandrino e altri ancora additano Maria come sorella in un arco che va dal VI all’VIII secolo. Corrispondono a essi Agostino e Paolino di Nola, e poi, nei secoli che seguono, Ildefonso di Toledo e Pascasio Radberto. La mutazione culturale, avviando al II millennio, abbandona il vocabolo riferito a Maria. L’esaltazione di lei lascia cadere un termine inficiato socialmente. Fratres e sorores sono ormai quanti/quante nella vita religiosa esercitano funzioni servili. Pur nel risveglio di fraternità, proprio degli Ordini nuovi, Maria non vi riceve il nome di sorella, fatta eccezione per la comunità carmelitana che la dirà religione soror. E finalmente l’uso polemico di fratello e/o sorella nei contesti ereticali definitivamente sottrarrà questo titolo a Maria. Risultano perciò esigue le testimonianze del II millennio. Un’eccezione, nel contesto della Riforma, sarà Ecolampadio. A spiegare il declino del termine sorella è certamente il mutato modello di chiesa. La chiesa fraternità/sororità è una chiesa-comunione. Una chiesa via via ingessata nei moduli della feudalità, della signoria, della monarchia assoluta sino alla societas hierarchica iuridica inaequalis, non fa più spazio alla fraternità/sororità e anche Maria non può esservi chiamata sorella. Sarà il Vaticano II, il suo contesto, a consentirne il recupero e il rilancio. L’epiteto, però, è soprattutto presente nel magistero di Paolo VI – è d’obbligo citare la Marialis cultus n. 56 – e, in minor misura, nella pubblicistica mariologica post-conciliare.
4. PROSPETTIVE TEOLOGICHE
Questa veloce ricognizione indica Maria come sorella tanto nella successione delle generazioni e perciò nella comune appartenenza alla stirpe di Eva e Adamo, quanto nel salto qualitativo della famiglia dei discepoli.
4.1. “Sorella” nella comune umanità
Maria ci è sorella così come sorella e fratello ci è ogni essere umano con il quale condividiamo la carne e il sangue. Ci è sorella nella comune umanità. E basterebbe questa attenzione per costruire diversamente la mariologia, anzi la nostra teologia. Difficilmente nel far teologia facciamo spazio alla carne e al sangue. Anzi, poniamo ogni cura nell’elaborare astrattamente il discorso. Eppure, il messaggio cristiano ci raggiunge nella forza immediatamente coinvolgente ed evocativa di un messaggio di carne, qualificato e affidato alla stessa fragilità della nostra carne. La riscoperta e rivendicazione di una antropologia olistica chiede che vengano collegati mente e cuore, esperienza e riflessione, sensi e intelletto; chiede un altro modello di teologizzare e dunque altra attenzione benevola e solidale alla nostra comune umanità. Essa appartiene al Verbo di Dio che tra noi prende carne; appartiene alla carne che gli offre Maria, donna fragile, concreta, quotidiana, in carne e ossa, non astrazione edulcorata, bellezza disincarnata, creatura diafana e idealizzata, sciolta da ogni concretezza di rapporto, da ogni prossimità corporea. Riscoprirla sorella è innanzitutto coglierla nella sua creaturalità, perfetta finché si vuole, per grazia, ma non per questo aliena e irreale; piuttosto, prossima a tutti noi, in una solidarietà compassionata certo, ma soprattutto fisica, organica, di organicità culturata e culturante. Occorre prendere sul serio l’incarnazione, il dato scandaloso di un messaggio che addita la carne come cardine della salvezza. Maria è nostra sorella non più o meno di quanto Cristo sia nostro fratello. E se Cristo ci ha restituiti alla piena condizione filiale, ciò è avvenuto perché, in fondo, mai la nostra filiazione è stata interrotta. La paternità misericordiosa di Dio è tutt’uno con la storia salvifica. Essa scandisce di generazione in generazione un disegno di prossimità affidato al ritmo della carne. E la carne resta a cementare la fraternità/sororità della comunione definitiva e nuova: la sua carne, il suo corpo per noi dato; la sua chiesa, sorella, amica, amata, sposa.
4.2. “Sorella” nella peregrinazione della fede
La parabola della carne è parabola debole e forte. Ci rinvia di continuo al limite, alla fragilità. Maria ci è sorella perché nulla le è stato risparmiato di ciò che importa il limite esistenziale, l’indigenza nostra di creature. Ma ciò ella ha vissuto aderendo al volere di Dio, accogliendone la parola con fede. Ed è proprio questa la discriminante, ciò che rende esemplare l’esserci Maria sorella. Il Vaticano II con felicissima espressione ha parlato di una sua «peregrinazione della fede» (LG 58). L’essere chiamata a collaborare al disegno salvifico non ha sottratto Maria al dubbio e alla prova. La sua condizione singolare di grazia non l’ha posta al riparo dalla fatica del credere. Come ognuno di noi essa è avanzata, con difficoltà, nella comprensione del disegno di Dio. Nel chiamarla “sorella” la comunità ecclesiale ha guardato e guarda all’esemplarità di questa sua crescita nella fede. La qualità della risposta che essa ha offerto al Creatore ci incoraggia circa la possibilità di aderire con fede alla parola di Dio mettendola in pratica. Chiamandola “sorella” accostiamo Maria non come la creatura resa diversa dalla prossimità al Figlio divino. La guardiamo piuttosto come una donna che ha fatto della fede la scommessa della sua esistenza, in ciò non diversa da ciascun altro credente e, tuttavia, esemplare proprio nella qualità del suo fidente abbandonarsi a Dio. Nell’essere “sorella” Maria è altrimenti “tipo” della chiesa. Anzi, il termine la radica ancor più profondamente nel corpo del Figlio a cui appartiene, pur se quale membro singolare e sovreminente (cf. LG 53). La sorellanza, insomma, è flessione altra della fraternità come nome proprio della chiesa, comunità dei salvati, comunità peregrinante, comunità redenta. Comunità che vive di fede di speranza e carità. Comunità che si specchia nel modello teologale della Madre del Signore, cercando come lei di conservare «integra la fede, solida la speranza, sincera la carità» (cf. LG 64).
4.3. “Sorella” nella prossimità di genere
Infine, se la legittimità del dire Maria “sorella”, la sua esemplarità riguarda tutti, uomini e donne, non è tuttavia possibile dimenticare che il termine “sorella” tocca Maria anche nella trama dei rapporti che la stringono alle donne. Nulla sappiamo del suo rapportarsi a quante scelgono di seguire Gesù per le vie della Palestina (Lc 8,1-3) e che gli restano fedeli sino ai piedi della croce (Mc 15,40-41; Mt 27,55-56; Lc 23,49; Gv 19,25). Nulla sappiamo della rete dei rapporti che ella intreccia con quante le sono vicine, per parentela, per prossimità di casa e di sensibilità religiosa. Tuttavia, il Vangelo dell’infanzia di Luca ci trasmette, ai versetti 39-45 del suo primo capitolo, un episodio di forte qualità “sororale”. Protagoniste vi sono due donne: Maria e la parente Elisabetta. L’incontro, la visita che Maria rende a quest’ultima, è interamente nel segno di una mutua sollecitudine femminile, di una sororità profonda, convinta, risolutiva, rasserenante. Quale ne sia la valenza propriamente teologica, ci rimane un manifesto di “sororità”, di un indice esplicito di legame femminile profondo. L’abbraccio, tante volte iconografato, ci diventa paradigma di gioia messianica, di novità radicale, di compimento pieno del disegno di Dio relativamente all’umanità sua creatura. «Benedetta tu tra le donne e benedetto il frutto del tuo seno» (Lc 1,42). Da donna a donna questa benedizione si riversa sulle donne di ogni tempo. È costante antropologica il rapporto donna-vita. Solo che la “vita” a cui è definitivamente connessa la “donna”, Maria in quanto donna, è la “Parola” stessa di Dio. Ed è una donna, Elisabetta, a testimoniare la connessione definitiva del femminile alla “Parola”. Nell’incontro di Maria ed Elisabetta le donne sanno cosa anch’esse debbono testimoniare, perché l’umanità riveli il suo vero volto, un volto solidale, riconciliato, capace di gratuità e di tenerezza, capace di lasciarsi plasmare dal soffio beatificante dello Spirito.
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