Dal Programma pastorale della Diocesi di Bergamo, Anno pastorale 2010-2011, pag. 4-12.
È il testo lucano che fa seguito al brano dell’Annunciazione a Maria, o meglio della vocazione di Maria. Lì sentiamo il suo sì alla parola dell’angelo, la sua positiva risposta nella fede. In tal modo viene realizzata la condizione perché la promessa di Dio divenga carne. Il sì di Maria consente l’attuazione della promessa nel duplice senso di promessa e di contenuto della promessa. Il sì di Maria è assenso di fede al bene anticipato nella promessa divina, in nome del contenuto della promessa stessa, ossia Dio salva e salva i poveri. Il consenso di fede apre allora all’impegno della libertà nel servizio d’amore, che si fa carico effettivo della promessa. Così da parte di Dio l’attuazione della promessa avviene con il concepimento del bambino in Maria, mentre da parte di Maria l’attuazione della promessa avviene mediante la visita a Elisabetta. Al racconto di vocazione segue dunque quello della missione, proprio perché una vocazione ha il suo sbocco sempre in una missione; tale sembra essere il senso dell’episodio evangelico, noto comunemente come “visitazione di Maria” (Lc 1,39-45). Maria non si nasconde, non si richiude su di sé, a differenza di Elisabetta, che resta raccolta nella meditazione gioiosa per la fine della propria umiliazione per la prolungata sterilità. Al contrario Maria si mette in movimento per portare il lieto annunzio che sta misteriosamente prendendo forma nel suo grembo. Maria diventa il modello perfetto del testimone, perché, salendo sulla montagna di Giuda, porta con sé nel proprio grembo il Cristo e dona così l’evangelo al popolo che attende la visita del Signore.
Accogliere ‘i segni’ del Signore
Resta la questione del perché ella si metta subito in movimento verso la montagna di Giuda, visto che l’angelo non le ha dato esplicitamente alcun ordine in tal senso. Ebbene, se sale verso la montagna di Giuda, non è affatto per verificare la veridicità delle parole dell’angelo, ma, al contrario, per accogliere in piena obbedienza l’invito che l’angelo implicitamente le ha rivolto: contemplare il segno che il Signore le vuole donare attraverso Elisabetta. Questo invito è espresso nell’ecco, che letteralmente andrebbe reso con un ‘guarda’, ‘vedi’! Ora, Maria è la vera credente che non rifiuta il segno che il Signore le accorda e perciò sale sulla montagna per andare dall’anziana parente miracolosamente gravida. In questo Maria appare antitetica alla figura dell’incredulo Achaz, che rifiutò il segno propostogli dal Signore attraverso il profeta Isaia: «Non lo chiederò, non voglio tentare il Signore» (Is 7,12). Allora il profeta lo rimprovera aspramente: «Non vi basta di stancare la pazienza degli uomini, perché ora vogliate stancare anche quella del mio Dio?» (Is 7,13). Da autentica credente, Maria intraprende allora il suo lungo viaggio per ‘vedere’ ciò che il Signore sta compiendo in mezzo al suo popolo, per contemplare con Elisabetta l’azione potente e salvifica del Dio d’Israele e magnificare il Signore con lei. Così è implicita anche una sollecitazione per il lettore: come Maria egli è chiamato ad una fede ‘dagli occhi aperti’, una fede che cerca di rendersi conto di ciò che Dio opera nella storia degli altri fratelli e sorelle, in particolare offrendo ad essa il segno più evidente della sua misericordia e fedeltà: il dono dei figli!
In movimento
L’evangelista ci consegna un intenso ritratto di Maria ‘in movimento’. È un movimento che avviene ‘in fretta’, termine caro a Luca, per indicare un forte slancio religioso, cioè una grande passione che si impossessa dell’uomo, come nel caso dei pastori che vanno ‘in fretta’ a Betlemme (Lc 2,16) spinti dall’angelico annuncio. Si ricordi anche la fretta di Zaccheo che scende quasi a ruzzoloni dall’albero (Lc 19,6). Benché non ci sia lo stesso termine greco, possiamo rammentare la prontezza dei discepoli di Emmaus che ritornano in città ad annunciare agli Undici la risurrezione del Signore. Peraltro una ‘fretta’ simile è riscontrabile anche in vari testi del Primo Testamento, tutti pervasi di atmosfera religiosa, come, ad esempio, la fretta di Abramo, presso le querce di Mamre nel correre all’armento e nell’imbandire il banchetto per i tre divini ospiti (cfr. Gen 18). Luca fa trasparire qui la volontà d’imporre all’attenzione del lettore la prontezza e l’agilità del salire di Maria verso la montagna di Giuda; con tale immagine vuole positivamente provocarlo e implicitamente interpellarlo perché si interroghi sulla sua prontezza alla missione e riconosca la necessità di rompere gli indugi e le perplessità che molte volte ostacolano l’adesione fedele alla promessa divina. Anche la destinazione del viaggio è quanto mai significativa: «la regione montuosa». Maria va verso un villaggio il cui nome resta anonimo, ma con un orizzonte facilmente riconoscibile, ossia i monti che cingono di Gerusalemme. Si coglie così un’allusione innegabile al famoso passo di Is 52,7: «Come son belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi... che dice a Sion: “regna il tuo Dio”».
Il saluto di Maria
Il viaggio si conclude con l’ingresso nella casa di Zaccaria e con il saluto a Elisabetta. Nel saluto di Maria non vi è solo l’adempimento di una formalità, di una consuetudine di buona educazione, ma una parola efficace che realizza quanto viene promesso. Con la ‘missionaria’ Maria si verifica già quanto Gesù dirà poi ai suoi inviati: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui» (Lc 10,5-6). Il dono della pace, della gioia sovrabbondante, accompagna il saluto di Maria ad Elisabetta. Questa infatti viene riempita di Spirito Santo, e il bambino sobbalza nel suo seno per la gioia. Ecco dunque i frutti della lieta notizia: quando entra nella vita di una persona - come in questo caso nella persona di Elisabetta che accoglie il saluto di pace di Maria - essa produce gioia e alimenta quell’esultanza incontenibile generata dall’effusione dello Spirito, il dono dei tempi nuovi, messianici. Elisabetta, in quanto ripiena di Spirito Santo, parla allora con parole profetiche e si può altresì correttamente affermare che, attraverso di lei, parla anche il bambino che ella porta nel suo grembo, poiché anch’egli è ripieno di Spirito Santo. In tal modo il lettore attraverso le parole di Elisabetta, viene invitato a condividere la sua ammirazione per Maria, la serva del Signore e la credente! La scena di gioia tripudiante richiama ancora una volta il testo isaiano dell’arrivo a Sion del messaggero di lieti annunzi. Infatti la risposta di Elisabetta è un’acclamazione a gran voce, un grido a squarciagola, proprio come quello delle sentinelle di Gerusalemme che per prime ricevono la entusiasmante notizia: «Senti? Le tue sentinelle alzano la voce, insieme gridano di gioia, poiché vedono con gli occhi il ritorno del Signore in Sion» (Is 52,8). Intanto Maria rimane in silenzio ed ascolta il discorso di Elisabetta. È una figura silenziosa estremamente suggestiva perché oltre ad annunciare la buona novella e a portare il sospirato saluto di pace, sa insieme tacere ed ascoltare, per contemplare i frutti dell’evangelo nei cuori. Poi il silenzio finirà e quando ella parlerà sarà solo per magnificare il suo Dio. Luca sta così tracciando un ritratto ideale del cristiano che si fa testimone: l’annunzio veramente efficace affonda le proprie radici nell’ascolto e nella contemplazione! Quanto sta avvedendo in questa casa di Zaccaria con l’incontro delle due donne è un meraviglioso evento di comunione nell’amore e nella fede. È un evento che vede protagoniste oltre che le madri, ma anche i figli. Elisabetta riconosce in Maria non solo una parente che vuole esserle vicina in un tempo di necessità, ma il compiersi della promessa che Dio fa di visitare il suo popolo. È il Dio che visita l’umanità donando la vita e che chiede ad essa di collaborare al suo piano di salvezza, riconoscendo così nel dono del figlio, il Suo farsi il Dio vicino. Evento di comunione in cui traspare un tratto del popolo di Dio come comunità costituita da rete di famiglie, significata qui dalle due donne che si abbracciano e gioiscono insieme. Gioia contagiosa, colma di stupore, che si allarga alla comunione che le due madri sperimentano con i figli, avvertendone l’esultanza nel loro grembo.
Elisabetta loda Maria
Intanto Maria è rimasta in silenzio ed ascolta il discorso di Elisabetta. È una figura silenziosa estremamente suggestiva perché oltre ad annunciare la buona novella e a portare il sospirato saluto di pace, sa insieme tacere ed ascoltare, per contemplare i frutti dell’evangelo nei cuori. Poi il silenzio finirà e quando ella parlerà sarà solo per magnificare il suo Dio. Luca sta così tracciando un ritratto ideale del cristiano che si fa testimone: l’annunzio veramente efficace affonda le proprie radici nell’ascolto e nella contemplazione! Vediamo dunque da vicino il discorso di Elisabetta. Ella inizia con un’acclamazione che non è da ritenersi una semplice felicitazione: «Benedetta tu fra le donne» (v. 42), e conclude con un’altra esclamazione, con un macarismo: «beata colei che ha creduto…» (v. 45). In mezzo vi è una frase interrogativa, colma di sorpresa e meraviglia: «A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?». Da questo versetto è utile partire per comprendere il discorso di Elisabetta a proposito di Maria. Ella mette in risalto tutta la sua indegnità e, per contrasto, la dignità eminente della «madre del mio Signore». Si avverte qui un’eco di un episodio del Primo Testamento, quello di Davide che si domanda stupito la ragione per la quale Dio ha deciso di entrare nella sua casa: «Come potrà venire da me l’arca del Signore?» (2Sam 6,9). La domanda di Davide però indica anche la sua esitazione ad accogliere l’arca del Signore, che resta qualcosa di ‘temibile’ per l’uomo. Qui invece lo stupore di Elisabetta è tutto intessuto di gioia e di ammirazione e gratitudine, senza alcuna ombra di timore. L’espressione con cui Elisabetta si rivolge a Maria, indica la ragione della grandezza e dignità incomparabili di colei che è venuta a visitarla: quel figlio che Maria porta in grembo è “il Signore”! Si può dire anche che la grandezza del Figlio comunica ulteriore dignità anche alla madre; e, se in Israele la maternità è sempre qualcosa di assolutamente alto, questa gravidanza di Maria è una maternità di dignità ancor più inarrivabile proprio per la natura divina di quel figlio donatole dall’Altissimo. Le affermazioni di Elisabetta richiedono una spiegazione per non suonare roboanti, eccessive; è quanto lei si affretta a precisare: «Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo» (v. 44). Elisabetta parla di se stessa, ma solo per mostrare la consapevolezza della propria povertà e pochezza ed insieme la gioia per l’immeritata grazia ricevuta con la visita di Maria a casa sua, grazia che si aggiunge a quella del figlio che sta crescendo in lei. Umiltà e fede risultano indissociabili, e solo nell’umiltà si riconosce la grandezza di Dio. Sostiamo ora sulle due frasi esclamative che aprono e chiudono il discorso di Elisabetta: la benedizione introduttiva e la beatitudine finale. L’esclamazione iniziale di Elisabetta («Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!»), pur non essendo una diretta citazione biblica, è un tema molto conosciuto nel Primo Testamento (cfr. Gdc 5,24; Gdt 13,18). Si pensi qui alle benedizioni di Abramo da parte di Melchisedek, dopo la vittoria sui quattro re (Gn 14,19ss). È comune a tutti questi testi il fatto che tali benedizioni siano proclamate sull’eroe/eroina che ha appena conseguito una straordinaria vittoria. Ebbene di quale vittoria si tratta qui per Maria? È chiaramente la vittoria della sua fede, ottenuta attraverso l’obbedienza pronta e fiduciosa al progetto di Dio. Sempre riferendoci ai testi analoghi del Primo Testamento, si nota poi come, dopo la benedizione dell’eroe e dell’eroina, segua solitamente la benedizione di Dio, in quanto Egli ha garantito la vittoria al suo eroe (vedi, ad es., Gn 14,19-20). Anche qui si dà qualcosa di simile, ma anche di profondamente diverso, originale: alla benedizione della madre, segue infatti la benedizione del figlio da lei portato in grembo. Si può ritenere allora questa ultima benedizione una proclamazione dell’agire benevolo di Dio verso il figlio recato in grembo, simile a quella rivolta alla madre; oppure - e ciò ci sembra più pertinente - si deve intendere nel senso che Elisabetta eleva la sua benedizione a quel ‘frutto del grembo di Maria’, proprio perché Egli è Colui che le ha dato la vittoria! Se interpretate così, le due frasi, rispettando il substrato aramaico della frase detta da Elisabetta suonerebbero: “Tu sei la benedetta tra le donne, perché il frutto del tuo grembo è il Benedetto”.
La beatitudine della fede
Veniamo ora all’esclamazione con cui Elisabetta chiude il suo discorso e proclamante la beatitudine di Maria: «E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (v. 45). Va segnalato che l’espressione semitica soggiacente alle affermazioni bibliche ‘beato/a’ ‘beati/e’ non è mai un’esclamazione isolata, ma è sempre riferito ad un soggetto esplicito, per il quale si motiva, in qualche modo, la ragione di questa felicitazione. In altre parole, non c’è mai l’esclamazione ‘beato!’ senza che venga indicato ‘chi’ è beato. La beatitudine si distingue poi dalla benedizione, pur essendole vicina. La benedizione infatti viene dall’alto ed è dunque un’efficace realizzazione di felicità nei confronti del ‘benedetto’; la beatitudine non produce, ma constata con stupore la felicità di qualcuno, in qualche modo vi partecipa e ne suscita il desiderio. Si deve infine notare che la ‘beatitudine’ è una forma letteraria fondamentalmente attinente la sfera religiosa; non si proclama ‘beato’ uno perché possiede dei beni, prescindendo dal loro eventuale significato religioso. La ‘beatitudine’, in definitiva, proclama la salvezza, esaltando con la lode una persona o un gruppo di individui, esattamente a motivo della loro condizione di salvezza che li rende beati, felici. Qui la beatitudine di Maria è riconosciuta come fondata nella sua fede, per la quale ella riconosce il compimento della parola del Signore, affermando la fedeltà e il senso buono dell’agire divino verso l’umanità. Così la dichiarazione di beatitudine è anche una spiegazione: Maria è nella beatitudine della fede, perché nella fede, avendo creduto alla Parola di Dio, è diventata Madre del Signore (cfr. Lc 8,21; 11,38)! Così alle parole ispirate di Elisabetta, piene di ammirazione per la Madre del Signore, Maria risponderà, nel suo Magnificat, spostando l’attenzione dalla propria persona proprio sulla santità e misericordia di Dio che ha fatto in lei ‘grandi cose’. In esso Maria eleva il canto di lode articolato in tre momenti strettamente connessi tra loro: la gratitudine traboccante per quanto il Signore ha compiuto in lei, il giubilo per lo stile paradossale dell’intervento divino nella storia umana ed infine l’esaltazione della sua fedeltà nel compiere le promesse date ad Israele e destinate all’intera umanità.
Il Vangelo della vita
Il brano della Visitazione realizza un’icona della vocazione che la famiglia esprime e vive nella generazione di un figlio. Maria ascolta la parola dell’angelo e risponde con il sì della fede. Quel sì costituisce la condizione perché la promessa di Dio divenga carne. Così Gesù è destinato fin dal momento del concepimento secondo una vocazione e una promessa che viene da Dio e che è fatta propria dalla fede di Maria e che si concentra sul nome stesso di Gesù: “Dio salva”. Importante è notare che il primo risultato dell’evento di salvezza è una comunione di amore e di fede che non trova protagoniste solo le madri, ma anche i figli, la cui vocazione è data nella risposta di fede delle madri. Lo stupore si allarga quando si nota che i bimbi nel grembo delle madri esultano di gioia, al punto che le madri stesse sono poste nella condizione di ascoltarli per gioire con loro. Questo duplice ascolto, della parola di Dio e del vangelo della vita che proviene dai figli, traccia i contorni dell’impegno che caratterizza l’azione educativa dei genitori, ma costituisce pure la condizione per la nascita della comunità nel Regno. Questo trova espressione profonda nella frase scelta: «Beata colei che ha creduto…».