Di Carmel Charles D'Elia, Maria e l'uomo d'oggi, Centro di Cultura
Mariana "Madre della Chiesa", Roma 1989, pp. 43-52.


Come si rapporta la figura di Maria santissima con gli aspetti
della civiltà dei nostri giorni e, quindi, con l’uomo contemporaneo?
a) Maria donna di vita interiore
Bisogna innanzitutto dire che parlando della Vergine gli evangelisti intendono darci, direi, la sua figura teologica. Inoltre, ciò che gli
evangelisti fanno, potrebbe essere visto come un modo di tratteggiare
e rappresentare il ritratto della Madonna per mezzo di detti ed episodi che danno una profonda percezione del suo intimo, colto da diversi angoli visuali, da diversi punti di vista. Detto questo è interessante
che Luca segnali due volte il fatto che Maria era una contemplativa, una persona cioè che dava più importanza all’interiorità che
non all’esteriorità. Dopo la nascita di Gesù a Betlemme e la venuta
dei pastori, Luca scrive:
«Dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto
loro. Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori
dicevano» (Lc 2, 17-18).
Ma Luca, facendoci notare il contrasto e la differenza, aggiunge:
«Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose, meditandole nel
suo cuore» (Lc 2,19).
La gente avida di notizie sensazionali e insolite si meraviglia, rimane a bocca
aperta: ma poi dimentica. È troppo presa dalle cose esteriori, troppo
indaffarata perché le parole sentite incidano profondamente nel cuore e nella vita. Queste parole sfiorano l’esterno e
l’interno e poi svaniscono. Non così nel caso di Maria. Lei era «raccolta», non era dispersa in mille ed un affare, non viveva al di fuori di
se stessa come tanti di noi. Era presso di sé, il suo «io» era quindi in
suo possesso, perché coltivava la vita interiore, perché nell’azione
era contemplativa, perché sapeva meditare, perché la parola e l’esperienza erano per lei occasioni di tornare dentro di se stessa e di ritrovare, nell’intimo santuario dell’«io», il suo Signore. I fatti, gli eventi
e le parole della storia, erano per lei un ponte tra il suo «io» e Dio.
Luca ci racconta ancora che dopo che Giuseppe e Maria trovarono Gesù dodicenne nel tempio di Gerusalemme, tornarono a Nazaret, e «sua Madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (Lc
2,
51). Maria sapeva serbare, conservare, custodire tutto nel suo cuore,
perché il suo cuore aveva una certa profondità, perché nel suo cuore
trovava l’intelligenza e l’interpretazione giusta dei fatti, delle parole,
degli eventi, giacché nel suo cuore abitava Dio come in un santuario,
in un tempio da lei sovente frequentato. Lungo l’arco della vita nascosta di Gesù, Luca sembra indicare che la prima e più importante
attività che marcava la vita di Maria, era di custodire «tutte queste cose nel suo cuore»,
e di interpretarle alla luce della ininterrotta contemplazione del Figlio di cui condivideva la vita!
Non il «fare», neanche se questo fare è un’attività spirituale, un
apostolato, caratterizza la vita di Maria, ma piuttosto il contemplare,
il meditare, l’essere «uditrice», anzi «ascoltatrice» della Parola di Dio
e del Figlio. È qui l’origine del canto sublime del Magnificat, così
rappresentativo della personalità spirituale di Maria. È qui la sorgente della
sua maturità spirituale dimostrata con la sua piena e totale disponibilità perseverante a Dio e al mistero del Figlio.
Da lui si separò solo quando scoccò l’ora dell’inizio della sua vita
pubblica, quando Gesù le fece capire che la sua maternità era in primo luogo spirituale, un servizio per gli uomini piuttosto che fonte di
soddisfazione per se stessa: «Chi è mia madre, chi sono i miei
fratelli?...» (cf. Mc 33-35 e paralleli); quando soprattutto dovette
assistere al momento più generoso e straziante della vita di suo Figlio e
sua, sotto la croce. La statura della Madonna, questa statura di gigantesca grandezza spirituale, proviene dalla sua profonda interiorità.
Una interiorità che la rendeva forte perché consapevole della sua
creaturalità, potente perché conscia della sua totale dipendenza
dall’Altissimo, raggiante di gioia e ricolma di beatitudine, perché cosciente della sua «piccolezza» e perché la sua meditazione e la conseguente
docilità la portavano ad abbandonarsi totalmente nel Dio misericordioso, che
solo costituiva la sua salvezza. L’interiorità e l’attitudine contemplativa della Vergine santissima avevano l’effetto connaturale
di produrre in lei un atteggiamento di docilità'e di ricettività, non solo riguardo al suo essere creaturale (al suo
esse natum), ma anche in rapporto alla sua femminilità e al ruolo contemplato da
questa dimensione essenziale dell’essere umano dal piano di Dio
creatore e salvatore. Maria infatti è la Madre del Messia, la Madre del
Dio fatto uomo, e come tale è la «serva», cioè colei che si consacra silenziosamente a servizio della vita del Cristo, colei la cui vita consiste nel servire la vita del Figlio dall’inizio sino alla fine, perdendosi
come lievito nella sua missione salvatrice. E tutto ciò lo faceva in
esultanza di spirito, lodando e ringraziando Dio, perché tutto in lei
era opera sua, perché «il Potente aveva fatto in lei grandi cose» (cf.
Lc 1, 49), semplicemente perché egli esalta gli umili e ricolma di beni
gli affamati e i poveri, che in lui confidano.
Per lei quindi valeva più accettare il proprio essere, che pretendere di esserne l’autore. Il suo atteggiamento-base era quello di accogliersi da Dio: quindi l’essere non il fare, l’essere piuttosto che l’avere o il potere. Perché coltivava la vita dello spirito, perché dava la
priorità all’interiorità, Maria non si ridusse mai al livello del semplice homo faber. Era guidata dalla
sapientia cordis, la sapienza di Dio.
Era sempre sulla lunghezza d’onda dell’homo sapiens, ma sapiente della
saggezza e della sapienza di Dio. A ragione la invochiamo: «Sedes sapientiae»!
Questa sapienza della Vergine santissima la si può vedere nella caratteristica
più evidente, nella qualità più saliente della sua personalità, che contraddistingue tutta la sua esistenza, ed è il tratto portante
della sua figura spirituale e soprannaturale.
b) Maria donna di fede
Questa qualità fu messa in evidenza da Elisabetta, visitata da Dio
nella sua vecchiaia e nella sua condizione di sterile, quando diede il
benvenuto alla sua giovane parente venuta a trovarla:
«E veramente beata colei che ha creduto, perché si compiranno le cose a lei dette dal Signore» (Lc 2, 45).
«Colei che ha creduto»: ecco la frase che sintetizza la vita e la personalità della Madonna, giacché ella — come ce la presentano i libri
sacri — altro non fu se non «colei che ha sempre creduto», per antonomasia!
Con la sua esclamazione Elisabetta diede, per così dire, una identificazione
della personalità morale e spirituale della sua santa parente, Madre del suo
Signore. La fede di Maria ci colpisce se confrontiamo il suo atteggiamento davanti alle parole dell’arcangelo Gabriele con l’atteggiamento di Zaccaria all’apparizione e all’annuncio
dell’angelo nel tempio. La risposta di Zaccaria all’angelo che gli annunciava la prossima maternità di sua moglie Elisabetta fu alquanto
simile a quella del razionalista: «Da che cosa potrò conoscere questo?
Infatti io sono vecchio e mia moglie è avanzata in età» (Lc 1,18): una
domanda e una costatazione che, al dire dell’angelo, rivelano la sua
incredulità:
«Ed ecco sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui avverranno queste cose, perché non hai creduto alle mie parole, le quali si
adempiranno al loro tempo» (Lc 1, 20).
Zaccaria quindi vuole vedere prima di convincersi, prima di credere (se questa, nel caso specifico, è parola giusta!). Egli vuole la verifica, giacché il messaggio dell’angelo gli rivela un fatto che secondo i
criteri della cosiddetta normalità, degli eventi cosiddetti «naturali», non
dovrebbe e quindi non potrebbe avverarsi! Vuole la prova, non si fida di Dio. Si direbbe che la sua inclinazione lo portava a porre certi
limiti al potere, alla sapienza e alla provvidenza di Dio. La misura del
possibile era l’esperienza, il ragionamento, la normalità: insomma, si
direbbe oggi, le scienze naturali o scienze umane, e il common sense.
Non importava che l’angelo gli avesse detto che la sua preghiera era
stata esaudita! (v. 13).
Ma riportiamo lo sguardo su Maria santissima. Al primo saluto
dell’angelo: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te, tu sei benedetta fra le donne» (Lc
1, 28), ella si turba; ma solamente perché
non poteva capire il senso del saluto: «Si chiedeva cosa fosse tale saluto» (v. 29). Quando poi l’angelo le annuncia che sarebbe diventata
madre di Gesù, il «Figlio dell’Altissimo», il Messia (v. 31 s), ella gli
chiede: «Come sarà questo, giacché non conosco uomo?» (v. 34). A
prima vista questa domanda di Maria sembra uguale a quella di Zaccaria. Ma, di fatto, mentre Zaccaria chiede prove, perché ciò che gli
annuncia l’angelo gli pare impossibile, Maria fa presente il suo voto
di verginità, voluto da Dio, quindi la volontà di Dio per lei da una
parte; e, d’altra parte, chiede all’angelo se il suo messaggio sia da Dio,
sia, in altre parole, volontà di Dio anch'esso: perciò chiede di sapere se è la stessa volontà di Dio, lo stesso Dio, che vuole la sua verginità
e la sua maternità. Quali segni potrà avere che ciò che le predisse
l’angelo era davvero da Dio, volontà dell’Altissimo? La differenza
tra ciò che Maria chiede e ciò che chiede Zaccaria è lampante. Maria
non vuole prove, non fa presente l'impossibilità — che umanamente
sembra esserci — tra il suo non conoscere uomo e la sua maternità:
chiede solamente i segni del «digitus Dei», giacché era convinta (come le disse poi l’angelo) che «niente è impossibile a Dio» (Lc 1,37). Perciò l'angelo non
reagisce alla domanda di Maria come reagì nel caso di Zaccaria, ma
viene incontro alla sua richiesta dandole due segni. Perciò Maria appena vede i segni dell’intervento divino, del braccio onnipotente
dell’Altissimo, risponde senza nessuna esitazione: «Ecco la serva del Signore, che avvenga a me secondo la tua parola!» (v. 38).
Razionalismo da parte di Zaccaria; sopra-razionalità della fede in
Maria! Vergine e Madre, donna di fede, vergine a motivo della fede,
madre prima per la fede, poi secondo la carne, Maria è vista nell’ottica dei Padri come «typus Ecclesiae», tipo della Chiesa, la quale, come
afferma il Concilio
«essa pure è vergine, che custodisce integra e pura la fede data allo
Sposo, e ad imitazione della madre del suo Signore, con la virtù dello
Spirito Santo, conserva verginalmente integra la fede, solida la speranza, sincera la carità» (LG 64).
Il Concilio poi ci presenta Maria come colei che
«avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua
unione col Figlio sino alla croce» (LG 58).
Quelle parole pronunciate all’Annunciazione: «Ecco la serva del
Signore», diventano il motto e il programma del suo pellegrinaggio
terreno e della sua peregrinazione spirituale! Tutta la vita di Maria fu
animata, illuminata, sostenuta e cadenzata da una fede sempre crescente: una fede che dovette essere il lievito del primo e primitivo
nucleo della comunità ecclesiale nel cenacolo.
Tutta la vita di Maria era segnata dall’oscurità luminosa e dalla luce ombratile — che diveniva sempre più brillante — della fede,
dell’abbandono a Dio, dell’adozione del modo di ragionare di Dio,
della totale fiducia in Colui al quale niente è impossibile. Perciò, nella sua debolezza, Maria era forte della forza del braccio onnipotente
di Dio, come testimonia l’episodio di Cana, come dà prova l’attesa e
la venuta dello Spirito su di lei e sugli apostoli nel cenacolo di Gerusalemme.
Per lei bastava la certezza dell’amore paterno, della paternità amorosa di Yahweh. E se la sua vita era una vita dolorosa —
tanto che la pietà cristiana la venera come Mater Dolorosa — per
mezzo della sua fede la Vergine santissima era lungi dall’essere assillata dall’angoscia, dalla paura, dall’insicurezza, giacché era convinta
che il Signore era il suo pastore e nulla le poteva mancare, e perché
era sicura che se Dio era con lei, niente poteva essere contro di lei!
Radicata e fondata nell’eterno, dominava il tempo, incluso il futuro.
Avendo Dio come suo garante, era sicura di sé, si sentiva grande e
potente della sua potenza e grandezza. Avendo svuotata se stessa per
Dio, si sapeva arricchita interamente di Dio!
c) Maria donna umile
Maria — abbiamo appena detto — si era svuotata del proprio
«io», aveva annichilito se stessa per Dio. Spiccava in lei la «kenosi»
come in Gesù suo Figlio, di cui san Paolo nella lettera ai Filippesi dice: «spogliò se stesso» e
assunse la forma di schiavo (Fil 2,7). È interessante notare come Maria
adoperi riguardo a se stessa il medesimo vocabolo che Paolo usa per significare
l’atto dell’incarnazione del Verbo. Paolo infatti ci dice che Cristo si è fatto
«schiavo» (Fil 2,7) e Maria rispose all’angelo Gabriele, definendosi come
«Serva» (Lc 1,38): la schiava del Signore.
Gesù aveva detto di se stesso che aveva il cuore mansueto ed umile
(cf. Mt 11,29); Maria dice di se stessa che il Signore aveva guardato la
piccolezza, l’umiltà della sua schiava (Lc 1, 48).
Se la redenzione effettua nell’uomo una somiglianza al Verbo incarnato, perché coloro che «egli da sempre ha conosciuto, Dio li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo»
(Rom 8, 29), è chiaro che colei che fu la redenta per eccellenza, la
perfettamente redenta — come possiamo vedere dal fatto del suo
concepimento immacolato e della sua assunzione in corpo ed anima
nello splendore eterno di Dio alla fine del suo passaggio terreno —
non poteva non essere, come il Figlio, contraddistinta dall’umiltà.
La sua fede emanava e produceva, in un costante crescendo, proprio
questo atteggiamento di serva nei confronti di Dio, del suo Signore,
e degli uomini, suoi fratelli e sorelle, tutti quanti figli e figlie dello
stesso Signore e Padre. La sua vita non era una vita incentrata sul suo
«io», su se stessa, ma sul suo Signore e sul Figlio in cui riconosceva il
Messia, il Liberatore del Popolo, che incarnava le promesse, sosteneva e formava la vita e la speranza del popolo d’Israele. Attraverso le
vicende della vita del Figlio e della propria vita, Maria imparava che
la sua missione era come quella del Battista: aiutare la missione del
Figlio, nascondendosi, annichilendosi, rendendosi sempre più piccola. Le vicissitudini della vita, da lei viste nella luce di Dio, le facevano
continuamente capire che bisognava accettare il piano di Dio, che
contemplava il modo in cui il Figlio suo doveva compiere la promessa di Yahweh e salvare il popolo, attraverso l’incomprensione, la
persecuzione, l'umiliazione, la sofferenza, il rifiuto, la morte. Da
parte sua, era continuamente chiamata a partecipare alla sorte del Figlio, ad aderire ai misteriosi disegni del Padre nel silenzio e nell’umiltà, non cercando quindi la grandezza e il potere, ma — come e con il
Figlio — accettando le umiliazioni, gli insuccessi, l'apparente disfatta della vita e dell’opera del Figlio, l'apparente annientamento della
promessa di Dio, insieme all’apparente vittoria delle forze del male
sul potere della bontà, la vittoria del Malvagio sul Divino.
I segni del tempo della sua vita e della vita del Figlio le indicavano
la sua missione di «umile ancella del Signore». La sua storia, fatta non
di gloria, di godimenti o di soddisfazioni personali, le dava continua occasione di sentirsi piccola, debole, insufficiente, umanamente insicura del presente e del futuro, completamente dipendente dal
suo Signore, incapace da sola di seguire la traccia dei suoi disegni incarnati nella trama della vita di suo Figlio, che s’intesseva di fili sempre e totalmente imprevedibili e nuovi.
Insomma, ogni momento della vita di Maria le palesava sempre
più che era chiamata ad essere l’umile ancella, ad abbracciare Dio e il
suo volere nel suo cuore con amore umile e grande, e con un senso di
totale e incondizionata fiducia. La sua vocazione era di accettare Dio
in modo degno di Dio — cioè con totale umiltà, con un atteggiamento genuino e sincero di una che si sente polvere, vicina alla terra,
all’humus, (donde il vocabolo: humilis) nei confronti di Colui che è
«semper maior», sempre più grande. Maria era chiamata ad accettare
Dio con la piccolezza e con l’umiltà che sole dispongono l’uomo ad
accogliere il Signore come egli è. Dio poteva essere concepito solo da
un cuore che non cercava né il potere, né la propria soddisfazione,
né il proprio arricchimento, accettando di accoglierlo. Dio poteva
diventare uomo solo sotto un cuore che cercava Dio per sé stesso,
cioè sotto un cuore che si riconosceva debole e indegno dell’Altissimo, e si
meravigliava della grandezza e della bontà di Dio, che sceglie la debolezza per
incarnarsi; un cuore quindi che trasaliva di gioia nel poter offrire sé stesso
al Signore, perché questi potesse compiere il suo piano d’amore e di salvezza a
favore dell’uomo. Non la ricerca del potere, della propria grandezza o del
proprio interesse da parte dell’uomo attira il divino verso l’umano, ma l’amore
dell’umiltà, il riconoscimento della propria debolezza, la generosa ricerca
della volontà di Dio e dell'interesse degli altri: queste qualità sì che preparano la via affinché il Signore venga tra gli uomini e rimanga tra loro.
C'è di più: queste ultime disposizioni fanno diventare l’uomo divino, quasi incarnazione di Dio, come lo fu in modo sublime e sovreminente Maria.
d) Maria donna povera
L’atteggiamento e la virtù dell’umiltà, animata dalla consapevolezza della «divina maiestas» e dall'amore dello stesso Amore, distacca l’uomo da sé stesso, lo rende sempre più persuaso che Dio solo è
degno di essere la meta della sua vita, che nessuna creatura può costituire un sostegno sicuro e assoluto. Giacché l’umiltà va di pari passo
con la coscienza della propria povertà e della povertà fondamentale
di tutto ciò che è creato.
Ora non c’è nessun dubbio che questa povertà spirituale promanante dalla sua umiltà colorava tutta la vita spirituale della Vergine
santissima. Lei era certamente «povera in spirito». E questa povertà
lei l’accettava e l’abbracciava con tutto il cuore di serva di Jahveh, di
serva del servo di Jahveh per eccellenza, di serva degli uomini suoi
fratelli e sorelle.
Non solo la povertà spirituale caratterizzava l’esistenza della Vergine santissima. Lei, come suo Figlio e insieme con Lui, era chiamata
a condurre una vita di povertà effettiva, non solo affettiva. Sposa di un semplice falegname, dovette dare alla luce il suo unico Figlio in
un luogo ove il neonato altro posto non aveva per giacere, se non
una mangiatoia. Alla presentazione di Gesù nel Tempio lei e Giuseppe offrirono due tortore, l'offerta del povero. A causa dell’invidia e
dell’insicurezza di Erode lei e Giuseppe insieme col Bambino dovettero andare in esilio e per un certo tempo almeno restare senza tetto.
Il racconto evangelico ci fa supporre che, durante la loro permanenza in Egitto, dipendevano dalla generosità altrui per l’ospitalità, giacché avevano dovuto abbandonare la loro casa e i loro averi in fretta,
dopo l’annuncio dell’angelo a Giuseppe.
Che la santa Famiglia fosse povera, sconosciuta e insignificante,
ce lo fa concludere la meraviglia dimostrata da Natanaele a Filippo.
Costui gli disse di aver incontrato Gesù, il Messia — che secondo
l’opinione comune avrebbe dovuto essere una persona importante e
grande secondo la grandezza di questo mondo, quindi potente, importante e ricco. Natanaele rispose: «Da Nazaret può mai venire
qualcosa di buono?» (Gv 1,46). Anche i Nazaretani, sentendolo parlare nella sinagoga, esclamarono: «Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone?»
(Mc 6, 3). Come per dire: Ma costui non è un semplice operaio come
noi di Nazaret? Credo non sia una supposizione fuori posto pensare che la Madre
di colui che conduceva una vita da povero, e non aveva dove posare il capo; che
ogni giorno dipendeva in tutto dalla provvidenza e generosità altrui; che scelse semplici e rozzi pescatori come suoi più stretti collaboratori, non avrebbe potuto permettersi di vivere nel lusso,
nell’agiatezza o anche una vita media borghese. Una madre di un tale Figlio doveva sentirsi chiamata costantemente ad una vita povera:
come, per intenderci, uno che si sente legato alla gente che vive nelle
Favelas non può che sentirsi costantemente chiamato a solidalizzare
con la sua gente e condividere effettivamente la loro sorte.
Ma per Maria le scelte del Figlio erano dei valori, e quindi la povertà, che fu il distintivo della vita del Figlio fin dalla nascita, era anche per lei una cosa positiva, cara e preziosa agli occhi di Dio.
Sotto la croce del Figlio poi, testimoniando come la «somma povertà» (S. Ignazio) doveva essere nel piano del Padre il coronamento
terreno della missione del «Figlio di Dio», coronamento tuttavia seguito dalla risurrezione dello stesso Crocefisso, Maria ebbe la prova
più lampante che la povertà abbracciata con lo stesso spirito del Figlio, e con il Figlio, era seme di una ricchezza indicibile. Durante la
vita del Cristo la povertà diventava per lei sempre più luminosamente grande, man mano che la vedeva primeggiare tra le scelte del Figlio. Ora in questo momento solenne sotto la croce, e poi dopo la risurrezione di Gesù, la povertà già intravista e da lei vissuta come
«virtù soprannaturale» rivestiva uno splendore tutto nuovo, che
confermava le convinzioni e le scelte anteriori di Maria nei riguardi
di essa. In questo momento, insieme con il Figlio, rinnovò il vincolo
intimo del suo amore con la povertà, che aveva stretto e continuamente
confermato nell’arco della sua vita. La ricchezza più grande per Maria come per
Gesù — poveri di una povertà che non è un semplice non-avere — consisteva nella
nobiltà spirituale ed interiore. Insomma per loro era ricco davvero chi aveva
Dio, o meglio colui il cui unico possesso ed eredità era il Signore. Maria cioè era povera in spirito e viveva da donna povera di
mezzi materiali, si sentiva ed era una povera tra gente povera, e faceva di questa povertà effettiva una virtù, una via a Dio o un legame
con Dio, perché la sua povertà diventava mezzo per lasciarsi impossessare da Dio, e così essere di più avendo di meno!
Conclusione
Maria e l’uomo contemporaneo! Maria e noi!
A chiusura delle nostre riflessioni su questo inscindibile binomio,
per noi così incoraggiante, sento scaturire con spontaneità e fiducia
il grido espressivo ed accorato della magnifica preghiera, a noi tutti
familiare:
«Vita, dulcedo et spes nostra, salve!
Ad te suspiramus,
gementes et flentes in hac lacrimarum valle...
O clemens, o pia, o dulcis Virgo Maria!».
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