Di
Bruno Secondin, in AA. VV., Maria e la Parola di Dio, Centro di
Cultura Mariana "Madre della Chiesa", Roma 2009, pp. 185-203.

Considero questo tema molto vasto, e perciò mi limiterò
solo ad alcuni aspetti di quello che sarebbe
giusto e doveroso dire.
Comincerò con la famosa frase di Benedetto XVI:
«Il Magnificat è interamente tessuto di fili della Sacra Scrittura, di fili tratti dalla Parola di Dio. Così si rivela che lei
[Maria di Nazaret] nella Parola di Dio è veramente a casa sua,
ne esce e vi rientra con naturalezza. Ella parla e pensa con la
Parola di Dio; la Parola di Dio diventa parola sua, e la sua
parola nasce dalla Parola di Dio» (Deus caritas est, 41).
Il papa Benedetto XVI, sa bene, come del resto sappiamo
tutti noi, che il Magnificat è espressione orante e dossologica
non solo di ciò che Maria aveva provato in quel momento e in
tutta la sua vita, ma anche della simbiosi tra lei e la comunità dei
credenti. Cioè questo magnifico cantico è come un ricamo a
molteplici mani, come esultanza di una moltitudine di credenti, come eco di molteplici suoni che si sono fusi: Maria nella sua
vita e nella sua avventura di grazia è la più degna a pronunciarlo e la più conformata alla teologia esperienziale che vi si riflette, è la voce di tutta la Chiesa che nel cantico vi si immedesima.
Perché una composizione così raffinata, dai mille echi
biblici, dalle immagini così suggestive ed efficaci, dagli orizzonti così ampi, eppure così prossima al linguaggio, alla terminologia, al ritmo della dossologia di tutte le Scritture, è
frutto personale e insieme collettivo, risuona nel cuore e nell’anima femminile di Maria in maniera unica e romba come
un tuono nell’ethos di tutto il popolo dei figli di Abramo e
dei redenti dal nuovo Adamo.
Luca ha certamente messo della sua abilità letteraria in
quelle parole, ma anche la distanza tra l’evento iniziale e la
composizione materiale del testo ha reso possibile fondere
insieme emozione iniziale e gli esiti di un vissuto personale e
collettivo che si è incanalato nel testo e negli echi.
Diventando davvero canto di nostalgia e di speranza, ma
anche risposta orante e dossologica per tutto quanto ormai si
era realizzato e aveva preso forma piena e definitiva. Difatti
sono evidenti sia le radici della prima alleanza, sia la verità
della nuova Alleanza nei suoi nuclei più salienti del testo.
1. A partire da una originalità di Luca
Tutti conosciamo la parabola del seminatore: i tre sinottici la raccontano con delle proprie sfumature (cf.
Mt 13,1-
9.18-23; Mc 4,1-20; Lc 8,4-15), ma anche collocandola secondo esigenze di struttura differente, proprie di ciascun vangelo. Vorrei soffermarmi sulla redazione lucana e far notare una
operazione che fa Luca (Lc 8,4-15).1
Questa parabola viene collocata da Luca in un contesto
del tutto speciale, non casuale: prima di narrarla, l’evangelista ricorda che attorno a Gesù c’erano uomini e donne che lo
seguivano, condividendo con lui viaggi, predicazione e
preoccupazioni (Lc 8,1-3). Quindi la premessa alla parabola
– a differenza degli altri due sinottici, Marco e Matteo – anzitutto è che vi è un discepolato misto, fatto di donne e uomini, e perciò sono loro gli stessi destinatari più immediati della
parabola. Diciamo di più, dovrebbero essere loro soprattutto la forma visibile della fruttificazione del seme gettato dal
seminatore. Certamente c’è anche «molta folla che accorre»
(Lc 8,4), ma questo è uno stereotipo. Quelli che veramente
sono i primi e diretti destinatari del senso della parabola sono
loro, discepole e discepoli.
E dopo aver proposto la parabola e averla anche spiegata
– e tutti sappiamo come è – però senza la finale delle percentuali, ma parlando di «frutto nella perseveranza (karpoforoúsin en hypomonè)» – espressione meno di efficienza e più di
sensibilità e qualità – Luca conclude richiamando ancora delle
persone particolari, nel caso specifico alla presenza della
madre e dei fratelli che stanno cercando di contattarlo, ma
non riuscivano, «stavano fuori» (éxo stèkontes) dice Marco
(Mc 3,31; cf. Mt 12,46). Situazione che sta a significare sia la
ressa della folla, sia la difficoltà anche per i parenti di capire
veramente la novità che era proposta da Gesù. Anche
Giovanni accenna che neppure i suoi lo capivano e gli credevano (cf. Gv 7,3-6). Ora la risposta di Gesù a chi lo avverte
che i parenti lo stanno cercando, forse anche per suggerirgli
una calmata visto il tanto trambusto, Gesù risponde: «Mia
madre e miei fratelli sono coloro che ascoltano la parola (o
logos) di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,21). È
drastica questa risposta su chi davvero può far parte della famiglia di Gesù
da ora, e come ho detto fa da cornice di chiusura della parabola del
seminatore e della sua spiegazione. Possiamo però intravedere anche qualche altra cosa.
La madre e tutti i suoi fratelli, come del resto anche chiunque
voglia essere discepolo, uomo o donna che sia, deve accettare un cammino di ascolto e di discepolato, di nuova prassi e
di nuovi orizzonti, e portare la propria vita verso altre relazioni che la rigenerino, che consentano una nuova “appartenenza familiare”, davvero una nuova identità. E questo avviene proprio attraverso un ascolto intenso, obbediente, rigenerante della Parola del Maestro, seminata con generosità, e
accolta con cuore «bello e generoso» (en cardía kalè kai
agathè: Lc 8,15).
Quindi si può affermare con decisione che queste Parole
di Gesù, non sono una presa di distanza dalla sua parentela,
ma un invito – tenendo presente anche la cornice femminile
che apre e chiude il brano della parabola – a farsi grembo
fecondo della Parola, proprio come esperimenta la donna con
la maternità, e a vigilare con hypomonè, cioè con costanza
premurosa e affettuosa, sullo sviluppo di questo misterioso
seme, in una simbiosi che trasforma l’uno nell’altra e si fa speranza e ritmo di vita.
Quindi per parlare di come “accogliere la Parola come
Maria e incarnarla nel vissuto”, bisogna collocare la stessa
Maria nell’orizzonte segnalato da Cristo: essa stessa, dopo
averlo ricevuto come Verbo eterno in una misteriosa gravidanza operata dallo
Spirito Santo, dopo averlo generato a vita umana, è chiamata a intraprendere
un itinerario di discepolato, per essere a sua volta discepola del figlio
ormai diventato maturo pubblico Maestro. Un discepolato che non è fatto solo
di presenza accanto, ma anche di rigenerazione misteriosa del cuore, grazie al seme incorruttibile della Parola
nuova, viva ed eterna (cf. 1Pt 1,23), a cui lei stessa aveva dato carne e
identità umana.
2. Maria di Nazaret: un annuncio ricevuto come ebrea, Figlia di Sion
Non c’è dubbio però che Maria aveva una identità ebraica in tutte le implicazioni che questa affermazione comporta:
noi la proclamiamo a volte “figlia di Sion”, e questo si applica alla stirpe, alle abitudini, agli obblighi e ai divieti, alla religiosità e al senso di identità. E quindi anche nell’assiduità
all’ascolto e all’obbedienza alla Parola. È inconcepibile un
ebreo e una ebrea senza un “ascolto intenso” della Parola.
Luca non scende alla descrizione dei particolari della vita
ebraica di Maria: ma ci sono degli elementi che possiamo,
con un po’ di introspezione e senza forzare, sottolineare, e dai
quali far emergere i caratteri tipici di una credente ebraica, la
cui fisionomia non sarebbe comprensibile se non nella struttura tipica del vivere ebraico, con convinzione e non per
casualità.
Il fatto che Luca parta già dalla situazione di Maria promessa sposa a Giuseppe, e non si preoccupi di dire una parola in più sulla sua infanzia o su qualche aspetto della sua esperienza religiosa in quel momento, non significa che non avesse di queste qualità.
Per una persona ebrea che conosceva le Scritture, la frase
«non temere», che accompagna lo smarrimento del protagonista, è tipica delle teofanie e Maria se ne mostra cosciente. E
il turbamento è la reazione normale di un ebreo davanti ad
un evento di rivelazione divina. Non è quindi semplicemente
una timidezza, una sorpresa, un momento di disagio: in quel
turbamento prolungato, accompagnato dal domandarsi, con
senso di timore e di stupore, il significato e la finalità del saluto particolare, troviamo la classica reazione dell’israelita. È il
senso di una presenza che sovrasta e chiama ad un compito
che sempre sorpassa le proprie vedute e i progetti. Tanto più
in questo caso, in cui al «Signore è con te» – anche questo
classico modello di approccio – viene anteposta una specie di
definizione sorprendente: kecharitomène, diremmo «impregnata di grazia», che appare davvero impropria per una
ragazzina quindicenne.
Potrebbe anche essere un’espressione cortese, ad es.:
“quanto sei graziosa, bella, splendida”, come alcune tradizioni orientali dicono. Ma nel contesto vuol dire – come tutti
sappiamo – molto di più, più in qualità e sostanza, come
viene meglio esplicitato poi dalla ripetizione: «hai trovato
grazia presso Dio» (Lc 1,30: chárin parà tò Theò), che implica non solo compiacimento, ma anche: hai dato gioia, hai rallegrato
il cuore di Dio, ai suoi occhi e al suo cuore tu sei amata e desiderata. La
risposta dell’angelo potrebbe essere commentata in molti modi. Senza dubbio
non poteva essere comprensibile senza un’intensa familiarità con le
Scritture, di cui riporta moltissime allusioni, e che ad una ebrea che conosceva le Scritture
non potevano sfuggire. Non intendo entrare in questo aspetto
importante. Voglio piuttosto proporre una interpretazione
complementare della risposta di Maria all’Angelo: «Come è
possibile, non conosco uomo?» (Lc 1,34).
Sappiamo bene che pur vincolati da una promessa di
matrimonio, Maria e Giuseppe non coabitavano ancora,
appunto secondo l’uso ebraico che prevedeva il vincolo del
fidanzamento e poi in tempo successivo il passaggio alla coabitazione, con corteo nuziale. Sappiamo bene che la lettura
tradizionale vede in questa espressione di Maria (epéi ándra
ou ginòsko) – il proposito della verginità, sostenuta anche
dalle narrazioni degli apocrifi sulla fanciulla Miriam e la sua
dedicazione (sempre secondo gli apocrifi) al servizio del
Tempio. Una dilatazione del significato molto bella e tradizionale, come tutti sappiamo, ma in misura forse un po’ esagerata, perché se si era già nel processo del fidanzamento matrimonio, è chiaro che l’intento dei due era quello di una
normale relazione matrimoniale, figli inclusi. Non avrebbe
senso pensare ad una «promessa sposa» che escludesse il sogno di
un’intimità autentica, e anche la disponibilità personale a viverla con fecondità. Ma io vorrei tentare altra interpretazione.
3. La sposa - Israele è senza uomo, è sterile
Quella frase dell’angelo, la prima e la seconda – ripresa
anche nell’annunciazione a Giuseppe (cf. Mt 1,18-25) –
implicava tutta la storia di Israele, vi si accumulano infatti
decine di passi paralleli allusi. Era il linguaggio della speranza ma anche della sofferenza, per le infedeltà storiche e i fallimenti gravi. La sposa Israele era come diventata isterilita,
per i molti fallimenti, frutto dei connubi politici e cultuali con
i popoli vicini. Non aveva più la fecondità del tempo della
fedeltà, e Maria è come se si immedesimasse nella Figlia di
Sion sterile e senza compagno, senza la gioia di vedere ancora un discendente di Davide, uno della casa di Giacobbe, guidare il popolo verso la pace e santità.
In questa prospettiva si può collegare il turbamento grave
di Maria, la sua riflessione intensa, ma anche la sua risposta,
con quello che Gesù dirà di sé – o almeno alluderà con gesti
e stili in molte occasioni – come sposo per Israele. Sono molte
le occasioni in cui anche Gesù riprenderà la simbologia sponsale già sviluppata dai profeti sulla relazione amorosa e coniugale tra Dio e Israele, con i tradimenti e le riconciliazioni (cf.
Osea, Deuteroisaia, Ezechiele; e soprattutto il Cantico dei
Cantici).
Questa sterilità ormai secolare dell’intero popolo, Maria la
sente sua, vi si immerge, è accolta nel suo cuore con la sofferenza comune a tutti, assieme alla speranza resistente dei pii:
come si vedrà poi in Zaccaria, Simeone, Anna e tanti altri.
Anche la risposta, o spiegazione dell’angelo, potrebbe essere
letta proprio nella stessa prospettiva: la simbologia dell’ombra
dello Spirito, la santità di Dio che prende forma e visibilità, la
dignità eccelsa del nascituro, umanamente impossibile, il
richiamo ad una sterilità (quella di Elisabetta) miracolosamente sciolta per intervento divino, sono tutti schemi del Vecchio
Testamento che risuonano, e si riallacciano alla preoccupazione della “sposa Israele”–Maria
per la infecondità e mancanza di compagno di intimità vitale. Nella risposta
finale di Maria, troviamo pertanto non solo una disponibilità personale a
darsi interamente alle esigenze della Parola dell’angelo, ma anche a farsi
carico dell’intera Parola dell’Alleanza dei Padri, perché si compia in lei a
beneficio di tutti. Si dichiara disposta a vedere la sua esistenza intrecciata in modo unico con quanto conosce e medita della
memoria collettiva, delle attese, della speranza e della fiducia.
Nel suo accettare di essere al servizio della Parola – «avvenga a me secondo la tua parola» /génoitó moi katà tò rèmá sou
– c’è una disponibilità ad essere luogo del compimento anche
delle antiche speranze e promesse. Infatti rèma è parola-evento, nel senso denso, e non solo come vocabolo, espressione,
suono, terminologia.
Vedo una conferma di questo nel saluto che la cugina
Elisabetta le grida esultante: «Beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Lc
1,45). La frase si pone alla fine del cantico di Elisabetta, nel quale
vengono egualmente evocate varie simbologie della presenza del Signore nella
storia del popolo (primariamente il passaggio dell’arca del Signore, la
gioia per il grembo pregnante, la esultanza incontenibile, l’impulso dello
Spirito, l’elogio fra le donne, ecc.). E quindi è in questo contesto che va
interpretata, e non come elogio personale rivolto alla sola Maria. In
questo caso Maria rappresenta l’Israele dei pii e dei giusti che
hanno creduto alla fedeltà di Dio, nonostante oscurità e attese struggenti, è la sposa fecondata, amata di «amore eterno»
(Is 54,8), non più ripudiata. Elisabetta si fa interprete di questa certezza, che Dio sarebbe stato fedele al suo popolo: e in
Maria vede e riconosce che questa fedeltà è diventata dono
per tutti; e nella disponibilità di Maria la risposta a vantaggio
di tutti.
Solo due donne che avevano creduto, meditato e vissuto
il fil rouge delle Scritture, cioè avevano ascoltato, amato, si
erano immedesimate nella promessa antica, di cui era impregnata la Parola trasmessa di generazione in generazione,
potevano vedere questa unità, potevano andare al di là di una
gioia personale, seppur legittima e intima.
4. Esegeta silenziosa: che confronta nel cuore assieme al popolo
Abbiamo meditato e stiamo meditando ancora con cuore
stupito e contemplativo l’evento della nascita nel tempo del
Figlio dell’Altissimo. Ognuno è colpito e gusta nel cuore tanti
aspetti, che meriterebbero commenti su commenti – e i secoli ce ne hanno dati tantissimi – perché gli eventi sono «grazia
su grazia», come dice Giovanni (cf. Gv 1,16). Io mi limito a
commentare con qualche sottolineatura lo stile silenzioso e
riflessivo di Maria in tutte le vicende dette dell’infanzia.
Luca annota due volte che Maria rifletteva e cercava di
interpretare. Dopo la visita dei pastori è detto: «Maria, da
parte sua, serbava tutte queste cose (synetèrei tà rèmata symbállousa en tè kardía)
meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19);
e dopo il ritrovamento nel tempio del ragazzo Gesù è detto:
«Sua madre conservava tutte queste cose (dietèrei pánta ta
rèmata) nel suo cuore» (Lc 2,51). Ma attorno alla madre
riflessiva e che vigila sui ricordi, con un cuore che si stupisce
ma anche cerca di trovare una spiegazione unitaria, abbiamo
anche altri che fanno lo stesso.
Per esempio, quando Zaccaria riprende a parlare per dare
il nome Giovanni per il figlio, i vicini hanno un senso di sorpresa e timore, e, di tutto quello che si discorreva, «tutti quelli che udirono (ta rèmata) le posero nel loro cuore» (Lc 1,66).
I pastori prima di andare a Betlemme discutono se vale la pena
muoversi «a vedere quella parola-evento (to rèma) che è accaduta» (Lc 2,15) e poi «parleranno a tutti di ciò (tou rèmatos)
che hanno visto e udito» (Lc 2,20). Abbiamo pertanto anche lo
stupore: anzitutto quello di Elisabetta (Lc 1,41-45) nel trovarsi
visitata dalla Madre del Signore, presentandosi quasi novella
arca santa che attraversa strade montuose per venire a condividere con la cugina la gioia di una maternità straordinaria che
le ha beneficate.
Poi lo stupore dei parenti di Elisabetta e di Zaccaria
quando nasce il figlio: e gioivano con lei (synékairon autè) (Lc 1,56).
Meraviglia e stupore provano anche tutti quelli che sentono i pastori
raccontare la loro vicenda così fuori normalità: «si stupivano delle cose che i pastori dicevano» (Lc
2,18).
Ancor di più al tempio, di fronte all’esultanza di Simeone,
madre e padre «si stupivano (thaumázontes) delle cose dette
al suo riguardo» (Lc 2,33).
Questo per quanto riguarda la nascita e i primi giorni successivi. Ma di Maria si dice che rifletteva con cuore vigilante
anche dopo l’episodio del ritrovamento al tempio. Anche qui
abbiamo lo stupore e la meraviglia (exístanto: si può tradurre
con: sbalordimento) dei maestri del tempio (cf. Lc 2,47). Ma
anche si annota che i genitori: «non compresero la parola (to
rèma) che aveva detto loro» (Lc 2,50). Ma anche subito dopo,
che «sua madre conservava tutte le parole-evento (pánta ta
rèmata) nel suo cuore» (Lc 2,52).
Vorrei commentare questo atteggiamento collettivo di
stupore e di riflessione, di incomprensione e di custodia nel
cuore. Non è solo di Maria come abbiamo sentito, ma di
molti. E questo già indica una importanza: era la santa abitudine ebraica di
mettere nel deposito del cuore e vigilare con cura e stupore quello che
avveniva. Perché tutti gli eventi, erano insieme parola e fatto, oggettivo
accadimento e misterioso segnale, su cui riflettere per trovare la loro connessione
in un orizzonte che ne spiegasse significato e finalità. Maria
non fa altro che vivere con tutti la fatica di comprendere, ma
accompagnata pure per lei dallo stupore, dalla sorpresa, dal
senso di timore e di meraviglia.
Perché questo è il vero modo biblico di accogliere la
Parola e di conservarla nel cuore. Con lo stupore, generato
dalla sensazione della propria fragilità e ferialità, che viene
attraversata dai segni di Dio che si fa vicino, che si fa visibile
e udibile, eppure rimane ben oltre, costringe a rimuginare nel
cuore, a dialogare per capire, a riflettere per non farsi sfuggire connessioni e riverberi inattesi. Un popolo intero di umili
che riflette e si interroga, che è travolto dallo stupore e insieme deposita nel cuore ta rèmata, perché nulla svanisca, ma
lasci una sensazione duratura, diventi una scoperta aperta a
nuovi orizzonti.
Io vedo Maria in questa sua attitudine certamente come la vergine-madre che non passa superficialmente sopra le cose, ma
anche come la compagna ed erede della migliore tradizione
ebraica: quella di lasciarsi stupire e sorprendere, di ruminare e
ricordare, di vigilare e ruminare, per estrarne significati veri e
ispirazioni di vita. Questa è vita secondo la Parola e lo Spirito:
una stabilitas mentis che si familiarizza con gli eventi e memorizza bene i fatti e cerca i legami che ne fanno un progetto, un
tessuto, un evento completo e unitario. Una stabilitas cordis che si
trasforma in unica preoccupazione, unica linearità d’amore e di desiderio,
di valori e di attese: questo è il vero cuore dell’israelita, tutto impregnato del riverbero dei rèmata.
Ma c’è un’altra stabilitas sulla quale vorrei soffermarmi: è la
stabilitas corporis. Essa completa le altre dette ora, ed acquista
particolare pregnanza nei tre decenni della presenza di Gesù a
Nazaret. Forse noi abbiamo troppe volte sorvolato la valenza
teologica di questo lungo periodo vissuto a Nazaret da
Giuseppe, Maria e Gesù. Le frasi su Gesù che cresceva in statura, età e grazia, e l’animo riflessivo di Maria, sono tutto quello che ci resta in mente e Luca ci ha fatto sapere. Troppo poco
per non cadere nella sensazione che forse sono stati anni quasi
persi per la redenzione: perché questa lunga, silenziosa, feriale, anonima esistenza del Redentore, quando il mondo intero
attendeva il compiersi delle promesse, e il dilatarsi universale
della luce alle genti?
5. Nazaret: la Parola affonda le sue radici nella ferialità
Della vita della santa Famiglia a Nazaret fino al momento
del distacco pubblico di Gesù adulto, verso i trent’anni, sappiamo molto poco: risulta che tutti conoscevano la attività del
padre (carpentiere/téktonos, titolo attribuito anche a Gesù: cf.
Mt 13,55; Mc 6,3), la madre non sembrava risaltare con nulla
di particolare, ma partecipava alla religiosità di tutti andando
in pellegrinaggio in carovana a Gerusalemme ogni anno con i
parenti e conoscenti. Unicamente Luca accenna due volte alla
crescita di Gesù. Al ritorno dalla presentazione al tempio per
il riscatto e la purificazione di Maria si dice: «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era
sopra di lui» (Lc 2,40). Sui dodici anni, quando cominciava ad
essere soggetto alla legge (cf. Lc 2,42), partecipa al pellegrinaggio paesano a Gerusalemme per la festa di Pasqua, e poi
prende l’iniziativa imprevedibile di restare a Gerusalemme
senza avvertirne i genitori, tanto da dare loro parecchia preoccupazione quando si rendono conto di non averlo nella carovana. E dopo che l’hanno trovato e gli hanno manifestato la
propria angoscia, come sappiamo: «Tornò a Nazaret e stava
loro sottomesso… E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia
davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,51s).
Ecco io vorrei con voi riflettere su questo lungo periodo
di tre decenni, dei quali appunto sappiamo quasi nulla, ma
molto possiamo supporre, anche senza credere alle meraviglie
degli apocrifi. Sono anni che non hanno minore valore teologico redentivo degli ultimi tre anni, quelli pubblici. E soprattutto sono sostanziosi per il discorso di accogliere la Parola
come Maria.
Facilmente noi pensiamo che questa accoglienza si verifichi soprattutto nella parte iniziale (episodi dell’infanzia) e poi
nella parte della vita pubblica di Gesù. Per la parte iniziale
non sono troppe in realtà le parole da parte di Maria: forse
una trentina in tutto, escluso il Magnificat. Certamente nella
vita pubblica abbondano le parole sante pronunciate da
Gesù – ma solo 9 sono le parole di Maria (a Cana: Gv 2, 3.5) – però non
sono l’unica maniera di parlare di Gesù né l’unica circostanza per ascoltare e accogliere la Parola di Dio.
Come se il Verbo fosse Parola di redenzione e di salvezza solo quando agisce e parla in pubblico. E quindi a Nazaret avremmo come una parentesi, un passaggio in attesa, un rimando a
più avanti, tanto lungo. Ecco qui vorrei fare un discorso
nuovo.
Invece io credo che dobbiamo rivalutare questo lungo
periodo proprio nella prospettiva del titolo del nostro discorso: certamente è il tempo in cui Maria ripensa e vigila con
cuore riflessivo su quello che ha visto e udito e che non era
riuscita a capire del tutto (cf. Lc 2,50). Lei è come quella terra
buona su cui è caduto il seme della Parola, e nella perseveranza porta quel frutto che deve germogliare in chi ha il cuore
nobile e obbediente (cf. Lc 8,15).
Ma vorrei andare oltre questa visione oleografica, quasi
romantica. Maria in questi trenta anni non riesce in nulla a
distinguersi dalle altre donne di Nazaret, e neanche Gesù ha
degli atteggiamenti che possono far pensare ai suoi compaesani che vi sia in lui qualche cosa di straordinario. Lo si capisce
bene quando si meravigliano per la sapienza e la grinta che
mostra in quel sabato famoso nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,16-30). E allora dove andava a finire questa accoglienza e
questa fruttificazione della Parola, in che cosa consisterebbe?
Maria era stata chiamata ad essere madre della Parola di
Dio: nel suo seno, in maniera unica e irripetibile, misteriosa e
sorprendente. Aveva generato Gesù, «colui che salverà il
popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21), lo aveva introdotto, senza
che egli potesse rendersene conto, nelle grandi tradizioni
ebraiche dell’imposizione del nome, della circoncisione, della
offerta come primogenito nel tempio, delle varie ritualità
ebraiche.
Con lui, secondo il racconto di Matteo (cf. Mt 2,13-23) aveva vissuto
anche il paradigma dell’esodo antico verso l’Egitto e del ritorno
dall’Egitto. Aveva vissuto insieme con lui certamente la pratica quotidiana
ebraica delle varie modalità di preghiera, ed ogni famiglia doveva preoccuparsi di far
apprendere ai figli questa complessa ritualità quotidiana. Al
tempo opportuno lo aveva introdotto
tra i «figli della legge» (bar mizpat), con gli obblighi connessi, come abbiamo detto.
Ma mi domando quella sapienza e quella grazia nella
quale si ripete che cresceva, da dove poteva venire? E di quale
sapienza e grazia in realtà si trattava? Non possiamo pensare
che siano qualità come “infuse” dal cielo, e alle quali Maria
rimaneva estranea. Invece proprio in questo accenno veloce,
che sempre interpretiamo in senso “cristologico”, io voglio
vedere una annotazione “mariana”. Cosa Gesù avesse appreso della tradizione, della sapienza popolare, delle Scritture,
delle promesse di Dio e delle attese popolari, lo possiamo
ricavare da quello che fa e dice nella vita pubblica. Non c’è
bisogno di dare tante spiegazioni su questo punto, ognuno sa
tante cose.
Ma chi gliele aveva trasmesse questa sapienza e questa grazia davanti a Dio e agli uomini?
Talis Mater, talis Filius: quei
lunghi e lenti decenni sono stati una lenta scuola di ascolto e
di obbedienza alla grande tradizione in tutte le sue esigenze e
sfumature, una scuola reciproca fra Madre e Figlio, per trasmettere e per ripensare, per interpretare e rimanere capaci
di libertà e di flessibilità. Per incontrare soprattutto un volto
nuovo del Dio dei Padri: la maternità eccezionale di Maria
aveva inciso anche nella sua concezione dell’immagine di
Dio. Ne resta inciso il succo nel canto del Magnificat, ma anche in tutte
le parabole e il linguaggio, i gesti e le scelte del Figlio si vede che
l’immagine del Padre è quello della misericordia e della tenerezza, e non della legge rigida, delle osservanze sacralizzate, delle minacce distruttrici. Dal linguaggio
del figlio conosci quello della madre, dai suoi gesti, dal suo
stile, ritrovi la madre. Sempre è così.
Nell’oscurità e nel silenzio, nella ferialità più comune, nelle relazioni
normali tipiche di ogni villaggio, si è plasmata la personalità matura di Gesù, in conformità con quello che i genitori hanno saputo trasmettere, hanno insegnato vivendo,
hanno celebrato insieme con tutti. Quel silenzioso “crescere
dentro” di Gesù la pasta umana, la vita senza differenze, le
relazioni e gli umori, le emarginazioni sociali e i doveri religiosi – non solo quelli di Nazaret
erano considerati una pessima gente, ma la stessa Galilea era vista con
disprezzo per la mescolanza della popolazione – non è tempo perso, ma fecondità
della Parola secondo lo Spirito, tempo di redenzione in senso
denso e originale. La coabitazione fraterna a Nazaret di Gesù
potrebbe sembrare un semplice passaggio (per quanto lunghissimo) verso la piena rivelazione del Figlio di Dio in potenza. E invece dobbiamo vederci come la più vera irradiazione
della presenza di Dio fra noi: operosa, nascosta, fraterna, religiosa, pasta umana della nostra pasta umana.
Ecco proprio su questo punto voglio soffermarmi ancora
un poco.
6. Gesù. il Figlio eterno, a Nazaret: presenza salvifica
Mi lascio anche questa volta ispirare da una lettura che ho
fatto.2 Nell’analizzare l’esperienza di Charles de Foucauld
così radicale nella scelta del Gesù di Nazaret, scrive il teologo Pierangelo Sequeri:
«Gesù di Nazaret non è affatto la ‘parte umana’ dell’incarnazione. Gesù di Nazaret ‘è’ l’incarnazione del Figlio unigenito. Gesù ‘è’ il Figlio. E reciprocamente: Gesù di Nazaret è
l’unico Figlio eterno, dell’unico Dio. Gesù di Nazaret non è
‘l’umano effetto’ dell’incarnazione del Figlio di Dio, ma è
precisamente ‘l’effettività umana della sua figliolanza divina.
Non l’uomo che il Figlio assume e abita, né il Figlio che
passa attraverso l’umano in vista della missione redentrice e
se ne congeda a missione compiuta. Gesù di Nazaret è per
sempre il Figlio di Dio. Quello stesso Gesù che è nato da
Maria e vissuto in lunghissimo anonimato, affinché il dono
fosse perfetto proprio come dono».3
Nella teologia e nella spiritualità si è introdotta una frattura strana, fra Gesù di Nazaret e il Figlio di Dio, come se
Gesù – specialmente nella sua vita nascosta a Nazaret – fosse
solo un passaggio, un tramite per arrivare al Figlio, e non
fosse davvero il Figlio stesso che abita fra noi, il donatore
della vita, l’interprete delle Scritture. In consonanza con
Charles de Foucault, Sequeri invita a integrare “Gesù a Nazaret” nell’orizzonte di una cristologia integrale “Gesù di Nazaret”. Egli dice: «Gesù a Nazaret è Gesù di Nazaret nella
realtà e nel sacramento della sua pura presenza salvifica fra
gli uomini».4 Ne deriva allora che l’opera dell’incarnazione è
come irradiazione fraterna della presenza salvifica, la pura
presenza del Signore è ragione di fine, e non semplice condizione previa. La realtà teologica dell’essere e dell’agire salvifico di Gesù-il Figlio non può essere ridotta alla sua fase di
predicazione pubblica, dei miracoli e della morte in croce.
E anche la stessa esperienza di Chiesa a questo punto va
rivista: come «condivisione radicale dei luoghi oscuri dell’esistenza in vista della persuasività dell’amore di Dio».5
Possiamo
chiamarla, con un grande teologo francese Christoph
Theobald, la santità ospitale, una forma ecclesiae in cui la
dignità della persona umana diventa il contenuto dell’annuncio e della realtà del regno, anche se privo di parole (cf.
Redemptor hominis, 12). L’annuncio del regno dei cieli «che è
già in mezzo a noi», trova nell’esperienza salvifica (e non solo
di residenza) a Nazaret la sua veridicità, e anche il paradigma
a cui forse la Chiesa dovrebbe guardare un po’ di più per essere autentica fraternità dispersa fra le genti (cf.
1Pt 5,9).
Alla luce di questa affermazione teologica, possiamo
ritrovare allora anche la grande importanza di Maria, e parlare come di colei che ascolta e vive la Parola, vive con la
Parola, cresce con la Parola salvifica del Figlio che le sta accanto ed è presenza salvifica nello stare anonimo, fraterno,
feriale, come tutti. Questo è il «pellegrinare nella fede» di
Maria. E lì matura Gesù, assieme a lei e a tutti i suoi vicini,
una fedeltà piena al progetto del Padre di “stare in mezzo al
popolo”, di considerarsi “Dio del popolo” e di fare del popolo la “sua famiglia”.
Che ne sarebbe se la nuova evangelizzazione provasse ad
essere anche un tenace recupero, in parole ed opere, del
«lungo momento-Nazaret dell’Incarnazione di Dio fra gli
uomini, affinché la divina proporzione della missione del
Figlio riacquisti la sua integrità»?6 Questa forma evangelica
della memoria del Figlio a Nazaret, per così lungo tempo, con
così radicale ferialità e compagnia di vita e di linguaggio, di
sentimenti e di esperienze, l’ha vissuta anche Maria, ne è stata
maestra e discepola.
Giustamente Tonino Bello canta la ferialità come cantiere di salvezza: «Santa
Maria, donna feriale, liberaci dalle nostalgie dell’epopea, e insegnaci a considerare la vita quotidiana come il
cantiere dove si costruisce la storia della salvezza».7
E santa Teresa di Gesù Bambino amava tanto la semplicità della Maria di Nazaret, dove certamente le virtù più semplici erano anche le più vissute e radicate. Scrive infatti qualche mese prima di morire, nella sua ultima poesia, intitolata:
Perché ti amo, o Maria:
«So che a Nazaret, Madre di grazia piena,
povera tu eri e nulla più volevi:
non miracoli o estasi o rapimenti
t’adornan la vita, Regina dei santi!
In terra è grande il numero dei piccoli
che guardarti possono senza tremare.
La via comune, Madre incomparabile,
percorrere tu vuoi e guidarli al cielo».
8
Conclusione
Vorrei con voi andare oltre, meditare ancora su tanti altri
passi evangelici molto ispirativi, nella prospettiva del titolo.
Accenno: dalla premura per la festa che deve continuare a Cana, per la gioia degli sposi e nell’obbedienza dei servi «a
quello che egli dirà» (Gv 2,1-12), alla sequela silenziosa (ma
non negabile) lungo le strade della vita pubblica (Lc 8, 1-3), allo
sconcerto quando Gesù non vuole ricevere la madre e i parenti che
desideravano vederlo e chiedergli maggiore equilibrio (Mc 3,21). Quel rifiuto, all’apparenza rude, non è che
un invito a vedere nella madre e negli amici di famiglia già il
formarsi di una nuova relazione familiare, frutto della convivenza che ha trasformato e illuminato, dilatato gli orizzonti e
trovato radici solide nella ferialità (Mc 3,31-35 e parr.).
E poi soprattutto mi sarebbe piaciuto commentare le due
grandi icone dello stabat presso la Croce (Gv 19,25-27) e
della presenza di Maria nel Cenacolo, in preghiera e anche in
dialogo rammemorativo, con i discepoli ancora incerti e timorosi (At
1,14). Sono cose molto preziose quelle che ho tralasciato: sono certo che mi
perdonerete, perché altri ne hanno parlato, per approcci differenti, e
quindi vi è possibile completare queste mie molteplici lacune con quanto già
ascoltato e detto con dotta sapienza dalla bocca di altri oratori. Da parte
mia spero di avervi mostrato qualche cosa di nuovo e di diverso: proprio per fedeltà alla Parola che è sempre nuova e sempre
imprevedibile nelle sue luminosità e nelle sue provocazioni.
Ho cercato di scavarvi dentro, con intuizione profetica, con
cuore di contemplativo e con mani di solidarietà fraterna.9
NOTE
1 Mi ha dato il suggerimento la lettura di un commento del p. Innocenzo
Gargano: I. GARGANO, Maria e la Parola. Una esperienza di ‘lectio divina’,
Paoline, Milano 2003.
2 Faccio riferimento in particolare ai due saggi di P.A. SEQUERI: La
cristologia “vissuta” di Charles de Foucauld, in AA.VV., Charles de Foucault.
L’eloquenza di una vita secondo l’evangelo, Qiqajon, Bose 2003, 77-94; e
Epilogo: Ripartire da Nazaret? Appunti su Charles de Foucault e la nuova
evangelizzazione, nello stesso libro, 149-174.
3 P.A. SEQUERI, La cristologia “vissuta”, cit. 80s.
4 Ibidem, 84.
5 IDEM, Epilogo, cit. 159.
6 IDEM, La cristologia “vissuta”, cit. 88.
7 A. BELLO, Maria, donna dei nostri giorni, Milano 1993, 13.
8 TERESA DI G.B., Opere complete, Libreria Editrice Vaticana-Edizioni OCD,
Roma 1997, 725.
9 Chi desidera conoscere meglio il metodo di lectio divina che noi
usiamo, e che anche in questo testo traspare, può vedere al sito web:
www.lectiodivina.it; oppure la collana “Rotem – Ascolto orante della
Parola”, delle Edizioni Messaggero, Padova.