Un articolo del comboniano P. Carmelo Casile da La Regola di Vita,
la Vergine Maria e la professione dei consigli evangelici, pp. 5-8.
1. Maria, donna povera
Maria ci si presenta anzitutto come una donna povera. Il
personaggio storico di Maria che intravediamo attraverso le narrazioni
evangeliche, non appartiene a nessun gruppo privilegiato del suo tempo. La
filiazione davidica compete a Gesù per via di Giuseppe, come dimostrano Matteo e
Luca, e non per la linea familiare di Maria; è probabile che Maria non
apparteneva alla tribù della promessa davidica, la tribù di Giuda. Come le
quattro donne – Tamar, Racab, Rut e Betsabea – Maria entra nella linea davidica
per pura grazia di Dio. D’altra parte Maria è nata nella povera, disprezzata e
semipagana Galilea, da dove non può sorgere un profeta (Gv 7,52), e visse
nell’insignificante villaggio di Nazaret, del quale si dice: “Da Nazaret può
venire qualcosa di buono?” (Gv 1,46). Maria è donna del popolo, senza cultura
speciale, senza occupazioni importanti, senza vanità, senza pretese ambiziose,
che eccedano la sua condizione di donna. Ella soltanto progettò, o forse meglio
i suoi genitori, progettarono per lei, quando appena aveva tredici anni, il
matrimonio con Giuseppe. E in più questo matrimonio non arrivò a compimento,
così come era stato progettato. Quando Maria dà alla luce il suo Figlio deve
“avvolgerlo in fasce e porlo in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto
nell’alloggio” (Lc 2,7); la mangiatoia, in contrapposizione con l’alloggio, si
converte nel segno offerto ai pastori per riconoscere il Messia (Lc 2,12-16).
Senza dubbio è una situazione di povertà, che rivela la condizione popolare dei
genitori di Gesù. Maria ha perso poco a poco ciò che aveva e più apprezzava. Il
suo sposo Giuseppe morì probabilmente prima della vita pubblica di Gesù. Madre
di figlio unico, di colui che era tutta la sua vita e suo unico tesoro, Gesù, se
lo vede strappare dalla ignominiosa morte di croce. Offrì quello che più amava e
che dava significato alla sua vita. La condizione di povertà di Maria si
manifesta, inoltre, nella sua semplice condizione di “donna”. La donna, dice Giuseppe
Flavio, “è, in tutti gli aspetti, di meno valore dell’uomo”. La famiglia
ebraica, infatti, era retta mediante il sistema patriarcale; il padre aveva sui
figli che vivevano con lui, includendo anche gli sposati e le loro mogli,
un’autorità assoluta, che all’inizio comprendeva la potestà di vita o di morte.
La famiglia comprendeva tutti gli uniti da vincoli di sangue, ma anche gli
appartenenti alla comunità e i residenti nell’abitazione, ed in essa esisteva la
figura del “Go’el”, che era il difensore e protettore del clan famigliare. Al
tempo di Gesù era in vigore la famiglia monogamica, nella quale eccezionalmente
si permetteva la poligamia, che era, nel contempo, segno di ricchezza. Tuttavia
era molto esteso il ripudio stabilito da Mosè. Per comprendere la situazione
sociale della donna al tempo di Gesù, bisogna distinguere la situazione della
donna nella zona urbana e delle donne rurali e contadine. Nella zona urbana: la
donna non partecipava nella vita pubblica. La donna non sposata, specialmente
quella giovane, rimaneva ordinariamente in casa. “Mercato, assemblee, tribunali,
vita pubblica con le sue istituzioni e affari, tanto in pace come in guerra,
sono fatti solo per uomini. Alle donne conviene stare in casa e ben ritirate. Le
giovani devono permanere in camera molto appartata, mettendosi come limite le
camere degli uomini. E le donne sposate, la porta dell’atrio come limite”
(Filone). La preparazione delle ragazze si limitava all’apprendimento dei lavori
domestici: tessere, cucire, fare il pane, preparare la cucina e accudire i
fratelli piccoli. Ordinariamente non si insegnava loro né a leggere né a
scrivere. Riguardo ai genitori, avevano gli stessi doveri dei figli maschi,
cioè, alimentarli, dargli da bere, lavargli la faccia, le mani e i piedi e
aiutarli nella loro anzianità. La donna portava la faccia coperta, in modo che
non si potevano conoscere i tratti del suo volto. La donna che usciva con la
faccia scoperta, offendeva in tal modo i buoni costumi, che suo marito aveva il
diritto di mandarla via, senza essere obbligato a pagarle la somma stipulata in
caso di divorzio. Solo nel giorno del matrimonio, se la sposa era vergine e non
vedova, appariva nel corteo con il volto scoperto. Una volta che si sposava, il
marito era per lei il padrone. Se questa donna usciva sulla strada non doveva
parlare con nessuno, neppure con il proprio marito. Salutare in pubblico una
donna o parlare in strada con lei, era un disonore per l’alunno di uno scriba.
Anche se si trattava di sposati, le donne non sedevano a mensa assieme agli
uomini, ma erano servite in piedi in silenzio. Si deve aggiungere che la
testimonianza della donna non aveva valore nel giudizio e che ordinariamente non
giurava né a suo padre né a suo marito. Per tutto questo un rabbino diceva: “Un
uomo deve ringraziare Dio ogni giorno per non averlo fatto donna”. Nell’ambiente
rurale e contadino, le cose erano un poco diverse. Le donne erano ammesse ad una
maggiore convivenza con gli uomini. Il fatto di condividere il lavoro nel campo
o di agire come venditrici dei prodotti fabbricati dagli uomini, permetteva loro
di godere di una maggiore accettazione e partecipazione nella vita sociale e
popolare.1
Nell’aspetto religioso, la donna non aveva accesso al Tempio e doveva rimanere
nel cortile delle donne. Era equiparata allo schiavo nei suoi doveri religiosi e
non era obbligata recitare al mattino e alla sera lo Shemà. Maria fu donna di
quel tempo, e perciò va collocata tra gli emarginati, tra i poveri reali ed
effettivi.
2. Maria, povera di Jahavé
Nell’Antico Testamento la povertà è considerata inizialmente in una prospettiva economica. È un male le cui
cause sono la propria colpa (Pr 6,11; 24,30-34), i colpi della fortuna (1Re 17,1-16), e soprattutto la
violenza dei ricchi e dei potenti. I profeti si distinguono nel denunciare questo tipo di povertà (Is
5,8; Ger 5,27; Am 5,11; Mi 2,11; 6,10ss.). Nei Salmi Jahavé è proclamato come difensore dei
poveri (Sl 10,14; 17; 14,6; 68,6).
Dopo l’esilio, senza perdere la sua dimensione sociale, diviene un concetto religioso: viene a
significare qualcosa come umiltà, pietà. Nascono i “poveri di Jahavé”, che non avevano spirito di
autosufficienza né erano opportunisti; per questo motivo erano disprezzati frequentemente dai
potenti, dai ricchi e in particolare dalle autorità religiose. I “poveri di Jahavé” sono quelle persone
che trasformarono la loro condizione di povertà effettiva in esperienza religiosa: in fiducia, in
speranza, in preghiera, in abbandono in Dio. Il “povero di Jahavé” designa l’uomo dell’Antico
Testamento che,
libero di tutti i beni terreni, si affida a Dio solo; designa l’uomo che assume l’atteggiamento di
umile sottomissione, di fiducia, di abbandono e di ricerca di Dio in mezzo alle prove
dell’oppressione, con la convinzione che Dio prende a suo carico la difesa del povero e di tutti gli
oppressi.
Sappiamo, in effetti, che il popolo di Israele dell’epoca di Maria era un popolo oppresso, senza
libertà, un popolo di poveri che sperava ansiosamente un Liberatore, la venuta di un Restauratore
del Regno.
La figura evangelica di Maria si inquadra perfettamente in questo insieme: povertà-oppressione-ingiustizie e nello stesso tempo desiderio-speranza-fiducia nella venuta del Messia.
Ella, povera reale, si sente visitata da Dio; da questo momento la sua povertà reale diviene
consacrata e trasformata in povertà evangelica ed evangelizzatrice.
Maria è annuncio della gioiosa notizia della venuta del Regno del Figlio di Dio nel mondo dei
poveri, diviene simbolo della gratuità del dono e dell’amore di Dio agli uomini.
Il Magnificat è la prova di tutto questo. Luca ce lo presenta come la personificazione del resto di
Israele, come il simbolo del popolo dei poveri. Maria rappresenta l’Israele povero, sottomesso,
umile, che tutto spera dal potente intervento di Jahavé. Maria sa e confessa che ha Dio dalla sua
parte. Non confida nelle sue forze né nel potere rivoluzionario o violento degli uomini; unicamente
confida nel “braccio di Dio che interviene con forza”.
«Il Magnificat è lo specchio dell’anima di Maria. In questo poema raggiunge il suo punto
culminante la spiritualità dei poveri di Jahavé. È il cantico che annuncia il nuovo Vangelo di Cristo,
è il preludio del Discorso della Montagna. Maria ci si manifesta qui vuota di sé, ponendo tutta la sua
fiducia nella misericordia del Padre. Nel Magnificat si manifesta come modello “per coloro che non
accettano le avverse circostanze della vita personale sociale, né sono vittime della “alienazione”,
come si dice oggi, ma proclamano con lei che Dio è “vendicatore degli umili” e, se ne è il caso,
“rovescia i potenti dal trono”».2
E il Concilio Vaticano II l’ha detto chiaramente: «Essa primeggia tra quegli umili e quei poveri del
Signore che con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza» (LG 55).
3. Maria, solidale con i poveri
Maria fu solidale con i poveri. Ella, infatti, è nata povera, e la sua povertà fu consacrata dalla
presenza di Dio, che la elesse come ella era; consacrazione che lei accettò con tutta la libertà del suo
cuore.
Maria fu solidale con i poveri passivamente, cioè per quello che patì. Maria patì con le donne della
sua epoca, con gli abitanti della disprezzata Galilea, con gli Israeliti schiavi e colonizzati dai
Romani. Maria fu solidale con tutte quelle donne che per motivi biologici o psicologici portavano
su di sé l’umiliazione della loro sterilità e infecondità o della loro disprezzata verginità. Appartenne
al gruppo sfruttato delle vedove di Israele.
Maria patì come tanti uomini e donne del nostro tempo; soffrì il dolore e l’umiliazione,
l’oppressione e tutte le conseguenze della emigrazione; dovette sottomettersi al disaggio e
all’insicurezza della vita dei poveri.
Fu in fine solidale con coloro che non comprendono l’agire di Dio e, tuttavia, sperano con fiducia
(cfr. Lc 2,50; 2,19).
Maria fu anche attivamente solidale con i poveri.
Così ce la presenta il quarto Vangelo: nell’episodio delle Nozze di Cana (Gv 2,1-11), nella frase
“non hanno vino” è possibile captare la vicinanza di Maria alle necessità più gravi degli uomini.
Nella scena si caratterizza l’agire di Maria davanti a Gesù in favore di tutti coloro che anelano un
Salvatore e che si trovano in situazioni limite, di disperazione. Per mezzo della sua “presenza”
presso la Croce di Gesù (Gv 19, 25), Maria si solidarizza attivamente con il Crocifisso e con i
crocifissi, senza vergognarsi né impaurirsi.
Luca ci presenta Maria simpatizzando con i poveri e marginati pastori. Di essi si diffidava, perché a
volte si dedicavano a rubare; neanche potevano essere testimoni in tribunale, come neppure i
pubblicani. Ai pastori mancava ogni formazione religiosa che era l’unica che esisteva in Palestina;
erano persone incolte, retrograde, poco pietose; entravano nella categoria dei “semplici” o “piccoli”
(cfr. Mt 11,25). Questi arrivavano ad essere giudicati come “maledetti da Dio”: «Questa gente, che
non conosce la Legge, è maledetta da Dio» (Gv 7,49).3 Maria non si sente estranea ad essi, ma anzi scopre attraverso di essi il messaggio di Dio e
“custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2,19; cfr. Lc 2,8-20).
Maria mai è inserita in gruppi privilegiati, né con i Sacerdoti del Tempio, né con i principi, né con
la gente potente. Le scene evangeliche la collocano tra il popolo semplice, tra i pastori, con i Magi
pagani, in mezzo a coloro che crocifiggono suo Figlio, nella comunità cristiana racchiusa nel
cenacolo.
Questa solidarietà con i poveri non permette di considerare Maria come una donna rivoluzionaria
nel senso corrente del termine. Certamente ella sperimentava una grande impazienza interiore, che
la faceva reclamare la liberazione dei poveri ma, come donna credente, metteva tutta la sua fiducia
in Dio e non confidava nell’uomo incapace di operare una liberazione totale (Ger
17,5-7.8). Non
sarà l’uomo, ma sarà solo Dio che scompiglierà i piani degli arroganti, rovescia dal trono i potenti,
esalta gli umili, ricolma di beni gli affamati e rimanda a mani vuote i ricchi. Maria non confida in
un messianismo a misura d’uomo, né nella forza della rivoluzione, nella quale “il braccio potente di
Dio non interviene”. Maria mostra una fiducia illimitata in ogni intervento di Dio, del Dio che in
mezzo a noi, con noi instaura il suo Regno. Questo significa individuare, senza rimandare a un “più
in là” tutte le aspettative, dove si trova “qui e ora” l’autentico potenziale rivoluzionario: i poveri in
spirito, gli umiliati e gli impoveriti, che confidano ciecamente in Jahavé, l’esercito dei non-violenti,
la comunità delle Beatitudini.
Il Magnificat di Maria ci premette un rilettura della storia non dal protagonismo dei potenti, ma
dalla forza dei deboli, di coloro che sacramentalizzano il Regno di Dio.
NOTE
1 Cfr. José Antonio de Sobrino, Así foi Jesús, pp. 421-423.
2 Juan Pablo II, Homilía Zapopan, 4; Puebla 297.
3 Cfr. J. Schmid, El Evangelio según Lucas.
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