Ave Maria: il vertice della musicalità italiana
Data: Martedi 10 Novembre 2009, alle ore 16:53:48
Argomento: Musica


Le Ave Maria celebri in cinque secoli in un articolo di Piero Mioli

Notoriamente derivata da un Passo del Vangelo di S. Luca e composta della salutazione dell’Angelo,della profezia di Elisabetta e di un’invocazione finale, l’Ave Maria ha attraversato i tempi e i luoghi della civiltà cristiana,gli usi liturgici, gli stili musicali, i costumi della fede, i mutamenti della lingua, i comportamenti dei musicisti e dei celebranti, dei poeti e dei cantori, infine dei mille e mille uomini attenti a pregare e cantare nelle chiese e nelle case o ad ascoltare nelle sale da concerto e nei salotti musicali. Folta,dunque, foltissima la sua presenza nella storia della musica occidentale, dal codice spagnolo Las Huelgas dei sec. XII-XIII fino ai tanti mottetti della trionfante polifonia fiamminga quattro-cinquecentesca. E un grande polifonista fiammingo attivo anche in Italia produsse un’Ave Maria fra le più durevoli attraverso i tempi: della musica di Jacques Arcadelt si sarebbero sovvenute, a metà Ottocento, la ricordiana “Gazzetta musicale di Milano” e il Recueil des morceaux de musique ancienne di Parigi, che l’avrebbero stampata per manifesti scopi esecutivi. Chiaramente dislocata sulle quattro voci normative della polifonia fiamminga e impostata sopra una tonalità maggiore, per trascrizione accessibile anche ad un’escuzione monodica, l’intonazione di Arcadelt ha un rapporto piuttosto libero col testo: i valori più frequenti sono quelli della semiminima, spesso ravvicinati quasi a destituire le parole dagli accenti loro. E l’andamento accordale volutamente statico, quasi da corale, del corpo della composizione si conferma verso la fine dove prima conquista un momento quasi declamatorio e poi si abbandona a un più esteso momento arioso, ascendente, plastico e quasi sospeso in aria.

Dal grande Cinquecento polifonico al copioso Settecento europeo, vocale e strumentale, sacro e profano nonché religioso, dove capita di trovare due espressioni pressoché polari dell’antica preghiera, opera l’una di un oscuro Anonimo spagnolo e l’altra del sommo Wolfgang Amadeus Mozart. Sono le numerose ripetizioni del testo e gli ampi melismi ad allungare tanto l’Ave Maria dell’Anonimo spagnolo, che peraltro manca dell’invocazione finale: è vero che gli accenti verbali del saluto iniziale vi sono particolarmente rispettati, ma subito le parole “gratia” e “tecum” ricevono copia di vocalizzi, e più tardi su “benedictus” e “ventris” si raccolgono addirittura delle quartine di semicrome. Superiore, come sempre, ed eternamente e giustamente divina la semplicità mozartiana dell’Ave Maria stampata a Parigi in una raccolta di Echos religiosi comprendenti anche l’intonazione di Arcadelt; qui il cauto Andantino in Re maggiore che in genere non prevede più di due suoni, sotto le singole sillabe, si presenta come un duetto condotto per terze in forma pressoché strofica, dove l’invocazione si raddoppia fino a conferire alla preghiera l’aspetto di tre momenti musicalmente molto simili, sciolti, cantabili e ben legati nonostante la comparsa qua e là, di qualche ombra tonale e una parsimonia di scrittura confermata dalla linearità dell’ “Amen” finale. Nel profluvio di musica sacra cadente sul tardo Settecento e sul primo Ottocento europeo, emerse anche il contributo di Luigi Cherubini Dopo che la breve apertura pianistica ha chiarito la tonalità di Fa maggiore e anticipato il canto stesso, la bella melodia in Larghetto si forma, si alza, si distende e poi si ravvolge con tutta la grazia del testo, quindi si frange, si abbellisce e sull’invocazione sembra  riprendere un attimo la foggia originaria  per spaziare liberamente sul resto e chiudersi sopra un “Amen” dalle volute alte, ampie, belcantistiche.

Con l’Ottocento romantico il testo dell’Ave Maria depone le spoglie opime della polifonia per assumere stabilmente le vesti più dimesse della preghiera per canto e tastiera, per una voce mediana, centrale, mediosopranile o sopranile senza eccessi, e per un pianoforte calmo e devoto, seguace della voce senza ambizioni solistiche o virtuosistiche. E dunque Franz Schubert ebbe modo di inventare quella che sarebbe diventata la sublimazione popolare dell’Ave Maria: il Gesang si svolge sopra un morbido ma limpido Si bemolle Maggiore poi puntualmente modulato, e fin dall’attacco rispetta a pieno l’accentuazione delle parole allungando le sillabe accentate e stringendo quelle atone (il testo è l’adattamento tedesco di un passo di un romanzo di Scott, La donna del lago). Anch’essi più o meno risalenti al primo Ottocento, non vanno poi taciuti i contributi degli operisti italiani e francesi, perfino dei grandi virtuosi della tastiera. A fianco di Liszt, il lascito di un drammaturgo come Charles Gounod, la cui Ave Maria, celeberrima, è assai più drammatica e teatrale di quella di Schubert. Sopra l’arpeggio ostinato del pianoforte che parafrasa il preludio di un J. S. Bach quanto mai profano e strumentale, il canto riduce il numero delle pause, allunga i valori dei suoni, non sdegna quelle note acute che le versioni più cameristiche ignorano, svolge l’arcata melodica all’insegna di una tensione, di uno slancio, di un’enfasi segnata anche dalla ripetizione di certe parole. Operista anch’egli ma certo meno assiduo del precedente collega di poco più anziano, Camille Saint-Saens sbozzò un’Ave Maria solistica semplice, modesta, quasi povera: un Andante in 2/4 espresso da semiminime e crome ruotanti attorno a intervalli ridotti che solo sull’aggettivo “nostrae” tocca l’ottava discendente e nel prosieguo ripete l’avvio della melodia “più calmo” e “dolcissimo” verso la fine. In Italia l’Ave Maria per voce e pianoforte allettava fra gli altri Angelo Mariani, Luigi Luzzi, Francesco Paolo Tosti. Non grandemente teatrale, ma mossa, vibrante, drammatica, in italiano, l’Ave Maria di Angelo Mariani chiama il pianoforte a collaborare con la voce sopra un La maggiore e attraverso un Andante religioso molto sostenuto. Ma stranamente è l’invocazione finale che riesce a occupare lo spazio maggiore del brano. Da parte sua, l’intonazione di Luigi Luzzi è particolarmente sostenuta e sorvegliata, sia nella forma che nel rapporto fra il canto (dove Maria è piena di grazie plurali) e l’accompagnamento. La prima parte è un Andante iniziato “quietamente”, mentre la seconda, “poco più”, solo dopo un vasto impegno modulatorio perviene a riassumere e terminare nella tonalità principale. Quanto al terzo autore citato, è strano come uno strenuo e programmatico melodista quale Francesco Paolo Tosti al cospetto del tema dell’Ave Maria abbia preferito rinunciare alla corda del lirismo e ripiegare sulla tecnica del racconto, complice la poesia di Carmelo Errico: “Per le fulgenti cupole dorate”, tre strofe di cinque versi tutte chiuse dal saluto “Ave Maria”, si presenta infatti come una ballata, dal significato anzi non poco profano là dove, sulla strofe mediana, la fanciulla orante si trova a pregare invano vedendosi improvvisamente davanti il giovane, anzi il cavaliere amato. Ancora nell’Ottocento. Dopo Brahms e Bruckner, Ciajikovskij e Verdi, nessuna meraviglia se il saluto profetico e la successiva invocazione abbiano destato l’interesse di operisti della Giovane Scuola Italiana come Leoncavallo e Mascagni. Esperto di pianismo oltre che di vocalismo, Ruggero Leoncavallo non volle affatto assoggettare l’accompagnamento al canto: il canto lo chiamò Voce (dunque sia maschile che femminile, sia chiara che scura), l’accompagnamento lo volle sia per harmonium che per arpa o pianoforte e prima dell’attacco della preghiera prescrisse un Preludiando dal verace aspetto di preludio libero e rapsodico. Con Pietro Mascagni, invece, la preghiera diventa una parafrasi dell’Ave Maria, su versi di D.Capellina. Il richiesto Larghetto (in La bem. magg.) figura come cantabile sulle prime parole, ma presto ripiega sopra una sorta di recitazione intonata, provvista anche di suoni ribattuti, e più tardi, sull’invito “Prega per noi” reso sul verbo con un ampio arpeggio discendente dal Sol acuto (in “Fortissimo”), il canto assume l’aspetto di un arioso plastico, solenne e ardito allo stesso tempo, pronto a scendere nel registro grave richiesto “marcatissimo”.

Col nuovo secolo, e in particolare dopo la prima guerra mondiale, molte tradizioni crollarono, in Europa e in Italia, culturali e musicali, di forme e di costumi, e caddero le antiche barriere dei generi e le regole. Se l’ispirazione religiosa poteva visitare un qualunque compositore e invitarlo a intonare un antico testo come l’Ave Maria, proprio qui nessun compositore si poteva più dire solo o soprattutto religioso o camerista. Dal sostanzioso coacervo novecentesco ecco appena due casi, quello di Lino Liviabella e di Walter Proni. Anche in Liviabella, come altrove, lo strumentale ha un notevole spessore. La sua Ave Maria comincia con una schietta melodia per violino, e il timbro dello strumento ad arco scorterà tutto il brano in fedele compagnia di quello dello strumento a tastiera. Richiesta in Lento, la preghiera latina s’avvia sopra una quarta, ma l’apice acuto non ne è rappresentato dalla seconda bensì dalla prima sillaba del nome di Maria: a ripristinare l’ordine provvedono però i valori, giacché la “i” è una minima proprio come la “a” di “Ave”, per il resto il dolce, sommesso, cameristico brano in La minore si presenta perfettamente strofico, sulla quinta finale pronunciando sia “Jesus” che “Amen”. Ed è la volta della prima versione di Walter Proni, quella latina dedicata “A Sua Santità Paolo VI”. L’Andante in  3/4  posa stabilmente sopra la tonalità di La maggiore e brilla per l’incantevole semplicità e regolarità del disegno melodico, tanto che l’invocazione figura come la seconda strofa, perfettamente, e il doppio “Amen” finale ferma e conferma il La centrale solo variandovi la dinamica prima dal Piano e poi dal Pianissimo ma sempre col segno di messa di voce. La seconda versione di Proni, datata 1991, è in italiano, vuole Moderato-lento, posa sopra la tonalità di Sol maggiore e cimenta il pianoforte alla maniera dell’arpa,con arpeggi liquidi e incessanti: la melodia, che nel saluto iniziale comincia e finisce con le note di quella di Gounod ma se ne distanzia accortamente all’interno, suona lunga, estesa, sfumata, centrale, vaghissima, coerente anche sul Sol Fortissimo dell’invocazione, e la chiusa, dopo un fluttuante postludio, dice “Amen” prima calando il Re centrale a un Re bemolle tanto sensibile quanto imprevisto, poi salendo dal Do al Sol acuto in Pianissimo e suggellando il brano con tutto il profumo dell’arioso più dolce.

 Autori

J. Arcadelt ( 1504 ca. – 1568 ca. )
W. A. Mozart ( 1756 – 1791 )
C. Saint-Saens ( 1835 – 1921 )
C. Gounod ( 1818 – 1893 )  Meditazione sul 1° preludio del “ Clavicembalo ben temperato “ di J. S. Bach
F. Schubert ( 1797 – 1828 ) op. 52 n° 6
L. Luzzi ( 1828 – 1876 ) op. 80
W. Proni ( 1944 ) testo italiano  1988
L. Liviabella (  1902 – 1964 )
P. Mascagni ( 1863 – 1945 ) Adattata all’intermezzo della “ Cavalleria Rusticana
Anonimo spagnolo ( sec. XVIII )
L. Cherubini ( 1760 – 1842 )
W. Proni ( 1944 ) testo latino 1958
P. Mascagni ( 1863 – 1945 )
F. P. Tosti ( 1846 – 1916 )
A. Mariani ( 1822 – 1873 )
R. Leoncavallo ( 1858 – 1919 )







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