Commento alla preghiera di Dante (San Bernardo) a Maria nel XXXIII del Paradiso
Data: Giovedi 12 Novembre 2009, alle ore 9:12:21
Argomento: Cultura


Un articolo della Prof.ssa Raffaella Ballerio

La celebre preghiera di Dante a Maria si colloca significativamente in apertura al XXXIII canto del Paradiso, l’ultimo della Commedia, il canto nel quale si realizza l’evento che costituisce la meta del cammino di salvezza del poeta: la visione di Dio, il “sommo piacer” (v.33), il “fine di tutti i disii (v.46), il “valore infinito” (v.81).

Il momento, dunque, è estremo, ineffabilmente estremo e per compiere quest’ultimo passo, Dante ha bisogno dell’intercessione di Maria. San Bernardo, non a caso sostituitosi a Beatrice come ultima guida del poeta, nel canto immediatamente precedente afferma: “orando grazia conven che s’impetri / grazia da quella che puote aiutarti”. L’uomo da solo non può raggiungere l’infinito. Ha bisogno di chiedere aiuto attraverso la preghiera, perché, spiega San Bernardo, “tu non t’arretri / movendo l’ali tue, credendo oltrarti” (vs. 145-6). Così San Bernardo intona la preghiera alla Vergine, raccomandando al poeta di seguirlo con “l’affezione, / sì che dal dicer mio lo cor non parti”. / E cominciò questa santa orazione:”  Il verso finale lascia sospeso l’annuncio della preghiera che s’innalzerà all’inizio del canto successivo: una pausa solenne, densa di significato, dalla quale s’eleverà pura ed essenziale, senza commenti, l’invocazione.

   La preghiera, secondo i modelli classici, presenta una struttura tripartita: invocazione (vs. 1-3), elogio (vs. 4-21), petizione (vs. 22-39). L’invocazione, costituita dalla prima terzina, rivolgendosi a Maria esprime, attraverso una poesia straordinariamente essenziale e sintetica, il mistero della sua realtà e il fine del suo essere. Il primo verso (Vergine Madre, figlia del tuo figlio) in quattro parole, due antitesi semplicemente enunciate, afferma la realtà del mistero di Maria nella fede cristiana: vergine e madre, figlia di colui del quale è madre, ossia Dio, che, attraverso di lei si è incarnato nella persona di Gesù. Nel secondo verso (umile e alta più che creatura) una coppia di aggettivi (anch’essi antitetici) caratterizzano la qualità della persona di Maria, “creatura”, come le altre, ma più di queste “umile” e al tempo stesso “alta”. L’ “altezza” di Maria risiede nella sua umiltà. Maria umilmente ha risposto “sì” all’Angelo che le annunciava che sarebbe diventata la madre di Gesù. E’ l’umiltà ad innalzare la creatura alla sublimità del disegno divino. Così Maria diventa “termine fisso d’etterno consiglio” (v.3): punto stabilito nel tempo dal disegno di Dio, perché si compia l’umana salvezza. Maria, giovane donna di Nazareth è, nel fluire della Storia, il punto fermo cui Dio affida dall’eternità il cambiamento del mondo con l’ingresso del Figlio nel Tempo (cfr. Conv. IV, 3-5) . Così, il terzo verso, ancora attraverso una dinamica antitetica (tempo/eternità) compendia il mistero della Redenzione, voluta da Dio, ma resa possibile dal “sì” di Maria.

   Col “tu” anaforico (vs.4 e segg.), nel pieno rispetto dei moduli tradizionali, si passa all’elogio. “Tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti sì che ‘l suo fattore (creatore) non disdegnò farsi sua fattura (creatura)”. Si annuncia qui il mistero dell’Incarnazione, il cui compimento (come evento storico fissato dall’Eternità nell’umile creatura di Nazareth) è cantato nella terzina successiva : “nel ventre tuo si raccese l’amore / per lo cui caldo ne l’etterna pace / così è germinato questo fiore (il fiore dell’umana beatitudine)”. L’incarnazione e la passione di Cristo riaprono alla natura umana le porte del cielo. Ed è grazie a Maria che il mistero della Redenzione, momento centrale della storia del mondo, ebbe compimento. Maria accolse con fiducia (fides) le parole dell’Angelo: la sua fede la rese luce di carità (v. 11) e fonte di speranza (v. 12). “Speranza… è un attender certo della gloria futura” risponde Dante a San Giacomo che lo interroga su questa virtù teologale (XXV, 66-67). La speranza, come attesa fiduciosa,  è conforto e sostegno agli uomini, insieme a quell’amore misericordioso che “non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fiate / liberamente al dimandar precorre” (vs. 16-18). E’ l’amore gratuito che Maria ebbe anche per Dante, quando, all’inizio del suo cammino, si mosse (non richiesta) a salvarlo, infrangendo, quasi, lo stesso giudizio divino: “Donna è gentil nel ciel che si compiange / di questo impedimento (l’ostacolo delle tre fiere) ov’io (Beatrice) ti (Virgilio) mando sì che duro giudicio la su frange” (Inf. II, 94-6) Giustizia e misericordia, ricorda Dante (Par. VII), sono le due vie della Redenzione. Dio mai fu più giusto e misericordioso di quando donò il figlio stesso, perché il genere umano si alzasse a poter soddisfare la giustizia divina : “ché più largo fu Dio a dar se stesso / per far l’uomo sufficiente a rilevarsi, / che s’elli avesse sol da sé dimesso”(VII, 115-17).

   Maria esprime il volto misericordioso di Dio. Misericordia e speranza hanno sostenuto Dante, uomo e poeta, durante tutto il cammino di salvezza, da “l’infima lacuna” al varco dell’inesprimibile incontro. E con la celebrazione dell’unica grande virtù di Maria, quella che raccoglie tutte le altre, la sua misericordiosa, pietosa, larga bontà, pronta a riversarsi sugli uomini si conclude la parte dedicata alla lode (vs. 19-21).

   Il v. 22 apre la terza parte della preghiera: San Bernardo esprime la richiesta specifica per Dante (“Or questi …”) che, dopo aver visto “le vite spiritali ad una ad una … supplica a te, per grazia” di poter accedere alla visione di Dio, “l’ultima salute (salvezza)”. San Bernardo che mai arse di desiderio per lo suo veder più di quanto ora arda perché Dante giunga alla visione, prega Maria che “ogne nube li disleghi di sua mortalità… sì che il sommo piacer li si dispieghi” e ancora “che conservi sani… li affetti suoi”. E da ultimo “Vinca tua guardia i movimenti umani”. Significativa la metafora militare: in quella “milizia” che è la vita dell’uomo sulla Terra, la Vergine è vigile guardia a sostegno dell’umana debolezza.

   A conclusione della preghiera, l’invito a veder Beatrice con quanti beati / per li miei prieghi ti chiudon le mani apre allo sguardo la vista di tutta l’assemblea dei beati. Questi pregano per Dante quasi facendo coro a Beatrice che, nominata qui per l’ultima volta, adempie da ultimo il suo compito di guida alla salvezza.

   La preghiera, apparentemente formulata, soprattutto in quest’ultima parte, solo per Dante, si rende valida per tutti gli uomini. Dante non perde occasione, nel poema come altrove, di affermare che la sua poesia ha una mission precisa: “removere viventes in hac vita de statu miseriae et perducere ad statum felicitatis”, allontanare gli uomini in questa vita dalla condizione di infelicità e condurli alla felicità (dall’Epistola a Cangrande). Dante non manca di ricordare proprio in quest’ultimo canto della Commedia che il suo scopo è la “futura gente” (vs. 72)

   Accingendosi a raccontare la sua esperienza estrema, la visione di Dio, chiede a Dio stesso che gli conceda le parole, perché possa lasciare a coloro che verranno dopo di lui almeno una “favilla” della gloria ch’egli vide. Dante, quindi, chiede non solo per sé, ma soprattutto per gli altri, perché grazie alla sua poesia gli uomini possano comprendere meglio l’immensa realtà umana e divina.

   La preghiera a Maria, dunque, è per Dante, uomo e poeta, ma anche per tutta l’umanità (attraverso di lei si compie la Redenzione), ma soprattutto per ciascuno di noi. Maria è salvezza per l’umanità, perché in lei storicamente si è compiuto il mistero dell’Incarnazione. Ma il miracolo della salvezza può avvenire ogni giorno, attraverso Maria, per ogni uomo che rammenti il suo “sì” e si affidi alla sua misericordia.

   La memoria del “sì” di Maria è per ciascun uomo esempio di  umiltà, ossia di quella disposizione d’animo che consente di corrispondere alla volontà divina e vivere la pace spirituale. Si rammentino le parole di Piccarda nel III canto: “ in sua voluntade è nostra pace”, riecheggiate proprio nella terzina conclusiva del poema: “ma già volgeva il mio desio e’l velle (volere) ” L’umiltà ha significato per Dante la condizione necessaria per l’incontro con Dio. Non diversamente per ogni uomo. Dante intende la sua esperienza per tutti gli uomini. Si preoccupa non tanto di “ridire” ciò che ha visto, quanto di comunicarne l’effetto, “ il dolce che ancor  mi distilla” (vs. 62-3). Questo è ciò che prova l’autenticità dell’evento, dell’incontro possibile per ogni uomo: non la descrizione del volto di Dio, ma la “passione impressa”, ossia quel “dolce”, quell’esperienza di felicità che quell’incontro dona e ne diviene inconfondibile segno.  E in questo Maria ha un ruolo fondamentale: ricordiamo i vs. 31-33 della preghiera: “perché tu ogne nube li disleghi…”: Maria, col suo amore misericordioso, aiuta a rimuovere gli ostacoli che quotidianamente tentano di impedire il godimento dell’incontro con Dio.

 







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