Occorre partire dai dati antropologici e teologici che riconoscono negli esseri creati una relazionalità attiva in rapporto a Dio e alle stesse creature. Un articolo di Stefano De Fiores su Madre di Dio n. 9 - ottobre 2009
Abbandonati i modi ambigui di presentare la funzione mediatrice di Maria, incombe ai teologi il compito di adottare un linguaggio che sia preciso e adeguato ai contenuti storico-salvifici da trasmettere ed insieme chiaro e accettabile per le culture del nostro tempo. Si tratta di una duplice fedeltà: alla Parola di Dio o rivelazione biblica trasmessa dalla Chiesa, e agli esseri umani che comunicano all’interno della cultura, considerata come modo organico di vivere. Questo doppio confronto spinge la maggioranza dei teologi e mariologi a scegliere un linguaggio di mediazione, mentre una minoranza qualificata opta per un linguaggio alternativo.
Tommaso d’Aquino
In genere la teologia contemporanea ha difficoltà ad abbandonare il termine mediatore, innanzitutto perché è biblico e indica una funzione imprescindibile di Cristo nella storia della salvezza, e poi perché designa una componente significativa dell’antropologia, secondo cui ogni persona cresce e matura mediante l’apporto positivo degli altri. Anche il ricupero della teologia delle realtà terrestri evidenzia la consistenza delle creature che esercitano le une verso le altre un influsso più o meno determinante anche dal punto di vista salvifico.
In realtà la mediazione creaturale finisce per essere ammessa dalla perspicua dottrina di san Tommaso, che distingue la cooperazione dalla mediazione, poiché mentre per la prima bastano due che collaborano insieme, la mediazione richiede invece un terzo: il mediatore infatti deve unire due estremi, da cui si distingue e con cui nello stesso tempo ha qualcosa di comune. Ne consegue che Cristo, Uomo-Dio, è l’unico mediatore, mentre né il Padre né lo Spirito possono dirsi mediatori.
Il testo tomista principale stabilisce un parlare rigoroso e poi in qualche modo lo supera proponendone uno secundum quid: «Bisogna dire che appartiene propriamente all’ufficio di mediatore congiungere e unire quelli tra i quali è mediatore: poiché gli estremi si uniscono nel mezzo. Ma unire perfettivamente gli uomini a Dio conviene a Cristo per mezzo del quale gli uomini sono stati riconciliati con Dio secondo il passo di 2Cor 5,19: Dio riconciliava a sé il mondo in Cristo. E quindi solo Cristo è il perfetto mediatore di Dio e degli uomini, in quanto mediante la sua morte riconciliò con Dio il genere umano [...]. Niente però proibisce chiamare alcuni altri in certo modo [secundum quid] mediatori tra Dio e gli uomini, in quanto cioè cooperano all’unione degli uomini con Dio dispositivamente o ministerialmente».
Giustamente Tommaso riconosce una mediazione di Cristo in senso proprio ed esclusivo, quindi non comunicabile, in quanto solo Gesù è Verbo incarnato e quindi unico mediatore nato. In questo senso non si possono chiamare mediatori né il Padre, né lo Spirito Santo, né tanto meno alcun altro essere umano; propriamente parlando essi sono cooperatori.
Può darsi che qualche teologo opti per un uso rigoroso della terminologia, rifiutando a tutti gli altri l’unica mediazione che appartiene all’Uomo-Dio; ma sul piano operativo rimane vero che chi coopera con l’unico mediatore partecipa alla sua azione mediatrice, anche se ontologicamente rimane sulla sponda dell’uomo (per es. Maria e la Chiesa) o su quella di Dio (lo Spirito Santo).
Non esiste qui alcuna difficoltà di chiamare Maria mediatrice per grazia di Cristo, inserita in Cristo e al servizio di Cristo, in quanto partecipe all’opera salvifica di Cristo. Tanto più che Maria, come tutti i fedeli, ha ricevuto da Cristo salvezza e giustificazione, che implicano il dono della vita divina, che pur lasciandoli nella condizione creaturale li introduce nell’ambiente vitale trinitario.
Bernard Sesboüé
Sulla stessa linea tomista, ma con sensibilità più vicina alla cultura contemporanea, si muove B. Sesboüé, per il quale la mediazione suppone «un ambiente o termine medio capace di creare un legame di comunicazione, ossia di riconciliazione tra due partner finora estranei o in conflitto. Il mediatore è un punto centrale d’incontro e di passaggio tra l’uno e l’altro. Ma lo può essere solo se ha qualcosa di comune con loro».
Sul piano operativo la mediazione «è un’attività di scambio tra i due termini da unire» e implica un «doppio movimento»: uno di andata che viene da Dio verso l’uomo e uno di ritorno che viene dall’uomo e va verso Dio. Ora Cristo adempie pienamente a questi requisiti, in quanto essendo Dio e uomo, può realizzare la mediazione discendente (è il rivelatore del Padre, il redentore e liberatore, il divinizzatore...) e la mediazione ascendente (si offre al Padre in sacrificio, è intercessore e riconciliatore). Certo, la cultura pluralista odierna ritiene una pretesa e un affronto alle religioni la proclamazione di Cristo unico mediatore di salvezza. Ma, abbandonata l’interpretazione esclusivista, l’unica mediazione di Cristo non si oppone alle vie salvifiche costituite dalle religioni, e neppure alcune figure mediatrici di salvezza, ma le include, anche se non possono pretendere di raggiungere l’unicità e l’universalità dell’Uomo-Dio.
Sesboüé conclude che «se la mediazione di Cristo è unica, è vero che nell’ordine della salvezza anche noi siamo tutti mediatori gli uni per gli altri. Perché certi grandi testimoni della storia religiosa dell’umanità non servirebbero a loro volta da mediatori all’interno dell’unica mediazione di Cristo?».
Spiritualità
Dal punto di vista della teologia spirituale, Ch.A. Bernard distingue tra mediazione salvifica costitutiva, che è quella esercitata dall’unico Mediatore e dalle mediazioni da lui derivate come la Chiesa e i sacramenti, e mediazioni creaturali che sono tutte le cose, poiché «ogni realtà positiva è vestigio oppure immagine di Dio [...]; il mondo della natura, l’ambiente culturale, il prossimo, l’azione, la preghiera, tutto ciò va considerato mediazione fra Dio e l’uomo». Dal canto suo F. Ruiz riconosce nella mediazione «un concetto fondamentale della teologia», valorizzato nell’Antico e nel Nuovo Testamento, tanto da poter «elaborare una solida spiritualità delle mediazioni». Se l’antica alleanza «è interamente basata su mediazioni e mediatori», occorre riconoscere che «in Gesù Cristo la mediazione acquista la qualità di assoluta "immediatezza"». In Cristo si fondano «innumerevoli mediazioni e submediazioni che attualizzano e dispiegano nella storia la sua mediazione».
Poiché la categoria "mediazione" è generale, conviene arricchirla con altre, come segno, sacramento, immagine...; in modo specifico la «mediazione teologale» è «la capacità spirituale che ricevono e hanno alcuni oggetti, persone, gesti, di mostrare l’azione di Dio nell’uomo e di risvegliare ed esprimere l’accoglienza e la risposta dell’uomo stesso all’azione di Dio».
Ruiz mette in guardia da alcuni pericoli: ristagnare nell’oggetto senza percepirne il rimando alla trascendenza; manipolare l’oggetto considerandolo mero strumento, il cui valore s’identifica e scompare con la funzione, mentre occorre ricordare che «i sacramenti e il fratello [...] sono mezzi nei quali, e non solo attraverso i quali, Dio realizza l’incontro di salvezza»; valorizzare solo le mediazioni religiose, capaci di unirci immediatamente a Dio, trascurando quelle naturali e storiche; cercare l’autoaffermazione invece della mediazione trasparente.
Anche la Vergine...
Una nuova presentazione di Maria mediatrice consiste nel partire dai dati antropologici e teologici che riconoscono negli esseri creati, soprattutto nelle persone umane, una relazionalità attiva in rapporto a Dio e alle creature.
Già K. Rahner, pur riconoscendo la dottrina tradizionale dell’unica mediazione di Cristo e delle partecipazioni derivate e subordinate, preferisce imboccare un’altra strada: quella del loro presupposto antropologico, che vede Cristo mediatore «come il "caso" escatologicamente perfetto, irrepetibile e inseparabile di una comunicazione umana davanti a Dio, di una solidarietà universale di salvezza».
La tesi del teologo tedesco è così formulata: «Perché sia possibile una mediazione salvifica di Cristo e la sua realizzazione personale nella fede, è necessaria l’intercomunicazione di tutti gli uomini sino nelle dimensioni più profonde della loro esistenza, sin nella loro salvezza, nonché la realizzazione e l’esperienza esistenziale-concreta di questa radicale intercomunicazione». Ora questa intercomunicazione, come «orizzonte di comprensione all’interno del quale la mediazione di Cristo risulta recepibile», esiste ed è sperimentabile: è «l’esistenza intercomunicativa dell’uomo». Infatti «l’intercomunicazione è implacabile nel propormi continuamente la presenza dell’altro, che mi stimola e mi sorregge continuamente», anche nell’aspetto essenziale della salvezza: «Anche qui nessuno è solo: ma tutti sono di aiuto, sono responsabili e importanti per la salvezza di tutti». La storia delle intercomunicazioni umane e tra Dio e l’umanità raggiunge «il suo culmine escatologico nella autopartecipazione divina, cioè quando l’evento dell’offerta e dell’accettazione di tale autopartecipazione del Pneuma divino diventa irreversibile». Ciò avviene nell’incarnazione, morte e risurrezione del Logos divino, in quanto egli fattosi carne è il mediatore «dell’autopartecipazione divina, nella misura in cui egli coincide con il futuro della storia di tale partecipazione». Ciò significa che «l’evento "Cristo" non dà l’avvio alla volontà salvifica divina, cioè la volontà di partecipazione valida in tutta la storia, ma ne è l’effetto. Perché ama il mondo, Dio ha inviato il suo Figlio».
Conseguenza di questa impostazione è che ogni salvezza che si realizza nella storia individuale è anche mediatrice di salvezza altrui. Infatti tale evento salvifico è sempre intercomunicativo, in quanto è voluto da Dio e da lui operato partendo e guardando alla totalità della storia della salvezza, per cui chiunque viva nella fede e nell’amore è mediatore di salvezza per tutti. In Gesù questa intercomunicazione raggiunge il suo vertice, per cui egli è l’unico e assoluto mediatore.