Un articolo di Giuseppe Buono in Il Rosario e la Nuova Pompei, Anno 128 - N. 2 - 2012 [82], pp. 34-36.
Il 26 giugno scorso, in Piazza Duomo a Milano, veniva proclamato beato padre Clemente Vismara, del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME), per 65 anni missionario tra gli altopiani e le foreste della Birmania, oggi Myanmar. Padre Clemente Vismara è un missionario morto a 91 anni "senza mai essere invecchiato", come hanno detto i suoi confratelli di missione. Il cardinale Tettamanzi ha ricordato il motto che ha sorretto la lunga vita di Padre Clemente: "La vita è fatta per essere donata" e lui l'ha veramente donata: a tutti e sempre! Ma se lo ricordiamo su questa Rivista è perché la santità di questo missionario ci sembra condensata tutta nella gioia totale di amare Gesù negli altri, soprattutto nei piccoli orfani, e nella devozione alla Madonna, specialmente con la preghiera del rosario.
Padre Clemente Vismara nacque ad Agrate Brianza (oggi provincia di Monza) il 6 settembre 1897, quintogenito di sei figli; resta orfano di mamma a cinque anni e di papà a sette. Entra nel seminario diocesano di San Pietro Martire a Milano, dove frequenta il liceo ma, soprattutto, dove gli capita tra le mani un libro che a quei tempi spesso veniva letto di nascosto nei seminari perché provocava tante vocazioni missionarie. Il titolo del libro: Operarii autem pauci!, che è la constatazione che faceva Gesù pensando al Regno che era venuto a realizzare: La messe è molta ma gli operai sono pochi! L'autore era un missionario del PIME di origine avellinese-napoletana, che era appena tornato dalla Birmania per malattia e non si rassegnava a stare a guardare.
Nel 1914 Vismara viene chiamato come soldato nella prima guerra mondiale e vi resta per tutto il tempo con il grado di sergente maggiore.
Nel 1918 rientra in seminario per lo studio della teologia. Entra nel PIME (allora Seminario Lombardo per le Missioni Estere); ordinato sacerdote nel 1923, tre mesi dopo parte per la Birmania e vi rimane 65 anni, fino alla morte, 32 dei quali a Monglin, dove fonda partendo da zero tre parrocchie e una quarantina di villaggi cattolici, e 33 anni a Mong Ping (distante 200 km), dove fonda altre due parrocchie e lascia 52 villaggi cattolici. In 65 anni di missione torna in Patria una sola volta, quasi costretto, per qualche mese, nel 1957. Nell'agosto di quell'anno io ebbi la fortuna di conoscerlo a Gaeta, dove ero studente di teologia e lui mi chiese di accompagnarlo a mare, dove non era mai andato, per fare il bagno... Muore a Mong Ping il 15 giugno 1988. Il 26 giugno 2011, 23 anni dopo, è proclamato beato.
La Madonna e il Rosario all'origine della vocazione e della santità di Padre Vismara
Quando l'orfano Vismara era al Collegio Villoresi di Monza giurava: "Io prete non mi farò mai... No, prete non lo sarò mai!". Poi intervenne, in modo tutto suo, la Madonna che Vismara quasi sfidò: "Offrivo in quel tempo, quasi di nascosto, un mazzo di fiori alla Madonna. Non so per quale stranezza mi venne da dire: Se il 31 maggio quella rosa lascia cadere i petali, mi faccio prete. E al mattino del 31, toccando il vasetto, la rosa lasciò cadere lenti i suoi petali...". Così entrò nel Seminario diocesano di San Pietro martire a Milano, sempre vivace, esuberante, "più volte in procinto di essere dimesso".
Padre Vismara nei primi tempi di missione lamenta la mancanza di una cappella e soprattutto del tabernacolo con l'Eucaristia: "Dato che nella stessa casa alloggiamo uomini e bestie, non possiamo avere il SS.mo qui con noi...". Quando la cappella è pronta, ecco uno squarcio di santità missionaria genuina. Scrive a Padre Manna: "... Al mattino provo un gusto matto, dopo la S. Messa, a stare in cappella. Mi sento tutto dinoccolato, per cui sto seduto e faccio senza accorgermi un ringraziamento lungo, chiedendo a Gesù di lasciarmi fare un pisolino in santa pace. Se chiedessi a lei questo permesso, sarebbe capace di negarmelo?". In un'altra lettera confessa: "Io sono contento che la vita sia dura, sono desideroso di sacrificio e ringrazio Dio che m'abbia voluto mandare qui, ci sto felicissimo e non desidero altro...". Ancora a Padre Manna racconta squarci della sua vita missionaria tra i villaggi abitati tutti da animisti: "A volte venivo accolto bene, a volte male; a volte la gente si avvicinava senza paura, altre scappava gridando. Spesso mi davano da mangiare gratuitamente oppure pagando e qualche volta non me ne davano neppure pagando... Si saliva e si scendeva, si passava per sentieri difficili e per boschi impraticabili. Ci si ammalava per strada e per strada si guariva. Si arrivava di giorno e si arrivava di notte, col sole o con l'acqua. Erano villaggi che mai ebbero visite di missionari...."
Il Rosario, sempre
In una vita così movimentata e difficile ci poteva essere posto per la preghiera? Ma la vita di Padre Vismara, sempre in movimento e tra difficoltà, è una vita di preghiera! Soprattutto la celebrazione della Messa e la recita del Rosario. Scrive: "Con poca fatica e vorrei dire per forza di cose tutto è preghiera: a voler fare il contrario è difficile... Mi sforzerò di dire che cosa orgogliosa nel cuore ad un prete che celebra... Quando un sacerdote celebra deve regnare il silenzio: è permesso solo il mormorio dei ruscelli, il sommesso sibilare del vento tra le foglie e l'uomo, il re della natura, zitto e pensoso stia a capo chino davanti al suo Dio". Dopo la Messa, il Rosario. Scrisse: "Io la Corona del santo Rosario la dico sempre in compagnia. A sera, verso le sei, un mio orfanello tira la campana, tutti gli altri in fila per due entrano in chiesa e anch'io, come tutti, rispondo alle Ave Maria che recita un ragazzo a turno di settimana. Per sette giorni si recita il Santo Rosario in lingua shan, altri sette in lingua musho e altri sette in lingua iko. Se lo recitassi nella lingua di mia madre forse ci capirei di più, mi sembrerebbe più devoto, ma preferisco pregare in compagnia e alzo anch'io la mia voce forte per farmi sentire dagli uomini e da Dio".
Ecco come si diventa santi. Anche in una vita senza soste, senza comodità, a volte senza pane, a volte perseguitati. O forse si diventa santi proprio per questo...
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