Competenze ecclesiali nel discernimento delle Apparizioni mariane
Data: Mercoledi 12 Settembre 2012, alle ore 15:45:25
Argomento: Mariofanie


Dalla Relazione di Charles J. Scicluna, Orientamenti dottrinali e competenze del Vescovo diocesano, della Congregazione ler la Dottrina della Fede nel discernimento delle apparizioni mariane, in Pontificia Academia Mariana Internationalis, Apparitiones Beatae Mariae Virginis in Historia, Fide, Teologia.Acta Congressus marioligici-mariani internationalis in Civitate Lourdes Anno 2008 celebrati. Studia in sessionibus plenaria exhibita, vol 1, PAMI, Città del Vaticano 2010, pp. 340-355.



- La competenza del Vescovo diocesano ovvero dell'Ordinario del luogo nel discernimento

Il principio della competenza nativa del Vescovo
  
Le Norme del 1978 sono molto chiare: "Officium invigilandi vel interveniendi preaprimis competit Ordinario loci" [Il dovere di vigilare e di intervenire compete per primo all'Ordinario del luogo] (Normae III,1). Il principio della competenza nativa dell'Ordinario del luogo è sancito nei documenti più autorevoli in materia. Il Concilio Lateranense V, nel decreto "Supernae maiestatis praesidio" sul modo di predicare [circa modum praedicandi], emanato nella Sessione Xl [Undecima] il 19 dicembre 1516, riconosce la competenza dell'"'Ordinarius loci" di intervenire tempestivamente nei casi di necessità urgente ("urgens necessitas"). Poco meno di cinquanta anni dopo, nella Sessione XXV [Venticinquesima], il 3 e 4 dicembre 1563, il Concilio di Trento, nel decreto "De invocatione, veneratione et reliquiis sanctorum et de sacris imaginibus" sancisce la competenza del Vescovo in questi termini generici: "Nulla etiam admittenda esse nova miracula nec novas reliquias recipiendas nisi eodem recognoscente et approbante episcopo" [Non sono da ammettere nuovi miracoli e non sono da accogliere nuove reliquie senza che il Vescovo le abbia esaminate ed approvate].

"Ordinarius loci"
   
Il Codice di Diritto Canonico al can. 134 § 2 stabilisce l'elenco di chi è incluso sotto l'espressione "Ordinarius loci" e cioè: oltre il Romano Pontefice, i Vescovi diocesani e gli altri che, anche se solo interinalmente ["ad interim"], sono preposti a una Chiesa particolare o a una comunità ad essa equiparata a norma del can. 368 (prelatura territoriale, abbazia territoriale, vicariato apostolico, prefettura apostolica, amministrazione apostolica eretta stabilmente). Inoltre sono da ritenersi "Ordinari loci" coloro che nelle medesime Chiese particolari o comunità equiparate godono di potestà esecutiva ordinaria generale, vale a dire i Vicari generali ed episcopali (cf. CIC, can. 134, § 1). Non sono consideri "Ordinari loci" i Superiori degli istituti religiosi e delle società vita apostolica (cf. CIC, can. 134, § 2). Nella frase "Ordinarius loci", con il termine "loci", che qualifica "Ordinarius", si indica il luogo dell'apparizione ("locus apparitionis"). Perciò il Vescovo o il prelato che è "Ordinarius loci apparitionis" ha la competenza di emanare il giudizio ecclesiale su un particolare evento o fenomeno. Un giudizio di condanna di approvazione emanato o espresso da un Vescovo o prelato che non è "Ordinarius loci apparitionis", e che non è autorizzato, ad hoc dalla Santa Sede, non ha valenza canonica ma va solamente considerato come giudizio personale di chi lo fa. Questo non toglie la competenza di un Ordinario proprio di dare delle indicazioni precise al suo popolo proprio riguardo a pellegrinaggi collegati a luoghi di asserite apparizioni avute in altro territorio. Queste indicazioni obbligano i fedeli propri dell'ordinario e non altri. Un Ordinario che non è "Ordinarius loci" può avere l'autorità di emanare un giudizio canonico valido su una asserita apparizione se gli è stato conferito mandato specifico dalla Santa Sede.

''Officium Episcopi"
   
Le Norme del 1978 parlano di "officium invigilandi vel interveniendi" ["il dovere di vigilare e di intervenire"]. La parola "officium" indica il dovere e il diritto di agire. Come agire? Le parole "invigilatio" e "interventus" sono molto ampie. L'Ordinario del luogo ha il diritto-dovere di prendere tutte le misure utili e necessarie che la situazione suggerisce. Anche quando altre istanze intervengono, il ruolo dell'Ordinario del luogo rimane saldo, non solo per l'esecuzione delle decisioni superiori ma anche per l'arduo ministero della vigilanza. Ho già segnalato come il Codice di Diritto Canonico include i Vicari generali ed episcopali tra gli "ordinari del luogo" (cf. CIC  can. 134,§ 1 & 2). Penso che questo sia giusto per quanto concerne l'obbligo-dovere di vigilare e di tutelare il bene comune e la disciplina ecclesiastica. Sono però convinto che ogni giudizio definitivo sul merito di una apparizione ("constat", "non constat" e le revisione dell'uno o dell'altro) deve considerarsi riservato al Vescovo diocesano o a chi regge una comunità equiparata. Non penso che un vicario generale o un vicario episcopale possa emanare il decreto definitivo, sine mandato episcopi o inscio episcopo, a meno che non abbia ricevuto istruzioni dalla Santa Sede.

Quando conviene che il Vescovo si astenga

In alcune circostanze sembra che sia conveniente, e forse anche necessario, che il Vescovo del luogo si astenga dal giudizio definitivo, lasciando questo compito ad altri. La prima di queste circostanze è dove il veggente è lo stesso Vescovo, o dove il Vescovo è diventato testimone diretto del fènomeno, per il principio 'nemo iudex in causa propria". Questo principio non vale invece quando il Vescovo è testimone di un miracolo collegato all'apparizione, perché il miracolo è segno divino di conferma dell'apparizione e non l'apparizione stessa. Altre circostanze che devono indurre il Vescovo ordinario del luogo a rinunciare al suo ruolo sono quelle indicate dal Codice di Diritto Canonico al can. 1448 § I che enumera le circostanze che jmpongono al giudice di astenersi dal giudizio in un caso particolare: "Il giudice non accetti di giudicare una causa che in qualche modo lo riguarda ["aliquid ipsius intersit"] in ragione di vincoli di consanguineità o affinità in qualunque grado della linea retta e fino al quarto grado della linea collaterale, o in ragione di tutela e curatela, di convivenza, di grave inimicizia, oppure a scopo di guadagno o per evitare un danno". Il can. 1449, che sancisce l'istituto giuridico della ricusazione di un giudice per queste circostanze, dà una regola molto saggia al § 3: "Se il Vescovo stesso è giudice e contro di lui va la ricusazione, si astenga dal giudicare". Insomma, quando il giudizio non si prospetta del tutto sereno e ragionevolmente distaccato, bisogna affidarlo ad altri.

Ricorso a degli esperti

Sia il Concilio Lateranense V che il Concilio Tridentino nei decreti già citati, aggiungono un elemento da ritenersi più utile nell'esercizio del ruolo proprio dell'ordinario del luogo competente. Si tratta del ricorso a degli esperti che possano aiutare l'ordinario a discernere bene tutta la materia. Nel 1516 il Concilio Lateranense V impone la prassi con la seguente frase: "adhibitis secum tribus aut quatuor doctis et gravihus" [chiamati ad aiutarlo tre o quattro uomini dotti e seri]. Il Concilio Tridentino nel 1563 usa un'espressione più incisiva: "adhibitis in consilium theologis et aliis piis viris" [chiamati per dare un parere alcuni teologi e altri uomini pii]. Le Norme del 1978 non impongono nuove indicazioni al riguardo. La prassi della Congregazione per la Dottrina della Fede suggerire al Vescovo competente la costituzione di una commissione di esperti tra cui figurano esperti in teologia, diritto canonico e psicologia. Da notare la qualifica indotta dal Concilio Lateranense V, e cioè che gli esperti siano "docti et gravi" [dotti e seri]. Il Concilio Tridentino inoltre specifica che siano "viri theologi et pii" [teologi e uomini pii]. Da notare inoltre che questo grande Concilio indica in modo molto chiaro che questi "theologi pii" sono '`adhibiti in consilium". La commissione di esperti ha perciò ruolo consultivo. Il giudizio definitivo spetta all'Ordinario del luogo per il principio dottrinale della comunione gerarchica. L'esigenza di agevolare l'iter del discernimento con il conforto di persone esperti nella loro materia è un imperativo della prudenza e della vera saggezza. Il giudizio dell'ordinario del luogo deve essere fatto "scienter et conscienter". La "scientia", nel nostro caso, non si presume "infusa" e non avrebbe come oggetto proprio solo la notizia esatta del fatto asserito ma anche il possesso dei criteri tradizionali per il discernimento dei carismi e degli spiriti. La presenza degli esperti garantisce la giusta "scientia", fondamento di ogni giudizio "secundum veritatem".
Mi sia permesso di aggiungere a questo punto una postilla rispettosa ma chiara, giacché un triste fenomeno sta infatti imperversando la nostra materia. Mi riferisco alla facilità con la quale alcuni esperti di indubbia competenza e di fama internazionale mettono alla disponibilità del grande pubblico le loro riflessioni, se non anche i loro giudizi personali, su asserite apparizioni e fenomeni connessi, senza aspettare la conclusione dei fenomeni, senza attendere le indicazioni dell'Autorità Ecclesiastica. Non posso nemmeno tacere il grave danno e il triste scandalo che si crea ogni qual volta l'uno o l'altro teologo di fama si costituisce paladino, avvocato, addirittura promotore, di qualche apparizione in aperta polemica con l'Autorità ecclesiastica competente. In questi atteggiamenti non vengono certo promosse quelle "docta pietas et gravis scientia" alle quali il Magistero fa riferimento, parlando del ruolo dei teologi nel discernimento ecclesiale. Il fatto che gli esperti sono "adhibiti in consilium" non toglie all'Ordinario del luogo il dovere di soppesare bene le ragioni e le motivazioni del loro parere. Il Concilio Tridentino nel suo decreto impone al Vescovo il seguente obbligo: "ea faciat quae veritati et pietati consentanea iudicaverit" [che faccia quello che avrebbe giudicato degno della verità e della pietà]. il Concilio Lateranense V, riferendosi al giudizio di approvazione (ovvero "licentia") emanato dall'Ordinario del luogo, aveva già usato l'espressione molto forte: "super quo eorum conscientias oneramus" [e di questo giudizio oneriamo le loro coscienze]. "Veritas et pietas" [La verità e la pietà] sono perciò i capisaldi, le giuste coordinate, dell'operato del Vescovo o dell'Ordinario del luogo.


- Il ruolo delle Conferenze Episcopali

Le Norme del 1978 dicono al riguardo: "Conferentia Episcopalis regionalis vel nationalis intervenire potest: a) si Ordinarius loci, postquam suam egerit partem, ad ipsarn recurrat ad tutius rem diudicandam; b) si res ad ambitum nationalem aut regionalem iam pertineat, semper tamen praevio consenso Ordinarii loci" [La conferenza episcopale regionale o nazionale può intervenire: a) se l'Ordinario del luogo, dopo che abbia fatto la sua parte, ricorre alla medesima conferenza per poter giudicare la materia in modo più accurato; b) se la materia e ormai di dominio nazionale o regionale, ma sempre con il consenso previo dell'Ordinario del luogo (III, 2). Prima di passare a un breve commento di questa normativa e della prassi della Congregazione per la Dottrina della Fede al riguardo, vorrei soffermarmi sul precedente storico. Mi riferisco al Decreto del Concilio di Trento emanato durante la Sessione XXV nel 1563. Il Concilio Tridentino aveva prospettato il ricorso obbligatorio al concilio provinciale nei casi dove sorgesse un abuso sospetto o problematico, o nei casi dove si presentava una questione del tutto grave: "Quodsi aliquis dubius aut difficilis abusus sit extirpandus vel omnino aliqua de his rebus gravior quaestio incidat: episcopus antequam controversiam dirimat metropolitani et comprovincialium episcoporum in concilio provinciali sententiam exspectet" [Nel caso si dovesse estirpare qualche abuso sospetto o problematico, o nel caso si presentasse una questione del tutto grave, il Vescovo aspetti il parere del metropolita e dei vescovi della stessa provincia riuniti in concilio provinciale, prima di dirimere la controversia]. Si noti subito che il ricorso obbligatorio al concilio provinciale non toglieva la competenza del Vescovo diocesano che rimaneva titolare della controversia, anche se doveva aspettare il parere ("sententia") del concilio provinciale prima di esprimere il giudizio definitivo, che viene indicato dal Concilio Tridentino con il termine tecnico giuridico "controversiam dirimere". Le Norme del 1978 prospettano due tipi di ricorso alla Conferenza Episcopale regionale o nazionale. Il primo tipo di ricorso è quello fatto dal Vescovo diocesano di sua propria iniziativa, che possiamo chiamare "ricorso richiesto". Si indicano due circostanze cumulative: 1) il Vescovo diocesano ha già fatto la sua parte ("postquam suam egerit partem");  2) il Vescovo ritiene utile o necessario l'intervento della Conferenza Episcopale per assicurare e garantire un giudizio migliore ("ad tutius rem diudicandam"). Il secondo tipo di ricorso alla Conferenza Episcopale regionale o nazionale non nasce dall'iniziativa dell'Ordinario del luogo ma deriva dal fatto che l'asserita apparizione è ormai diventata un caso regionale o nazionale: "res ad ambitum nationalem aut regionalem iam pertinet". in questo caso è necessario il previo consenso dell'Ordinario del luogo: "semper tamen praevio consensu Ordinarii loci". Perciò chiameremmo questo ricorso come "ricorso accettato". Nel mondo odierno, con il diffondersi delle notizie in tempi reali, è difficile incontrare eventi o fenomeni che non arrivino sulla ribalta regionale, nazionale, e internazionale, prima ancora che la competente autorità ecclesiastica locale abbia potuto appurare i fatti asseriti. Questo dato di fatto non è sfuggito all'attenzione della Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede del novembre 1974. Infatti, nella Nota Praevia alle Norme, al n. 1, si constata proprio che "Hodie magis quam tempore praeterito ope mediorum informationis "mass media" notitiae de his apparitionibus celeriter diffunduntur inter fideles: preaterea facilitas mutationis locorum frequentiores peregrinationes fovet, ita ut Auctoritas ecclesiastica de hac re cito decrenere debeat" [Oggi più che nel passato le notizie di queste apparizioni si diffondono tra i fedeli in modo più veloce per opera dei mezzi di comunicazione o "mass media". Inoltre la facilita di movimento promuove pellegrinaggi più frequenti, in modo che l'Autorità ecclesiastica si trova nella necessità di giudicare di queste cose con celerità]. Non è difficile intuire che ormai le circostanze che suggerirebbero il ricorso all'intervento della Conferenza Episcopale si riscontrano con facilità in ogni caso di asserite apparizioni o fenomeni carismatici affini. Il giudizio negativo a motivo della pubblicità impropria data ad un fenomeno dagli stessi veggenti diventa oggi molto più difficile. Sembra infatti affievolirsi la presunzione di sospetto nei confronti di fenomeni che vengono pubblicizzati un po' troppo, anche perché le notizie non sempre sono riconducibili ai veggenti coinvolti. Questa difficoltà non esime l'Autorità Ecclesiastica dall'indagine sul come e sul perché della divulgazione della notizia dell'asserito fenomeno. Sarebbe troppo comodo lanciare una notizia di un fenomeno carismatico creata a tavolino sulla ribalta internazionale per "qualificare", "ridimensionare", "evitare" la giurisdizione nativa del Vescovo del luogo. Questa giurisdizione nativa dell'ordinario del luogo rimane valida ed operante anche nel caso dell'intervento richiesto o accettato della Conferenza Episcopale. Giovanni Paolo II, nel Motu Proprio "Apostolos Suos" del 21 maggio 1998, presentò la dottrina della Chiesa sul rapporto tra Vescovo Diocesano e Conferenza Episcopale: "A livello di singola Chiesa, il Vescovo diocesano pasce nel nome del Signore il gregge a lui affidato come Pastore proprio, ordinario e immediato ed il suo agire è strettamente personale, non collegiale, anche se animato dallo spirito comunionale. Egli inoltre, pur essendo insignito della pienezza del sacramento dell'Ordine, non vi esercita tuttavia la potestà suprema, la quale appartiene al Romanci Pontefice e al Collegio episcopale come elementi propri della Chiesa universale, interiori ad ogni Chiesa particolare, affinché questa sia pienamente Chiesa, cioè presenza particolare della Chiesa universale con tutti i suoi elementi essenziali. A livello di raggruppamento di Chiese particolari per zone geografiche (nazione, regione, ecc.), i Vescovi ad esse preposti non esercitano congiuntamente la loro cura pastorale con atti collegiali pari a quelli del Collegio episcopale" (MP "Apostolos Suos", n. 10). "L'efficacia vincolante degli atti del ministero episcopale esercitata congiuntamente in seno alle Conferenze episcopali e in comunione con la Sede Apostolica deriva dal fatto che questa ha costituito tali organismi e ha loro affidato, sulla base della sacra potestà dei singoli Vescovi, precise competenze. L'esercizio congiunto di alcuni atti del ministero episcopale serve a realizzare quella sollecitudine di ogni Vescovo per tutta la Chiesa che si esprime significativamente nel fraterno aiuto alle altre Chiese particolari, specialmente alle più vicine e più povere, e che si traduce altresì nell'unione di sforzi e di intenti con gli altri Vescovi della stessa zona geografica, per incrementare il bene comune e delle singole Chiese ( MP "Apostolos Suos", n. 13). Lo stesso Motu Proprio commenta la valenza del giudizio del Vescovo Diocesano in questi termini: "Certamente i singoli Vescovi in quanto maestri di fede non si rivolgono all'universale comunità dei fedeli se non con un atto di tutto il Collegio episcopale Infatti solo i fedeli affidati alla cura pastorale di un Vescovo devono accordarsi col suo giudizio dato a nome di Cristo in materia di fede e di morale e aderirvi col religioso ossequio dello spirito in realtà «i Vescovi quando insegnano in comunione col Romano Pontefice devono essere da tutti ascoltati con venerazione quali testimoni della divina e cattolica verità»; e il loro insegnamento in quanto trasmette fedelmente ed illustra la fede da credere e da applicare alla vita è di grande vantaggio a tutta la Chiesa" (MP Apostolos Suos n. 12). Le Norme del 1978 non offrono indicazioni su una possibile procedura da adottare quando l'esame di una apparizione passa alla Conferenza Episcopale. Essa può fare la sua propria indagine tramite una commissione di alcuni vescovi e esperti in diverse discipline. Il giudizio della commissione non è mai vincolante. Spetterà ai vescovi convocati e radunati in sessione plenaria esprimere il loro giudizio sulle conclusione della commissione. Il decreto definitivo ("constat de supernaturalitate" o "non constat de supernaturalitate" o altro) spetterà al Vescovo del luogo, menzione fatta del parere della Conferenza Episcopale. Se il Vescovo del luogo non vuole emanare il decreto, la Conferenza Episcopale deve rivolgersi alla Santa Sede, chiedendo istruzioni.


- La competenza della Congregazione per la Dottrina della Fede

Le Norme del 1978 danno alcune indicazioni precise al riguardo della competenza della Santa Sede: "Sedes Apostolica intervenire potest, petente sive ipso Ordinario, sive coetu qualificato fidelium aut etiam directe ratione iurisdictionis Summi Pontificis" [La Sede Apostolica può intervenire quando lo chiedono sia lo stesso Ordinario che un gruppo qualificalo di fedeli, o anche direttamente a motivo della giurisdizione del Sommo Pontefice"(III,3). Il Concilio Lateranense V aveva decretato la riserva apostoli in modo perentorio, anche se aveva escogitato una procedura urgente sotto la guida dell'Ordinario del luogo: "Volumus ut lege ordinaria tales assertae inspirationes antequa publicentur aut populo praedicentur exnunc apostolicae sedis examini reservatae intelligantur" [Vogliamo che sia legge ordinaria che da oggi in poi tali asserite rivelazioni si considerano riservate all'esame della Sede Apostolica prima che si pubblichino o si predichino al popolo]. Il Concilio Tridentino aveva stabilito il principio: "nihil inconsulto sanctissimo Romano Pontifice novum aut in Ecclesia hactenus inusitatum decernatur" [Non si giudichi nessuna materia nuova o finora inusitata nella Chiesa senza aver prima consultato il Romano Pontefice]. Il ministero e la giurisdizione universali del Sommo Pontefice sono la base teologica e disciplinare per l'intervento diretto della Santa Sede. Questo intervento non necessita il consenso dell'Ordinario del luogo (a differenza con il caso dell'intervento della Conferenza Episcopale). il Codice di Diritto Canonico al can. 331 riassume la dottrina della Chiesa: "Il Vescovo della Chiesa di Roma in cui permane l'ufficio concesso dal Signore singolarmente a Pietro primo degli Apostoli e che deve essere trasmesso ai suoi successori è capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale; egli perciò in forza del suo ufficio ha potestà ordinaria suprema piena immediata e universale sulla Chiesa potestà che può sempre esercitare liberamente". Il can. 360, inoltre, spiega la base disciplinare del ruolo della Congregazione per la Dottrina della Fede, (ulteriormente esplicitato nella Costituzione Apostolica "Pastor bonus" del 28 giugno 1988): "La Curia Romana mediante la quale il Sommo Pontefice è solito trattare le questioni della Chiesa universale e che in suo nome c con la sua autorità adempie alla propria missione per il bene e a servizio delle Chiese, è composta dalla Segreteria di Stato o Papale, dal Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa, dalle Congregazioni [tra cui la Congregazione per la Dottrina della Fede], dai Tribunali e da altri organismi" (CIC, can. 360). Le Norme del 1978 prospettano tre tipi di ricorso all'intervento della Congregazione per la Dottrina della Fede: 1) il ricorso richiesto dall'Ordinario del luogo;2l) il ricorso richiesto da un gruppo qualificato di fedeli; 3) il "ricorso" motu proprio1. Per il primo tipo di ricorso, quello richiesto dall'Ordinario del luogo, le norme richiedono solamente che lo stesso Ordinario abbia fatto prima la sua parte ("Interventurn S. Congregationis potere potest ... Ordinarius, postquam tamen ipse suam egerit partem" [Dopo che abbia fatto la sua parte, l'Ordinario può chiedere l'intervento della Congregazione]). Non viene richiesta nessuna nota di particolare difficoltà o altra circostanza. La Sante Sede, per il ministero universale del Sommo Pontefice, è a disposizione dei Vescovi per aiutarli nello svolgimento certo non facile dei loro compiti. Per il secondo tipo di ricorso, quello fatto da un gruppo qualificato di fedeli, si impongono alcune considerazioni. Le norme parlano di "coetus qualificatus fidelium" [un gruppo di fedeli]. Già alla parte II, n.1, le Norme avevano parlato di "fideles legitime petentes interventum Auctoritatis" [fedeli che chiedono legittimamente l'intervento dell'Autorità], specificando che questa legittimità nasceva dalla loro comunione con i Pastori e dal fatto che non erano mossi da uno spirito settario ("in communione cum Pastoribus atque spiritu sectario non impulsi"). La comunione gerarchica diventa perciò criterio di legittimità e anche di legittimazione. Altre indicazioni concrete non si trovano nelle Norme. Sarebbe eccessivo ovvero restrittivo interpretare le parole "qualificatus" in riferimento solo a gruppi ecclesiali stabilmente riconosciuti dall'Autorità Ecclesiastica. Lo stesso Codice di Canonico al can. 310 riconosce l'esistenza nel tessuto ecclesiale di associazioni private non costituiti in persone giuridiche. Queste associazioni sono in grado di esercitare i loro diritti e obblighi ed in genere agire secondo le loro finalità, mediante un mandatario o procuratore2. Le Norme danno comunque delle indicazioni pregiudiziali a riguardo della motivazione strumentale del ricorso alla Congregazione per la Dottrina della Fede: "In hoc altero casu cavendum est ne recursus ad S. Congregationem ob suspectas rationes fiat (cuiusmodi est v. g. cogere Ordinarium ad suas legitimas decisiones mutandas, confirmare aliquem coetum sectarium, etc...) [In questo secondo caso bisogna fare attenzione che il ricorso alla Congregazione non si faccia per motivi sospetti (come possono essere, per esempio forzare l'Ordinario a cambiare le sue legittime decisioni, o ottenere la conferma di qualche gruppo settario etc..]". Queste indicazioni vanno nella direzione di assicurare un giudizio sereno e distaccato. La Santa Sede è refrattaria a strumentalizzazioni, a ricorsi che in fine dei conti cercano il riconoscimento di elementi e realtà che danneggiano la comunione ecclesiale. In questi casi la Congregazione cerca di ottenere informazioni direttamente dall'Ordinario del luogo o dalla Nunziatura Apostolica competente. Non suole dare risposte di nessun tipo se non tramite i presuli locali. Il terzo tipo di ricorso alla competenza della Congregazione per la Dottrina della Fede è un "ricorso" improprio, in quanto è un intervento che il Dicastero decreta di propria iniziativa, un motu proprio: "S [acrae] Congregationi proprium est motu proprio intervenire in casibus gravioribus, praesertim si res largiorem partem Ecclesiae afficiat, consulto semper Ordinario et, si casus ferat etiam Conferentia episcopali [È diritto della Congregazione Intervenire di propria iniziativa nei casi più gravi specialmente se la questione concerne una gran parte della Chiesa, sempre dopo aver consultato l'Ordinario, e se conviene, anche la Conferenza Episcopale]". Si notano subito alcune indicazioni importanti. Il diritto-obbligo di intervenire subentra tra le competenze native della Congregazione ("Congregationi proprium est"). Viene in genere, ma non esclusivamente indicato nei casi più gravi ("in casibus gravioribus"). Le Norme del 1978 non forniscono ulteriori elementi a carico di questa "gravità". Una nota ulteriore che indurrebbe l'intervento diretto motu proprio sarebbe quella di un caso grave che concerne una grande parte della Chiesa ("praesertim si res largiorem partem Ecclesiae afficiat"). Anche se la Congregazione si riserva il diritto di intervenire di propria iniziativa, le stesse Norme del 1978 impongono il dovere di consultare l'Ordinario del luogo. La Conferenza Episcopale viene anche consultata "si casus ferat", se le circostanze (per esempio, di risonanza territoriale o di interventi previ) lo indicano come opportuno. In alcuni casi potrebbe succedere che la notizia di un asserito fenomeno arrivi in Congregazione tramite i mezzi di comunicazione sociale, prima ancora delle relazioni dei Nunzi Apostolici o degli Ordinari del luogo. È prassi della Congregazione scrivere all'ordinario del luogo chiedendo informazioni, suggerendo una attenta vigilanza, proponendo una accurata investigazione con la costituzione di una apposita commissione di esperti, fornendo una copia delle Norme del 1978. Questo tipo di intervento precauzionale e del tutto preliminare non costituisce un vero e proprio intervento diretto motu proprio. La richiesta di informazione mette in guardia tutti nel non toglio competenza a nessuno. Le Norme descrivono le finalità dell'intervento diretto della Congregazione al n. 2 della Parte IV: "S. Congregationis erit vel de agendi ratione Ordinarli decernerr eamque approbare vel, quatenus possibile erit et conveniet, de re novum examen a studio per Ordinarium peracto distinctum instituere, sive per se ipsam sive per Commissionem specialem [Spetterà alla Congregazione o giudicare dell'operato dell'Ordinario e approvarlo, ovvero, in quanto sarà possibile e converrà, gestire un nuovo esame della questione distinto dallo studio condotto dall'Ordinario, fatto o dalla stessa Congregazione o tramite una Commissione speciale]" (Norme 1978, IV. 2). Si prospettano due strade che possono essere alternative o semplicemente cumulative. La prima strada è quella di sottomettere l'operato dell'Ordinario del luogo a un studio dettagliato ("de agendi ratione Ordinarii decernere") che sfocia in una approvazione del medesimo operato ("eamque [agendi rationem] approbare"). Gli organi di studio in seno alla Congregazione sono gli Uffici Disciplinare e Dottrinale, coadiuvati da esperti esterni, e la Consulta. Gli organi di discernimento e di decisione sono il Congresso (la riunione settimanale presieduta dal Cardinale prefetto con la partecipazione del Segretario, del Sotto-Segrelario e del Promotore di Giustizia) e la Congregazione Ordinaria (la riunione periodica dei Cardinali e Vescovi membri della Congregazione, le cui deliberazioni sono sottoposte dal Prefetto alla considerazione e all'approvazione del Sommo Pontefice in occasione dell'Udienza di tabella). La seconda strada prospettata dalle Norme del 1978 è quella di indire un nuovo studio del caso: "... quatenus possibile erit et conveniet, de re novum examen a studio per Ordinarium peracto distinctum instituere, sive per se ipsam sive per Commissionem specialem [in quanto sarà possibile e converrà, gestire un nuovo esame della questione distinto dallo studio condotto dall'Ordinario o dalla stessa Congregazione o tramite una Commissione speciale] (Norme 1978, IV,2). Non vengono indicate le circostanze che suggerirebbero di imboccare questa strada. Abbiamo già commentato sulle circostanze che la normativa canonica elenca per l'istituto giuridico dell'astensione e della ricusazione dal giudizio. Un nuovo esame distinto da quello fatto dall'Ordinario può, in alcuni casi, fornire delle ulteriori garanzie. Ma le stesse Norme riconoscono, con somma saggezza, che questo nuovo studio non sempre sarà possibile, non sempre sarà conveniente. Le Norme inoltre indicano due procedure per il "novum examen" . La Congregazione può decidere di fare questo nuovo esame "per se ipsam" con riferimento alle istanze interne: Ufficio Disciplinare; Consulta; Congresso; Congregazione Ordinaria (detta anche "Feria IV"). Il Dicastero può decidere invece di affidare il nuovo esame ad una Commissione Speciale composta da vari esperti che possano derivare dalle istanze interne della Congregazione e dall'esterno. L'esito del nuovo esame, indipendentemente dall'iter privilegiato, è m genere sottoposto al vaglio della Feria IV. Lo studio della prassi della Congregazione per la Dottrina della Fede indica che la Santa Sede non decreta mai direttamente l'approvazione o l'autenticità di una apparizione mariana. Nei pochissimi casi dove si prospettava un esito positivo la Congregazione ha lasciato all'Ordinario del luogo il compito e la decisione di emanare il decreto in suo nome e con la sua propria autorità. Il discorso per quanto concerne le dichiarazioni negative non e molto diverso. Nei casi dove gli Ordinari del luogo hanno dato un giudizio negativo la Congregazione ha confermato il loro operato, lasciando alla loro prudenza e saggezza modi e tempi di rendere noto il giudizio dell'Autorità Ecclesiastica. In alcuni casi la decisione della Congregazione è stata pubblicata in nome del medesimo Dicastero dopo l'approvazione pontificia. Mi riferisco, per esempio, al caso di Heroldsbach in Germania e alla dichiarazione "constare de non supernaturalitate" del 18 luglio 1951, approvata dal Servo di Dio Pio XII il 19 luglio seguente, pubblicata i, !L'Osservatore Romano" il 24 luglio 1951 e poi in "Acta Apostolicae Sedis" (AAS 44 [1951] 561 et seq.)3. Sembrerebbe surpefluo commentare che la decisione del Congregazione rivesta un'autorità gerarchica indiscussa. Per questo motivo, sarebbe altamente temerario per un Ordinario del luogo recedere ufficialmente e pubblicamente da una dichiarazione autorizzata dalla Congregazione per la Dottrina del Fede, senza aver prima ascoltato e consultato il Dicastero. Nessuno metterebbe in dubbio il ruolo essenziale dell'Ordinario del luogo, ma l'esercizio di questo ruolo è soggetto al principio teologico della communio hierachica, perno della concordia ecclesiale.

NOTE
1 a) Interventum S. Congregationis potere potest vel Ordinarius, postquam tamen Ipse suam egerit partem, vel coetus qualificatus fidelium. In hoc altero casu cavendum est ne recursus ad S. Congregationem ob suspectas rationes fiat (eiusmodi est v. g. cogere Ordinarium ad suas legitimas decisiones mutandas, confirmare aliquem coetum sectarium, etc....). b) S. Congregationi proprium est motu proprio intervenire in casibus gravioribus, praesertim si res largiorem partem Ecclesiae afficiat, consulto sempre Ordinario et, si casus ferat, etiam Conferentia episcopali.
2 Can. 310 - Consociatio privata quae uti perona iuridica non fuerit constituita, qua talis subiectum esse non potest obligationum et iurum; christifideles tamen in ea consociati coniunctim obligationes contrahere atque uti condomini et compossessores iura et bona acquirere et possidere possunt; quae iura et obligationes per mandatarum seu procuratorem exercere valent.
3 Un altro caso, anche se continua ad essere problematico, sarebbe quello di Amsterdam in merito alle prete apparizioni e rivelazioni della "Signora di tutti i popoli", in cui il Servo di Dio Paolo VI il 5 aprile 1974 approvò la decisione della Congregazione di pubblicare il giudizio negativo "Constat de non supernaturalitate" presa il 27 marzo 1974. La Notificazione della Comgregazione per la Dottrina della Fede porta la data del 25 maggio 1974 ed è stata di nuovo riproposta nella raccolta "Documenta Congregationis pro Doctrina Fidei" pubblicata nel 2006 (Documento 22, p. 90).

 







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