Il capolavoro di Piero della Francesca spiegato da A. Paolucci, Prodigi della luce nella "Madonna di Senigallia", in L'Osservatore Romano del 10 luglio 2011, p. 4.
La Madonna di Senigallia è la risposta più alta della civiltà artistica italiana quattrocentesca alla Pala degli Arnolfini di Jan van Eyck. Come in quel dipinto, protagonista del capolavoro di Piero della Francesca è la luce. Non la luce primaverile che scalda i cavalli di Costantino caracollanti sul greto del Tevere o che riempie di quieto splendore il Battesimo di Cristo della National Gallery di Londra, non la luce artificiale dei notturni miracolosi, né quella grigia e rosata dell’alba della Resurrezione nell’affresco di Borgo San Sepolcro. Quella della Madonna di Senigallia è la luce sommessa obliqua di un giorno qualsiasi; quella luce che, filtrando attraverso i vetri della finestra sulla sinistra, svela un interno di casa signorile ma non sfarzosa, dove una giovanissima Madonna assistita da due angeli adolescenti presenta, con gravità dolcemente triste e come offuscata da presagi, il suo malinconico bambino. Naturalmente dobbiamo resistere alla tentazione di leggere l’ambiente che ospita la Madonna di Senigallia come leggeremmo un interno di Vermeer van Delft o di Peter de Hooch. La poesia della «vita silenziosa», il senso laico del mistero delle cose, ancora non abitano il cielo dell’Europa cristiana. In Jan van Eyck come in Piero della Francesca, l’approccio ai valori propriamente pittorici deve essere preceduto e come filtrato dal sistema simbolico al quale quei valori danno immagine.
Millord Meiss in un saggio memorabile (Light as Form and Symbol in some Fifteenth-Century Paintings, in «The Art Bulletin», 27, 1945, pp. 275-281) ha spiegato il simbolismo della luce nella pittura fiamminga del XV secolo. A quel testo occorre riferirsi per capire i significati teologici e le allusioni scritturali che stanno alla base di un così toccante prodigio di ombre colorate, di pulviscolo d’oro nei capelli degli angeli, di riflessi del sole sul muro.
Quia sicut sol vitrum ingrediendo non laedit, sic nec virginitas Virginis in assumptione Humanitatis meae corrupta est: con tali parole la mistica medievale santa Brigida significava il concepimento sine peccato et concupiscientia della Madre di Dio e una immagine simile usa sant’Atanasio. In quest’ultimo autore la metafora del vetro che è attraversato dalla luce senza rompersi, si unisce (in singolare identità con l’iconografia della Madonna di Senigallia) all’esempio della casa chiusa da tre lati che riceve luce da oriente, così che il sole entrando da una trasparente finestra di vetro la riempie di caldo fulgore.
Con queste immagini di vivida suggestione poetica teologi e mistici avevano illustrato il mistero del Verbo incarnato e del parto virginale.
A quei concetti i grandi artisti del Rinascimento fiammingo e italiano riuscirono a dare figura attraverso epifanie della luce nelle quali la consapevolezza del significato simbolico sublima di teologico significato e di religioso stupore, la pur esattissima rappresentazione dei fenomeni.
Guardando la Madonna col Bambino in una chiesa di Jan van Eyck conservata nei Musei Statali di Berlino, avvertiamo che il miracolo di quelle macchie di sole palpitanti sul pavimento è tale anche perché esso è simbolo di un più grande miracolo: quello della Vergine che ha concepito il figlio di Dio rimanendo intatta come il cristallo attraversato dalla luce e che — dentro una chiesa di pietra allusivamente vera, dove il giorno radioso si confronta vittoriosamente con l’ombra rappresenta la Chiesa eterna e universale di cui la Madonna è figura.
Allo stesso modo — guardando la Madonna di Senigallia e prima di lasciarsi catturare dagli infiniti veri svelati al nostro sguardo — occorre intendere, nel senso metaforico sopraindicato, il prodigio della luce che irrompe attraverso i vetri della finestra e del sole che si riflette sul muro.
Ancora, secondo il codice simbolico che li governa, vanno interpretati gli oggetti che abitano la stanza e financo le espressioni dei divini protagonisti.
Comprenderemo così che la nicchia parietale sullo sfondo — disegnata e intagliata con la squisita eleganza che incontriamo soltanto in certi dettagli del Palazzo Ducale di Urbino, nella Sala degli Angeli o in quella della Jole, per esempio — è un vero e proprio tabernacolo eucaristico e che gli oggetti ivi contenuti hanno un preciso significato religioso: la scatola cilindrica è una pisside, un contenitore di ostie consacrate, la cestella di vimini è figura di Maria (perché il suo corpo accolse il Redentore così come la fiscella scirpea accolse Mosè abbandonato sulle acque del Nilo), i candidi veli sono allusivi alla purezza della ancilla Domini (cfr. Eugenio Battisti, Piero della Francesca, Milano, 1971, I, pp. 376 ss.).
Anche l’espressione dei sacri personaggi è coerente con il significato mistico della figurazione. Infatti al tema (affidato alla simbologia della luce) del parto virgineo e del Verbo incarnato, si sovrappone la riflessione sulla morte del Redentore. Può ben essere, come suppone il Battisti, che la collana di corallo che orna il collo del Gesù Bambino sia simbolo della effusione del suo preziosissimo sangue. È certo comunque che l’assorta mestizia che caratterizza il volto della Vergine allude al sacrificio della Croce, così come il presagio della Passione futura è evidente nella malinconica sacralità del Cristo benedicente. Solo dopo essere entrati in questa silenziosa scatola di metafore e di simboli con lo stesso atteggiamento mentale con cui si entra in uno spazio liturgico, potremo abbandonarci al piacere della pura visione e contemplare la poesia dei «minimi » qui portata a livelli insuperati.
Ed ecco allora i dettagli vaneychiani del rettangolo di sole che si posa tremolante sul muro, del pulviscolo d’oro che si agita impalpabile nel raggio luminoso proveniente dalla finestra, dall’ombra che si addensa nel soppalco in tutte le sfumature del grigio e del bruno.
Ecco l’angelo in tunica violetta di sinistra, probabilmente il risultato più alto che Piero della Francesca abbia mai raggiunto nelle sue strenue ricerche di realismo ottico. L’idea della figura che prende luce di lato e da tergo ha qui il suo svolgimento ultimo. Alla perfetta frontalità e immobilità dell’angelo — un «viso meticcio smaltato dagli occhietti di elefante sacro, quasi strabico» (Roberto Longhi, Piero della Francesca, Roma 1927, riedito in Opere complete, III, Firenze 1962, p. 70) — fa riscontro la prodigiosa varietà dei fenomeni luminosi che gli danno immagine. I capelli splendono come per un incendio subitaneo, l’oro si modula in tonalità diverse secondo che la luce batta sul bracciale del polso destro, strisci intorno al colletto, sfiori il broccato della tunica viola, si alterni all’ombra in ogni maglia della pesante collana.
La luce scopre anche la forma delle maglie, la sfericità della grande perla sul petto, il lampo candido della camicia che affiora allo scollo. Così come rileva a uno a uno i nodi del laccio che stringe dall’alto in basso il corpetto della Vergine: più evidenziati quelli della parte superiore, meno quelli che, per seguire docilmente la curva del seno, si trovano in ombra. La Madonna di Senigallia viene abitualmente datata intorno al 1470, in una stagione zenitale nella storia delle arti. Perché in quegli anni, con Piero della Francesca e poi con Antonello da Messina, si realizza, almeno nelle arti figurative, la vera unità culturale d’Europa. L’incontro cioè fra l’occhio fiammingo e la misura italiana, fra la poesia dei minima di Verità e di Natura e l’ordine razionale che governa il mondo visibile.