2. NATURA DELLE APPARIZIONI


1. Interpretazioni e definizione teologica

Per indicare  le apparizioni, si usano spesso in modo ambiguo e polivalente i termini “apparizione”, “visione”, “audizione”, “rivelazione privata” ecc. E’ vero che le apparizioni, così come le visioni e le audizioni, appartengono all’ordine della comunicazione divina e dell’azione rivelatrice di Dio, dato che svelano alcuni aspetti del mistero divino, ma esse non si svolgono allo stesso modo. Relativamente alla “percezione” dell’oggetto soprannaturale, ad esempio, mentre il termine “visione” viene usato per descrivere in senso analogico esperienze sia corporali (percezione sensibile di una realtà oggettivamente invisibile all’uomo), sia immaginarie (percezione per via immaginativa di un oggetto esistente nel presente), sia intellettiva (conoscenza soprannaturale senza percezione di un oggetto), il termine “apparizione” può essere usato soltanto per le percezioni corporali e immaginarie ma non per quelle intellettive. Inoltre, mentre “apparizione” sottolinea il ruolo essenziale dell’oggetto che si manifesta (Cristo, Maria, un santo ecc.), “visione” evidenzia invece l’azione del veggente che percepisce la natura “invisibile” dell’oggetto soprannaturale. Ancora più evidente è la differenza tra “apparizione” e “audizione”. Mentre, infatti, l’apparizione è la percezione di un oggetto soprannaturale, l’audizione è la percezione della parola rivelante la sua volontà. Soprattutto negli ultimi tempi, questi due fenomeni risultano intimamente connessi, nel senso che il veggente sempre più spesso, oltre a  “vedere” l’oggetto soprannaturale, ne “ascolta” anche la parola per cui, non soltanto diventa il "rivelatore" dell’oggetto soprannaturale, ma anche il  suo “messaggero”.

La stessa terminologia usata per descrivere le apparizioni non è stata sempre omogenea nella storia della Chiesa. Il Concilio di Trento, ad esempio, scrive di esse come di “rivelazioni speciali”, mentre Benedetto XIV preferisce chiamarle “rivelazioni private” per distinguerle nettamente dalla “Rivelazione pubblica” dalla quale essenzialmente differiscono.[1] Non esiste nemmeno un’interpretazione univoca delle apparizioni, a causa dei presupposti culturali, ideologici e religiosi, con i quali esse vengono lette. Una buona sintesi delle varie posizioni ci è offerta dal De Fiores:

a) Oraison definisce le apparizioni un meccanismo allucinativo, cioè una percezione senza oggetto, per cui i veggenti sono dei visionari e le apparizioni una malattia psichica;[2]

b) Holstein vede nell’apparizione un meccanismo di risposta a tre bisogni psicosociali: il bisogno di fatti contestabili, il bisogno di protezione e di emotività religiosa e il bisogno di sicurezza;[3]

c) Drewermann pensa che le apparizioni siano la proiezione visiva di immagini ideali che provengono dallo stato profondo della psiche umana, per cui rientrano nel linguaggio simbolico e possono essere interpretati solo attraverso il rifacimento simbolico;[4]

d) Vergote paragona le apparizioni ai sogni per cui esse sono una rappresentazione includente la sensazione della realtà, di immagini e modelli presenti nel ricordo e provenienti da potenti motivazioni affettive;[5]

e) Dierkens considera le apparizioni non un fenomeno patologico o religioso, ma manifestazioni normali del vissuto creativo umano così come la creazione artistica o l’attività onirica.[6]

Uno studioso che crede in Dio e nella possibilità che Egli possa rivelarsi nella storia, definisce l’apparizione come un’esperienza psichica nella quale persone non percepibili dalle nostre facoltà visive e auditive, nonostante siano inaccessibili alla nostra esperienza umana, entrano per via sopranaturale nella sfera dei sensi».[7]

 René Laurentin vede nell’apparizione «la manifestazione visibile di un essere, la cui vista in quel luogo o in quel momento, è inconsueta e impensabile, secondo l’ordine naturale delle cose».[8]

 Stando a queste definizioni, l’apparizione risulta caratterizzata da due elementi: La “presenza” di una persona che si trova al di fuori della normale esperienza dei sensi e la “percezione” di questa presenza per via di conoscenza sensibile. Il veggente, che spesso cade in estasi, si estranea cioè dal mondo che lo circonda pur restando nel pieno possesso delle sue facoltà, è convinto di trovarsi in contatto diretto e immediato con l’essere che gli si è manifestato, il quale non si presenta come un’immagine statica, ma ha tutte le caratteristiche della tridimensionalità.[9]

Va comunque ribadita una priorità e una differenza che connotano la dignità e verità tra una teofania di Rivelazione storico – salvifica e una manifestazione trascendente non riguardante l’essenza della fede: alla “Rivelazione pubblica” è dovuta l’ obbedienza della fede; alle “rivelazioni private” va concessa l’adesione dipendente dalle prove arrecate e dall’esercizio del proprio senso critico.[10]

 
2. Al confine tra realtà naturale e realtà trascendente

Secondo S. Tommaso, l’apparizione non comporterebbe nel luogo dove essa avviene, la presenza “reale” del corpo glorificato che può essere solo visto là dove esso definitivamente si trova,
[11] bensì la percezione da parte del veggente di una forma sensibile o luminosa che lo rappresenta, il che spiegherebbe, ad esempio, come Maria appaia ora in una forma e ora in un’altra.[12] S. Teresa d’Avila a questo proposito scrive che Gesù, dopo essere salito al cielo, non è mai più disceso sulla terra per comunicarsi agli uomini, tranne nel SS. Sacramento.[13]  Partendo da quanto S. Tommaso e S. Teresa affermano, circa l'inamovibilità del corpo glorioso e volendo comprendere che cosa avviene in una apparizione, c'è da chiarire le nozioni di "luogo dell'apparizione” e di "luogo del Trascendente”. Il "luogo dell'apparizione” è inteso  come un luogo naturale e inserito nella storia, distinto chiaramente dal "luogo del Trascendente” dove non vi è più storia, ma l'eternità e quindi si trova al di là delle nostre categorie di tempo e di spazio. Tuttavia anche il "luogo dell'apparizione”, facente parte della realtà e della storia, si può ritenere anch'esso come  “parte” dell'eternità di Dio, nel senso che tutta la realtà e tutta la storia, sono misteriosamente “vicine” a Lui che ne è l’autore e il Signore, da Lui dipendono, verso Lui si orientano. In questa prospettiva il "luogo del Trascendente”, pensato da S. Tommaso, non è un "luogo" remoto alla nostra realtà, ma ci è così vicino che persino la nostra pelle è lontanissima dalle nostra ossa, messa a confronto con la “vicinanza” e presenza del Trascendente accanto a noi. Sia l’Antico che il Nuovo Testamento, sottolineano costantemente questa “vicinanza” attiva di Dio, il suo “stare presso”, il suo “trovarsi vicino” all’uomo e ai “luoghi” della sua storia, come autore e operatore di salvezza. Lo stesso Corano rende potentemente l'idea dell'estrema "vicinanza"  della realtà trascendente alla nostra realtà, affermando moltissime volte che essa è vicina agli uomini, conosce ciò che è avanti a loro, ciò che è dietro di loro, così vicina "come la carotide" al suo collo.[14] Riconosciuta dunque l'estrema “vicinanza" del "luogo del Trascendente” al "luogo del tempo e della storia”, c'è da chiedersi in che senso e in quale misura le creature ultraterrene, Gesù, Maria, Angeli e Santi che della Trascendenza fanno parte, sono “vicine" all'uomo, nel momento in cui si rendono visibili e in che modo il veggente percepisce e vive questa vicinanza. Si può pensare, escludendo la "discesa" del corpo glorioso, non necessaria data la vicinanza dei due "luoghi", ad una "attrazione" della persona umana in una situazione che lo rende capace di percepire in maniera "sensibile" la "presenza" del Trascendente, in ogni caso già vicino, situazione che può definirsi come una finestra aperta attraverso la quale l’essere umano, attratto, rapito o trasportato, può vedere, sentire, toccare "l'oggetto" trascendente e persino parlare con esso. Parafrasando l'affermazione di S. Tommaso e non contraddicendo al principio di "staticità" dei corpi gloriosi, si può affermare che non è tanto il Trascendente che si muove verso l'uomo, ma è il Trascendente che smuove e che rapisce l'uomo, rendendone visibile la sua “vicinanza”. 

3. Quale contatto?

Rimane misterioso, anche per i veggenti, il dilemma di Paolo “rapito” al terzo cielo (2 Cor 12, 1-4): il contatto con il Trascendente  avviene con il corpo o senza il corpo? L’Apostolo non seppe dare una risposta. Si può tuttavia affermare che, varcata la soglia della “finestra” verso la “realtà del Trascendente”, il veggente è come se entri in un’altra dimensione: la sua sensazione del tempo risulta alterata, per cui al termine dell’apparizione non si rende conto di quanto essa sia durata;  la sua percezione dello spazio viene ridotta al minimo indispensabile, per cui egli percepisce la presenza degli oggetti (la grotta, l’albero, la roccia ecc), come se fossero dei simboli che gli permettono di comprendere meglio quello che l’apparizione significa e il messaggio che trasmette;  il suo corpo subisce delle alterazioni non solo psichiche ma anche fisiche che sfidano le leggi della realtà terrena[15]; la percezione e il controllo del corpo stesso divengono anch’essi funzionali all’ apparizione, per cui egli, pur agendo nella massima libertà, compie le sue azioni come se fosse “guidato” o “aiutato” dal Trascendente.[16]

Rimane insoluto anche il dilemma evangelico di Tommaso: che cosa ha realmente "toccato" del corpo glorioso di Gesù risorto? Il veggente crede di toccare o tocca il corpo glorioso? Quando tocca questo corpo è una sensibilizzazione psichico - intellettiva da parte del Trascendente o vi è un reale contatto? L'esperienza di alcuni veggenti, come Caterina Labouré ed altri contemporanei, conferma la tesi del reale contatto. L’avvicinarsi così “realmente” al Trascendente,[17] varcando la soglia della "finestra aperta" di cui si parlava, rende infatti possibile al veggente di vedere, sentire e toccare tranquillamente  l’oggetto trascendente, anche se in maniera imperfetta, perché non del tutto staccato dal suo corpo il quale, in qualche misura, interferisce con l'acquisizione pura e completa della realtà ultraterrena anche se, nello stesso momento, “traduce” sensibilmente i dati acquisiti in questa esperienza. In questo contatto con l’apparizione, bisogna distinguere tra “resistenza” e “sensazione tattile”. L’oggetto che il veggente tocca è qualcosa che si oppone ad un movimento contrario, gli sembra di trovarsi, cioè, di fronte a qualcosa che oppone resistenza al suo movimento opposto, così come avviene in natura al contatto di due solidi. Nello stesso tempo egli trova problematico descrivere in termini comprensibili in che cosa consiste questa sensazione tattile, cioè dire con chiarezza che cosa tocca. L’oggetto toccato (il piede, la veste, le ginocchia, la mano dell’apparizione),  gli sembra un qualcosa di estremamente fine, come un velo dalla trama soffice e delicata, come la superficie quieta dell’acqua, senza tuttavia la sensazione di calore, tepore o freddezza di essa. Insomma il veggente, mentre è sicuro di toccare qualcosa, resta incerto e titubante nel descrivere la natura di che cosa tocca.

Per concludere si può affermare che, data l’estrema e reale vicinanza esistente tra il “luogo dell’apparizione” e il “luogo del Trascendente”, il veggente viene reso idoneo a percepire sensibilmente questa “vicinanza” e che il "luogo dell'apparizione” non è altro che il punto di incontro ravvicinato e privilegiato con il Trascendente, la finestra aperta attraverso la quale si concretizza la “visibilità” del soprannaturale, il “luogo” dove si assottiglia, fino a scomparire completamente il muro fluido ed esile che “separa” due realtà diverse, ma estremamente vicine nell’eternità di Dio.[18]


 

[1] Cf. Suh Augustinus (Kyung-Ryong), Le rivelazioni private nella vita della Chiesa, Edizioni Studio Domenicano, pp. 29-31.
[2] Cf. De fiores Stefano, Maria Madre di Gesù, sintesi storico salvifica, EDB, Bologna 1992, p. 347.
[3] Cf. idem, Le apparizioni all’incrocio degli studi teologico-interdisciplinari. Stato della questione nell’odierna riflessione culturale, in Actas do Congresso Internacional de Fatima, 9-12 de outubro de 1997, Santuário de Fatima 1998, pp. 47-48.
[4] Cf. Ibidem, pp. 49-51.
[5] Cf. Ibidem, pp. 52-53.
[6] Cf. Ibidem, pp. 53-56.
[7] Rahner K. – Vorgrimler, alla voce Apparizioni,  in Nuovo Dizionario di Teologia, Herder – Morcelliana, Roma – Brescia 1968, p. 42.
[8] Laurentin  René, alla voce Apparizioni, in Stefano De Fiores e Salvatore Meo (edd), Nuovo Dizionario di Mariologia, Edizioni Paoline, Milano 1986, p. 126.
[9] Cf. De  fiores Stefano, Maria Madre di Gesù, sintesi storico salvifica, cit., p. 348.
[10] Cf. Mucci Giandomenico, Rivelazioni private e apparizioni, cit., p. 15.
[11] Nella Sum. Theol. III, q 76, a. 8. egli infatti afferma: “Corpus Christi non potest in propria specie videri nisi in uno loco, in quo definitive continetur.”
[12] Cf. Tanquerey Adolfo, Compendio di teologia ascetica e mistica, Società di S. Giovanni Battista, Roma – Turnai – Parigi 1927, pp. 914-915.
[13] Cf. Ibidem, p. 915, nota 1.
[14] Cf. Branca Paolo, Introduzione all’Islam, San Paolo, Milano, 1995, pp. 216–217.
[15] Tipico è l’esempio di Bernadetta che, durante una delle apparizioni, non solo non si rese conto di avere in mano un cero acceso, ma oltre a non sentire dolore, non presentò nessun segno di ustione, pur avendo tenuto la mano sul fuoco per un tempo prolungato. Ora, pur potendo trovare analogie nell’assenza del dolore che può essere attribuita ad una capacità psichica, la mancanza di ustione non è spiegabile con parametri psichici, né ripetibile scientificamente nella vita naturale. Per ulteriori informazioni cf. Suh Augustinus (Kyung-Ryong), Le rivelazioni private nella vita della Chiesa, cit., pp. 134-148.
[16] Gli ordini che il veggente riceve su certe azioni da compiere, non sono degli imperativi, ma una sorta di spiegazione di ciò che deve fare guidato da un impulso interiore. Egli fa il segno della croce, recita il rosario, bacia la roccia o la terra, indica il sole, gesticola ecc., non costretto nella sua libertà, ma con spontaneità, con l’aiuto e sotto la guida dell’apparizione.
[17] Gli Apostoli del Tabor (Mt 17,1-8), ad esempio, ebbero così tanto la percezione “reale” di quel che vedevano, che pensavano addirittura di fare tre tende per i mirabili personaggi apparsi loro. Il versetto 17,4 “è bello per noi restare qui….” viene tradotto da alcuni autori anche: “è cosa felice che noi siamo qui….” e sottolinea meglio lo stato d’animo dei discepoli nel trovarsi  in “reale contatto” con Gesù, Mosè ed Elia. (Cf. La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 1971, pp. 2125-2126, nota 17,4). L'esegeta Fabris coglie ed esprime il senso teofanico e trascendente del racconto matteano, come luogo della presenza e rivelazione di Dio. (Cf. Fabris Rinaldo, Matteo. Traduzione e commento, Borla, Roma 1996, p. 381).
[18]
Tutto il testo del paragrafo 1.2.2. è fondato sulla raccolta privata delle testimonianze di alcuni veggenti e su appunti e studi personali sul fenomeno delle apparizioni contemporanee.