2. NATURA DELLE APPARIZIONI
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La stessa terminologia usata per descrivere le apparizioni non è stata sempre omogenea nella storia della Chiesa. Il Concilio di Trento, ad esempio, scrive di esse come di “rivelazioni speciali”, mentre Benedetto XIV preferisce chiamarle “rivelazioni private” per distinguerle nettamente dalla “Rivelazione pubblica” dalla quale essenzialmente differiscono.[1] Non esiste nemmeno un’interpretazione univoca delle apparizioni, a causa dei presupposti culturali, ideologici e religiosi, con i quali esse vengono lette. Una buona sintesi delle varie posizioni ci è offerta dal De Fiores: a) Oraison definisce le apparizioni un meccanismo allucinativo, cioè una percezione senza oggetto, per cui i veggenti sono dei visionari e le apparizioni una malattia psichica;[2] b) Holstein vede nell’apparizione un meccanismo di risposta a tre bisogni psicosociali: il bisogno di fatti contestabili, il bisogno di protezione e di emotività religiosa e il bisogno di sicurezza;[3] c) Drewermann pensa che le apparizioni siano la proiezione visiva di immagini ideali che provengono dallo stato profondo della psiche umana, per cui rientrano nel linguaggio simbolico e possono essere interpretati solo attraverso il rifacimento simbolico;[4] d) Vergote paragona le apparizioni ai sogni per cui esse sono una rappresentazione includente la sensazione della realtà, di immagini e modelli presenti nel ricordo e provenienti da potenti motivazioni affettive;[5] e) Dierkens considera le apparizioni non un fenomeno patologico o religioso, ma manifestazioni normali del vissuto creativo umano così come la creazione artistica o l’attività onirica.[6] Uno studioso che crede in Dio e nella possibilità che Egli possa rivelarsi nella storia, definisce l’apparizione come un’esperienza psichica nella quale persone non percepibili dalle nostre facoltà visive e auditive, nonostante siano inaccessibili alla nostra esperienza umana, entrano per via sopranaturale nella sfera dei sensi».[7] René Laurentin vede nell’apparizione «la manifestazione visibile di un essere, la cui vista in quel luogo o in quel momento, è inconsueta e impensabile, secondo l’ordine naturale delle cose».[8] Stando a queste definizioni, l’apparizione risulta caratterizzata da due elementi: La “presenza” di una persona che si trova al di fuori della normale esperienza dei sensi e la “percezione” di questa presenza per via di conoscenza sensibile. Il veggente, che spesso cade in estasi, si estranea cioè dal mondo che lo circonda pur restando nel pieno possesso delle sue facoltà, è convinto di trovarsi in contatto diretto e immediato con l’essere che gli si è manifestato, il quale non si presenta come un’immagine statica, ma ha tutte le caratteristiche della tridimensionalità.[9]
Va comunque ribadita una priorità e una
differenza che connotano la dignità e verità tra una teofania di
Rivelazione storico – salvifica e una manifestazione trascendente
non riguardante l’essenza della fede: alla “Rivelazione pubblica” è
dovuta l’ obbedienza della fede; alle “rivelazioni private” va
concessa l’adesione dipendente dalle prove arrecate e dall’esercizio
del proprio senso critico.[10] 3. Quale contatto? Rimane misterioso, anche per i veggenti, il dilemma di Paolo “rapito” al terzo cielo (2 Cor 12, 1-4): il contatto con il Trascendente avviene con il corpo o senza il corpo? L’Apostolo non seppe dare una risposta. Si può tuttavia affermare che, varcata la soglia della “finestra” verso la “realtà del Trascendente”, il veggente è come se entri in un’altra dimensione: la sua sensazione del tempo risulta alterata, per cui al termine dell’apparizione non si rende conto di quanto essa sia durata; la sua percezione dello spazio viene ridotta al minimo indispensabile, per cui egli percepisce la presenza degli oggetti (la grotta, l’albero, la roccia ecc), come se fossero dei simboli che gli permettono di comprendere meglio quello che l’apparizione significa e il messaggio che trasmette; il suo corpo subisce delle alterazioni non solo psichiche ma anche fisiche che sfidano le leggi della realtà terrena[15]; la percezione e il controllo del corpo stesso divengono anch’essi funzionali all’ apparizione, per cui egli, pur agendo nella massima libertà, compie le sue azioni come se fosse “guidato” o “aiutato” dal Trascendente.[16] Rimane insoluto anche il dilemma evangelico di Tommaso: che cosa ha realmente "toccato" del corpo glorioso di Gesù risorto? Il veggente crede di toccare o tocca il corpo glorioso? Quando tocca questo corpo è una sensibilizzazione psichico - intellettiva da parte del Trascendente o vi è un reale contatto? L'esperienza di alcuni veggenti, come Caterina Labouré ed altri contemporanei, conferma la tesi del reale contatto. L’avvicinarsi così “realmente” al Trascendente,[17] varcando la soglia della "finestra aperta" di cui si parlava, rende infatti possibile al veggente di vedere, sentire e toccare tranquillamente l’oggetto trascendente, anche se in maniera imperfetta, perché non del tutto staccato dal suo corpo il quale, in qualche misura, interferisce con l'acquisizione pura e completa della realtà ultraterrena anche se, nello stesso momento, “traduce” sensibilmente i dati acquisiti in questa esperienza. In questo contatto con l’apparizione, bisogna distinguere tra “resistenza” e “sensazione tattile”. L’oggetto che il veggente tocca è qualcosa che si oppone ad un movimento contrario, gli sembra di trovarsi, cioè, di fronte a qualcosa che oppone resistenza al suo movimento opposto, così come avviene in natura al contatto di due solidi. Nello stesso tempo egli trova problematico descrivere in termini comprensibili in che cosa consiste questa sensazione tattile, cioè dire con chiarezza che cosa tocca. L’oggetto toccato (il piede, la veste, le ginocchia, la mano dell’apparizione), gli sembra un qualcosa di estremamente fine, come un velo dalla trama soffice e delicata, come la superficie quieta dell’acqua, senza tuttavia la sensazione di calore, tepore o freddezza di essa. Insomma il veggente, mentre è sicuro di toccare qualcosa, resta incerto e titubante nel descrivere la natura di che cosa tocca. Per concludere si può affermare che, data l’estrema e reale vicinanza esistente tra il “luogo dell’apparizione” e il “luogo del Trascendente”, il veggente viene reso idoneo a percepire sensibilmente questa “vicinanza” e che il "luogo dell'apparizione” non è altro che il punto di incontro ravvicinato e privilegiato con il Trascendente, la finestra aperta attraverso la quale si concretizza la “visibilità” del soprannaturale, il “luogo” dove si assottiglia, fino a scomparire completamente il muro fluido ed esile che “separa” due realtà diverse, ma estremamente vicine nell’eternità di Dio.[18]
[1]
Cf. Suh Augustinus
(Kyung-Ryong), Le rivelazioni private nella vita
della Chiesa, Edizioni Studio Domenicano, pp. 29-31. |