Un articolo di Fabrizio Rizzo, su Gazzetta Rossazzurra del 24/04/2010.
Da sempre l’uomo ha sentito il bisogno profondo, di fronte alla caducità della vita, di esorcizzare la morte, di allontanarla, di scacciarla via da sé. La continua ricerca del fine escatologico della vita, è immanente alla stessa natura umana, e comune a qualsiasi civiltà, che con risposte diverse, con ricostruzioni talvolta astruse e visionarie dell’oltretomba, ha tentato di sconfiggere la morte, aspirando all’immortalità. In quest’ultimo compito, è senza dubbio riuscito l’Artista, trasferendo in ogni opera d’arte, una particella vitale del proprio Io. Mi piace pensare che di questa conquista, fosse ben consapevole la grande Sofonisba, quando dipinse la ‘Madonna dell’Itria’ proprio con l’intento di ricordare il marito Fabrizio Moncada, scomparso in mare per mano dei pirati.
Ma cerchiamo di fare luce su questa fascinosa figura femminile. Sofonisba Anguissola nacque a Cremona intorno al 1530 da una famiglia aristocratica. Avviata agli studi artistici, mostrò subito una naturale inclinazione per le arti figurative. Il padre, quindi, grazie alla posizione sociale, incoraggiò la propensione della figlia attraverso la ricerca d’importanti precettori e ne promosse l’opera presso le Corti. Essendo una donna, com’è ovvio per l’epoca, non frequentò le botteghe dei propri maestri, ma ricevette un’educazione artistica direttamente in casa, concentrandosi appunto sulla ritrattistica e sulle scene di vita domestica. Nel cinquecento, con Sofonisba Anguissola, la donna entra in maniera prorompente nella storia della pittura, che fino ad allora aveva visto come attore principale quasi esclusivamente l’uomo.
La vita e la carriera dell’artista, si svolsero tra prestigiose Corti alle quali veniva chiamata come ritrattista, quali quella dei Farnese, dei Gonzaga e persino presso Filippo II a Madrid, dove fu dama di Corte della Regina, ed insegnante delle Infante. Dato il rango sociale, non svolse la professione di artista per sostentamento, cioè non vendette mai le proprie opere, che era solita invece donare, ricevendo in cambio omaggi idonei al suo lignaggio. Fu certamente una donna dalla forte personalità, cosa che le consentì di straripare dai tradizionali schemi ai quali l’universo femminile era abituato, e consacrarsi come l’artista donna più importante del Rinascimento. Sotto quest’aspetto deve certamente considerarsi come una precorritrice dell’emancipazione femminile, che seppe autodeterminarsi, facendo valere la propria volontà anche avverso i costumi del tempo.
La sua lunga vita incrociò Paternò nel 1573, quando con l’intervento di Filippo II, fu fatta sposare per procura con Don Fabrizio Moncada, governatore di Paternò. In ossequio a quest’unione, la pittrice si trasferì dalla Corte spagnola a quella dei Moncada, costituita allora dai feudi di Paternò, Caltanissetta e Palermo. Sofonisba visse quindi nella nostra città, soggiornando spesso anche a Palermo, per cinque anni. Durante questo primo periodo siciliano, con tutta probabilità produsse diverse opere, andate poi perse nella notte degli oltre quattro secoli che ci separano da lei. Sventuratamente rimase vedova dopo soli cinque anni di matrimonio. Fabrizio Moncada,nel 1578, fu infatti ucciso dai pirati durante un viaggio che lo avrebbe condotto alla Corte di Spagna.
La sposa, affranta dal dolore, volle omaggiare il proprio marito nel modo che meglio conosceva. Dipinse così una Pala d’Altare commovente: la Madonna dell’Itria. Il quadro è oggi esposto nella Chiesa dell’Annunziata di Paternò. La paternità dell’opera è stata scoperta, con grande giubilo, solo pochi anni fa, grazie al rinvenimento nell’archivio storico di Catania, di un documento notarile del 25 giugno 1579, contenente tra l’altro, la sommaria descrizione del quadro. Trattasi di un atto con il quale Sofonisba dona la grande tavola ai frati francescani di Paternò. La pittrice dispose che la Pala, fosse collocata su un Altare del Convento che conteneva le sepolture dei parenti del marito, affinché questi fosse idealmente vicino ai propri familiari. Inoltre stabilì che sull’Altare si celebrassero due Messe Solenni l’anno, relative rispettivamente alla data di nascita ed alla dipartita del Moncada. Il ritrovamento dell’atto è stato assolutamente utile, non solo per sciogliere la riserva relativa all’attribuzione dell’opera, ma anche per fugare ogni dubbio circa l’interpretazione della stessa.
Il casato dei Moncada era devoto alla Madonna dell’Itria, e ciò spiega la scelta del soggetto: la Vergine con il Bambino, collocata sopra una grande bara. Inoltre sullo sfondo è individuabile il Simeto ed il suo territorio, che ad uno sguardo più scrupoloso, si rivela essere la rappresentazione territoriale del principato dei Moncada. A destare un’ampia curiosità, è sempre stata la presenza angosciante ed enigmatica di questa cassa da morto, condotta a spalla da due monaci e sospinta ai lati da due angeli, fra un aggruppamento di figure religiose che fanno da sfondo sul lato destro. Si tratta chiaramente della bara del marito, le cui spoglie non furono mai recuperate. La cassa esprime quindi tutto il cordoglio di Sofonisba per non aver potuto dare una sepoltura, né un estremo saluto al proprio sposo. Ritrovatasi così vedova e rimasta sostanzialmente sola, decise di lasciare Paternò, partendo alla volta della Liguria. Nello stesso anno, svelando ancora una volta un carattere deciso ed emancipato, si risposò con un capitano di nave genovese, nonostante il dissenso della Corte spagnola e della famiglia, a causa della differenza di ceto. La vita, la portò di nuovo in Sicilia nel 1615, e precisamente a Palermo, dove decise di stabilirsi col secondo marito per trascorrervi la vecchiaia.
La sua levatura artistica fu assolutamente di primo livello, e se a ciò si aggiunge che l’essere donna in quel contesto storico, si risolveva quasi in una penuria nel campo dell’arte, possiamo avere la misura del suo talento e della sua tenacia. Ebbe anche una stimolante corrispondenza con i più noti artisti a lei contemporanei ed una certa influenza su alcuni di essi, come il fiammingo Van Dyck, al quale insegnò a ‘far dare le luci dall’alto, che a darle dal basso si vedono le rughe’. Ultranovantenne, si spense a Palermo nel 1625, e fu seppellita nella Chiesa di S. Giorgio.
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