I CONCILI DELLA CHIESA CATTOLICA


Vai ai contenuti

Menu principale:


Costituzioni I - XXX

Lateranense IV


I. La fede cattolica

Crediamo fermamente e confessiamo semplicemente che uno solo è il vero Dio, eterno e immenso, onnipotente, immutabile, incomprensibile e ineffabile, Padre, Figlio e Spirito Santo, tre persone, ma una sola essenza, sostanza o natura semplicissima. Il Padre (non deriva) da alcuno, il Figlio dal solo Padre, lo Spirito Santo dall'uno e dall'altro, ugualmente, sempre senza inizio e senza fine. Il Padre genera, il Figlio nasce, lo Spirito Santo procede. Sono consostanziali e coeguali, coonnipotenti e coeterni, principio unico di tutto, creatore di tutte le cose visibili e invisibili, spirituali e materiali. Con la sua onnipotente potenza fin dal principio del tempo creò dal nulla l'uno e l'altro ordine di creature: quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il mondo, e poi l'uomo, quasi partecipe dell'uno e dell'altro, composto di anima e di corpo. Il diavolo infatti, e gli altri demoni, da Dio sono stati creati buoni per natura, ma sono diventati malvagi da sé stessi. E l'uomo ha peccato per suggestione del demonio. Questa santa Trinità, una, secondo la comune essenza, distinta secondo le proprietà delle persone, ha rivelato al genere umano, per mezzo di Mosè, dei santi profeti e degli altri suoi servi la dottrina di salvezza, secondo una sapientissima disposizione dei tempi. E finalmente il Figlio unigenito di Dio, Gesù Cristo, incarnatosi per opera comune della Trinità, concepito da Maria sempre vergine con la cooperazione dello Spirito Santo, divenuto vero uomo, composto di anima razionale e di carne umana, una sola persona in due nature, manifestò più chiaramente la via della vita. Immortale e impassibile secondo la divinità, Egli si fece passibile e mortale secondo l'umanità; anzi, dopo aver sofferto sul legno della croce ed esser morto per la salvezza del genere umano, discese negli inferi, risorse dai morti e salì al cielo; ma discese con l'anima, risorse con la carne, salì con l'uno e l'altro; e verrà alla fine dei tempi per giudicare i vivi e i morti e per compensare ciascuno secondo le sue opere, i cattivi come i buoni. Tutti risorgeranno coi propri corpi di cui ora sono rivestiti, per ricevere un compenso secondo i meriti, buoni o cattivi che siano stati: quelli con il diavolo riceveranno la pena eterna, questi col Cristo la gloria eterna.
Una, inoltre, è la chiesa universale dei fedeli, fuori della quale nessuno assolutamente si salva. In essa lo stesso Gesù Cristo è sacerdote e vittima, il suo corpo e il suo sangue sono contenuti realmente nel sacramento dell'altare, sotto le specie del pane e del vino, transustanziati il pane nel corpo, il sangue nel vino per divino potere; cosicché per adempiere il mistero dell'unità, noi riceviamo da lui ciò che egli ha ricevuto da noi.
Questo sacramento non può compierlo nessuno, se non il sacerdote, che sia stato regolarmente ordinato, secondo i poteri della chiesa che lo stesso Gesù Cristo concesse agli apostoli e ai loro successori.
Il sacramento del battesimo, poi, che si compie nell'acqua, invocando la indivisa Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, da chiunque conferito secondo le norme e la forma usata dalla chiesa, giova alla salvezza sia dei bambini che degli adulti. Se uno, dopo aver ricevuto il battesimo, è nuovamente caduto nel peccato, può sempre riparare attraverso una vera penitenza. Non solo le vergini e i continenti, ma anche i coniugi, che cercano di piacere a Dio con la retta fede e la vita onesta, meritano di giungere all'eterna beatitudine.


II. Gli errori dell'abate Gioacchino

Condanniamo, quindi, e riproviamo l'opuscolo o trattato(1), che l'abate Gioacchino ha pubblicato contro il maestro Pietro Lombardo sulla unità o essenza della Trinità, dove lo chiama eretico e stolto, per aver detto nelle sue Sentenze: "Poiché il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una realtà suprema, che né genera, né è generata, né procede" (2). Da ciò egli conclude che il Lombardo ammette in Dio non una Trinità, ma una Quaternità: ossia tre persone più la comune essenza, come un quarto elemento, affermando chiaramente che non vi è cosa alcuna che sia Padre, Figlio e Spirito Santo, né essenza, né sostanza, né natura, quantunque conceda che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono una sola essenza, una sola sostanza, una sola natura. Ma egli ritiene che questa unità non è vera e propria, bensì quasi collettiva e analogica come quando si dice che molti uomini sono un popolo, e che molti fedeli sono una chiesa, come nell'espressione: La moltitudine dei credenti aveva un cuor solo e un'anima sola (3); e Chi aderisce a Dio forma un solo spirito (4)con lui. Similmente: Chi pianta e chi irriga sono tutt'uno (5); e tutti siano un solo cuore in Cristo (6). Ancora nel libro dei Re: Il mio Popolo e il tuo sono una cosa sola (7).
A provare questa sua opinione, egli adduce soprattutto quella espressione che Cristo dice dei suoi seguaci nel Vangelo: Voglio, Padre, che essi siano una cosa sola in noi, come noi siamo uno, Perché essi siano perfettamente uniti (8). In realtà, dice, i fedeli del Cristo non sono una cosa sola, cioè una realtà comune a tutti; essi sono un'unità, perché formano una sola chiesa a causa dell'unità della fede e, finalmente, un solo regno per l'unità indissolubile dell'amore, proprio come si legge nella lettera canonica di S. Giovanni: Perché tre rendono testimonianza in cielo, il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo. E questi tre sono una cosa sola (9), e aggiunge subito: e tre sono quelli che rendono testimonianza in terra: lo spirito, l'acqua, e il sangue e questi tre sono una cosa sola, come si legge in alcuni codici.
Noi, con l'approvazione del sacro concilio universale, crediamo e confessiamo, con Pietro Lombardo, che esiste una somma sostanza, incomprensibile e ineffabile, la quale è veramente Padre, Figlio e Spirito Santo, le tre persone insieme, e ciascuna di esse singolarmente. In Dio, quindi, vi è solo una Trinità, non una quaternità, poiché ognuna delle tre persone è quella sostanza, essenza o natura divina, la quale è, essa sola, principio di tutte le cose, e fuori della quale non se ne può trovare altra. Essa non genera, non è generata, non procede, ma è il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che procede; in tale modo vi è distinzione nelle persone e unità nella natura.
Quindi, se altro è il Padre, altro il Figlio, altro lo Spirito Santo, non sono tuttavia altra cosa, ma ciò che è il Padre è il Figlio e lo Spirito Santo; la stessa identica cosa, così da doversi credere, conforme alla retta fede cattolica, che essi sono consostanziali.
Il Padre, infatti, generando il Figlio eternamente, gli diede la sua sostanza, secondo quanto lui stesso attesta: Ciò che il Padre mi ha dato è la più grande di tutte le cose (10); e non si può certo dire che gli abbia dato una parte della sua sostanza, e che una parte l'abbia ritenuta per sé: perché la sostanza del Padre è indivisibile, in quanto del tutto semplice. E neppure si può dire che il Padre, generando, abbia trasfuso nel Figlio la sua sostanza, quasi che comunicandola al Figlio non l'abbia conservata per sé; in questo caso avrebbe cessato di essere sostanza. E’ chiaro, quindi, che il Figlio, nascendo, ha ricevuto la sostanza del Padre senza alcuna diminuzione, e quindi il Padre e il Figlio hanno la medesima sostanza; in tal modo il Padre e il Figlio sono la stessa cosa; e così lo Spirito Santo che procede dall'uno e dall'altro.
Quando, allora, la Verità prega il Padre per i suoi fedeli, dicendo: "Voglio, Padre, che essi siano una cosa sola in noi, come noi siamo una cosa sola" (11), il termine una cosa sola quando si tratta dei fedeli si deve prendere nel senso di unione della carità nella grazia; per le persone divine, invece, deve intendersi come unità di identità nella natura, come altrove dice la Verità: Siate Perfetti com'è perfetto il vostro Padre celeste (12). E’ come se dicesse, più chiaramente: "Siate perfetti della perfezione della grazia, come il vostro Padre celeste è perfetto della perfezione che gli è naturale", cioè ciascuno a suo modo, perché tra il creatore e la creatura per quanto la somiglianza sia grande, maggiore è la differenza.
Se qualcuno, quindi, intendesse su questo argomento difendere o approvare l'opinione, cioè la dottrina del suddetto Gioacchino, sia ritenuto da tutti eretico. Con ciò, però, non vogliamo gettare un'ombra sul monastero di Fiore, in cui lo stesso Gioacchino è stato maestro, poiché ivi l'insegnamento è regolare e la disciplina salutare. Tanto più che lo stesso Gioacchino ci ha inviato tutti i suoi scritti perché fossero approvati o corretti secondo il giudizio della Sede apostolica. Ciò egli fece con una lettera, da lui dettata e sottoscritta di proprio pugno, nella quale egli confessa senza tentennamenti di tenere quella fede che ritiene la chiesa di Roma, madre e maestra, per volontà di Dio, di tutti i fedeli.
Riproviamo e condanniamo anche la stravagante opinione dell'empio Amalrico (13); la cui mente è stata così accecata dal padre della menzogna, che la sua dottrina non tanto deve giudicarsi eretica, quanto insensata.


III. Degli eretici

Scomunichiamo e anatematizziamo ogni eresia che si erge contro la santa, ortodossa e cattolica fede, come l'abbiamo esposta sopra. Condanniamo tutti gli eretici, sotto qualunque nome; essi hanno facce diverse, male loro code sono strettamente unite l'una all'altra (14), perché convergono tutti in un punto: sulla vanità. Gli eretici condannati siano abbandonati alle potestà secolari o ai loro balivi per essere puniti con pene adeguate. I chierici siano prima degradati della loro dignità; i beni di questi condannati, se si tratta di laici, siano confiscati; se fossero chierici, siano attribuiti alla chiesa, dalla quale ricevono lo stipendio.
Quelli che fossero solo sospetti, a meno che non abbiano dimostrato la propria innocenza con prove che valgono a giustificarli, siano colpiti con la scomunica, e siano evitati da tutti fino a che non abbiano degnamente soddisfatto. Se perseverano per un anno nella scomunica, dopo quel tempo siano condannati come eretici. Siano poi ammonite e, se necessario, costrette con censura le autorità civili, di qualsiasi grado, perché, se desiderano essere stimati e creduti fedeli, prestino giuramento di difendere pubblicamente la fede: che essi, cioè, cercheranno coscienziosamente, nei limiti delle loro possibilità, di sterminare dalle loro terre tutti quegli eretici che siano stati dichiarati tali dalla chiesa. D'ora innanzi, chi sia assunto ad un ufficio spirituale o temporale, sia tenuto a confermare con giuramento, il contenuto di questo capitolo.
Se poi un principe temporale, richiesto e ammonito dalla. chiesa, trascurasse di liberare la sua terra da questa eretica infezione, sia colpito dal metropolita e dagli altri vescovi della stessa provincia con la scomunica; se poi entro un anno trascurasse di fare il suo dovere, sia informato di ciò il sommo pontefice, perché sciolga i suoi vassalli dall'obbligo di fedeltà e lasci che la sua terra sia occupata dai cattolici, i quali, sterminati gli eretici, possano averne il possesso senza alcuna opposizione e conservarla nella purezza della fede, salvo, naturalmente il diritto del signore principale, purché questi, non ponga ostacoli in ciò, né impedimenti.
Lo stesso procedimento si dovrà osservare con quelli che non abbiano dei signori sopra di sé.
I cattolici che, presa la croce, si armeranno per sterminare gli eretici, godano delle indulgenze e dei santi privilegi, che sono concessi a quelli che vanno in aiuto della Terra Santa. Decretiamo, inoltre, che quelli che prestano fede agli eretici, li ricevono, li difendono, li aiutano, siano soggetti alla scomunica; e stabiliamo con ogni fermezza che chi fosse stato colpito dalla scomunica, e avesse trascurato di dare soddisfazione entro un anno, da allora in poi sia ipso facto colpito da infamia, e non sia ammesso né ai pubblici uffici o consigli, né ad eleggere altri a queste stesse cariche, né a far da testimone. Sia anche "intestabile", cioè privato della facoltà di fare testamento e della capacità di succedere nell'eredità. Nessuno, inoltre, sia obbligato a rispondergli su qualsiasi argomento; egli, invece, sia obbligato a rispondere agli altri. Se egli fosse un giudice, la sua sentenza non abbia alcun valore, e nessuna causa gli venga sottoposta. Se fosse un avvocato, non gli venga affidata la difesa; se fosse un notaio, i documenti da lui compilati, siano senza valore, anzi siano condannati col loro condannato autore. Lo stesso comandiamo che venga osservato in casi simili a questi.
Se poi si tratta di un chierico, sia deposto dall’ufficio e dal beneficio: infatti chi ha una colpa maggiore, sia punito con una pena più grave. Chi trascurasse di evitarli, dopo la dichiarazione di scomunica da parte della chiesa, sia colpito dalla scomunica fino a che non abbia dato la debita soddisfazione.
I chierici non amministrino a questi uomini pestilenziali i sacramenti della chiesa; né osino dare ad essi sepoltura cristiana; non accettino le loro elemosine o le loro offerte. Diversamente, siano privati del loro ufficio, e non tornino mai più in suo possesso, senza un indulto speciale della sede apostolica. La stessa disposizione va applicata a qualsiasi religioso, senza tener conto dei loro privilegi in quella diocesi, in cui avessero avuto l'ardire di provocare tali eccessi.
Ma poiché alcuni, sotto l'apparenza della pietà, negano però (come dice l'Apostolo) la sua essenza (15), e si attribuiscono la facoltà di predicare, mentre lo stesso Apostolo dice: Come potranno predicare, se non sono mandati? (16), tutti quelli cui sia stato proibito, o che senza essere stati mandati dalla sede apostolica o dal vescovo cattolico del luogo, presumessero di usurpare in pubblico o in privato l'ufficio di predicare, siano scomunicati, e, qualora non si ravvedessero al più presto, siano puniti con altra pena proporzionata.
Inoltre ciascun arcivescovo o vescovo deve personalmente o per mezzo dell'arcidiacono o di persone capaci e oneste, visitare due o almeno una volta all'anno, la sua diocesi se vi è notizia della presenza di eretici, ed ivi costringa tre o anche più uomini di buona fama, o addirittura, se sembrerà opportuno, tutti gli abitanti dei dintorni, a giurare se vi sono degli eretici, o gente che tiene riunioni segrete, o che si al- lontana nella vita e nei costumi dal comune modo di comportarsi dei fedeli. Il vescovo convochi gli accusati alla sua presenza; e se questi non si saranno giustificati dalla colpa loro imputata, o, se dopo l'espiazione ricadranno nella loro primitiva perfidia, siano puniti secondo i canoni. Chi rifiutasse il carattere sacro del giuramento e con riprovevole ostinazione non volesse giurare, per questo stesso motivo sia considerato eretico.
Vogliamo, dunque, e ordiniamo, e comandiamo rigorosa- mente in virtù di santa obbedienza, che i vescovi vigilino diligentemente nelle loro diocesi all'efficace esecuzione di queste norme, se vogliono evitare le pene canoniche. Se qualche vescovo, infatti, si mostrerà negligente o troppo lento nel liberare la sua diocesi dai fermenti ereticali quando la loro presenza fosse certa, sia deposto dall'ufficio episcopale e sia sostituito da un uomo adatto, il quale voglia e sappia confondere la malvagità degli eretici.


IV. L'orgoglio dei greci contro i latini

Quantunque sia nostra intenzione favorire e onorare i Greci che in questi nostri tempi sono ritornati all'obbedienza della sede apostolica, rispettando i loro costumi e i loro riti per quanto possiamo farlo nel Signore, non vogliamo tuttavia e non possiamo essere remissivi di fronte a usi che importano un pericolo per le anime e detraggono all'onore della chiesa. Da quando, la chiesa Greca con alcuni suoi complici e fautori si è sottratta all'obbedienza della sede apostolica, i Greci hanno cominciato a disprezzare talmente i Latini che, tra le altre cose che compivano ampiamente per offenderli, quando i sacerdoti Latini celebravano sui loro altari essi si rifiutavano di celebrare su di essi il santo sacrificio, se prima non erano stati lavati, quasi fossero stati contaminati. Inoltre osavano ribattezzare temerariamente quelli che erano già stati battezzati dai Latini, cosa che alcuni, a quanto abbiamo sentito dire, fanno ancora oggi senza alcun riguardo.
Volendo, quindi, toglier dalla chiesa di Dio così grave scandalo, secondo il parere del sacro concilio comandiamo loro severamente che cessino di agire in tal modo, confermandosi come figli obbedienti della sacrosanta Romana chiesa, loro madre, perché vi sia un solo ovile ed un solo pastore (17).
Se qualcuno osasse fare ancora qualche cosa di simile, colpito dalla scomunica, sia deposto da ogni ufficio e beneficio ecclesiastico.


V. Della dignità dei patriarchi

Rinnovando gli antichi privilegi delle sedi patriarcali, decretiamo, con l'approvazione del santo e universale concilio, che, dopo la chiesa Romana, la quale per volontà del Signore ha il primato della potestà ordinaria su tutte le altre chiese, come madre e maestra di tutti i fedeli cristiani, la chiesa di Costantinopoli abbia il primo posto, l'Alessandrina il secondo, quella di Antiochia il terzo, quella di Gerusalemme il quarto, ciascuna col proprio rango; così che, dopo che i loro prelati hanno ricevuto dal Romano pontefice il pallio, simbolo della pienezza della loro dignità pontificale, possano lecitamente dare a loro volta, quando sia stato prestato loro il giuramento di fedeltà e di obbedienza, il pallio ai loro suffraganei, ricevendo per sé la professione canonica, e per la chiesa Romana la promessa di obbedienza.
Facciano anche portare dinanzi a sé, dappertutto, la croce del Signore, meno che in Roma, e dovunque fosse presente il Romano pontefice o un suo legato, che faccia uso delle insegne della dignità apostolica. In tutte le province soggette alla loro giurisdizione, quando è necessario, si faccia ricorso ad essi, salvi gli appelli interposti alla sede apostolica, a cui bisogna che tutti si attengano umilmente.


VI. Dei concili provinciali

Come è stato stabilito dai santi padri, ì metropoliti non omettano di celebrare ogni anno con i loro suffraganei i concili provinciali; in essi si tratti diligentemente, nel timore di Dio, della correzione dei peccati e della riforma dei costumi, specialmente nel clero; sì rileggano le norme canoniche, e specialmente quanto è stato stabilito in questo concilio generale, perché vengano osservate, infliggendo le pene dovute ai trasgressori.
Per conseguire efficacemente tale scopo, i metropoliti, stabiliscano in ogni diocesi delle persone previdenti e oneste, le quali per tutto l'anno, senza alcuna giurisdizione, investighino con zelo quello che sia degno di correzione e di riforma e riferiscano fedelmente al metropolita, ai suffraganei e ad altri nel successivo concilio, perché su questi ed altri punti, secondo quanto è richiesto dall'utilità e dall'onestà, possano prendere adeguate deliberazioni. Quanto è stabilito, sia osservato, e lo si pubblichi nei sinodi vescovili, da celebrarsi ogni anno nelle singole diocesi.
Chi, poi, si mostrerà negligente nel curare l'adempimento di questa norma salutare, sia sospeso dai suoi benefici e dal suo ufficio, fino a che non gli sia tolta la sanzione dal suo superiore.


VII. Della correzione delle colpe

Con ferma disposizione stabiliamo che i prelati attendano con prudente diligenza a correggere le mancanze dei loro sudditi, specie dei chierici, e alla riforma dei costumi, altrimenti dovranno rendere conto del loro sangue (18).
Perché possano compiere liberamente questo loro dovere di correzione e di riforma, decretiamo che nessuna consuetudine o appello impedisca l'esecuzione delle loro decisioni a meno che non abbiano ecceduto nei modi. Le infrazioni dei canonici della chiesa cattedrale, tuttavia, in cui è solito intervenire il capitolo, saranno corrette da esso nelle chiese che finora hanno avuto tale consuetudine, dietro ammonizione e ingiunzione del vescovo ed entro un tempo conveniente, che questi stabilirà. Altrimenti il vescovo, da quel momento, tenendo Dio solo dinanzi agli occhi, e superando ogni opposizione, non tardi a correggerli con la censura ecclesiastica, come richiederà la cura delle anime. Non ometta neppure di emendare anche altre eventuali trasgressioni, secondo che richiederà il bene delle anime, osservando naturalmente il debito modo in ogni cosa.
Se poi i canonici, senza un motivo vero e plausibile, ma per disprezzo del vescovo, sospendessero gli uffici divini, egli, se lo crede, celebri nella chiesa cattedrale; e il metropolita, dietro le sue rimostranze, considerandosi in ciò da noi delegato, dopo esser venuto a conoscenza del vero stato delle cose, li punisca talmente con la censura ecclesiastica, da indurli in seguito a non commettere più tali eccessi, almeno per timore della pena.
I responsabili delle chiese evitino di trasformare questo salutare decreto in un mezzo di guadagno o in altro peso, ma lo eseguano con zelo e fedeltà, se vorranno sfuggire alle pene canoniche, perché su questo punto la sede apostolica, con l'aiuto del Signore, sarà particolarmente vigilante.


VIII. Delle inchieste

"Come e in qual modo il superiore debba procedere nell'informarsi sulle colpe dei sudditi e nel punirle, si deduce facilmente dagli esempi dell’antico e del nuovo Testamento, da cui derivano le norme canoniche" (19); ciò, secondo quanto avevamo già stabilito e che ora confermiamo con l'approvazione del sacro concilio.
Si legge infatti nel Vangelo, che quel fattore che fu accusato presso il suo signore di aver dissipato i suoi beni, si sentì dire da lui: Cosa sento dire di le? Rendimi conto della tua gestione, infatti non potrai più tenere tale ufficio (20). E nella Genesi il Signore dice: Discenderò e vedrò se davvero hanno operato conforme al grido che è giunto fino a me (21).
Queste autorità dimostrano chiaramente che non solo quando manca un suddito, ma anche quando sbaglia un superiore, se le voci e le lamentele giungono alle orecchie del superiore non da parte di malevoli o di maldicenti, ma da persone prudenti e oneste, e non una sola volta ma spesso (come sottolineano le lamentele e le voci), tocca al superiore portare il caso davanti agli anziani della chiesa per cercare con maggior diligenza la verità. E se il caso lo richiede, la pena canonica punisca l'errore del colpevole, di modo che il superiore non sia nello stesso tempo accusatore e giudice, ma adempia il suo dovere, mosso dalle lamentele o dalle voci che denunciano. Tali norme devono essere applicate ai sudditi, e tanto più ai superiori posti come bersaglio alle saette (22). E poiché questi non possono soddisfare tutti, dovendo a causa del loro ufficio non solo convincere, ma anche rimproverare, qualche volta addirittura sospendere, e talora vincolare con pene, frequentemente incorrono nell'odio di molti e sono oggetto di insidie. Per questo i santi padri stabilirono prudentemente che non si sia facile nell'ammettere accuse contro i prelati, perché non avvenga che, scosse le colonne, cada l'edificio (23); si usi invece molta cautela, sbarrando la porta alle accuse false e alle malignità.
Essi vollero proteggere i prelati da accuse ingiuste, ma anche inculcare loro il timore di peccare d'arroganza. Essi hanno trovato un rimedio adatto per l'uno e per l'altro male: ogni accusa di un delitto che implica diminutio capitis, ossia la degradazione, non sia ammessa in nessun modo senza che prima vi sia stata l'iscrizione (24). E tuttavia qualora uno fosse stato diffamato in tal modo, per le sue colpe, che le voci prendono consistenza e non si possano più dissimulare senza scandalo né tollerare senza pericolo, allora senza dubbi né scrupoli si proceda alla ricerca e alla punizione delle colpe, non certo mossi dall'odio, ma dall'amore. Se la colpa fosse grave, ma non tale da implicare la degradazione, il colpevole sia però allontanato da ogni ufficio, essendo conforme all'insegnamento del Vangelo, che l'amministratore venga allontanato dall'amministrazione di cui non è in grado di rendere conto (25).
Deve essere presente colui contro il quale si fa l'inchiesta, a meno che non sia in contumacia; gli si espongano i capi di accusa sui quali verte l'inchiesta, perché possa difendersi; gli si devono far conoscere le accuse portate contro di lui, e anche i nomi dei testimoni, perché sappia di che è accusato e da chi; siano permesso anche le eccezioni e le repliche legittime, affinché col tacere i nomi non si favorisca l'audacia di infamare e con l'esclusione delle eccezioni, quella di deporre il falso.
Il prelato deve correggere diligentemente le colpe dei sudditi, piuttosto che lasciare colpevolmente impuniti i loro errori. Contro questi - per tacere di colpe notorie - si può procedere in tre modi: accusa, denuncia, inchiesta, affinché però si usi sempre una diligente cautela, e non avvenga che per un guadagno insignificante si giunga ad una perdita grave, come l'accusa deve essere preceduta dalla legittima iscrizione, così anche la denuncia dev'essere preceduta da un caritatevole ammonimento, e l'inchiesta giudiziaria dalla presentazione dell'accusa; anche la forma della sentenza rispetti le regole della procedura giudiziaria.
Quest'ordine, tuttavia, non deve essere sempre osservato con i regolari i quali, quando un giusto motivo lo richieda, possono più facilmente e con maggior libertà essere allontanati dal loro ufficio dai propri superiori.


IX. Riti diversi nella stessa fede

Poiché in più parti, entro l'ambito della stessa città e diocesi sono raccolti popoli di diverse lingue, che nell'ambito dell'unica fede hanno riti e costumi diversi, comandiamo severamente che i vescovi di queste città o diocesi nominino persone adatte, che possano celebrare nei diversi riti e lingue gli uffici divini e amministrare loro i sacramenti, istruendoli con la parola e con l'esempio.
Proibiamo, però, assolutamente che una stessa città o diocesi abbia più vescovi, perché un corpo con più teste è come mostro. Se, quindi, per le ragioni accennate, una urgente necessità lo richieda, il vescovo del luogo con matura decisione nomini suo vicario, per questo ambito, un prelato cattolico di quella nazione che gli sia soggetto e obbediente in ogni cosa. Chi si comportasse diversamente sarà passibile di scomunica, e, se non si pente sarà deposto da ogni ministero con l'aiuto, se necessario, del braccio secolare per reprimere tanta insolenza.


X. La scelta di predicatori

Tra le altre cose che riguardano la salvezza del popolo cristiano, si sa che il nutrimento della parola di Dio, è tra i più necessari, poiché come il corpo si nutre di cibo materiale, così l'anima di quello spirituale. Non di solo Pane, infatti, vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (26).
Avviene spesso che i vescovi per le molteplici occupazioni, per la cattiva salute, per gli attacchi dei nemici, o per altri motivi - per tacere dell'ignoranza, cosa assolutamente riprovevole in essi, e da non tollerarsi più in nessun modo - non riescono da sé a predicare al popolo la parola di Dio, specie quando le diocesi sono ampie ed estese. Stabiliamo che i vescovi scelgano persone adatte ad attendere perciò saltuariamente all'ufficio della santa predicazione, potenti nella parola e nelle opere (27), le quali, visitino, in loro vece, le popolazioni loro affidate, le edifichino con la parola e con l'esempio. Se ne hanno bisogno, procurino loro quanto è necessario perché le privazioni non li obblighino ad abbandonare l'impresa.
Comandiamo, quindi, che, sia nelle cattedrali che nelle altre chiese collegiate vengano scelte persone capaci, di cui i vescovi possano servirsi come coadiutori e cooperatori, non solo per la predicazione, ma anche per ascoltare le confessioni e imporre le penitenze, e per gli altri problemi che riguardano la salvezza delle anime. Chiunque manchi di assolvere a questo dovere, sarà punito severamente.


XI. Dei maestri di scuola

Alcuni per mancanza di mezzi non hanno possibilità di imparare a leggere, né opportunità di miglioramento; nel concilio Lateranense (28) si provvide, con pia disposizione che in ogni chiesa cattedrale si assegnasse un beneficio conveniente ad un maestro, che istruisse gratuitamente i chierici della stessa chiesa e altri scolari poveri, venendo così incontro alle necessità del maestro e aprendo la via alla scienza agli scolari.
Poiché in molte chiese ciò non si osserva affatto, volendo ridare vigoria tale prescrizione, aggiungiamo che non solo in ogni chiesa cattedrale, ma anche nelle altre in cui vi siano mezzi sufficienti, venga scelto dal prelato un maestro adatto; esso sia scelto insieme col capitolo, o con la maggioranza di esso e la parte più prudente; questi istruirà i chierici di quelle chiese e delle altre, gratuitamente, nella grammatica e nelle altre discipline come meglio potrà.
La chiesa metropolitana abbia tuttavia un teologo che possa istruire i sacerdoti e gli altri nella sacra scrittura, e li formi specialmente in quanto riguarda la cura delle anime. A ciascun maestro sia assegnata dal capitolo la rendita di una sola prebenda, e altrettanto dal metropolita per il teologo; con ciò, però, egli non entra a far parte del capitolo, ma percepisce il beneficio solo finché dura l'insegnamento. Se poi la chiesa metropolitana si trova gravata da due insegnanti, allora essa provveda al teologo nel modo che abbiamo detto, e al maestro di grammatica faccia in modo che provveda sufficientemente un'altra chiesa della città o della diocesi.


XII. Dei capitoli generali dei monaci

In ogni regno o provincia si tenga ogni tre anni, salvo il diritto dei vescovi diocesani, un capitolo generale degli abati e di quei priori senza abati propri, che sinora non si celebravano. Ad esso prendano parte tutti, a meno che non abbiano un impedimento canonico. Si raccolgano presso uno dei monasteri adatto a riceverli con questo limite, però, che nessuno di essi porti più di sei cavalcature né più di otto persone. Invitino, con carità, a inaugurare questo sistema due abati vicini dell'ordine Cistercense, perché possano assisterli col loro consiglio e l'aiuto opportuno, dato che essi hanno una lunga consuetudine e maggior esperienza nel celebrare questi capitoli. Questi, senza che qualcuno possa opporsi, portino con sé due dei loro, che possano essere utili; questi quattro presiedano al capitolo generale in modo però che nessuno di essi abbia l'autorità di superiore e possano, con matura decisione, essere cambiati all'occorrenza.
Questo capitolo sia celebrato per alcuni giorni continui, fissi, secondo l'uso dei Cistercensi; in esso si tratti diligentemente della riforma dell'ordine e dell'osservanza della regola; e quello che sarà stato stabilito con l'approvazione di quei quattro, sia osservato da tutti inviolabilmente, senza alcuna scusa, contraddizione o appello. Si stabilisca tuttavia dove, alla prossima scadenza, sarà celebrato il prossimo capitolo.
I partecipanti vivano in comune, e sostengano in proporzione tutte le spese comuni; se non possono essere alloggiati tutti insieme, siano sistemati almeno in diversi nelle stesse case.
Siano stabiliti anche, in questo capitolo, dei religiosi prudenti che, secondo criteri stabiliti, visitino in vece nostra le singole abbazie del regno o della provincia, non solo dei monaci, ma anche delle monache per correggere e riformare ciò che ha bisogno di correzione e di riforma. Se essi riterranno che il superiore di un luogo dev'essere assolutamente deposto, lo denunceranno al vescovo, perché questi lo allontani. Se questi non lo fa, gli stessi visitatori sottoporranno la questione alla sede apostolica.
Intendiamo e comandiamo che questa disposizione venga osservata anche dai Canonici regolari, secondo la loro regola.
Se nell'esecuzione di queste nuove norme sorgesse qualche difficoltà, che non potesse essere risolta dalle persone designate, si riferisca, senza provocare scandalo, alla sede apostolica perché esprima il suo giudizio, osservando, naturalmente, ogni altra norma che sia stata decisa all'unanimità.
I vescovi diocesani, però, si studino di riformare in tal modo i monasteri soggetti alla loro giurisdizione, che quando i suddetti visitatori giungono presso di essi, vi trovino più cose da lodare che da riformare. Si guardino bene, ad ogni modo, di non aggravare questi monasteri con oneri indebiti, perché noi teniamo al rispetto dei diritti dei superiori altrettanto quanto al rispetto della giustizia verso gli inferiori.
Ancora, comandiamo severamente sia ai vescovi diocesani, che ai presidenti dei capitoli, che vietino con la censura ecclesiastica, e senza appello gli avvocati, i patroni, i vicesignori, i reggenti e i consoli, i grandi, i cavalieri e chiunque altro, perché non si azzardino a danneggiare i monasteri nelle persone e nei beni. E non manchino di costringere alla riparazione quelli che l'avessero fatto, perché Dio onnipotente sia servito nella pace e nella libertà.


XIII. Proibizione di nuovi ordini religiosi

Perché l'eccessiva varietà degli ordini religiosi non sia causa di grave confusione nella chiesa di Dio, proibiamo rigorosamente che in futuro si fondino nuovi ordini.
Chi quindi volesse abbracciare una forma religiosa di vita, scelga una di quelle già approvate. Ugualmente chi volesse fondare una nuova casa religiosa faccia sua la regola e le istituzioni degli ordini religiosi già approvati.
Proibiamo anche che uno sia monaco in diversi monasteri, e che un solo abate possa presiedere a più monasteri.


XIV. Punizioni per i chierici incontinenti

Perché i costumi e il comportamento del clero siano riformati in meglio, tutti cerchino di vivere una vita pura e casta, specialmente quelli che hanno ricevuto gli ordini sacri: si guardino, quindi, da ogni vizio di impurità, specie da quello per cui l'ira di Dio scese dal cielo sui figli dalla ribellione (29), affinché possano servire Dio onnipotente con cuore puro e corpo casto.
E perché un facile perdono non sia incentivo alla trasgressione, stabiliamo che chi sia preso in flagrante delitto di incontinenza, sia punito secondo le sanzioni canoniche, in proporzione del suo peccato: e vogliamo che queste norme canoniche vengano più efficacemente e più strettamente osservate, in modo che quelli che il timore di Dio non trattiene dal male, siano almeno frenati dalla pena temporale dal cadere nel peccato.
Se, quindi, qualcuno, sospeso per questo motivo, presumesse di celebrare i divini misteri, non solo sia spogliato dei benefici ecclesiastici, ma sia anche deposto per questa duplice colpa, e per sempre. I prelati che sostenessero tali peccatori nella loro iniquità, specialmente se per denaro o per qualche altro utile temporale, siano soggetti alla stessa pena. Quelli che, secondo l'uso della loro regione, non hanno rinunziato all'unione coniugale, se cadessero in peccato, siano puniti più gravemente, dato che hanno la possibilità di godere del legittimo matrimonio.


XV. Contro l'ubriachezza dei chierici

Tutti i chierici si guardino bene dall'ingordigia e dall'ubriachezza; se essi non abusano del vino, il vino non abuserà di loro e nessuno sia incitato a bere perché l'ubriachezza oscura l'intelletto e suscita le passioni carnali.
Stabiliamo, quindi, che si sradichi l'abuso, per cui in alcune regioni i bevitori si incitano a vicenda a bere ed è più degno di lode chi riesce a farne ubriacare di più e a bere più bicchieri.
Se, perciò, qualcuno si rende colpevole su questo punto, e, ammonito dal superiore, non si corregge come si deve, sia sospeso dal beneficio e dall'ufficio. La caccia degli animali e degli uccelli è proibita a tutti quelli che appartengono al clero. E non osino, quindi, avere cani o uccelli da caccia.


XVI. Le vesti dei chierici

I chierici non esercitino mestieri propri dei secolari e non si diano agli affari, specie se poco onesti. Non assistano a giochi di mimi, di giocolieri e di commedianti. Evitino assolutamente le osterie, a meno che non si tratti di un caso di necessità, quando si trovano in viaggio. Non giochino d'azzardo o ai dadi, e non assistano a simili giochi. Portino una corona (di capelli) e una tonsura conveniente, e si applichino diligentemente agli uffici divini e agli studi onesti. Indossino soprabiti chiusi, che non siano troppo corti o troppo lunghi. Non usino stoffe rosse o verdi, guanti e scarpe troppo eleganti o a punta, freni, selle, fasce e sproni dorati o con altri ornamenti superflui. Non portino cappe con maniche nella chiesa e neppure fuori - almeno quelli che sono sacerdoti o dignitari - a meno che un giustificato motivo non consigli di mutare il vestito. Non portino in nessun modo fibbie né legacci con ornamenti d'oro e d'argento e neppure l'anello, eccetto quelli cui spetta a motivo della loro dignità.
I vescovi, in pubblico e in chiesa usino tutti abiti di lino, a meno che siano monaci, che devono portare l'abito monastico. Non usino in pubblico, mantelli aperti, ma ben chiusi dietro il collo e sul petto.


XVII. Dei festini dei prelati e della loro negligenza per gli uffici divini

Deploriamo che non solo alcuni chierici minori, ma anche certi prelati passano una metà della notte in baldorie superflue e in chiacchiere illecite, per non dire altro; questi dormono il resto della notte, si svegliano appena al canto degli uccelli, a giorno tardo e restano assonnati il resto del mattino.
Vi sono altri che celebrano la messa appena quattro volte l'anno; e, ciò che è peggio, non vogliono neppure assistervi; e se per caso qualche volta sono presenti quando è celebrata, fuggendo il silenzio del coro, vanno fuori a parlare con i laici; e così seguono discorsi inopportuni e non prestano invece alcuna attenzione alle cose divine.
Proibiamo, quindi, assolutamente queste ed altre cose simili sotto pena della sospensione, e comandiamo severamente in virtù di santa obbedienza, che essi recitino il divino ufficio sia diurno che notturno, come Dio concederà loro, con zelo pari alla devozione.


XVIII. Sentenze di morte e duelli proibiti ai chierici

Nessun chierico sottoscriva o pronunci una sentenza di morte, né esegua una pena capitale né vi assista. Chi contro questa prescrizione, intendesse recar danno alle chiese o alle persone ecclesiastiche, sia colpito con la censura ecclesiastica. Nessun chierico scriva o detti lettere implicanti una pena di morte; e quindi nelle corti dei principi questo incarico venga affidato non a chierici, ma a laici.
Similmente nessun chierico venga messo a capo di predoni o di balestrieri, o, in genere, di uomini che spargono sangue; i suddiaconi, i diaconi, i sacerdoti non esercitino neppure l'arte della chirurgia che comporta ustioni e incisioni; nessuno, finalmente, accompagni con benedizioni le pene inflitte con acqua bollente o gelata, o col ferro ardente, salve, naturalmente le proibizioni che riguardano le monomachie, cioè i duelli, già promulgate.


XIX. Divieto di ingombrare le chiese con oggetti profani

Non vogliamo tollerare che alcuni chierici si servano delle chiese per depositare le suppellettili loro e di altri di modo che esse assomigliano più a case di laici che a delle basiliche di Dio. Essi dimenticano che il Signore non permetteva che un vaso venisse portato per il tempio (30).
Altri non hanno per le loro chiese alcuna cura, permettono che i vasi sacri, i paramenti liturgici, le nappe dell'altare, e perfino i corporali, siano così sporchi che ad alcuni fanno ribrezzo.
Poiché, dunque, lo zelo della casa di Dio ci divora (31), proibiamo con ogni fermezza di depositare queste suppellettili nelle chiese, salvo che, in caso di incursioni nemiche, di incendi improvvisi, o di altre urgenti necessità, non si debba cercar rifugio in esse a condizione che passato il pericolo gli oggetti siano riportati al loro posto. Comandiamo anche che i luoghi di culto, i vasi sacri, i corporali, le vesti cui abbiamo accennato, siano conservati puliti. E’ infatti assurdo che si tolleri negli oggetti sacri tale sporcizia, che sarebbe vergognosa anche nelle cose profane.


XX. Il Crisma e l'Eucarestia devono essere custoditi sotto chiave


Ordiniamo che in tutte le chiese il crisma e l'Eucarestia debbano esser conservati scrupolosamente sotto chiave, perché nessuna mano temeraria possa impadronirsi di essi profanandoli con usi innominabili. Se il custode li abbandona, sia sospeso dall'ufficio per tre mesi; e se per la sua negligenza accadesse qualche cosa di abominevole, sia assoggettato ad una pena più grave.


XXI. Della confessione, dei segreto confessionale, del dovere di comunicarsi almeno a Pasqua

Qualsiasi fedele dell'uno o dell'altro sesso, giunto all'età di ragione, confessi fedelmente, da solo, tutti i suoi peccati al proprio parroco almeno una volta l'anno, ed esegua la penitenza che gli è stata imposta secondo le sue possibilità; riceva anche con riverenza, almeno a Pasqua, il sacramento dell'Eucarestia, a meno che per consiglio del proprio parroco non creda opportuno per un motivo ragionevole di doversene astenere per un certo tempo. Altrimenti finché vive gli sia proibito l'ingresso in chiesa, e - alla sua morte - la sepoltura cristiana. Questa salutare disposizione sia pubblicata frequentemente nelle chiese, perché nessuno nasconda la propria cecità con la scusa dell'ignoranza.
Se poi qualcuno per un giusto motivo volesse confessare i suoi peccati ad un altro sacerdote, prima chieda e ottenga la licenza dal proprio parroco, poiché diversamente l'altro non avrebbe il potere di assolverlo o di legarlo (32).
Il sacerdote, poi, sia discreto e prudente; come un esperto medico versi vino e olio (33) sulle piaghe del ferito, informandosi diligentemente sulle circostanze del peccatore e del peccato, da cui prudentemente possa capire quale consiglio dare e quale rimedio apprestare, diversi essendo i mezzi per sanare l'ammalato.
Si guardi, poi, assolutamente dal rivelare con parole, segni o in qualsiasi modo l'identità del peccatore; se avesse bisogno del consiglio di persona più prudente, glielo chieda con cautela senza alcun accenno alla persona: poiché chi osasse rivelare un peccato a lui manifestato nel tribunale della penitenza, decretiamo che non solo venga deposto dall'ufficio sacerdotale, ma che sia rinchiuso sotto rigida custodia in un monastero, a fare penitenza per sempre.


XXII. Gli infermi provvedano prima all'anima poi al corpo

L'infermità del corpo dipende talora dal peccato, come disse il Signore all'ammalato che aveva sanato: Va e non voler più peccare, perché non debba accaderti di peggio (34), col presente decreto pertanto stabiliamo e comandiamo severamente ai medici dei corpi che quando sono chiamati presso gli infermi, prima di tutto li ammoniscano e li inducano a chiamare i medici delle anime, cosicché dopo che è stato provvisto alla salute spirituale degli infermi, si proceda al rimedio della medicina corporale con maggior efficacia: cessando infatti la causa, cessa anche l'effetto.
Questo decreto è motivato dal fatto che alcuni, quando soffrono, e i medici cercano di persuaderli a provvedere alla salute della loro anima, cadono in una estrema disperazione, da cui segue più facilmente il pericolo di morte.
I medici che trasgredissero, dopo la sua pubblicazione da parte dei prelati locali, questa nostra costituzione, siano esclusi dall'ingresso in chiesa fino a quando non abbiano soddisfatto nel debito modo per questa trasgressione.
Del resto, poiché l'anima è molto più preziosa del corpo, proibiamo ai medici sotto minaccia di anatema di consigliare all'ammalato per la salute del corpo qualche cosa che si risolva in danno per l'anima.


XXIII. Una chiesa cattedrale o regolare non resti vacante oltre tre mesi

Perché il lupo rapace non si impadronisca del gregge del Signore (35) per mancanza del pastore, o non avvenga che una chiesa, priva del suo capo, vada incontro a qualche grave danno nei suoi beni, volendo ovviare ai pericoli delle anime e provvedere alla sicurezza delle chiese, stabiliamo che una chiesa cattedrale o regolare non debba restar vacante oltre i tre mesi; dopo tale termine se, pur cessando il giusto impedimento, non è stata fatta l'elezione, quelli che avrebbero dovuto farla siano privati del potere di eleggere, e questo sia devoluto al superiore immediato.
Quegli cui è passato il potere, avendo Dio dinanzi agli occhi, provveda canonicamente entro tre mesi, col consiglio del capitolo e di altre persone prudenti, alla chiesa rimasta vedova, con persona adatta della stessa chiesa, o, se non se ne trovasse, di un'altra, sotto pena di sanzione canonica.


XXIV. L'elezione per scrutinio o per compromesso

A causa delle diverse forme di elezione, che si cerca sempre di escogitare, sorgono molti impedimenti e grandi pericoli per le chiese vacanti. Stabiliamo che in caso di elezione, alla presenza di tutti quelli che devono, vogliono e possono intervenire, siano scelte nel collegio tre persone che godono la comune fiducia, le quali in segreto raccolgano diligentemente ad uno ad uno il voto di tutti; poi messa ogni cosa in scritto, la pubblichino davanti a tutti. Respinta ogni possibilità di appello, fatto lo spoglio sia proclamato eletto quello che ha ottenuto l'unanimità o il voto della maggioranza, o della parte più qualificata del capitolo. Si potrebbe anche affidare il compito dell'elezione ad un certo numero di persone idonee, che a nome di tutti provvedano alla chiesa vacante il pastore. Ogni altra procedura non sia valida a meno che non sia fatta all'unanimità da tutti, come per ispirazione divina, senza alcuna irregolarità.
Chi tentasse fare una elezione contro le forme prescritte, sia privato, per questa volta, del diritto di elezione.
Proibiamo infine assolutamente che nell'elezione uno possa dare procure, a meno che sia assente, trattenuto da giusto impedimento e non possa venire. Su ciò, se necessario, dia garanzia con giuramento, allora, se vorrà, affidi ad uno dello stesso collegio di fare le sue veci.
Riproviamo anche le elezioni clandestine e stabiliamo che non appena fatta l'elezione, sia pubblicata solennemente.


XXV. L'elezione fatta dal potere secolare è invalida

Chiunque acconsentisse alla propria elezione fatta abusivamente dal potere secolare, contro la libertà canonica, perda l'elezione e diventi ineleggibile; egli non potrà essere eletto a qualche dignità senza la dispensa.
Chi poi osasse fare una elezione di tal genere - che noi dichiariamo invalida ipso jure - sia senz'altro sospeso dagli uffici e dai benefici per un triennio, privo, per quel tempo, del potere di eleggere.


XXVI. Pene contro chi conferma una elezione irregolare

Nulla nuoce maggiormente alla chiesa di Dio, quanto che indegni prelati siano assunti al governo delle anime.
Volendo rimediare a questo male, stabiliamo con un decreto irrevocabile che, quando uno è eletto al governo delle anime, quegli a cui compete la sua conferma esamini con diligenza il procedimento dell'elezione e la persona dell'eletto e se tutto si è svolto secondo le norme, conceda la conferma. Se invece si fosse proceduto con poca prudenza, non soltanto dovrà essere rifiutato chi è stato indegnamente promosso, ma dovrà essere punito anche chi l'ha promosso irregolarmente. Stabiliamo anche che questi, quando consti la sua negligenza, specie se ha approvato un uomo di scienza insufficiente, di vita disonesta, o di età insufficiente non solo sia privato del potere di confermare l'elezione del successore, ma, perché non possa in nessun caso sfuggire alla pena, sia anche sospeso dal percepire i frutti del proprio beneficio, fino a che, se sarà creduto opportuno, non meriti il perdono. Che se poi venisse convinto di aver mancato intenzionalmente, sia sottoposto ad una pena maggiore.
Anche i vescovi, se vogliono sfuggire alla pena canonica, cerchino di promuovere agli ordini sacri e alle dignità ecclesiastiche soggetti che diano affidamento di adempiere degnamente l'ufficio loro affidato.
Quelli che sono immediatamente soggetti al Romano Pontefice, per ricevere la conferma del loro ufficio, se possono si presentino personalmente alla sua presenza, altrimenti inviino persone adatte, capaci di rispondere all'inchiesta sul procedimento dell'elezione e sugli eletti stessi. Finalmente dopo attenta considerazione del complesso della cosa, con, segua la pienezza del suo ufficio, avendo soddisfatto le leggi canoniche. Quelli però le cui sedi sono molto distanti, cioè fuori d'Italia, se sono stati eletti senza opposizione, abbiano provvisoriamente l'amministrazione spirituale e temporale in considerazione della necessità e dell'utilità delle chiese, a patto però che non alienino assolutamente nulla dei beni ecclesiastici. Saranno consacrati o benedetti come si è usato finora.


XXVII. L'istruzione degli ordinandi

Il governo delle anime è l'arte delle arti. Comandiamo, perciò, severamente che i vescovi istruiscano diligentemente quelli che devono essere promossi al sacerdozio, e li formino, o loro direttamente o per mezzo di persone capaci alla celebrazione dei divini uffici e all'amministrazione dei sacramenti. Se in avvenire osassero ordinare degli ignoranti e degli inetti cosa facile da constatare - decretiamo che sia quelli che li ordinano, che gli ordinati stessi debbano sottostare ad una pena grave. E’ meglio, infatti, specie nell'ordinazione dei sacerdoti, avere pochi e buoni ministri, che molti e cattivi, poiché se un cieco fa da guida ad un altro cieco, cadono tutti e due in una fossa (36).


XXVIII. Chi ha chiesto di andarsene ne sia costretto

Qualcuno, dopo aver chiesto insistentemente l'autorizzazione di resignare, una volta ottenutala non intende più andarsene. Ma poiché nella domanda di ritirarsi essi avevano riguardo all'utilità delle chiese o alla propria salute, noi volendo sottrarli agli argomenti di quelli che non cercano che i propri interessi (37) o anche da qualsiasi forma di leggerezza, decretiamo che costoro siano costretti a ritirarsi.


XXIX. Nessuno Può avere due, benefici con cura d'anime

Con molta prudenza nel concilio Lateranense (38) fu proibito che nessuno ricevesse, contro le prescrizioni dei sacri canoni, diverse dignità ecclesiastiche e più chiese parrocchiali sotto pena per il beneficiario di perdere il beneficio stesso e per chi l'avesse conferito di essere privato del diritto di collazione. Ma poiché l'audacia e l'avidità di taluno ha privato di effetti tale decreto, noi volendo rimediare in modo più chiaro e più deciso, stabiliamo, col presente decreto, che chiunque riceve un beneficio che abbia annessa la cura delle anime, se prima ne aveva uno simile lo perda isso jure e se tentasse di tenerli entrambi, sia privato anche del secondo.
Inoltre, chi ha diritto di conferire il primo beneficio, dopo che il beneficiato ha ricevuto il secondo, può tranquillamente assegnarlo a chi crederà degno e se tarderà più di tre mesi ad assegnarlo, non solo secondo la prescrizione del concilio Lateranense (39), l'assegnazione del beneficio passa ad altri, ma egli sarà costretto a devolvere a beneficio della chiesa, cui appartiene quel beneficio, una parte dei suoi proventi pari a quanto ha ricavato da esso durante la vacanza.
Stabiliamo che la stessa prescrizione debba osservarsi anche per i personali, aggiungendo che nella stessa chiesa nessuno possa avere più dignità o personali, anche se non importino cura d'anime. Tuttavia, se si tratta di persone nobili o versate nelle lettere, degne di essere onorate con maggiori benefici, quando le circostanze lo richiedono, la sede apostolica potrà dispensare.


XXX. Circa l'idoneità per essere addetti alle chiese

Assai grave e addirittura assurdo che i prelati delle chiese, potendo promuovere ai benefici ecclesiastici soggetti idonei, non abbiano ritegno ad assumere degli indegni, che non si raccomandano né per onestà di costumi, né per istruzione. In ciò essi seguono la voce della carne, non la ragione. Ora, nessuno, che sia sano di mente, ignora quanti danni ne derivino.
Volendo, quindi, rimediare a questo stato di cose, stabiliamo che, deposti gli indegni, siano nominate al loro posto persone adatte, che vogliano e possano prestare a Dio e alle chiese un grato servizio, e che si faccia ogni anno, su questo argomento, un esame diligente al concilio provinciale; chi, dopo un primo ed un secondo ammonimento fosse trovato colpevole, venga sospeso dallo stesso concilio dal conferire i benefici, e nel medesimo concilio sia eletta una persona prudente ed onesta, che nel conferimento dei benefici possa supplire chi è stato sospeso. Lo stesso si osservi per quanto riguarda i capitoli che avessero mancato su questo punto. Se poi fosse il metropolita a mancare, la sua trasgressione sia lasciata al giudizio del superiore, su denunzia del concilio.
Perché questo salutare provvedimento possa conseguire efficacemente il suo effetto, questa sentenza di sospensione non sia sciolta assolutamente da nessuno, fuorché dall'autorità del Romano pontefice o dal patriarca perché, anche in ciò, le quattro sedi patriarcali siano particolarmente onorate.



Note
(1) Opera persa, cfr. F. RUSSO, bibliografia gioachimita, Firenze 1954, p. 23
(2) PETRI LOMBARDI, Libri IV sententiarum, I dist, 5, I, Ad claras Aquas, 1916, pp. 42-51
(3) At 4, 32
(4) I Cor 6, 17
(5) I Cor 3, 8
(6) Rm 12, 5
(7) IV Re 22, 5; Cfr. Rt 1, 16
(8) Gv 17, 22-23
(9) I Gv 5, 7-8
(10) Gv 10, 29
(11) Gv 17, 22
(12) Mt 5, 48
(13) Amalrico da Bena (+1204), Cfr. H: GRUNDMANN, movimenti religiosi nel Medioevo, Bologna, 1974, 310-312 e 346-348
(14) Cfr. Gdc 15, 4
(15) II Tm 3, 5
(16) Rm 10, 15
(17) Gv 10, 16
(18) Cfr. Ez 3, 18; 33, 8
(19) Innocenzo III, in c. 17, X, V, 1 (Friedburg, 2, 738-739)
(20) Lc, 16, 2
(21) Gn 18, 21
(22) Lam 3, 12
(23) Cfr. Gdc 16, 30
(24) Cioè la notificazione del nome dell'accusatore e il suo impegno ad accettare una pena equivalente a quella richiesta per l'accusato nel caso in cui l'accusa risultasse calunniosa.
(25) Lc 16, 2
(26) Mt 4, 4; Cfr. Dt 8, 3; Lc 4, 4
(27) Cfr Lc 24, 19
(28) Lateranense III (1179), c. 18 (COD, 220)
(29) Ef 5, 6
(30) Mc 11, 16
(31) Cfr. Sal 68, 10 e Gv 2, 17
(32) Cfr. Mt 16, 19; 18, 19
(33) Cfr Lc 10, 34
(34) Gv 8, 11; 5, 14
(35) Cfr Gv 10, 12
(36) Lc 6, 39; Mt 15, 14
(37) Fil 2, 21
(38) Concilio Lateranense III (1179) c. 13 (COD. 218)
(39) Concilio Lateranense III (1179) c. 8 (COD. 215)




Home Page | Niceno I | Costantinopolitano I | Efesino | Calcedonese | Costantinopolitano II | Costantinopolitano III | Niceno II | Costantinopolitano IV | Lateranense I | Lateranense II | Lateranense III | Lateranense IV | Lionese I | Lionese II | Viennese | Di Costanza | Fiorentino | Lateranense V | Tridentino | Vaticano I | Vaticano II | TORNA AL SITO | Mappa del sito


Menu di sezione:


Torna ai contenuti | Torna al menu