I CONCILI DELLA CHIESA CATTOLICA


Vai ai contenuti

Menu principale:


Costituzioni XXXI - LXXI

Lateranense IV


XXXI. I figli dei canonici non devono essere eletti dove prestano servizio i loro padri

Per far cessare la pessima corruzione invalsa nella maggior parte delle chiese, proibiamo con ogni fermezza che figli di canonici, specie se illegittimi, siano eletti canonici nelle chiese secolari, nelle quali servono i loro padri. E se si osasse fare il contrario, ciò sia nullo; chi, poi, presumesse di nominar canonici questi tali, sia sospeso dai suoi benefici.


XXXII. I patroni lascino al clero una quota conveniente

Bisogna estirpare un costume abusivo che ha preso piede in alcune regioni: chi ha diritto di patronato sulle chiese parrocchiali ed altre persone, rivendicando a sé, completamente, i proventi delle stesse chiese, lasciano ai sacerdoti addetti ad esse una quota cosi misera, che essi non possono mantenersi con sufficiente dignità. Infatti, come abbiamo potuto sapere con certezza i sacerdoti addetti alle parrocchie non hanno assegnata, per il loro sostentamento, se non la quarta parte del quarto, cioè, un sedicesimo delle decime. Avviene, di conseguenza, che in queste regioni non si trovi quasi un parroco che abbia una pur minima conoscenza delle lettere.
E poiché non si deve legar la bocca al bue che tritura (il fieno) (40), e chi serve all'altare deve vivere dell'altare (41), stabiliamo che, nonostante qualsiasi consuetudine in contrario del vescovo, del patrono o di qualsiasi altro, venga assegnata ai sacerdoti una quota ad essi sufficiente.
Chi ha una chiesa parrocchiale non deve soddisfare al suo servizio per mezzo di un vicario, ma personalmente, secondo che la cura della stessa chiesa richiede, a meno che la chiesa parrocchiale sia annessa ad una prebenda o ad una dignità. In questo caso permettiamo che colui che ha tale prebenda o dignità, essendo necessario che egli presti il suo servizio presso la chiesa maggiore, abbia nella stessa chiesa parrocchiale un vicario adatto e permanente, canonicamente eletto, il quale, come si è detto, abbia una quota conveniente dei proventi stessi della chiesa. Diversamente, il parroco deve considerarsi privato di essa, che può quindi essere liberamente assegnata ad altri, che voglia e possa adempiere quanto stabilito.
Proibiamo, poi, assolutamente che qualcuno, con frode delle rendite ecclesiastiche, possa dare ad altri una pensione sui redditi di una chiesa che debba provvedere ad un proprio sacerdote.


XXXIII. Non si ricevano le prestazioni stabilite senza effettuare le visite

Le prestazioni dovute ai vescovi, agli arcidiaconi e a; chiunque altro, anche ai legati e ai nunzi della sede apostolica, in occasione della visita (pastorale), non devono essere esigite senza un motivo evidente e necessario se non quando essi compiono personalmente la visita. Le cavalcature e il seguito siano regolati nella misura prescritta dal concilio Lateranense (42). Quando i legati o i nunzi della sede apostolica dovessero fermarsi necessariamente in un luogo, perché questo non sia troppo aggravato per causa loro, essi ricevano contributi moderati da altre chiese e persone che non siano state ancora sottoposte a queste prestazioni, e la loro entità non superi la durata del soggiorno. E quando una, da sé, non fosse sufficiente, si uniscano in due o anche in più.
Inoltre, i visitatori non cerchino il proprio utile, ma la gloria di Cristo (43) predicando, esortando, correggendo e riformando, in vista di frutti imperituri.
Chi, poi, avesse agito contro questa prescrizione, restituisca ciò che ha ricevuto, e altrettanto dia alla chiesa che ha così aggravato.


XXXIV. Non bisogna gravare i sudditi col pretesto di qualche prestazione

Poiché la maggior parte dei prelati per dare ad un legato o ad altri quanto stabilito per una missione o un servizio, esigono dai loro sudditi più di quanto essi in realtà pagano, e volgendo a loro profitto i loro danni considerano i propri soggetti come una preda più che come un aiuto, proibiamo che in seguito si continui a fare cosi. Chi osasse agire in tal modo restituisca quanto ha estorto, e sia costretto a dare altrettanto ai poveri.

XXXV. Si deve esporre la causa per cui uno si appella

Perché sia reso ai giudici l'onore dovuto e ai contendenti le pene e le spese stabiliamo che quando uno cita un avversario dinanzi ad un legittimo giudice, non può appellare, prima della sentenza, ad un giudice superiore senza un motivo ragionevole, ma cerchi di ottenere giustizia dinanzi al primo giudice senza che possa invocare di aver inviato un messaggio al giudice superiore, o anche di aver ottenuto da lui delle lettere, prima che queste siano state rimesse al giudice delegato.
Se poi egli crederà, per motivi ragionevoli, di appellarsi, esposte dinanzi allo stesso giudice le prove che motivano il suo appello (motivo sufficiente è quello che, se fosse approvato, dovrebbe esser ritenuto legittimo), il superiore sia messo a conoscenza dell'appello. Se riconoscerà che l'appello è infondato, rimetta la causa al giudice inferiore, e condanni l'appellante a pagare le spese all'altra parte, altrimenti proceda lui stesso, salva la riserva alla sede apostolica delle cause maggiori.


XXXVI. Il giudice può revocare una sentenza interlocutoria e comminatoria

Poiché col cessare della causa cessa anche l'effetto, stabiliamo che qualora un giudice, sia ordinario che delegato, avesse emesso una sentenza comminatoria o interlocutoria, la cui esecuzione pregiudicherebbe uno dei contendenti, e con saggia decisione avesse rinunziato ad eseguirla, proceda pure liberamente all'istruttoria della causa, nonostante ogni appello interposto contro tale sentenza comminatoria o interlocutoria - purché non sorga qualche motivo di legittima suspicione - perché il procedimento della causa non venga ritardato con frivoli pretesti.


XXXVII. Non si devono richiedere lettere per più di due giornate di cammino
e senza uno speciale mandato


Alcuni, abusando del favore della sede apostolica, cercano di ottenere le lettere che rinviino a giudici lontani, di modo che il convenuto, stanco delle noie e delle spese, o rinunzi alla lite, o sia costretto a trovare un accordo con chi gli ha intentato la causa.
Ma poiché la giustizia non deve aprire la via all'ingiustizia, che l'osservanza del diritto proibisce, stabiliamo che nessuno per oltre due giornate di cammino possa esser tratto in giudizio fuori della sua diocesi con lettere apostoliche, a meno che non siano state ottenute di comune accordo dalle parti, e con espresso riferimento a questa costituzione.
Vi sono altri che, con mercimonio di nuovo genere, affinché possano risuscitare liti ormai sopite, o causare nuove questioni, inventano delle cause per le quali chiedono lettere alla sede apostolica senza il mandato dei loro signori. Queste lettere, poi, le vendono al convenuto che teme le noie e le spese che possono derivargliene; o all'attore, perché possa infastidire l'avversario con pressioni indebite. Poiché le liti sono piuttosto da limitarsi che da ingrandirsi, con questo generale decreto stabiliamo che se qualcuno, in seguito, osasse chiedere lettere apostoliche su qualche questione senza uno speciale mandato, queste lettere non abbiano alcun valore, ed egli sia punito come falsario, a meno che non si tratti di quelle persone, dalle quali non si deve esigere, a norma del diritto, alcun mandato.


XXXVIII. Gli atti vanno scritti perché possano servire come prova

Poiché contro l'asserzione falsa di un giudice malvagio un litigante innocente non può, qualche volta, provare di aver veramente negato una cosa - poiché la negazione per sé non può esser considerata, per la natura stessa delle cose, una prova diretta - affinché la falsità non porti pregiudizio alla verità, o l'iniquità prevalga sull'equità, disponiamo che tanto nel giudizio ordinario, quanto in quello straordinario, il giudice si serva sempre, se lo può, di una persona pubblica, o di due persone adatte le quali scrivano fedelmente tutti gli atti del giudizio, e cioè: le citazioni, le dilazioni, le rinunzie e le accettazioni, le domande e le risposte, gli interrogatori, le confessioni, le deposizioni dei testimoni, le presentazioni di documenti, le interlocuzioni, gli appelli, le rinunzie, le conclusioni e tutto ciò che occorre dover scrivere nel dovuto ordine. Si indichino, inoltre, i luoghi, i tempi, le persone; e dopo aver scritto cosi ogni cosa, sia comunicata alle parti, ma gli originali rimangano presso gli scrittori, cosicché, se dovesse sorgere intorno al procedimento del giudice qualche contestazione, con questi atti possa esser dimostrata la verità. Si usi, poi, questa precauzione, di affidare, cioè, (la causa) a giudici talmente onesti e discreti, che la giustizia degli in- nocenti non sia lesa da (giudici) imprudenti e parziali.
I giudici che trascurassero di osservare questa disposizione, se per la loro negligenza dovesse sorgere qualche difficoltà, siano puniti dal giudice superiore con pena adeguata, e la loro procedura non sia ammessa, se non in quanto risulti da legittimi documenti.


XXXIX. Bisogna restituire anche quei beni che il possessore non ha personalmente sottratto

Avviene spesso che qualcuno venga spogliato ingiusta- mente e che questo bene passi dallo spogliatore ad un altro, così che la restituzione non può avvenire mediante un'azione contro il possessore, e perduto il possesso, per la difficoltà di provarlo, si perde anche il diritto di proprietà.
Quindi, nonostante il rigore della legge civile, stabiliamo che se qualcuno viene scientemente in possesso di tale cosa, succede nella colpa a chi ha spogliato - non c'è molta differenza, infatti, specie per il pericolo dell'anima, fra il possedere ingiustamente e l'impossessarsi di ciò che è di altri - contro un tale possessore si venga in soccorso di colui che è stato spogliato con la restituzione.


XL. Del possesso legittimo

Avviene, qualche volta, che, per la contumacia della parte avversa si conceda all'attore il possesso di un bene perché lo conservi. Questo attore, però, per la resistenza del detentore, o per inganno, non riesce ad avere entro un anno quanto deve custodire; o, dopo averlo avuto, lo perde. In tal modo, secondo molti, trascorso un anno, questi non diventa legittimo possessore e il reo trae vantaggio dalla sua scaltra malizia. Perché, dunque, non avvenga che chi è contumace non si trovi in migliore condizione di chi è ossequiente alla legge, stabiliamo conforme all'equità canonica che, nel caso predetto, l'attore venga ad esser possessore legittimo anche dopo un anno.
Inoltre, proibiamo, in genere, che nelle questioni spirituali si rimetta la decisione ad un laico: non è bene, infatti, che un laico debba risolvere tali problemi.


XLI. In ogni prescrizione la buona fede deve essere ininterrotta


Poiché ciò che non è secondo la fede è peccato (44), con giudizio sinodale definiamo che nessuna prescrizione, sia canonica che civile, abbia valore senza la buona fede dovendosi generalmente derogare a qualsiasi costituzione e consuetudine che non possa essere osservata senza peccato mortale. E’ necessario quindi, che chi invoca la prescrizione in nessun momento abbia la consapevolezza di possedere una cosa d'altri.


XLII. Della giustizia secolare

Come noi vogliamo che i laici non usurpino i diritti dei chierici, così dobbiamo impedire che questi si approprino dei diritti dei laici.
Proibiamo, quindi, assolutamente a tutti i chierici di estendere, col pretesto della libertà ecclesiastica, la loro giurisdizione a scapito della giustizia secolare. Ciascuno si accontenti delle norme scritte e delle consuetudini finora approvate, in modo che sia reso a Cesare ciò che è di Cesare, e sia reso a Dio, con giusta attribuzione, quello che è di Dio (45).


XLIII. Nessun chierico presti fedeltà ad un laico, senza sufficiente motivo

I laici cercano di usurpare troppo frequentemente il diritto divino, quando costringono gli ecclesiastici a prestare loro giuramento di fedeltà, anche se questi non hanno ricevuto da parte loro alcun bene temporale.
Ma poiché secondo l'apostolo un servo sta in piedi o cade secondo il Signore (46), proibiamo, con l'autorità del sacro concilio, che tali chierici siano costretti a prestare giuramento a persone secolari.


XLIV. Le costituzioni dei Principi non devono Portar pregiudizio alle chiese.

Ai laici, anche se pii, non è stato dato alcun potere di disporre dei beni ecclesiastici: essi sono tenuti a obbedire e non a comandare. Deploriamo, quindi, in alcuni di essi l'intiepidimento della carità al punto che non hanno alcun ritegno ad impugnare con le loro costituzioni, o piuttosto con le loro invenzioni, la libertà ecclesiastica che anche i principi secolari, per non dire dei santi padri, hanno voluto garantita con molti privilegi. Ciò fanno, illecitamente, non solo con l'alienazione dei feudi e di altri beni ecclesiastici e usurpazione delle giurisdizioni, ma anche le fondazioni mortuarie ed altri diritti connessi con lo spirituale.
Volendo, perciò, salvaguardare in queste cose gli interessi delle chiese e provvedere contro l'imposizione di così gravi pesi, con la approvazione del santo concilio, noi decretiamo che tali costituzioni e approvazioni di feudi o di altri beni ecclesiastici, prese, senza il consenso legittimo delle persone ecclesiastiche, dal laico potere, non hanno alcun valore - non possono infatti chiamarsi costituzione, ma destituzione o distruzione e addirittura usurpazione delle giurisdizioni - e che si ha il dovere di reprimere quelli che osassero perpetrare queste cose con la censura ecclesiastica.


XLV. Quel Patrono che uccide o mutila il chierico di una chiesa perde il diritto di Patronato

In alcune province i patroni delle chiese, i loro vicari e gli avvocati sono diventati così insolenti che, non solo, quando si tratta di provvedere alle chiese vacanti idonei pastori, frappongono difficoltà ed inganni, ma presumono anche di disporre a loro arbitrio dei possessi e degli altri beni ecclesiastici, e (cosa orribile a dirsi) non temono di giungere a uccidere dei prelati.
Ma poiché ciò che è destinato alla difesa non deve essere ritorto a danno ed oppressione, proibiamo espressamente che i patroni, vicari o avvocati, possano trasformarsi in usurpatori, più di quanto non permetta il diritto. Se poi credessero di poter fare il contrario, siano severissimamente puniti col rigore delle pene canoniche.
Stabiliamo, tuttavia, con l'approvazione del santo concilio, che, se i patroni, gli avvocati, i feudatari, i vicari o altri beneficiati osassero, con empia audacia, uccidere o mutilare, sia essi direttamente, sia per mezzo di altri, il rettore di una chiesa o altro chierico di essa, perdano senz'altro: i patroni, il loro diritto di patronato; gli avvocati, la loro avvocatura; i feudatari, il loro feudo; i vicari, il loro vicariato; i beneficiati, il loro beneficio. E perché il ricordo della pena non sia tramandato meno a lungo del delitto commesso, niente dei succitati passi agli eredi, ma i loro discendenti non potranno essere ammessi fra i chierici fino alla quarta generazione, né potranno conseguire qualsiasi onore di prelazione nelle case religiose, a meno che non abbiano ottenuto benevolmente la dispensa.


XLVI. Non si devono imporre tasse al clero

Contro i consoli e i governatori delle città, ed altri, che cercano di gravare le chiese e le persone ecclesiastiche con imposte o collette ed altre tasse, il concilio Lateranense (47), volendo salvaguardare l'immunità ecclesiastica, ha proibito questo gravame sotto pena di anatema e ha comandato che i trasgressori e i loro fautori fossero sottoposti ad esso, fino a che avessero compiuto la dovuta riparazione. Se qualche volta il vescovo ed il clero ammettono, in caso di grande necessità o utilità e senza alcuna costrizione, di contribuire alle comuni necessità quando le possibilità dei laici non fossero sufficienti, questi accettino il loro contributo con umiltà, devozione, e riconoscenza. Ma poiché alcuni sono imprudenti si dovrà prima consultare il Romano pontefice, il cui compito è di provvedere alle comuni necessità.
Ma poiché neppure così la malvagità di alcuni contro la chiesa di Dio si è calmata, aggiungiamo che le disposizioni e le sentenze promulgate da questi scomunicati o per loro mandato si devono ritenere vane e inutili, e senza alcun valore per sempre.

Del resto, poiché la frode e l'inganno non devono tornare a vantaggio di alcuno, nessuno sia tratto in inganno da questo inutile errore, che, cioè, egli debba sottostare alla scomunica (solo) durante il tempo del suo governo, quasi che dopo di esso non possa essere obbligato alla dovuta soddisfazione. Decretiamo, infatti, che sia chi ha ricusato la soddisfazione, il suo successore, se non avrà riparato entro un mese, siano irretiti nella censura ecclesiastica, finché questi abbia convenientemente riparato; chi, infatti, succede nell'onore, succede anche negli oneri.


XLVII. La forma della scomunica

Con l'approvazione del santo concilio, proibiamo che uno possa promulgare una sentenza di scomunica contro qualcuno, senza aver fatto precedere la dovuta ammonizione alla presenza di persone qualificate, le quali, se necessario, possano provare che l'ammonizione è stata fatta. Se invece egli intendesse agire diversamente, sappia che, se anche la sentenza di scomunica fosse giusta, gli sarà proibito l'ingresso nella chiesa per un mese, senza pregiudizio di un'altra pena, eventualmente giudicata opportuna. Si guardi bene anche, con molta diligenza, dall'infliggere a chiunque la scomunica senza un motivo chiaro e plausibile. Se per caso ciò fosse avvenuto, e, richiesto umilmente, non si curasse di revocare la sentenza senza imporre pene, quegli che ne è stato colpito sporga querela per l'ingiusta scomunica presso il superiore. E se questi può farlo senza che il ritardo porti alcun pericolo, lo rimandi da chi l'ha scomunicato con un suo mandato perché venga assolto entro un tempo conveniente; se no, egli, o direttamente, o per mezzo di altri, come meglio gli sarà sembrato, l'assolva, naturalmente con la debita garanzia.
Quando poi risultasse chiaramente a carico dello scomunicante che la scomunica è stata ingiusta, egli venga condannato a pagar i danni a chi è stato scomunicato; e anzi potrà esser punito anche diversamente ad arbitrio del superiore, se la qualità della colpa lo richiedesse: non è, infatti, lieve colpa infliggere una pena così grave ad un innocente (a meno che l'errore non dipenda da un ragionevole motivo) specie se persona di buon nome.
Se, però, chi ha presentato ricorso non porta alcun argomento degno di considerazione, anche lui per questa ingiusta noia che ha causato col suo ricorso sia condannato a rifondere i danni e ad altre pene ad arbitrio del giudice d'appello, a meno che anch'egli non sia scusato da un comprensibile errore. Quanto all'errore oggetto della giusta scomunica egli sarà tenuto a soddisfare con la cauzione ricevuta, oppure sia riportato alla prima sentenza fino alla dovuta soddisfazione: cosa da osservarsi assolutamente.
Se poi il giudice, riconoscendo il proprio errore, è pronto a revocare tale sentenza, e quegli, per cui è stata emanata, si appelli nel timore che essa venga revocata senza soddisfazione, non si tenga conto dell'appello, a meno che l'errore sia di tale natura, per cui giustamente si debba dubitare. In questo caso, avuta sufficiente garanzia dì presentarsi all'istanza d'appello o ad un suo delegato, il giudice si conformerà alle norme del diritto, assolverà chi è stato scomunicato, evitando cosi la pena, guardandosi bene dall'addurre, con perversa intenzione, un errore fittizio a danno dell'altro, se vuole sfuggire la pena delle norme canoniche.


XLVIII. Del modo di ricusare il giudice

Essendosi provveduto con una speciale proibizione che nessuno osi promulgare una sentenza di scomunica contro qualcuno senza la prescritta ammonizione, volendo anche provvedere che chi è ammonito, con la scusa di una ricusazione o di un appello non possa evitare l'esame di chi lo ammonisce, stabiliamo che se egli adducesse la suspicione del giudice sospetto, dovrà specificare dinanzi a lui la causa del suo giusto sospetto. Poi con l'avversario, o, se non abbia un avversario, col giudice stesso elegga di comune accordo gli arbitri, o, qualora non sia possibile accordarsi, ne eleggano, senza intenzioni di ingannare, uno lui e uno l'altro, perché possano esaminare il motivo del sospetto. Nel caso che non riescano ad accordarsi sulla sentenza, chiamino un terzo, di modo che quello che decideranno due di essi abbia forza di sentenza.
Sappiano anche, costoro, che sono tenuti ad eseguire ciò scrupolosamente in forza del precetto loro imposto da noi in virtù di santa obbedienza con la minaccia del divino giudizio.
Qualora la causa di sospetto non fosse trovata legittima dinanzi ad essi nei termini di tempo stabiliti, il giudice usi pure della sua giurisdizione. Ma una volta che essa sia stata legittimamente provata, colui il cui giudizio è stato ricusato, con il consenso di chi l'ha ricusato affidi tutta la faccenda a persona idonea, o la trasmetta al superiore, perché egli proceda alla sua risoluzione, nel modo prescritto.
Tuttavia, se, pur interponendo appello colui che è stato ammonito, la sua colpa si rendesse legittimamente manifesta o per l'evidenza della cosa in sé, o per la confessione del reo, o in altro modo, in questo caso, poiché il diritto di appello è stato istituito a difesa dell'innocenza e non dell'iniquità, non si deve dar corso all'appello. E se anche la colpa fosse solo dubbia, perché chi si appella non possa col diversivo di un appello inconsistente impedire il processo del giudice, egli esponga dinanzi a lui la causa del suo appello, purché degna di approvazione, tale, cioè, che se fosse approvata dovrebbe esser considerata legittima. E allora, se vi è un avversario entro un termine che lo stesso giudice dovrà determinare, tenendo conto, naturalmente, della distanza dei luoghi, della qualità del tempo e della natura della cosa, prosegua la causa di appello; se poi l'interessato non si curasse di proseguirla, il giudice, nonostante l'appello, proceda.
Non presentandosi alcun avversario, poiché il giudice procede ex officio, una volta approvata dinanzi al superiore la causa di appello, il superiore faccia il suo dovere come gli viene indicato dalla sua giurisdizione. Ma se colui che si è appellato non riuscirà a provare (il motivo del suo appello), sia rinviato a colui, da cui è chiaro che ha appellato in cattiva fede.
Non vogliamo, ad ogni modo, che le due precedenti costituzioni siano estese ai religiosi, che hanno le loro norme speciali.


XLIX. La pena per chi infligge ingiustamente una scomunica

Sotto minaccia del giudizio divino, comandiamo assolutamente che nessuno, per cupidigia, osi legare qualcuno col vincolo della scomunica, o assolvere chi è legato, specie in quelle regioni nelle quali per consuetudine chi viene assolto dalla scomunica è unito con una pena pecuniaria. Stabiliamo, quindi, che quando sia certo che la sentenza di scomunica sia stata ingiusta, colui che l'ha inflitta sia costretto, sotto minaccia di censura ecclesiastica, a restituire il denaro cosi estorto, e, a meno che non sia stato ingannato da un comprensibile errore, paghi una ugual somma a chi è stato danneggiato, e, se non fosse in grado di pagare, sia punito con altra pena.


L. La restrizione degli impedimenti del matrimonio

Non si deve ritenere negativo che, a seconda del mutare dei tempi, le prescrizioni umane possano mutare, specialmente se ciò sia determinato da grave necessità o da evidente utilità. Anche Dio, infatti, nel Nuovo testamento ha mutato qualche cosa di quanto aveva stabilito nell'Antico. Poiché, dunque, la proibizione di contrarre il matrimonio nel secondo e terzo grado di affinità, e di attribuire la prole nata dalle seconde nozze alla parentela del primo marito, importa talvolta delle difficoltà e anche pericolo per le anime, affinché cessando la proibizione cessi l'effetto, con l'approvazione del santo concilio revochiamo le costituzioni promulgate a questo riguardo e stabiliamo, con la presente la libertà di contrarre in avvenire tali matrimoni.
Anche la proibizione del matrimonio in seguito non ecceda il quarto grado di consanguineità e di affinità: oltre questi gradi, infatti, è difficile, generalmente, che si possa osservare questa proibizione senza grave incomodo. Il numero di quattro, infatti, si addice bene alla proibizione dell'unione del corpo, di cui l'apostolo dice che l'uomo non ha la potestà del proprio corpo, ma la donna e neppure la donna ha la Potestà del sito corpo, ma l'uomo (48), perché quattro sono gli umori nel corpo, che è formato dai quattro elementi.
Essendo, dunque, ormai, la proibizione dell'unione matrimoniale ristretta al quarto grado, intendiamo che essa abbia valore per sempre, nonostante le costituzioni emanate su questo argomento già da lungo tempo sia da altri che da noi stessi. Cosicché se qualcuno osasse unirsi in matrimonio contro questa proibizione, non sia scusato dai molti anni trascorsi, poiché la lunghezza del tempo non diminuisce il peccato, ma lo aggrava, e poiché i delitti sono tanto più gravi, quanto più a lungo tengono incatenata l'anima infelice.


LI. Pene per chi contrae matrimonio clandestino

Revocato l'impedimento al matrimonio nei tre ultimi gradi, vogliamo però che esso venga scrupolosamente osservato negli altri. Seguendo, perciò, i nostri predecessori proibiamo assolutamente i matrimoni clandestini e proibiamo anche che qualsiasi sacerdote vi assista.
Estendiamo, perciò, in generale la consuetudine vigente in alcuni luoghi e stabiliamo che, quando si deve contrarre matrimonio, i sacerdoti li pubblichino nelle chiese e si stabilisca un termine entro il quale chi volesse e potesse dimostrarlo opponga legittimo impedimento. I sacerdoti, poi, cerchino di investigare anch'essi se vi sia qualche impedimento. E se si presenta qualche sospetto degno di considerazione contro questa unione, il contratto sia senz'altro sospeso, finché appaia chiaramente il da farsi.
Se questi matrimoni clandestini o impediti nel grado proibito, anche senza saperlo, fossero stati contratti, i figli nati da tale unione siano considerati senz'altro legittimi, e non gioverà l'ignoranza dei genitori, poiché essi, contraendo il matrimonio in tal modo, sembrano non ignorare la legge quanto piuttosto affettarne l'ignoranza. Ugualmente illegittima sia considerata la prole, quando i genitori, pur sapendo esservi un impedimento legale, contro ogni proibizione contraessero il matrimonio al cospetto della chiesa. E il parroco che avesse trascurato di impedire tali unioni, o anche qualsiasi religioso che avesse osato assistere ad esse, sia sospeso dal suo ufficio per tre anni e sia punito anche più gravemente, se la natura della colpa lo richiedesse.
Anche a chi contraesse matrimonio segreto, entro i limiti di un grado permesso, sia imposta una penitenza proporzionata.
Se poi qualcuno adducesse con malignità qualche impedimento per impedire una legittima unione, costui non sfuggirà la punizione della chiesa.

LII. La testimonianza per sentito dire non è accettabile nelle cause matrimoniali

Anche se altre volte, per necessità, fu stabilito, al di fuori della forma consueta, che nel computare i gradi di consanguineità e di affinità potesse valere la testimonianza per sentito dire, tuttavia per la brevità della vita umana è impossibile che testimoni de visu possano testimoniare per il computo fino al settirno grado. Molti esempi e l'esperienza hanno insegnato che da ciò sono derivati molti pericoli per i matrimoni legittimi, pertanto stabiliamo che, su questo argomento, non siano più ammesse testimonianze per sentito ,dire, dal momento che ormai la proibizione non supera il quarto grado, a meno che si tratti di persone serie, alle quali giustamente si debba prestar fede, e che abbiano appreso quanto testificano prima che iniziasse la lite, dai loro ascendenti; non da uno, si badi bene, poiché uno non sarebbe sufficiente neppure se vivesse, ma almeno da due; e non da persone sospette, ma da gente degna di fede e superiore ad ogni sospetto: sarebbe, infatti, assurdo ammettere persone di cui sarebbero riprovate le azioni. Anche se uno avesse appreso da molti quello che attesta, o quelli di reputazione incerta l'avessero sentito dire da persone di buona fama, non per questo devono esser considerati come più testi, e idonei, poiché anche secondo il consueto modo di procedere dei giudizi, non è sufficiente l'attestazione di un teste solo, anche se rivestito di una funzione di responsabilità e gli atti legittimi sono interdetti agli infami.
Questi testimoni, dopo aver confermato con giuramento che essi non sono stati spinti a deporre da motivi di odio, di timore, di amore, o di utilità, indichino espressamente le persone col loro proprio nome, o in modo da lasciarlo capire, cioè con una circonlocuzione sufficientemente chiara; distinguano con chiaro computo i singoli gradi dell'una e dell'altra linea di parentela; e concludano, nel loro giuramento, che essi hanno appreso ciò che depongono dai loro antenati, e che credono che in realtà le cose stiano così.
Ma neppure testimoni così sono sufficienti se non giurano di aver conosciuto persone appartenenti almeno ad uno dei gradi predetti, le quali si ritenevano consanguinei. E’ preferibile, infatti, lasciar qualcuno unito in matrimonio contro le prescrizioni degli uomini, che separare chi è legittimamente unito, contro le prescrizioni del Signore.


LIII. Di chi dà a coltivare ad altri le proprie terre per frodare le decime

In alcune regioni convivono popolazioni che, secondo i loro riti, non usano pagare le decime, pur essendo cristiane. A questa gente alcuni padroni affidano i loro fondi, perché li coltivino; e così, defraudando le chiese delle decime, aumentano i loro proventi.
Volendo preservare i diritti delle chiese, stabiliamo che i padroni che affittano i loro campi a tali persone paghino integralmente le decime alle chiese e, se fosse necessario, vi siano costretti con le censure ecclesiastiche poiché le decime sono dovute per legge divina o per una consuetudine locale consolidata.


LIV. Le decime devono esser pagate prima dei tributi

Non essendo in potere dell'uomo che il seme risponda alle attese di chi semina - secondo la parola dell'Apostolo, infatti, né chi pianta è qualcosa, né chi irriga, ma Dio che fa crescere (49) potendo solo lui dal seme marcito produrre molti frutti (50) - con avarizia alcuni cercano di defraudare le decime, detraendo dalle messi e dalle primizie i censi e i tributi, che così sfuggono alle decime.
Poiché il Signore, come segno del suo dominio universale, e come a titolo speciale, si è riservato le decime, noi, volendo ovviare al danni derivanti alle chiese e ai pericoli per le anime, stabiliamo che, in forza del dominio generale, l'esazione dei tributi e dei censi sia preceduta dal pagamento delle decime, o che, almeno, quelli a cui fossero stati pagati i censi e i tributi senza che su questi siano state detratte le decime, poiché i beni passano con gli oneri inerenti, siano costretti a pagare le decime a favore delle chiese, cui spettano di diritto, sotto pena di censura ecclesiastica.


LV. Nonostante i privilegi, devono esser pagate le decime delle terre che si acquistano

Recentemente, gli abati dell'ordine Cistercense, riuniti in capitolo generale, in seguito a nostro ammonimento hanno stabilito opportunamente che per l'avvenire i fratelli del loro ordine non acquistino beni soggetti a decime per le Chiese, se non per la fondazione di nuovi monasteri. Se poi tali beni fossero loro offerti dalla pia devozione dei fedeli, o acquistati per la fondazione di nuovi monasteri li affidino, per farli lavorare, ad altri, da cui siano pagate le decime, perché non avvenga che a causa dei loro privilegi le chiese siano ulteriormente aggravate.
Decretiamo, quindi, che per le terre concesse ad altri o da acquistare in futuro, anche se le lavoreranno con le proprie mani o a proprie spese, paghino le decime alle chiese, alle quali per tali fondi si pagavano prima, a meno che non si componga la cosa con le chiese in altro modo.
Noi certi della bontà di questa disposizione vogliamo che sia estesa agli altri religiosi che godono di simili privilegi, e comandino che i prelati delle chiese siano più zelanti nel far loro rendere giustizia per i danni che ricevono e nel far rispettare i loro privilegi.


LVI. Un parroco non deve perdere le decime a seguito di intese private

La maggior parte dei regolari, come abbiamo appreso, e dei chierici secolari, qualche volta, quando affittano le case o concedono i feudi, aggiungono con pregiudizio delle chiese parrocchiali la clausola che i conduttori e i feudatari paghino ad essi le decime e scelgano di esser sepolti presso di loro.
Poiché ciò procede dall'avarizia, riproviamo assolutamente tale genere di patti e stabiliamo che quello che fosse stato percepito in occasione di questo accordo, sia restituito alla chiesa parrocchiale.


LVII. Come interpretare i privilegi

Perché i privilegi che la chiesa Romana ha concesso ad alcuni religiosi rimangano intatti, crediamo opportuno alcune precisazioni su punti che non compresi bene danno luogo ad abusi, e quindi potrebbero imporre la loro revoca; chi, in- fatti, abusa di un potere concessogli merita di esserne privato.
Così, per esempio, la sede apostolica ha concesso ad alcuni religiosi un indulto per cui i membri della loro fraternità possano ottenere la sepoltura ecclesiastica anche se la loro parrocchia fosse stata interdetta, sempre che non siano scomunicati o nominatamente interdetti; ed inoltre che possano seppellire nelle proprie chiese, quei loro fratelli che i prelati delle chiese non permettessero che siano sepolti nelle loro chiese sempreché non siano scomunicati o interdetti personalmente. Per confratelli si devono intendere coloro che rimanendo nel mondo si sono consacrati al loro ordine e hanno deposto l'abito secolare, o chi da vivo con donazione ha ceduto ad essi i propri beni, riservandosi solo l'usufrutto vita natural durante. Questi soltanto potranno esser sepolti presso le chiese non interdette dei regolari o di altri, nelle quali avessero scelto di essere sepolti; sono esclusi invece quelli che entrano nella fraternità, versando due o tre denari all'anno col rischio di avvilire la disciplina ecclesiastica. Costoro tuttavia, possono ottenere la remissione dalla sede apostolica.
Un altro privilegio concede a dei religiosi che se qualcuno dei loro frati, mandati per fondare delle fraternità o per raccogliere delle collette, giunge in una città, castello o villaggio, colpito da interdetto ai divini uffici, in occasione di questa loro gioiosa venuta, una volta all'anno vengano aperte le chiese e, esclusi gli scomunicati, si celebrino in esse le sacre funzioni. Vogliamo che si intenda tale privilegio in modo che in quella città, o castello o villaggio una sola chiesa venga aperta ai frati dello stesso ordine, come è stato detto, una volta all'anno. Se anche, infatti, è detto al plurale di aprire le chiese per la loro lieta venuta, non tuttavia è da riferirsi alle chiese dello stesso luogo singolarmente prese, ma, con giusta interpretazione, alle chiese dei predetti luoghi prese nel loro insieme; poiché, se in tal modo essi visitassero le singole chiese dello stesso luogo, avverrebbe che la disposizione dell'interdetto perderebbe il suo peso.
Chi intendesse agire contro le prescritte disposizioni sia sottoposto ad una pena grave.


LVIII. Sullo stesso argomento a favore dei vescovi

Volendo estendere anche ai vescovi a favore dell'ufficio pontificale, ciò che è stato accordato ad alcuni religiosi, concediamo che, quando è stata posta sotto interdetto una terra, possano, qualche volta, esclusi gli scomunicati e gli interdetti, a porte chiuse e a voce bassa, senza suono delle campane, celebrare i divini uffici, a meno che ciò sia stato loro espressamente proibito.
Tuttavia concediamo ciò solo a quelli che non abbiano dato motivo alcuno all'interdetto né abbiano usato inganno o frode, trasformando il vantaggio in iniquità.


LIX. Nessun religioso deve prestare garanzie senza il permesso dell'abate e della comunità


Ciò che la sede apostolica ha proibito ad alcuni religiosi, vogliamo e comandiamo che sia esteso a tutti: che, cioè, nessun religioso, senza previa licenza dell'abate e della maggioranza del proprio capitolo si renda mallevadore di qualcuno o prenda in prestito denaro da altri, per una somma superiore a quella stabilita con comune provvedimento. Diversamente, la comunità non sia tenuta a rispondere in qualche modo per questi, a meno che non risulti chiaramente che ciò sia ridondato a beneficio della casa stessa.
Chi oserà agire contro questa norma, sia sottoposto a una più grave punizione.


LX. Gli abati non devono usurpare l'ufficio dei vescovi

Dalle lagnanze dei vescovi, giunteci da ogni parte del mondo, abbiamo constatato le gravi e grandi inframmettenze di alcuni abati, i quali non contenti dei propri poteri, invadono le prerogative proprie della dignità vescovile, istruiscono cause matrimoniali, ingiungono pubbliche penitenze, concedono persino lettere di indulgenze, commettono infrazioni analoghe. Da ciò deriva uno svilimento dell'autorità vescovile presso molti.
Volendo, dunque, su questo argomento provvedere alla dignità dei vescovi e alla salvezza degli abati, col presente decreto proibiamo severamente che qualche abate si immischi in queste cose, se vuole evitare pericoli; salvo speciali concessioni o legittimi motivi.


LXI. I religiosi non ricevano decime dalle mani dei laici


E’ noto che il concilio Lateranense (51) ha proibito a qualsiasi religioso di ricevere chiese o decime dai laici senza l'approvazione dei vescovi, e di ammettere in qualche modo agli uffici divini gli scomunicati o gli interdetti nominatamente.
Noi, per rinforzare tali proibizioni, puniremo i trasgressori con sanzioni adeguate e stabiliamo che nelle chiese che non appartengono ad essi di pieno diritto, secondo le norme dello stesso concilio presentino ai vescovi i sacerdoti che essi intendono assumere, perché rispondano ad essi della cura del popolo, e ai religiosi degli affari temporali. Non osino poi allontanare quelli che hanno assunto senza aver consultato i vescovi né presentino preti di dubbia condotta o suscettibili di giudizio sfavorevole da parte dei prelati.


LXII. Le reliquie dei santi devono essere esposte in un reliquiario,
le nuove non possono essere venerate senza autorizzazione della chiesa Romana

Poiché dal fatto che alcuni espongono le reliquie dei santi per venderle, si è spesso presa occasione per detrarre la religione cristiana, perché ciò non avvenga in futuro, col presente decreto stabiliamo che le reliquie antiche da ora in poi non siano messe in mostra fuori del reliquiario, né siano poste in vendita. Quelle nuove nessuno si azzardi a venerarle, prima che siano state approvate dall'autorità del Romano pontefice. Per l'avvenire i prelati non permettano che chi va nelle loro chiese per venerare le reliquie sia ingannato con discorsi fantastici o falsi documenti, come si usa fare in moltissimi luoghi per lucro.
Quanto ai questuanti di elemosine, di cui alcuni mentono agli altri diffondendo errori nella loro predicazione, proibiamo che essi siano ammessi se non presentano lettere autentiche de a sede apostolica o del vescovo diocesano. E in questo caso non si permetta loro di proporre altro che quello che è contenuto in quelle stesse lettere. Abbiamo creduto di dover aggiungere qui la formula che comunemente la sede apostolica usa, perché i vescovi diocesani possano adeguarvi le loro lettere.
"Poiché, secondo l'apostolo, tutti dovremo comparire dinanzi al tribunale di Cristo (52), per ricevere a seconda di quanto abbiamo operato finché eravamo nel corpo, sia nel bene, sia nel male (53), è necessario che noi preveniamo con opere di misericordia il giorno dell'ultima mietitura, e, pensando ai beni eterni, seminiamo in terra quello che il Signore ci renderà con frutto abbondante, e che raccoglieremo nei cieli, avendo nel cuore la ferma speranza e la fiducia che chi semina poco, raccoglierà anche poco, e che chi semina nella benedizione, raccoglierà anche nella benedizione (54), per la vita eterna. Poiché, dunque, i mezzi a disposizione per mantenere i frati e i bisognosi che sono ricoverati nel tale ospedale non sono sufficienti, ammoniamo ed esortiamo nel Signore questa vostra comunità, e vi comandiamo in remissione dei vostri peccati, che con i beni che Dio vi ha largito vogliate fare pie elemosine ed erogare gli aiuti della vostra carità, affinché per questa vostra sovvenzione si possa provvedere alla loro povertà, e voi, per queste ed altre opere di bene che con l'ispirazione di Dio avete fatto, possiate giungere alla gioia eterna".
Quelli che chiedono le elemosine siano modesti e riservati; non prendano alloggio nelle osterie o in altri luoghi poco adatti; non facciano spese inutili e costose; e si guardino assolutamente dal portare invano l'abito religioso. Si aggiunga che concedendo le indulgenze senza alcun discernimento troppo abbondanti, come alcuni prelati fanno senza ritegno si getta il disprezzo sul potere delle chiavi, e viene a perdere ogni efficacia la soddisfazione penitenziale.
Decretiamo, perciò, che, quando si dedica una basilica, non si conceda un'indulgenza di più di un anno, sia che la dedicazione sia fatta da uno che da più vescovi; e che, inoltre, nell'anniversario della dedicazione la remissione concessa con l'ingiunzione della penitenza non superi i quaranta giorni. Vogliamo anche che questo numero di giorni sia considerato come giusta misura delle lettere di indulgenze che talvolta vengono concesse, poiché il Romano pontefice, che ha la pienezza della potestà, usa attenersi a questi limiti.


LXIII. La Simonia

Sappiamo con certezza che quasi dappertutto moltissime persone - quasi venditori di colombe nel tempio (55) - esigono e estorcono turpemente e malamente denaro per le consacrazioni di vescovi, per le benedizioni di abati e l'ordinazione di chierici. E vi sono tariffe per quanto deve andare a questi, quanto a quello, e quanto bisogna pagare ad altri; a maggior dannazione, vi è chi cerca di difendere questa vergognosa e malvagia condotta adducendo una consuetudine stabilita da molto tempo.
Volendo abolire un così grave abuso, riproviarno assolutamente questa consuetudine, seppure non si debba chiamar piuttosto corruzione, e stabiliamo fermamente che per conferire o ricevere ordini sacri nessuno si azzardi ad esigere e a estorcere alcunché sotto qualsiasi pretesto. Diversamente, sia chi ha ricevuto sia chi ha pagato questo prezzo dannato sia condannato come Giezi (56) e come Simone (57).


LXIV. Della simonia riguardo ai monaci e alle monache

Poiché il peccato di simonia ha talmente contaminato la maggior parte delle monache che ne ammettono solo qualcuna senza pagamento, e cercano di nascondere questo vizio col pretesto della loro povertà, proibiamo assolutamente che ciò si ripeta in avvenire e stabiliamo che chiunque in seguito commettesse tale malvagità, sia chi riceve che chi è ricevuta, suddita o costituita in autorità, venga espulsa dal suo monastero senza speranza di tornarvi mai più, e sia mandata in luogo dove la regola sia più severa, perché faccia penitenza per sempre.
Quanto a quelle, poi, che sono state ricevute in tale modo prima di questa disposizione sinodale, stabiliamo che, allontanate dai monasteri, dove ingiustamente sono entrate, siano collocate in altre case dello stesso ordine. Che se per il gran numero non potessero essere convenientemente sistemate altrove, per evitare che vadano vagando qua e là per il mondo con pericolo di dannazione, siano riprese nello stesso monastero eccezionalmente, cambiando le priore e le altre autorità inferiori.
Questa disposizione sia osservata anche dai monaci e dagli altri che vivono secondo una regola. E perché non possano addurre a loro scusa la loro semplicità ed ignoranza, comandiamo che i vescovi diocesani la facciano pubblicare ogni anno nelle loro diocesi.


LXV. Sullo stesso argomento, circa le estorsioni illecite

Abbiamo saputo che alcuni vescovi quando muoiono i rettori di chiese, sottopongono queste chiese a interdetto, e non permettono che alcuno venga costituito rettore, se prima non hanno riscosso una certa somma di denaro. Inoltre, quando un soldato o un chierico entra in una casa religiosa, o sceglie di essere sepolto presso i religiosi, anche se non ha lasciato nulla ai religiosi, frappongono difficoltà e astuzie, fino a che non ottengono qualche regalo.
E poiché non solo dobbiamo astenerci dal male, ma anche da ogni apparenza di male, secondo quando dice l'apostolo (58), proibiamo assolutamente queste esazioni; e se qualcuno trasgredisse, restituisca il doppio di quanto ha percepito, che verrà scrupolosamente devoluto ad utilità di quei luoghi, a danno dei quali è stato ottenuto.


LXVI. Circa la cupidigia del clero

A questa sede apostolica è stato frequentemente riferito che alcuni chierici esigono ed estorcono denaro per le esequie dei morti, per le benedizioni degli sposi, e per simili prestazioni; se non viene soddisfatta la loro pretesa, oppongono con inganno degli impedimenti fittizi.
Al contrario, vi sono laici che, mossi dal fermento ereticale, e col pretesto della pietà ecclesiale, tentano infrangere lodevoli consuetudini verso la santa chiesa introdotte dalla pietà dei fedeli.
Quindi, mentre proibiamo le indegne esazioni a questo riguardo, comandiamo che vengano mantenute le pie consuetudini e stabiliamo che i sacramenti della chiesa siano conferiti senza alcuna imposizione; ma, nello stesso tempo, che il vescovo del luogo, conosciuta la verità, proceda contro chi tenta maliziosamente di cambiare lodevoli consuetudini.


LXVII. Circa l'usura dei Giudei

Più la religione cristiana frena l'esercizio dell'usura, tanto più gravemente prende piede in ciò la malvagità dei Giudei, così che in breve le ricchezze dei cristiani saranno esaurite. Volendo, pertanto aiutare i cristiani a sfuggire ai Giudei, stabiliamo con questo decreto sinodale che se in seguito i Giudei, sotto qualsiasi pretesto, estorcessero ai cristiani interessi gravi e smodati, sia proibito ogni loro commercio con i cristiani, fino a che non abbiano convenientemente riparato.
Così pure i cristiani, se fosse necessario, siano obbligati, senza possibilità di appello, con minaccia di censura ecclesiastica, ad astenersi dal commercio con essi.
Ingiungiamo poi ai principi di risparmiare a questo riguardo i cristiani, cercando piuttosto di impedire ai Giudei di commettere ingiustizie tanto gravi.
Sotto minaccia della stessa pena, stabiliamo che i Giudei siano costretti a fare il loro dovere verso le chiese per quanto riguarda le decime e le offerte dovute, che erano solite ricevere dai cristiani per le case ed altri possessi, prima che a qualsiasi titolo passassero ai Giudei, in modo che le chiese non ne abbiano alcun danno.


LXVIII. I Giudei devono distinguersi dai cristiani per il modo di vestire

In alcune province i Giudei o Saraceni si distinguono dai cristiani per il diverso modo di vestire; ma in alcune altre ha preso piede una tale confusione per cui nulla li distingue. Perciò succede talvolta che per errore dei cristiani si uniscano a donne giudee o saracene, o questi a donne cristiane.
Perché unioni tanto riprovevoli non possano invocare la scusa dell'errore, a causa del vestito stabiliamo che questa gente dell'uno e dell'altro sesso in tutte le province cristiane e per sempre debbano distinguersi in pubblico per il loro modo di vestire dal resto della popolazione, come fu disposto d'altronde anche da Mosè (59).
Nei giorni delle lamentazioni e nella domenica di Passione essi non osino comparire in pubblico, dato che alcuni di loro in questi giorni non si vergognano di girare più ornati del solito e si prendono gioco dei cristiani, che a ricordo della passione santissima del Signore mostrano i segni del loro lutto. Questo, poi, proibiamo severissimamente che essi osino danzare di gioia per oltraggio al Redentore.
E poiché non dobbiamo tacere di fronte all'insulto verso chi ha cancellato i nostri peccati, comandiamo che questi presuntuosi siano repressi dai principi secolari con una giusta punizione, perché non credano di poter bestemmiare colui che è stato crocifisso per noi.


LXIX. I Giudei non devono rivestire pubblici uffici

Poiché è cosa assurda che chi bestemmia Cristo debba esercitare un potere sui cristiani, quello che su questo argomento il concilio Toletano (60) ha provvidamente stabilito, noi, per rintuzzare l'audacia dei trasgressori, lo rinnovano ora e proibiamo, quindi, che i Giudei rivestano pubblici uffici, poiché proprio per questo riescono assai molesti ai cristiani.
Se qualcuno perciò affida ad essi un tale ufficio sia punito come merita - premessa naturalmente l'ammonizione - dal concilio provinciale che comandiamo debba celebrarsi ogni anno. L'officiale ebreo sia separato dai cristiani nei commerci e nelle altre relazioni sociali; e ciò, fino a che tutto quello che egli ha percepito dai cristiani, in occasione di tale ufficio, non sia devoluto a beneficio dei poveri cristiani, a giudizio del vescovo diocesano. Rinunzi, inoltre, con sua vergogna, alla carica che ha assunto così insolentemente. Estendiamo questa stessa disposizione anche ai pagani.


LXX. I Giudei convertiti non devono tornare ai riti antichi

Abbiamo saputo che alcuni, ricevuta spontaneamente l'acqua del santo battesimo, non depongono del tutto l'uomo vecchio, per rivestire perfettamente l'uomo nuovo (61), ma, conservando vestigia del giudaismo offuscano, con tale confusione, la bellezza della religione cristiana.
Ma poiché sta scritto: maledetto l'uomo che s'inoltra nel cammino per due vie (62), e non deve indossarsi una veste fatta di lino e di lana (63), stabiliamo che i superiori delle chiese li allontanino in ogni modo dall'osservanza delle loro vecchie pratiche, affinché quelli che la scelta della loro libera volontà ha portato alla religione cristiana, siano poi indotti ad osservarla. E’ infatti minor male non conoscere la via del Signore, che abbandonarla dopo averla conosciuta (64).


LXXI. Spedizione per la riconquista della Terra Santa (14 dic. 1215)

Desiderando ardentemente liberare la Terra Santa dalle mani degli empi, col consiglio di uomini prudenti, che conoscono perfettamente le circostanze di tempo e di luogo, e con l'approvazione del santo concilio, stabiliamo che i crociati si preparino in modo che quelli che intendono fare il viaggio per mare, il primo giugno dell'anno prossimo si radunino nel regno di Sicilia: alcuni, a seconda della necessità e della opportunità, a Brindisi, altri a Messina, e dintorni. Qui abbiamo pensato di venire personalmente, allora, anche noi, se Dio vorrà, perché col nostro consiglio e col nostro aiuto l'esercito cristiano venga salutarmente ordinato e possa partire con la benedizione divina ed apostolica.
Per quella data, cerchino di prepararsi anche quelli che hanno stabilito di partire per terra; ma intanto ce ne vogliano informare, perché possiamo conceder loro un legato a latere, che li consigli e li aiuti.
I sacerdoti e gli altri chierici che faranno parte dell'esercito cristiano, sia inferiori che prelati, attendano con diligenza alla preghiera e alla predicazione, insegnando con la parola e con l'esempio, affinché i crociati abbiano sempre dinanzi agli occhi il timore e l'amore di Dio e non dicano e facciano cosa alcuna che offenda la divina maestà. Se qualche volta cadessero nel peccato, risorgano subito con la vera penitenza; siano umili nel cuore e nel corpo; sia nel modo di vivere che nel vestirsi conservino la giusta moderazione; evitino assolutamente i dissensi e le invidie; allontanino da sé ogni rancore e ogni livore di modo che, muniti delle armi spirituali e materiali, più sicuramente possano lottare contro i nemici della fede, senza far affidamento sulla propria forza ma sperando nell'aiuto di Dio.
A questi stessi chierici concediamo che per un triennio possano percepire completamente il frutto dei loro benefici, come se risiedessero nelle loro chiese, e, se fosse necessario, che per tutto quel tempo possano ipotecarli con un pegno.
Perché non succeda che questo santo proposito venga impedito o ritardato, ordiniamo severamente a tutti i superiori delle chiese che, ciascuno nella propria giurisdizione, ammoniscano con diligenza e inducano quelli che hanno deposto il segno della Croce a riprenderlo e, sia loro che gli altri che possano in seguito fregiarsi di questo se-no, ad adempiere il loro voto al Signore. Se sarà necessario, li costringano con sentenze di scomunica contro le persone e di interdetto contro le loro terre, senza tergiversare in nessun modo; siano eccettuati soltanto quelli che hanno un impedimento tale, per cui, secondo le concessioni della sede apostolica, il loro voto possa essere giustamente commutato o differito.
E perché in questa causa che riguarda Gesù Cristo non sia trascurato nulla di ciò che si può fare, desideriamo e comandiamo che i patriarchi, gli arcivescovi, i vescovi, gli abati e gli altri che sono in cura d'anime, con grande zelo propongano a quelli che sono loro affidati la parola della Croce, scongiurando re, duchi, principi, marchesi, conti e baroni, e gli altri nobili, e le comunità cittadine, dei villaggi e dei paesi per amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo un solo, vero, eterno Dio, che quelli che non si recano personalmente in aiuto della Terra Santa, forniscano un conveniente numero di soldati e le spese per tre anni secondo le loro possibilità, in remissione dei loro peccati, come è stato già detto espressamente nelle lettere encicliche, e come, per maggior cautela, verrà detto più oltre.
Di questa remissione vogliamo che siano partecipi non solo quelli che offrono le proprie navi, ma anche quelli che ne fabbricheranno a questo scopo.
Quanto a quelli che si rifiutano - se vi sarà qualcuno, per caso, cosi ingrato verso il Signore Dio nostro - protestiamo vivamente in virtù del nostro ufficio apostolico, perché sappiano che essi dovranno risponderne nell'ultimo giorno nel- l'esame dinanzi al tremendo giudice; prima però vogliamo che considerino con quale coscienza o con quale sicurezza potranno comparire dinanzi all'unigenito Figlio di Dio Gesù Cristo, a cui Dio ha dato in mano ogni cosa (65), se avranno rifiutato di servirlo in questa causa, sua nel vero senso della parola, lui che è stato crocifisso per i peccatori, per la cui benevolenza essi vivono, per il cui beneficio si sostengono, e dal cui sangue, soprattutto, sono stati redenti (66).
E perché non sembri che poniamo sulle spalle degli altri pesi gravi e insopportabili, che noi, però, non vogliamo toccare neppure con un dito, proprio come quelli che dicono, ma non fanno (67), noi da quanto abbiamo potuto sottrarre alle nostre necessità e alle modeste spese, destiniamo a questo scopo e doniamo trentamila lire, oltre al naviglio che raduniamo da Roma e dintorni per i crociati, pronti, tuttavia, ad assegnare a questo stesso scopo tremila marche d'argento, rimaste presso di noi dalle elemosine di alcuni fedeli, dopo aver distribuito scrupolosamente le altre per i bisogni e l'utilità della Terra Santa, per mezzo dell'abate patriarca di Gerusalemme, di felice memoria, e dei maestri del Tempio e dell'Ospedale.
Volendo poi che anche gli altri prelati e tutti i chierici siano partecipi e associati alla nostra sorte nel merito e nel premio, stabiliamo con l'approvazione unanime del concilio, che assolutamente tutti i chierici, inferiori e superiori, versino per un triennio la ventesima parte delle rendite ecclesiastiche in aiuto della Terra Santa, attraverso le persone che saranno deputate della sede apostolica, eccetto solo pochi religiosi, da ritenersi giustamente esenti da questa tassa, e quelli che o hanno assunto o assumeranno il santo segno della Croce e che prenderanno parte personalmente all'impresa.
Quanto a noi e ai nostri fratelli cardinali della santa chiesa Romana adempiremo alla decima. E sappiano tutti di essere obbligati ad osservare fedelmente questa disposizione sotto pena di scomunica: cosicché quelli che commettessero una frode a questo riguardo incorrerebbero nella sentenza di scomunica.
Inoltre, poiché è giusto che quelli che saggiamente attendono all'onore dovuto al re celeste, debbano godere di speciali prerogative, dato che la partenza è fissata tra poco più di un anno, i crociati siano immuni da imposte, tasse e da altri aggravi, una volta assunta la Croce, mentre assumiamo sotto la protezione del beato Pietro e nostra le loro persone e i loro beni.
Stabiliamo perciò, che siano presi sotto la difesa degli arcivescovi dei vescovi e di tutti i prelati della chiesa, senza che si manchi per questo di assegnare ad essi dei propri protettori addetti particolarmente a questo scopo, di modo che, fino a quando non si sappia con certezza del loro ritorno o della loro morte, i loro beni rimangano intatti e tranquilli. Chi poi intendesse agire in contrario, sia punito con la censura ecclesiastica.
Se qualcuno di quelli che partono si fosse obbligato a pagare degli interessi, comandiamo che i loro creditori siano costretti sotto la stessa minaccia di scomunica a scioglierli dal giuramento prestato e ad astenersi dal riscuotere gli interessi. Che se qualcuno dei ereditari li costringesse a pagarli, comandiamo che vengano costretti alla loro restituzione con una simile pena. Quanto ai Giudei in particolare, ordiniamo che vengano obbligati dal potere secolare a condonare gli interessi, e che, fino a quando non li abbiano condonati, sia negata ad essi da tutti i fedeli cristiani in qualsiasi modo ogni comunanza di vita sotto pena di scomunica. Quanto a quelli che non potessero, al presente, pagare i debiti ai Giudei, i principi secolari con opportuna dilazione provvedano in modo tale, che intrapreso il viaggio in Terra Santa non debbano risentire del peso degli interessi fino a che non si sappia con certezza del loro ritorno o della loro morte; e i Giudei siano costretti ad aggiungere al capitale i proventi dei pegni che intanto avessero percepito, detratte, naturalmente, le spese necessarie. Questa agevolazione, infatti, non sembra comportare molta perdita, per il fatto che rimanda il pagamento in modo da non annullare il debito.
Sappiano, inoltre, quei superiori di chiese che si mostrassero negligenti nel procurare la giustizia dei crociati e delle loro famiglie, che saranno gravemente puniti.
D'altra parte, poiché i corsari e i pirati ostacolano gli aiuti alla Terra Santa, catturando e spogliando quanti vanno o vengono da essa, noi colpiamo con speciale scomunica i loro complici e fautori, proibendo sotto minaccia di anatema, che nessuno scientemente faccia con essi un contratto di compra- vendita, e imponendo ai reggitori delle città e dei territori dove essi vivono, che vogliano richiamarli da questa iniquità e reprimerli. Diversamente, poiché non perseguire i malvagi equivale a favorirli, e non può fuggire il sospetto di occulta connivenza, chi non si cura di rimediare ad una manifesta azione delittuosa, vogliamo e comandiamo che i capi delle chiese usino contro le loro persone e le loro terre il peso della severità ecclesiastica.
Scomunichiamo, inoltre, e anatematizziamo quei falsi ed empi cristiani che contro Cristo stesso e il suo popolo forniscono ai Saraceni armi, ferro, e legname per le galere. E disponiamo anche che chi vende loro galere e navi, chi pilota le navi pirate dei Saraceni, o lavora alle macchine, o in qualsiasi altra cosa presta consiglio o aiuto che torni a danno della Terra Santa, sia punito con la privazione dei beni e diventi schiavo di chi lo cattura. E comandiamo che nei giorni di domenica e nei giorni festivi venga ripubblicata questa disposizione, in tutte le città marittime e che chi si comporta Così non sia riammesso nella chiesa, se prima non ha erogato a favore della Terra Santa tutto quello che ha percepito da una attività così dannata, e altrettanto dai propri beni, perché, con giusto giudizio, siano puniti proprio in ciò, in cui hanno mancato. Che se per caso essi non fossero in grado di pagare, la loro colpa sia punita in tal modo che la loro pena impedisca agli altri di osare audacemente simili azioni.
Proibiamo, inoltre, e vietiamo espressamente a tutti i cristiani, sotto pena di scomunica, di mandare o condurre navi, per quattro anni, nelle terre dei Saraceni d'oriente; così mentre vi sarà una maggior quantità di navi a disposizione di quelli che volessero passare il mare in aiuto della Terra Santa, sarà sottratto ai Saraceni l'aiuto che proveniva loro da ciò.
Quantunque i tornei siano stati proibiti in generale in diversi concili con pene determinate, poiché, tuttavia, in questa circostanza l'impresa della Crociata verrebbe ad avere in essi un impedimento non trascurabile, proibiamo assolutamente, sotto pena di scomunica, che essi possano aver luogo durante tre anni.
E poiché al felice compimento dell'impresa è somma- mente necessario che i principi cristiani mantengano scambievolmente la pace, col consiglio del santo concilio universale stabiliamo che almeno per quattro anni si conservi una pace generale in tutto il mondo cristiano; i capi delle chiese inducano quanti sono in discordia ad una piena pace o ad una tregua da osservarsi ad ogni costo. Quelli poi che non volessero sottostare a queste prescrizioni siano energicamente costretti con la scomunica alle persone e l'interdetto alle loro terre, a meno che la gravità delle offese sia tale che gli offensori non debbano godere della pace. Se costoro non temessero la censura ecclesiastica, dovranno temere che l'autorità della chiesa metta in moto contro di essi, come perturbatori di questa crociata il braccio secolare.
Noi, quindi, confidando nella misericordia di Dio Onnipotente e nell'autorità dei beati apostoli Pietro e Paolo, in forza di quella potestà di legare e di sciogliere che Dio, benché indegni, ci ha concesso (68), concediamo pienamente a tutti quelli che personalmente e a proprie spese affronteranno il disagio dell'impresa il perdono dei loro peccati, dei quali siano sinceramente pentiti col cuore e confessati con la bocca, e promettiamo o nella retribuzione dei giusti la pienezza della vita eterna; concediamo il perdono plenario dei loro peccati a quelli che invece, non parteciperanno personalmente, ma manderanno a loro spese solo persone adatte, a seconda delle loro possibilità e del loro stato, ed a quelli che, anche se a spese di altri, andranno personalmente.
Vogliamo e concediamo che di questa remissione in proporzione dell'aiuto prestato e dell'intensità della loro devozione siano partecipi anche tutti quelli che sovvenzioneranno la Terra Santa con i loro beni, o abbiano contribuito con utili consigli e con aiuti. A tutti quelli finalmente, che piamente prenderanno parte a questa comune impresa il concilio universale accorda i suoi suffragi, perché giovi alla loro salvezza.



Note
(40) Cfr. Dt 25, 4; I Cor 9, 9; I Tm 5, 18
(41) Cfr. I Cor 9, 13
(42) Concilio Lateranense III (1179) c. 4 (COD 213-214)
(43) Cfr. Fil 2, 21
(44) Rm 14, 23
(45) Mt 22, 21; Mr 12, 17; Lc 20, 25
(46) Rm 14, 4
(47) Concilio Lateranense III (1179), c. 19 (COD. 221)
(48) I Cor 7, 4
(49) I Cor 7, 3
(50) cfr. Gv 12, 24
(51) Concilio Lateranense III (1179) c. 10 (COD. 217)
(52) Rm 14, 10
(53) II Cor 5 ,10
(54) II Cor 9, 6
(55) Cfr. Mt 21, 12; Mr 11, 15; Gv 2, 14
(56) Cfr. IV Re 5, 20-27
(57) Cfr. At 8, 9-24
(58) Cfr. I Tess.5, 22
(59) Cfr. Lv 19, 19; Dt 22, 5 e 11
(60) Concilio di Toledo (589) c. 10
(61) Cfr. Col 3, 9
(62) sir 2, 14
(63) Dt 22, 11
(64) Cfr II Pt 2, 21
(65) Gv 13, 3; Cfr. Gv 3, 35
(66) Cfr. I Pt 1, 18-19
(67) Cfr. Mt 23, 3-4
(68) Cfr. Mt 16, 19; 18, 18


Home Page | Niceno I | Costantinopolitano I | Efesino | Calcedonese | Costantinopolitano II | Costantinopolitano III | Niceno II | Costantinopolitano IV | Lateranense I | Lateranense II | Lateranense III | Lateranense IV | Lionese I | Lionese II | Viennese | Di Costanza | Fiorentino | Lateranense V | Tridentino | Vaticano I | Vaticano II | TORNA AL SITO | Mappa del sito


Menu di sezione:


Torna ai contenuti | Torna al menu