ABBA - AMORE - DIZIONARIO DI TEOLOGIA BIBLICA

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A: ABBA - AMORE

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  ................. LUIS MARTINEZ FERNANDEZ

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    ABBA (inizio)

    → adorazione II 3 - cuore II 2 b - Dio NT IV - figlio di Dio NT I 1 - grazia V - missione NT III 2 - padri e Padre V 1, VI - preghiera IV 2, V 2 d - Spirito di Dio NT V 5.

    ABBANDONO (inizio)

    → delusione III - fede - fiducia - Provvidenza - sonno I 1 - tristezza NT 1.

    ABBONDANZA (inizio)

    → benedizione - pienezza - ricchezza.

    ABELE (inizio)

    1. Abele, il giusto.
    - La storia di Caino e di Abele introduce il tema del *giusto *sofferente. Inserita dal narratore fin dalla prima generazione, possiede un valore esemplare e presenta in concreto uno dei tratti generali della condizione umana, in tutti i secoli della storia: la latente opposizione tra fratelli della specie umana, anche se nati da un unico principio (Atti 17, 26) conduce a delle lotte fratricide. Contrariamente al *sacrificio di Caino, quello di Abele è gradito a Dio (Gen 4, 4 s). Questo non dipende tanto dalla natura dell’offerta quanto dalle disposizioni interiori dell’offerente. Di fronte al malvagio, che viene respinto, Abele rappresenta il giusto, nel quale Dio si compiace. Ma il malvagio aspetta al varco il giusto, per farlo morire (Sal 10, 9- 11). Una legge universale, e il *sangue dei giusti sparso fin dalle origini dei secoli grida dalla terra verso il cielo e reclama giustizia (Gen 4, 10).
    2. Figura di Gesù.
    - Questa legge di un mondo duro troverà la sua suprema applicazione nel caso di Gesù. Lui, il santo e il giusto (Atti 3, 14) si vedrà messo a morte dai suoi correligionari. Sommo delitto! Così «tutto il sangue dei giusti sparso dal sangue di Abele il giusto fino a quello di Zaccaria, assassinato tra il santuario e l’altare, ricadrà su questa generazione omicida» (Mt 23, 35 s). Questa fosca prospettiva non si riferisce soltanto al caso particolare dei capi giudei, responsabili della morte di Gesù; si estende al mondo intero, visto che si ritrovano ovunque degli innocenti messi a morte: il loro sangue versato esige la *vendetta del sangue (Apoc 16, 6; 18, 24). Tuttavia, di fronte a questa voce che grida vendetta, c’è un altro sangue, più eloquente di quello di Abele: il sangue purificatore di Gesù (Ebr 12, 24). Questo invita Dio al perdono: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23, 34). La situazione creata dall’assassinio del giusto Abele si è quindi ripetuta in Gesù, il giusto sofferente per eccellenza. Ma Abele, contrariamente a Caino, che rappresenta per noi la drammatica assenza della carità nel cuore umano (1 Gv 3, 12), rimane il prototipo della rettitudine interiore, della fede che conduce alla giustizia; ed è per questo che, morto, parla ancora (Ebr 11, 4).
    P. GRELOT

    → fratello VT 1 - odio I 1.2 - sangue VT 1 - vendetta 1 - violenza II.

    ABISSO (inizio)

    → acqua I, II 2 - bestie e Bestia 3 a - creazione VT II 2 - inferi e inferno - mare.

    ABITARE (inizio)

    → casa - dimorare - pienezza 2 - terra VT II.

    ABNEGAZIONE (inizio)

    → croce II - morte NT III.

    ABRAMO (inizio)

    Capostipite del popolo eletto, Abramo occupa un posto privilegiato nella storia della salvezza. La sua *vocazione non costituisce soltanto la fase iniziale del *disegno di Dio, ma ne fissa già gli orientamenti fondamentali.
    I. VOCAZIONE DI ABRAMO
    Invece di una semplice cronaca, la Genesi presenta, sulla esistenza di Abramo, un racconto religioso in cui si trovano le caratteristiche di tre correnti di tradizione: la jahvista insiste sulle benedizioni e le promesse divine, 1’elohista sulla fede a tutta prova del patriarca, la tradizione sacerdotale sull’alleanza e la circoncisione. Così illuminata, la figura di Abramo appare come quella di un uomo che Dio prima ha attirato a sé, poi ha provato, per dargli infine la soddisfazione di essere, contro ogni aspettativa, il padre di un popolo innumerevole.
    1. Abramo, eletto di Dio.
    - La vita di Abramo si svolge tutta sotto il segno della libera iniziativa di Dio. Dio interviene per primo; sceglie Abramo in una famiglia che «serviva altri dei» (Gios 24, 2), lo «fa uscire» da Ur (Gen 11, 31) e lo conduce per le sue *vie in un paese sconosciuto (Ebr 11, 8). Questa iniziativa è iniziativa di amore: fin dall’inizio Dio manifesta verso Abramo una generosità senza limiti. Le sue *promesse delineano un futuro meraviglioso. L’espressione che ritorna continuamente è: «io darò»; Dio darà ad Abramo una terra (Gen 12, 7; 13, 15 ss; 15, 18; 17, 8); lo favorirà, lo renderà estremamente fecondo (12, 2; 16, 10; 22, 17). A dire il vero le circostanze sembrano contrarie a queste prospettive. Abramo è un nomade, Sara non è più in età di avere figli. Ciò fa tanto più risaltare la gratuità delle promesse divine: l’avvenire di Abramo dipende completamente dalla potenza e dalla bontà di Dio. Abramo riassume così in sé il popolo di Dio, *eletto senza alcun merito antecedente. Tutto ciò che gli si chiede è una fede attenta ed intrepida, un’accettazione senza reticenze del disegno di Dio.
    2. Abramo provato.
    - Questa fede dev’essere purificata e fortificata mediante la *prova. Dio tenta Abramo domandandogli il sacrificio di Isacco, sul quale precisamente riposa la promessa (Gen 22, 1 s). Abramo «non rifiuta il suo figlio, il suo unico» (22, 12. 16) - si sa che i sacrifici di bambini erano praticati nei culti cananei -; ma è Dio che preserva Isacco, prendendosi egli stesso la cura di «provvedere l’agnello per l’olocausto» (22, 8. 13 s). Così fu resa manifesta la profondità del «*timore di Dio» in Abramo (22, 12). D’altra parte Dio rivelava nella stessa occasione che il suo disegno non è ordinato alla morte, ma alla vita. «Egli non si rallegra della perdita dei viventi» (Sap 1, 13; cfr. Deut 12, 31; Ger 7, 31). Un giorno la morte sarà vinta; il «sacrificio di Isacco» apparirà allora come una scena profetica (Ebr 11, 19; 2, 14-17; cfr. Rom 8, 32).
    3. Abramo, padre fortunato.
    - L’obbedienza di Abramo portò alla conferma della promessa (Gen 22, 16 ss), di cui egli vede abbozzarsi la realizzazione: «Jahvè benedì Abramo in tutto» (Gen 24, 1). «Nessuno gli fu uguale in gloria» (Eccli 44, 19). Non si tratta di una fortuna individuale: la vocazione di Abramo è di essere *padre. La sua *gloria è nella sua discendenza. Secondo la tradizione sacerdotale, il cambiamento di *nome ('Abram che diventa 'Abraham) attesta questo orientamento, perché il nuovo nome è interpretato «padre di moltitudini» (Gen 17, 5). Il destino di Abramo deve avere ripercussioni vastissime. Poiché Dio non gli nascondeva quel che intendeva fare, il patriarca si è già assunto il compito di intercedere per le città condannate (18, 16-33); la sua paternità estenderà ancora la sua influenza; la sua irradiazione sarà universale: «Nella tua posterità si diranno benedette tutte le *nazioni» (22, 18). Meditando su questo oracolo, la tradizione ebraica gli riconoscerà un senso profondo: «Dio gli promise con giuramento di benedire tutte le nazioni nella sua discendenza» (Eccli 44, 21; cfr. Gen 22, 18 LXX). Come quindi i destini dell’umanità peccatrice furono abbozzati in *Adamo, così quelli dell’umanità salvata lo sono in Abramo il credente.
    II. POSTERITA' DI ABRAMO
    1. Fedeltà di Dio.
    - Con Abramo le promesse mirano quindi anche alla sua posterità (Gen 13, 15; 17, 7 s), così come la definisce la predilezione divina: non con Ismaele Dio stabilirà la sua alleanza, e neppure in seguito con Esaù, bensì con Isacco e Giacobbe (17, 15-22; 21, 88-14; 27; cfr. Rom 9). Dio rinnova loro le proprie promesse (Gen 26, 3 ss; 28, 13 s) ed essi le trasmettono come una eredità (28, 4; 48, 15s; 50, 24). Quando i discendenti di Abramo sono oppressi in Egitto, Dio porge l’orecchio ai loro gemiti, perché «si ricorda della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe» (Es 2, 23 ss; cfr. Deut 1, 8). «Ricordandosi della sua parola santa verso Abramo suo servo, fece uscire il suo popolo nella esultanza» (Sal 105, 42 s). Più tardi, egli consola gli esiliati chiamandoli «stirpe di Abramo mio amico» (Is 41, 8). Nei tempi procellosi, quando l’esistenza di Israele è minacciata, i profeti gli ridanno fiducia ricordando la vocazione di Abramo: «Guardate la rupe da cui siete stati tagliati, la gola del pozzo da cui siete stati estratti. Guardate Abramo vostro padre...» (Is 51, 1 s; cfr. ls 29, 22; Neem 9, 7 s). E per ottenere i favori di Dio, la preghiera migliore consiste nell’appellarsi ad Abramo: «Ricordati di Abramo...» (Es 32, 13; Deut 9, 27; 1 Re 18, 36); «accorda... ad Abramo la tua grazia» (Mi 7, 20).
    2. Filiazione carnale.
    - Ma c’è un modo sconveniente di appellarsi al patriarca. Infatti non basta essere nati fisicamente da lui per essere suoi veri eredi; occorre ancora ricollegarsi a lui spiritualmente. È falsa *fiducia quella che non è congiunta ad una docilità profonda verso Dio. Già Ezechiele lo dice ai suoi contemporanei (Ez 33, 24-29). Annunciando il giudizio di Dio, Giovanni Battista insorge con più vigore contro la stessa illusione: «E non crediate di poter dire dentro di voi: abbiamo Abramo per padre. Poiché io vi dico che Dio può da queste pietre far sorgere figli ad Abramo» (Mt 3, 9). Il ricco egoista della parabola ha un bel gridare «padre Abramo», non ottiene nulla dal suo antenato: per colpa sua un abisso si è scavato fra loro (Lc 16, 24 ss). Il IV vangelo offre la stessa constatazione: smascherando i progetti omicidi dei Giudei, Gesù rinfaccia loro che la qualità di figli di Abramo non ha loro impedito di diventare di fatto i figli del demonio (Gv 8, 37-44). La filiazione carnale non è nulla senza la *fedeltà.
    3. Le opere e la fede.
    - Affinché questa fedeltà sia autentica, dev’essere evitata un’altra deviazione. Nel corso delle età la tradizione ha celebrato i meriti di Abramo, la sua *obbedienza (Neem 9, 8; Eccli 44, 20), il suo eroismo (1 Mac 2, 52; Sap 10, 5 s); continuando in questa direzione talune correnti del giudaismo finirono per esagerare questo aspetto: ponevano tutta la loro fiducia nelle *opere umane, nella perfetta osservanza della legge, e giungevano a dimenticare che l’essenziale consiste nel poggiare su Dio. Già combattuta nella parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14), questa pretesa orgogliosa viene completamente smantellata da Paolo, il quale si fonda su Gen 15, 6: «Abramo credette in Dio che glielo attribuì come giustizia», per dimostrare che la *fede, e non le opere, costituisce il fondamento della salvezza (Gal 3, 6; Rom 4, 3). L’uomo non ha di che gloriarsi, perché tutto gli viene da Dio «a titolo gratuito» (Rom 3, 27; 4, 1-4). Nessuna opera precede il favore di Dio, tutte ne sono il frutto. Però questo frutto non deve mancare (Gal 5, 6; cfr. 1 Cor 15, 10), come non è mancato nella vita di Abramo; è quel che fa notare Giacomo a proposito dello stesso testo (Giac 2, 20-24; cfr. Ebr 11, 8-19).
    4. L’unica posterità.
    - Qual è dunque la vera posterità di Abramo? E’ *Gesù Cristo, il figlio di Abramo (Mt 1, 1); che è tuttavia più grande di Abramo (Gv 8, 53). Tra i discendenti del patriarca egli è pure il solo a cui spetti pienamente l’*eredità della promessa; è la discendenza per eccellenza (Gal 3, 16). Proprio verso la venuta di Gesù era teso Abramo fin dalla sua vocazione, e la sua *gioia fu di scorgere quel *giorno attraverso le benedizioni della sua propria esistenza (Gv 8, 56; cfr. Lc 1, 54 s. 73). Lungi dall’essere una restrizione, questa concentrazione della promessa su un discendente unico è la condizione del vero universalismo a sua volta definito secondo il disegno di Dio (Gal 4, 21- 31; Rom 9-11). Tutti coloro che credono in Cristo, circoncisi od incirconcisi, israeliti o gentili, possono partecipare alle *benedizioni di Abramo (Gal 3, 14). La loro *fede fa di essi la discendenza spirituale di colui che ha creduto ed è ormai «il padre di tutti i credenti» (Rom 4, 11 s). «Voi tutti siete un essere in Cristo Gesù. Ora se appartenete a Cristo, siete discendenza di Abramo, e quindi eredi secondo la promessa» (Gal 3, 28 s). Questo è il coronamento della rivelazione biblica, portata a termine dallo Spirito di Dio. È pure l’ultima parola sulla «grande ricompensa» (Gen 15, 1), annunziata al patriarca: la sua paternità si estende a tutti gli eletti del cielo. La patria definitiva dei credenti è «il seno di Abramo» (Lc 16, 22), dove la liturgia dei defunti augura alle anime di giungere.
    R. FEUILLET e A. VIARD

    → amore I VT 1 - benedizione III 2, IV 0 - circoncisione VT 2; NT 1 - ebreo - elezione VT I 2.3 a b; NT III - eredità VT I 2 - fede 0 - generazione - giustificazione I - giustizia B I VT - mediatore I 1 - Melchisedech 1 - padri e Padre I 2, 1.2 - Pietro (S.) 3 a - popolo A II 1; B II l; C II prova-tentazione VT I 1 - speranza VT 1 - vocazione I.

    ACCECAMENTO (inizio)

    → indurimento - ipocrita - luce e tenebre - peccato IV 2 a - vedere VT II; NT l. 2.

    ACCLAMAZIONE (inizio)

    → amen 1 - benedizione II 3 - confessione NT 1 - lode.

    ACCOGLIERE (inizio)

    → ascoltare - bambino II - confessione 0 - cuore II 2 a - discepolo - dono –fede; VT I; - NT I 2, III 2 - indurimento II 1 insegnare VT II 2; NT I 3 - ospitalità - Parola di Dio VT III 2; NT I 2, II 2 - porta - riconciliazione I 4 - salvezza NT I 1 a - semplice 2 - vegliare I - visita NT 1 - vocazione - volontà di Dio.

    ACCUSARE (inizio)

    → processo - Satana.

    ACQUA (inizio)

    L’acqua è anzitutto sorgente e potenza di vita: senza di essa la terra non è che un *deserto arido, paese della fame e della sete, dove uomini e animali sono votati alla morte. Ma ci sono anche acque di *morte: l’inondazione devastatrice che sconvolge la terra e inghiotte i viventi. Infine il culto, nelle abluzioni cultuali, in cui è trasposto un uso della vita domestica, *purifica le persone e le cose dalle immondezze contratte nel corso degli incontri quotidiani. Così l’acqua, di volta in volta vivificatrice o terribile, sempre purificatrice, è intimamente mescolata alla vita umana ed alla storia del popolo della alleanza.
    I. LA CREATURA DI DIO
    Dio, padrone dell’universo, dispensa l’acqua a suo volere, e quindi tiene in suo potere i destini dell’uomo. Gli Israeliti, conservando la rappresentazione dell’antica cosmogonia babilonese, dividono le acque in due masse distinte. Le «acque superiori» sono trattenute dal firmamento, concepito come una superficie solida (Gen 1, 7; Sal 148, 4; Dan 3, 60; cfr. Apoc 4, 6). Delle cateratte, aprendosi, permettono loro di cadere sulla terra sotto forma di pioggia (Gen 7, 11; 8, 2; Is 24, 18; Mal 3, 10), o di rugiada che si posa la notte sulle erbe (Giob 29, 19; Cant 5, 2; Es 16, 13). Quanto alle fonti ed ai fiumi, essi non provengono dalla pioggia, ma da un’immensa riserva d’acqua su cui poggia la terra: le «acque inferiori», l’abisso (Gen 7, 11; Deut 8, 7; 33, 13; Ez 31, 4). Dio, che ha istituito quest’ordine, è il padrone delle acque. Egli le trattiene o le rilascia a piacer suo, sia quelle superiori sia quelle inferiori, provocando in tal modo la siccità o l’inondazione (Giob 12, 15). «Egli spande la pioggia sulla terra» (Giob 5, 10; Sal 104, 10-16), quella pioggia che viene da Dio è non dagli uomini (Mi 5, 6; cfr. Giob 38, 22-28). Egli le ha «imposto delle leggi» (Giob 28, 26). Veglia affinché essa cada regolarmente, «a suo tempo» (Lev 26, 4; Deut 28, 12): se essa venisse troppo tardi (in gennaio) le sementi sarebbero compromesse, e così i raccolti, se cessasse troppo presto, «a tre mesi dalla messe» (Am 4, 7). Per contro, quando Dio si degna di accordarle agli uomini, piogge d’autunno e di primavera (Deut 11, 14; Ger 5, 24) assicurano la prosperità del paese (Is 30, 23 ss). Dio dispone parimenti dell’abisso secondo il suo volere (Sal 135, 6; Prov 3, 19 s). Se lo prosciuga, inaridisce le fonti ed i fiumi (Am 7, 4; Is 44, 27; Ez 31, 15), provocando la desolazione. Se apre le «cateratte» dell’abisso, i fiumi scorrono e fanno prosperare la vegetazione sulle loro sponde (Num 24, 6; Sal 1, 3; Ez 19, 10), soprattutto quando le piogge sono state rare (Ez 17, 8). Nelle regioni desertiche, le fonti ed i pozzi sono i soli punti in cui si trova l’acqua che permette di abbeverare animali e persone (Gen 16, 14; Es 15, 23. 27); rappresentano un capitale di vita che viene aspramente disputato (Gen 21, 25; 26, 20 s; Gios 15, 19). Il Sal 104 riassume a meraviglia il dominio di Dio sulle acque: egli ha creato le acque superiori (104, 3) come quelle dell’abisso (v. 6); regola il flusso del loro corso (v. 7 s), le ritiene affinché non sommergano il paese (v. 9), fa sgorgare le sorgenti (v. 10) e discendere la pioggia (v. 13), grazie alle quali la prosperità si diffonde sulla terra ed apporta la gioia al cuore dell’uomo (v. 11-18).
    II. LE ACQUE NELLA STORIA DEL POPOLO DI DIO
    1. Acque e *retribuzione temporale.
    - Dio, accordando o rifiutando le acque secondo la sua volontà, non agisce tuttavia in modo arbitrario, ma secondo il comportamento del suo popolo. A seconda che il popolo rimane fedele o no all’alleanza, Dio accorda o rifiuta le acque. Se gli Israeliti vivono secondo la sua legge, * obbedendo alla sua voce, Dio apre i cieli per dare la pioggia a suo tempo (Lev 26, ss. 10; Deut 28, 1. 12): L’acqua è quindi l’effetto e il segno della *benedizione di Dio verso coloro che lo servono fedelmente (Gen 27, 28; Sal 133, 3). Invece, se Israele è infedele, Dio lo *castiga facendogli un cielo di ferro ed una terra di bronzo» (Lev 26, 19; Deut 28, 23), affinché comprenda e si *converta (Am 4, 7). La siccità è quindi un effetto della *maledizione divina verso gli *empi (Is 5, 13; 19, 5 ss; Ez 4, 16 s; 31, 15), come quella che devastò il paese sotto Achab, perché Israele aveva «abbandonato Dio per seguire i Baal» (1 Re 18, 18).
    2. Le acque terrificanti.
    - L’acqua non è soltanto una potenza di vita. Le acque del *mare evocano l’inquietudine demoniaca con la loro agitazione perpetua, e la desolazione dello sheol con la loro amarezza. La piena improvvisa dei torrenti, che al momento dell*uragano porta via la terra e i viventi (Giob 12, 15; 40, 23), simboleggia la sventura che sta per piombare all’improvviso sull’uomo (Sal 124), gli intrighi che contro il giusto tramano i suoi *nemici (Sal 18, 5 s. 17; 42, 8; 71, 20; 144, 7); con le loro macchinazioni essi si sforzano di trascinarlo fino al fondo stesso dell’abisso (Sal 35, 25; 69, 2 s). Ora, se Dio sa proteggere il giusto da questi flutti devastatori (Sal 32, 6; cfr. Cant 8, 6 s), può parimenti lasciarli imperversare sugli empi, giusto *castigo di una condotta contraria all’amore del prossimo (Giob 22, 11). Nei profeti lo straripamento devastatore dei grandi fiumi simboleggia la *potenza degli imperi che sommergeranno e distruggeranno i piccoli popoli; potenza dell’Assiria paragonata all’Eufrate (Is 8, 7) o dell’Egitto paragonata al suo Nilo (Gen 46, 7 s). Dio manderà questi fiumi per castigare sia il suo popolo, colpevole di mancar di fiducia in lui (Is 8, 6 ss), sia i nemici tradizionali di Israele (Gen 47, 1 s). Tuttavia nelle mani del creatore questo flagello brutale non è cieco: inghiottendo un mondo empio (2 Piet 2, 5), il *diluvio lascia sussistere il giusto (Sap 10, 4). Così pure i flutti del Mar Rosso fanno una cernita tra il popolo di Dio e quello degli idoli (Sap 10, 18 s). Le acque terrificanti anticipano quindi il *giudizio definitivo mediante il fuoco (2 Piet 3, 5 ss; cfr. Sal 29, 10; Lc 3, 16 s), lasciano dopo il loro passaggio una terra nuova (Gen 8, 11).
    3. Le acque purificatrici.
    - II tema delle acque di ira è collegato ad un altro aspetto dell’acqua benefica: questa non è soltanto potenza di vita, ma è pure ciò che lava, che fa sparire le immondezze (cfr. Ez 16, 49; 23, 40). Uno dei riti elementari della *ospitalità era quello di lavare i piedi all’ospite per toglierne la polvere della strada (Gen 18, 4; 19, 2; cfr. Lc 7, 44; 1 Tim 5, 10); ed alla vigilia della sua morte Gesù volle compiere egli stesso questa funzione di servo in segno esemplare di umiltà e di carità cristiana (Gv 13, 2-15). Mezzo di nettezza fisica, l’acqua è sovente simbolo di purezza morale. Ci si lava le mani per significare di essere innocenti e di non aver perpetrato il male (Sal 26, 6; cfr. Mt 27, 24). Il peccatore che abbandona i suoi peccati e si converte è come un uomo immondo che si lava (Is 1, 16); così pure Dio «lava» il peccatore a cui *perdona le sue colpe (Sal 51, 4). Con il diluvio Dio ha «purificato» la terra sterminando gli empi (cfr. 1 Piet 3, 20 s). Il rituale giudaico prevedeva numerose *purificazioni con l’acqua: il sommo sacerdote doveva lavarsi per prepararsi alla investitura (Es 29, 4; 40, 12) oppure al grande giorno della *espiazione (Lev 16, 4. 24); abluzioni con l’acqua erano prescritte dopo aver toccato un cadavere (Lev 11, 40; 17, 15 s), per purificarsi dalla *lebbra (Lev 14, 8 s) o da ogni impurità sessuale (Lev 15). Queste diverse purificazioni del corpo dovevano significare la purificazione interna del *cuore, necessaria a chi voleva accostarsi al Dio tre volte *santo. Ma erano impotenti a procurare efficacemente la purezza dell’anima. Nella nuova alleanza Cristo istituirà un nuovo modo di purificazione; alle nozze di Cana lo annuncia in modo simbolico, cambiando l’acqua destinata alle purificazioni rituali (Gv 2, 6) in *vino, che simboleggia sia lo spirito, sia la parola purificatrice (Gv 15, 3; cfr. 13, 10).
    III. LE ACQUE ESCATOLOGICHE
    1. Il tema dell’acqua occupa infine un grande posto nelle prospettive di restaurazione del popolo di Dio. Dopo il raduno di tutti i *dispersi, Dio diffonderà con abbondanza le acque purificatrici, che laveranno il cuore dell’uomo per permettergli di osservare fedelmente tutta la legge di Jahvè (Ez 36, 24-27). Quindi non ci sarà più maledizione né siccità: Dio «darà la pioggia a suo tempo» (Ez 34, 26), pegno di prosperità (Ez 36, 29 s). Le sementi germoglieranno, assicurando il pane in abbondanza; i pascoli saranno fertili (Is 30, 23 s). Il popolo di Dio sarà condotto verso le sorgenti gorgoglianti, *fame e sete spariranno per sempre (Gen 31, 9; Is 49, 10). Al termine dell’esilio a Babilonia, il ricordo dell’esodo si mescola sovente a queste prospettive di restaurazione. Il ritorno sarà effettivamente un nuovo *esodo, con prodigi ancora più splendidi. Un tempo Dio, per mano di Mosè, aveva fatto sgorgare l’acqua dalla roccia per spegnere la sete del suo popolo (Es 17, 1-7; Num 20, 1-13; Sal 10 78, 16. 20; 114, 8; Is 48, 21). Ormai Dio rinnoverà questo prodigio (Is 43, 20), e con una tale magnificenza che il *deserto sarà mutato in frutteto fertile (Is 41, 17-20), il paese della sete in sorgenti (Is 35, 6 s). *Gerusalemme, termine di questo pellegrinaggio, possiederà una fonte perenne. Un fiume uscirà dal *tempio per scorrere verso il Mar Morto; diffonderà vita e salute lungo tutto il suo corso, e gli *alberi cresceranno sulle rive, dotati d’una fecondità meravigliosa: sarà il ritorno della felicità *paradisiaca (Ez 47, 1-12; cfr. Gen 2, 10-14). Il popolo di Dio troverà in queste acque la purezza (Zac 13, 1), la vita (Gioe 4, 18; Zac 14, 8), la santità (Sal 46, 5).
    2. In queste prospettive escatologiche l’acqua riveste d’ordinario un valore simbolico. Di fatto Israele non ferma il suo sguardo alle realtà materiali, e la felicità che intravede non è soltanto prosperità carnale. L’acqua che Ezechiele vede uscire dal tempio simboleggia la potenza vivificatrice di Dio, che si diffonderà nei tempi messianici e permetterà agli uomini di portare frutto in pienezza (Ez 47, 12; Ger 17, 8; Sal 1, 3; Ez 19, 10 s). In Is 44, 3 ss, l’acqua è il simbolo dello *spirito di Dio, capace di trasformare un deserto in fiorente frutteto, ed il popolo infedele in vero «Israele». Altrove la *parola di Dio è paragonata alla pioggia che viene a fecondare la terra (Is 55, 10 s; cfr. Am 8, 11 s), e la dottrina che la *sapienza dispensa è un’acqua vivificatrice (Is 55, 1; Eccli 15, 3; 24, 25-31). In breve, Dio è la fonte di vita per l’uomo e gli dà la forza di fiorire nell’amore e nella fedeltà (Ger 2, 13; 17, 8). Lontano da Dio, l’uomo non è che una terra arida e senza acqua, votata alla morte (Sal 143, 6); egli quindi sospira verso Dio come la cerva anela all’acqua viva (Sal 42, 2 s). Ma se Dio è con lui, egli diventa come un giardino che possiede in sé la fonte stessa che lo fa vivere (Is 58, 11).
    IV. IL NUOVO TESTAMENTO
    1. Le acque vivificatrici.
    - Cristo è venuto a portare agli uomini le acque vivificatrici promesse dai profeti. Egli è la *roccia che, percossa (cfr. Gv 19, 34), lascia scorrere dal suo fianco le acque capaci di dissetare il popolo in cammino verso la vera terra promessa (1 Cor 10, 4; Gv 7, 38; cfr. Es 17, 1-7). Egli è parimenti il *tempio (cfr. Gv 2, 19 ss) donde esce il fiume che va a bagnare ed a vivificare la nuova *Gerusalemme (Gv 7, 37 s; Apoc 22, 1. 17; Ez 47, 1-12), nuovo *paradiso. Queste acque non sono altro che lo *Spirito Santo, potenza vivificatrice del Dio creatore (Gv 7, 39). In Gv 4, 10-14 tuttavia l’acqua sembra piuttosto simboleggiare la dottrina vivificatrice cose, l’acqua viva sarà il simbolo della felicità senza fine degli eletti, condotti dall’*agnello verso i fertili pascoli (Apoc 7, 17; 21, 6; cfr. ls 25, 8; 49, 10).
    2. Le acque battesimali.
    - Il simbolismo dell’acqua trova il suo pieno significato nel *battesimo cristiano. All’origine l’acqua fu usata nel battesimo per la sua virtù purificatrice. Giovanni battezza in acqua «per la remissione dei peccati» (Mt 3, 11 par.), servendosi a tal fine dell’acqua del Giordano, che un tempo aveva purificato Naaman dalla lebbra (2 Re 5, 10-14). Tuttavia il battesimo effettua la purificazione non del corpo ma dell’anima, della «coscienza» (1 Piet 3, 21). È un bagno che ci lava dai nostri peccati (1 Cor 6, 11; Ef 5, 26; Ebr 10, 22; Atti 22, 16), applicandoci la virtù redentrice del *sangue di Cristo (Ebr 9, 13 s; Apoc 7, 14; 22, 14). A questo simbolismo fondamentale dell’acqua battesimale Paolo ne aggiunge un altro: immersione ed emersione del neofita, che simboleggiano la sua sepoltura con Cristo e la sua risurrezione spirituale (Rom 6, 3-11). Forse Paolo vede qui, nell’acqua battesimale, una rappresentazione del *mare, abitacolo delle potenze malefiche e simbolo di morte, vinto da Cristo, come un tempo il Mar Rosso da Jahvè (1 Cor 10, 1 ss; cfr. Is 51, 10). Infine, comunicandoci lo Spirito di Dio, il battesimo è anche principio di nuova *vita. È possibile che Cristo abbia voluto farvi allusione effettuando parecchie guarigioni per mezzo dell’acqua (Gv 9, 6 s; cfr. 5, 1-8). Il battesimo è concepito allora come un «bagno di rigenerazione e di rinnovamento dello Spirito Santo» (Tito 3, 5; cfr. Gv 3, 5).
    M.É. BOISMARD

    → battesimo - benedizione II 1, III 4, IV 3 - diluvio - fame e sete - frutto II - mare - morte VT 1 5 - pietra 3 - puro - roccia 2 - sale 1 - sangue NT 4 - Spirito di Dio 0 - vita IV 2.

    ADAMO (inizio)

    I. ADAMO ED I FIGLI DI ADAMO
    1. Il senso delle parole.
    - Contrariamente a quel che è suggerito dalle traduzioni della Bibbia, il termine Adamo è estremamente diffuso e presenta una vasta gamma di significati. Quando pronunziava questa parola, l’ebreo era ben lungi dal pensare anzitutto al primo uomo: fuori del racconto della creazione in cui l’espressione è ambigua, Adamo non designa certamente il primo uomo se non in cinque passi (Gen 4, 25; 5, 1. 3 ss; 1 Cron 1, 1; Tob 8, 6). Abitualmente, e giustamente, il termine è reso con uomo in genere (Giob 14, 1), la gente (Is 6, 12), qualcuno (Eccle 2, 12), «uno» (Zac 13, 5), nessuno (1 Re 8, 46; Sal 105, 14), l’essere umano (Os 11; 4; Sal 94, 11). Il senso collettivo predomina nettamente. La stessa cosa vale per l’espressione figli di Adamo, che non ha mai di mira un discendente dell’individuo Adamo, ma è in parallelismo con uomo (Giob 25, 6; Sal 8, 5), designa una persona (Ger 49, 18. 33; cfr. Ez 2, 1. 3...) o una collettività (Prov 8, 31; Sal 45, 3; 1 Re 8, 39. 42). Usata in opposizione a Dio, l’espressione sottolinea, come il termine «*carne», la condizione mortale e debole dell’umanità: «Jahvè scruta dall’alto dei cieli, vede tutti i figli di Adamo» (Sal 33, 13; cfr. Gen 11, 5; Sal 36, 8; Ger 32, 19). I «figli di Adamo» sono dunque gli uomini nella loro condizione terrestre. È quel che insinua l’etimologia popolare della parola, che la fa derivare da 'adamah=suolo: Adamo è il terrestre, colui che fu fatto dalla polvere del suolo. Questo prospetto semantico ha una portata teologica: non ci si può accontentare di vedere nel primo Adamo un individuo tra gli altri. Lo implica il passaggio sorprendente dal singolare al plurale della frase del Dio creatore: «Facciamo Adamo a nostra immagine...ed essi dominino...» (Gen 1, 26). Qual era dunque l’intenzione del narratore dei primi capitoli della Genesi?
    2. Verso il racconto della creazione e del peccato di Adamo.
    - I primi tre capitoli della Genesi costituiscono come una prefazione all’insieme del Pentateuco. Ma non hanno un’origine unica;sono stati scritti in due tempi da due redattori successivi, il jahvista (Gen 2 - 3) e il sacerdotale (Gen 1). D’altra parte è abbastanza sorprendente il constatare che la letteratura anteriore al sec. II a. C. non fa mai un esplicito riferimento a questi passi; soltanto allora, all’origine della morte dell’uomo, l’Ecclesiastico denuncia la donna (Eccli 25, 24) e la Sapienza il demonio (Sap 2, 24). Tuttavia questi stessi racconti condensano un’esperienza secolare, lentamente elaborata fin da prima del sec. II, di cui si possono ritrovare alcuni elementi nella tradizione profetica e sapienziale.
    a) La credenza nella universalità del *peccato vi si afferma sempre più; il salmista descrive in qualche modo la condizione adamitica quando dice: «peccatore mi ha concepito la madre mia» (Sal 51, 7). Altrove il peccato dell’uomo è descritto come quello di un essere meraviglioso collocato, come un angelo, nel giardino di Dio, e decaduto per una colpa d’*orgoglio (Ez 28, 13-19; cfr. Gen 2, 10-15; 3, 22 s)b) La fede nel Dio creatore e redentore non è meno viva. Come un vasaio Dio modella l’uomo (Ger 1, 5; Is 45, 9; cfr. Gen 2, 7), e lo fa ritornare alla polvere (Sal 90, 3; Gen 3, 19). «Cos’è dunque l’uomo perché tu ti ricordi di lui, il figlio di Adamo perché tu te ne interessi? Lo hai reso poco da meno di Dio, coronandolo di gloria e di splendore; lo hai fatto signore delle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi» (Sal 8, 5 ss; cfr. Gen 1, 26 ss; 2, 19 s). Dopo il peccato Dio non appare soltanto come il Signore magnifico (Ez 28, 13 s; Gen 2, 10-14) che detronizza l’orgoglioso e lo restituisce alle sue modeste origini (Ez 28, 16-19; Gen 3, 23 s), ma è pure il Dio paziente, che *educa lentamente il figlio suo (Os 11, 3 s; Ez 16; cfr. Gen 2, 8 - 3, 21). Così anche i profeti hanno annunciato una fine dei tempi simile al *paradiso antico (Os 2, 20; Is 11, 6-9); la morte sarà soppressa (Is 25, 8; Dan 12, 2; cfr. Gen 3, 15), e persino un misterioso *figlio d’uomo di natura celeste apparirà vincitore sulle nubi (Dan 7, 13 s).
    3. Adamo, nostro capostipite.
    - In funzione delle tradizioni che sono state abbozzate, ecco, a grandi linee, gli insegnamenti dei racconti della *creazione. In un primo sforzo per immaginare la condizione umana, il jahvista, convinto che il capostipite include in sé tutti i suoi discendenti, annunzia a tutti gli uomini che, creato buono da Dio, 1’*uomo che ha peccato dev’essere un giorno redento. Dal canto suo il racconto sacerdotale (Gen 1) rivela che l’uomo è creato ad *immagine di Dio; poi, mediante genealogie (Gen 5; 10), mostra che tutti gli uomini formano, al di là di Israele, una *unità: il genere umano.
    II. IL NUOVO ADAMO
    1. Verso la teologia del nuovo Adamo.
    - Il NT ripete che gli uomini discendono tutti da uno solo (Atti 17, 26), o che i progenitori sono il prototipo della coppia coniugale (Mt 19, 4 s par.; 1 Tim 2, 13 s) che deve essere restaurata nella nuova umanità. L’originalità del suo messaggio risiede nella presentazione di Gesù Cristo come il nuovo Adamo. Gli apocrifi avevano attirato l’attenzione sulla ricapitolazione di tutti gli uomini peccatori in Adamo; soprattutto, Gesù stesso s’era presentato come il *figlio dell’uomo, volendo dimostrare nello stesso tempo che apparteneva alla razza umana e che doveva compiere la profezia gloriosa di Daniele. I sinottici tracciano in modo più o meno esplicito un accostamento tra Gesù e Adamo. Marco descrive il soggiorno di Gesù con le bestie (Mc 1, 13); Matteo evoca Gen 5, 1 nel «Libro della Genesi di Gesù Cristo» (Mt 1, 1); per Luca, colui che ha trionfato della tentazione è «figlio di Adamo, figlio di Dio» (Lc 3, 38), vero Adamo, che ha resistito al tentatore. Senza dubbio anche dietro un inno paolino (Fil 2, 6-11) si può riconoscere un voluto contrasto tra Adamo, che cercò di impadronirsi della condizione divina, e Gesù che non la ritenne gelosamente per sé. A queste evocazioni si possono aggiungere accostamenti espliciti.
    2. L’ultimo e vero Adamo.
    - In 1 Cor 15, 45-49, Paolo oppone con vivezza i due tipi secondo i quali noi siamo costituiti; il primo uomo, Adamo, è stato fatto anima vivente, terrestre, psichico; «l’ultimo Adamo è uno spirito che dona la vita», perché è celeste, spirituale. Al quadro delle origini corrisponde quello della fine dei tempi, ma un abisso separa la creazione seconda dalla prima, lo spirituale dal carnale, il celeste dal terrestre. In Rom 5, 12-21, Paolo dice esplicitamente che Adamo era «la *figura di colui che doveva venire». Fondandosi sulla convinzione che l’atto del primo Adamo ebbe un effetto universale - la *morte (cfr. 1 Cor 15, 21 s) - , afferma allo stesso modo l’azione redentrice di Cristo, secondo Adamo. Ma nota nettamente le differenze: di Adamo, la disobbedienza, la condanna e la morte; di Gesù Cristo, 1’*obbedienza, la giustificazione e la vita. Più ancora, con Adamo il *peccato è entrato nel mondo; con Cristo, che ne è la sorgente, ha sovrabbondato la *grazia. Infine l’unione feconda di Adamo ed Eva annunciava l’unione di Cristo e della Chiesa; questa a sua volta diventa il mistero che sta alla base del *matrimonio cristiano (Ef 5, 25-33; cfr. 1 Cor 6, 16).
    3. Il cristiano e i due Adami.
     - Figlio di Adamo per nascita e rinato in Cristo per la fede, il cristiano conserva con il primo e con l’ultimo Adamo una relazione duratura, anche se di natura e di portata diversa. Fedele al vero significato del racconto delle origini, non adduce a propria discolpa il peccato del primo uomo, ma si rende conto che Adamo è lui stesso, con la sua fragilità, il suo peccato ed il suo dovere di svestirsi dell’uomo vecchio, secondo la frase di Paolo (Ef 4, 22 s; Col 3, 9 s). E questo per «rivestirsi di Gesù Cristo, l’uomo nuovo»; in tal modo l’intero suo destino si inserisce nel dramma dei due Adami. O meglio, egli trova in Cristo l’*uomo per eccellenza: secondo il commento che Ebr 2, 5-9 fa al Sal 8, 5 ss, colui che fu provvisoriamente abbassato al di sotto degli angeli per meritare la salvezza di tutti gli uomini, ha ricevuto la *gloria promessa al vero Adamo.

    M. JOIN-LAMBERT e X. LÉON-DUFOUR

    →Abramo I 3 - coscienza 2 c - creazione VT II 1.2; NT II 2 - donna VT 1 - figlio dell’uomo VT I; NT II - fratello VT l; NT 0.2 - generazione - Gesù Cristo II 1 d - immagine II, IV, V - nuovo III 3 a - paradiso 2 e - peccato I - padri e Padre I 2, III 1 - responsabilità 1 - terra VT 1 2 - uomo.

    ADDII (inizio)

    Nel VT, come nel NT, diversi personaggi, sul punto di morire, rivolgono ai loro eredi, degli addii che costituiscono dei veri e propri testamenti.
    VECCHIO TESTAMENTO
    I personaggi di cui si tramandano gli addii, sono il più delle volte dei responsabili del popolo di Dio: Giacobbe, Mosè, Giosuè, Samuele, David... (e nel giudaismo di epoca posteriore, i dodici patriarchi). Accanto a tratti particolari che impongono le diverse situazioni, i loro discorsi presentano numerosi punti in comune. II morente evoca i doni di Dio al suo popolo; intravvede la salvezza promessa (Gen 49, 8-12; Deut 32, 36-43; Test. dei Patr.), esorta i successori alla fedeltà (Deut 31-32; Gios 24; 1 Sam 12); nei testi più recenti (1 Mac 2, 51-61; Test. dei Patr.) insiste sull’esempio dei *padri. Così i padri e i capi di Israele appaiono come i *testimoni dell’alleanza. Trasmettono la tradizione ricevuta, il compito e i poteri loro affidati; invitano i superstiti a portare avanti la loro opera.
    NUOVO TESTAMENTO
    1. Addii di Gesù.
    - Il discorso escatologico (Mc 13) è l’ultimo insegnamento che Gesù impartisce al popolo. Esorta i fedeli a prepararsi al compimento delle promesse da lui annunciate. Ma, per la novità radicale della sua persona, vi introduce un tema originale: l’annuncio della parusia che trasforma gli addii in arrivederci. L’ultima cena è il luogo classico degli addii di Gesù. In Marco e Matteo, l’istituzione dell’*eucaristia si conclude con un appuntamento nel regno (Mc 14, 25 par.). In Luca, si protrae con un discorso che esorta i Dodici a seguire l’esempio del servizio di Gesù (Lc 22, 24-27) e promette loro, sotto forma di testamento, una parte del proprio potere regale (Lc 22, 28-30). In Giovanni, l’ampio racconto (Gv 13 - 17) si apre con il lavaggio dei piedi, in cui Gesù dà l’esempio del suo servizio; due discorsi paralleli (14 e 16, 16-33) costituiscono gli addii propriamente detti: Gesù vi annuncia la dolorosa separazione ormai prossima, e la gioia del suo ritorno (nelle «apparizioni pasquali» in 16; nella sua presenza ecclesiale in 14); invita i discepoli alla fede, all’amore, alla pace. La sua assenza è provvisoria; è solo apparente. Le *apparizioni del Risorto ai Dodici comportano, come gli addii di Mosè, di Samuele e di David, una trasmissione di poteri. Gesù affida ai suoi il proseguimento della sua *missione: li incarica di predicare, battezzare, perdonare (Mt 28, 19 par.). Promette loro la sua presenza per sempre (Mt 28, 20).
    2. Gli addii degli apostoli.
    Gli addii degli apostoli, servi del disegno di Dio,sono più affini a quelli dei personaggi del VT. La seconda epistola di Timoteo è un vero e proprio testamento. Paolo, sapendosi vicino a morire (2 Tim 4, 6-8), ricorda al fedele discepolo la salvezza compiuta in Gesù (1, 9-10), gli annuncia il pericolo dell’eresia (2, 16-18) e si protende con tutta la sua speranza verso l’avvento del giorno del Signore (1, 12. 18; 2, 11-12). Gli stessi temi compaiono nella seconda lettera di Pietro: la morte ormai prossima dell’apostolo (2 Piet 1, 12-15) , la salvezza accordata (1, 3-4), la minaccia dell’*eresia (2, 1-3. 10-22), l’attesa del giorno del Signore (1, 16. 19; 3, 8-10. 12-13. 18). Ma il testamento più caratteristico è quello di Paolo ai presbiteri di Efeso (Atti 20, 17-38). Vi si trova l’esempio di Paolo (v. 18-21. 31-35), la prospettiva del suo arresto incombente (v. 25. 27), l’invito a dargli il cambio nel servizio della Chiesa (v. 28) e a difendere il gregge dagli eretici (v. 29-30). I discorsi degli apostoli, a differenza di quelli di Gesù, non comportano un arrivederci. Non che non sperino di ritrovare i loro fedeli nel *giorno del Signore; ma quando pensano a quel giorno, pensano innanzitutto all’incontro con il Maestro. Lui solo è il vincitore della *morte e di ogni assenza.
    A. GEORGE
    → apparizioni di Cristo 4 - morte VT I 1 - pasto III - presenza di Dio NT I. ADE → inferi e inferno. ADONAI → Jahvè 3 - nome VT 4 - Signore VT
    .

    ADORAZIONE (inizio)

    Ezechiele dinanzi alla *gloria di Jahvè (Ez 1, 28), Saulo dinanzi all’apparizione di Cristo risorto (Atti 9, 4) sono gettati a terra, come annientati. La *santità e la grandezza di *Dio hanno qualcosa di schiacciante per la creatura e la rituffano nel suo nulla. Se è cosa eccezionale che l’uomo venga ad incontrare in tal modo Dio con un’esperienza diretta, è normale che, nell’universo e nel corso della sua esistenza, egli riconosca la *presenza e l’azione di Dio, della sua gloria e della sua santità. L’adorazione è l’espressione ad un tempo spontanea e cosciente, imposta e voluta, della reazione complessa dell’uomo colpito dalla vicinanza di Dio: coscienza acuta della sua nullità e del suo *peccato, confusione silenziosa (Giob 42, 1-6), venerazione tremebonda (Sal 5, 8) e ricono scente (Gen 24, 48), omaggio giubilante (Sal 95, 1-6) di tutto il suo essere. Poiché il fatto pervade tutto l’essere, questa reazione di fede si traduce in atti esterni, e non c’è vera adorazione senza che il *corpo manifesti in qualche modo la sovranità del *Signore sulla sua *creazione e l’omaggio della creatura colpita e consenziente. Ma la creatura peccatrice tende sempre a sfuggire al dominio divino ed a ridurre la sua adesione alle forme esterne; perciò la sola adorazione che piaccia a Dio è quella che viene dal *cuore.
    I. GLI ATTI DI ADORAZIONE
    Essi si riducono a due, la prostrazione e il bacio. L’una e l’altro assumono nel *culto la loro forma consacrata, ma si collegano sempre al movimento spontaneo della creatura dinanzi a Dio, divisa tra il *timore panico ed il rapimento attonito.
    1. La prostrazione
    La prostrazione, prima di essere un atto spontaneo, è un atteggiamento imposto con la forza da un avversario più potente, quello di Sisara che cade colpito a morte da Jael (Giud 5, 27), quello a cui Babilonia riduce gli Israeliti prigionieri (Is 51, 23). Per evitare di esservi costretto con la violenza, il debole preferisce sovente andare egli stesso ad inchinarsi dinanzi al più forte e ad implorare la sua *grazia (1 Re 1, 13). I bassorilievi assiri mostrano volentieri i vassalli del re inginocchiati, con la testa prostrata fino a terra. Al *Signore Jahvè, «che è elevato al di sopra di tutto» (1 Cron 29, 11), spetta l’adorazione di tutti i popoli (Sal 99, 1-5) e di tutta la terra (Sal 96, 9).
    2. Il bacio
    Il bacio unisce al rispetto il bisogno di contatto e di adesione, la sfumatura di *amore (Es 18, 7; 1 Sam 10, 1...). Per baciare i loro *idoli (1 Re 19, 18), i pagani portavano la mano alla bocca (ad os = adorare, cfr. Giob 31, 26 ss); esprimevano così nello stesso tempo il loro desiderio di toccare Dio e la distanza che li separava da lui. Il gesto classico dell’«orante» delle catacombe, perpetuato nella liturgia cristiana, con le braccia tese, con le mani che, a seconda della posizione, esprimono l’offerta, la supplica o il saluto, non implica più il bacio, ma ne conserva ancora il senso profondo.
    3. Tutti gli atti del culto
    Tutti gli atti del culto, non soltanto la prostrazione rituale dinanzi a Jahvè (Deut 26, 10; Sal 22, 28 ss) e dinanzi all’*arca (Sal 99, 5), ma l’insieme degli atti compiuti dinanzi all’*altare (2 Re 18, 22) o nella «*casa di Jahvè» (2 Sam 12, 20), tra l’altro i *sacrifici (Gen 22, 5; 2 Re 17, 36), cioè tutti gli atti del *servizio di Dio, possono essere conglobati sotto la formula «adorare Jahvè» (1 Sam 1, 3; 2 Sam 15, 32). E ciò perché la adorazione è diventata l’espressione più adatta, ma anche la più varia, dell’omaggio al Dio, dinanzi al quale gli angeli si prostrano (Neem 9, 6) e i falsi dèi non sono più nulla (Sof 2, 11).
    II. «ADORERAI IL SIGNORE DIO TUO»
    1. *Jahvè solo ha diritto all’adorazione.
    - Il VT conosce la prostrazione dinanzi agli uomini, liberata da equivoci (Gen 23, 7. 12; 2 Sam 24, 20; 2 Re 2, 15; 4, 37) e sovente provocata dalla sensazione più o meno chiara della maestà divina (1 Sam 28, 14. 20; Gen 18, 2; 19, 1; Num 22, 31; Gios 5, 14), ma vieta rigorosamente ogni atto di adorazione suscettibile di annettere un valore qualunque ad un possibile rivale di Jahvè: *idoli, *astri (Deut 4, 19), dèi stranieri (Es 34, 14; Num 25, 2). Non c’è dubbio che il divieto sistematico di tutto ciò che sapeva di idolatria abbia radicato in Israele il senso profondo dell’adorazione autentica, ed abbia dato il suo puro valore religioso al fiero rifiuto di Mardocheo (Est 3, 2. 5), ed a quello dei tre giovanetti ebrei dinanzi alla statua di Nabuchodonosor (Dan 3, 18). Tutto ciò è contenuto nella risposta di Gesù al tentatore: «Adorerai il Signore Dio tuo e a lui solo renderai un culto» (Mt 4, 10 par.).
    2. *Gesù Cristo è Signore.
    - L’adorazione riservata al Dio unico è «scandalo per i Giudei» (1 Cor 1, 23), proclamata come dovuta a *Gesù crocifisso, confessato come *Signore Cristo (Atti 2, 36). «Nel suo *nome si piega ogni *ginocchio in cielo, sulla terra e negli inferi» (Fil 2, 9 ss; Apoc 15, 4). Questo *culto ha come oggetto Cristo risorto ed esaltato (Mt 28, 9. 17; Lc 24, 52), ma nell’uomo ancora destinato alla morte (Mi 14, 33; Gv 9, 38), e persino nel neonato (Mt 2, 2. 11; cfr. Is 49, 7) la *fede riconosce già il *Figlio di Dio e lo adora (Mt 14, 33; Gv 9, 38). L’adorazione del Signore Gesù non toglie nulla all’intransigenza dei cristiani, attenti a rifiutare agli *angeli (Apoc 19, 10; 22, 9) ed agli apostoli (Atti 10, 25 s; 14, 11-18) gli atti anche solo esterni dell’adorazione. Ma, con il *confessare la loro adorazione verso un *Messia, un Dio fatto uomo e salvatore essi sono portati a sfidare apertamente il culto dei Cesari, rappresentati dalla *bestia dell’Apocalisse (13, 4-15; 14, 9 ss), e ad affrontare la potenza imperiale.
    3. Adorare in spirito ed in verità.
    - La novità dell’adorazione cristiana non sta soltanto nella figura nuova che essa contempla: il Dio in tre persone; - questo Dio, «che è *spirito», trasforma l’adorazione e la porta alla sua perfezione: oramai quelli che sono «nati dallo Spirito» (Gv 3, 8) possono adorare «in spirito e verità» (4, 24). Questo atteggiamento non consiste in un atto puramente interno, senza gesti e senza forme, ma deriva da una consacrazione di tutto l’essere: spirito, *anima e *corpo (1 Tess 5, 23). Santificati così in modo radicale, i veri adoratori non hanno più bisogno di *Gerusalemme o del Garizim (Gv 4, 20-23), di una religione nazionale. Tutto appartiene loro perché essi appartengono a Cristo, e Cristo appartiene a Dio (1 Cor 3, 22 s). L’adorazione in spirito di fatto si compie nel solo *tempio gradito al Padre, nel *corpo di Cristo risorto (Gv 2, 19-22). In esso gli «spirituali» (Gv 3, 8) uniscono la loro adorazione alla sola in cui il *Padre si compiace (Mt 3, 17): ripetono il grido del *Figlio diletto: «Abba, Padre» (Gal 4, 6). Infine, in cielo, non ci sarà più tempio, ma Dio e l’agnello (Apoc 21, 22); né di giorno né di notte (4, 8) cesserà l’adorazione, grazie alla quale sono resi onore e gloria a colui che vive per i secoli (4, 10; 15, 3 s).
    J. DE VAULX e J. GUILLET
    → bestemmia - creazione VT IV - culto - ginocchio - idoli I - preghiera - profumo 2 - servire II 1 - silenzio 2 - timore di Dio I
    .

    ADOZIONE (inizio)

    → bambino III - fecondità II 3 - figlio di Dio I; NT II - Padri e Padre III 3.4, V 2, VI - sterilità.

    ADULTERIO (inizio)

    Se il decalogo, e, dopo di esso, i profeti condannano in modo assoluto l’adulterio, la *fedeltà che si esige dai due sposi nel *matrimonio sarà pienamente rivelata solo da Cristo. Ma la fedeltà totale che si esigeva dalla *donna fin dall’antica alleanza può simboleggiare quella che Dio si aspetta dal suo popolo; così i profeti condannano l’infedeltà all’alleanza come un adulterio spirituale.
    1. Matrimonio e adulterio.
    - Interdetto (Es 20, 14; Deut 5, 18; Ger 7, 9; Mal 3, 5), l’adulterio riceve nella legge una definizione limitata: è l’atto che viola l’appartenenza di una donna al marito o al fidanzato (Lev 20, 10; Deut 22, 22 ss). La donna appare come cosa dell’uomo (Es 20, 17) piuttosto che come persona con la quale egli non fa che uno, nella fedeltà di un *amore reciproco (Gen 2, 23 s). Questo abbassamento della donna è legato alla comparsa della poligamia, che si ricollega a un discendente di Caino, caratterizzato dalla *violenza (Gen 4, 19). La poligamia verrà tollerata per molto tempo (Deut 21, 15; cfr. 17, 17; Lev 18, 18); tuttavia i saggi, che mettono in evidenza la gravità dell’adulterio (Prov 6, 24-29; Eccli 23, 22-26), invitano l’uomo a riservare il proprio amore alla donna della sua giovinezza (Prov 5, 15-19; Mal 2, 14 s). Per di più, condannano la frequentazione delle prostitute, benché essa non renda l’uomo adultero (Prov 23, 27; Eccli 9, 3. 6). Gesù, la cui misericordia salva la donna adultera, pur condannandone il peccato (Gv 8, 1-11), rivela tutte le dimensioni della fedeltà coniugale (Mt 5, 27 s. 31 s; 19, 9 par.); essa lega sia l’uomo che la donna (Mc 10, 11); li lega indissolubilmente (Mt 19, 6) e intimamente (Mt 5, 28); sposarsi dopo un divorzio è commettere adulterio; è essere adultero nel proprio cuore desiderare di unirsi a un altro che non sia il proprio coniuge. Per evitare questo peccato che esclude dal regno (1 Cor 6, 9), Paolo ricorda che bisogna cercare nell’amore la fonte della fedeltà (Rom 13, 9 s). Si eviterà così di deturpare la santità del matrimonio (Ebr 13, 4).
    2. Alleanza e adulterio.
    - L’*alleanza che deve unire l’uomo a Dio con un legame di amore fedele è presentata dai profeti sotto il simbolo di un matrimonio indissolubile (Os 2, 21 s; Is 54, 5 s) (cfr. *sposo); così, l’infedeltà del popolo è a sua volta stigmatizzata come un adulterio e una prostituzione (Os 2, 4), perché il popolo si abbandona al culto degli idoli come una prostituta si dà ai propri amanti, per interesse (Os 2, 7; 4, 10; Ges 5, 7; 13, 27; Ez 23, 43 ss; Is 57, 3).Gesù riprende l’immagine per condannare la mancanza di fede; chiama «generazione adultera» gli increduli che esigono dei *segni e gli infedeli che arrossiscono di lui e del suo vangelo (Mt 12, 39; 16, 4; Mc 8, 38). San Giacomo, a sua volta, definisce adulterio ogni compromesso tra l’amore di Dio e quello del mondo (Giac 4, 4). Attraverso queste condanne, viene messa in luce la fedeltà assoluta che è nello stesso tempo il frutto e l’esigenza dell’amore.
    M. F. LACAN
    → alleanza VT II 2 - desiderio II - donna VT 3 matrimonio VT II 3; NT I 1 - perdono I - sessualità III - Sposo-sposa VT
    .

    AFFLIZIONE (inizio)

    → consolazione - gioia NT I 2, II 2 - persecuzione - poveri - sofferenza - tristezza - vedove 0.

    AFFRANCARE (inizio)

    → liberazione-libertà II, III - schiavo.

    AGAPE (inizio)

    → amore 0 - eucaristia II 3 - pasto III.

    AGNELLO DI DIO (inizio)

    In parecchi libri del NT (Gv, Atti, 1 Piet, e soprattutto Apoc) Cristo è identificato con un agnello; questo tema proviene dal VT secondo due prospettive distinte.
    1. Il servo di Jahvè.
    - Perseguitato dai suoi nemici, il profeta Geremia si paragona ad un «agnello che viene condotto al macello» (Ger 11, 19). Questa immagine in seguito fu applicata al *servo di Jahvè che, morendo per espiare i peccati del suo popolo, appare «come un agnello condotto al macello, come pecora muta e che non apre bocca di fronte ai suoi tosatori» (Is 53, 7). Questo testo, sottolineando l’umiltà e la rassegnazione del servo, annunziava nel modo migliore il destino di Cristo, come spiega Filippo all’eunuco della regina d’Etiopia (Atti 8, 31-35). Ad esso rimandano gli evangelisti quando sottolineano che Cristo «taceva» dinanzi ai sinedriti (Mt 26, 63) e non rispondeva nulla a Pilato (Gv 19, 9). È possibile che anche Giovanni Battista vi si riferisca quando, secondo il IV vangelo, designa Gesù come «l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (1, 29; cfr. Is 53, 7. 12; Ebr 9, 28).
    2. L’agnello pasquale.
    - Allorché Dio ebbe deciso di liberare il suo popolo *schiavo degli Egiziani, ordinò agli Ebrei di immolare per ogni famiglia un agnello «senza difetti, maschio, di un anno» (Es 12, 5), di mangiarlo alla sera e segnare col suo sangue gli stipiti della porta. Grazie a questo «*segno» essi sarebbero stati risparmiati dall’angelo sterminatore che veniva a colpire tutti i primogeniti degli Egiziani. Arricchendo il tema primitivo, in seguito la tradizione giudaica diede un valore *redentore al sangue dell’agnello: «In virtù del sangue dell’alleanza della circoncisione e in virtù del sangue della Pasqua, io vi ho liberati dall’Egitto» (Pirqe R. Eliezer, 29; cfr. Mekhilta su Es 12). Grazie al *sangue dell’agnello pasquale gli Ebrei sono stati riscattati dalla *schiavitù d’Egitto e quindi hanno potuto diventare «nazione consacrata», «regno di sacerdoti» (Es 19, 6), legati a Dio da un’*alleanza e governati dalla legge di Mosè. La tradizione cristiana ha visto in Cristo «il vero agnello» pasquale (prefazio della Messa di Pasqua), e la sua missione redentrice è ampiamente descritta nella catechesi battesimale soggiacente alla prima lettera di Pietro, ed alla quale fanno eco gli scritti giovannei e la lettera agli Ebrei. Gesù è l’agnello (1 Piet 1, 19; Gv 1, 29; Apoc 5, 6) senza difetto (Es 12, 5), cioè senza peccato (1 Piet 1, 19; Gv 8, 46; 1 Gv 3, 5; Ebr 9, 14), che riscatta gli uomini a prezzo del suo sangue (1 Piet 1, 18 s; Apoc 5, 9 s; Ebr 9, 12-15). In tal modo egli li ha liberati dalla «terra» (Apoc 14, 3), dal *mondo malvagio dedito alla perversione che deriva dal culto degli *idoli (1 Piet 1, 14. 18; 4, 2 s), cosicché ormai essi possono evitare il *peccato (1 Piet 1, 15 s; Gv 1, 29; 1 Gv 3, 5-9) e formare il nuovo «regno di sacerdoti», la vera «nazione consacrata» (1 Piet 2, 9; Apoc 5, 9 s; cfr. Es 19, 6), offrendo a Dio il *culto spirituale di una vita irreprensibile (1 Piet 2, 5; Ebr 9, 14). Essi hanno lasciato le tenebre del paganesimo per la luce del *regno di Dio (1 Piet 2, 9): questo è il loro *esodo spirituale. Avendo, grazie al sangue dell’agnello (Apoc 12, 11), vinto Satana, di cui il faraone era il tipo, essi possono intonare «il cantico di Mosè e dell’agnello» (Apoc 15, 3; 7, 9 s. 14-17; cfr. Es 15) che esalta la loro liberazione. Questa tradizione, che vede in Cristo il vero agnello pasquale, risale alle origini stesse del cristianesimo. Paolo esorta i fedeli di Corinto a vivere come azzimi, «nella purezza e nella verità», poiché «la nostra *pasqua, Cristo, è stato immolato» (1 Cor 5, 7). Qui egli non propone un insegnamento nuovo su Cristo-agnello, ma si riferisce alle tradizioni liturgiche della Pasqua cristiana, ben anteriori quindi al 55-57, data in cui l’apostolo scriveva la lettera. Stando alla cronologia giovannea, l’evento stesso della morte di Cristo avrebbe fornito il fondamento di questa tradizione. Gesù fu messo a morte la vigilia della festa degli azzimi (Gv 18. 28; 19, 14. 31), quindi il giorno della Pasqua, nel pomeriggio (19, 14), nell’ora stessa in cui, secondo le prescrizioni della legge, si immolavano nel tempio gli agnelli. Dopo la morte non gli furono spezzate le gambe come agli altri condannanti (19, 33), ed in questo fatto l’evangelista vede la realizzazione di una prescrizione rituale concernente l’agnello pasquale (19, 36; cfr. Es 12, 46).
    3. L’agnello celeste.
    - Pur conservando fondamentalmente il tema di Cristo-agnello pasquale (Apoc 5, 9 s), l’Apocalisse stabilisce un netto contrasto tra la debolezza dell’agnello immolato e la *potenza che la sua esaltazione al cielo gli conferisce. Agnello nella sua morte redentrice, Cristo è nello stesso tempo un leone, la cui *vittoria ha liberato il popolo di Dio, prigioniero delle potenze del male (5, 5 s; 12, 11). Condividendo ora il trono con Dio (22, 1. 3), ricevendo con lui l’adorazione degli esseri celesti (5, 8. 13; 7, 10), eccolo investito d’un potere divino. Egli eseguisce i decreti di Dio contro gli empi (6, 1...) e la sua *ira li immerge nel terrore (6, 16); egli conduce la *guerra escatologica contro le potenze del male coalizzate, e la sua vittoria lo consacrerà «re dei re e Signore dei signori» (17, 14; 19, 16...). Egli non ritroverà la sua antica mitezza se non quando saranno celebrate le sue nozze con la Gerusalemme celeste che simboleggia la Chiesa (19, 7. 9; 21, 9). Allora l’agnello si farà *pastore per condurre i fedeli verso le sorgenti d’*acqua viva della beatitudine celeste (7, 17; cfr. 14, 4).
    M.É. BOISMARD
    → animali 0; II 3 - esodo NT - Gesù Cristo II 1 b; concl. - Pasqua I 6 b, II, III 2.3 - pastore e gregge NT 1 - redenzione NT 1.4 - sacrificio NT I, II 1 - sangue VT 3 b; NT 4 - servo di Dio III 2 - Sposo-sposa NT - vittoria NT
    .

    AGONIA (inizio)

    → angoscia - morte NT II 1 - sofferenza NT II - tristezza NT 1 - vegliare II 1.

    AGRICOLTURA (inizio)

    → frutto - lavoro - messe - seminare I - terra VT I II 3 - vendemmia - vite - vigna.

    AIUTO (inizio)

    → donna VT 1 - forza II - grazia V - Provvidenza 1 - salvezza.

    ALBERO (inizio)

    Agli occhi dell’uomo l’albero è il segno tangibile della forza vitale che il creatore ha effuso nella natura (cfr. Gen 1, 11 s). Ad ogni primavera esso ne annuncia la rinascita (Mt 24, 32). Tagliato, rigermoglia (Giob 14, 7 ss). Nel deserto arido indica i luoghi dove 1’*acqua permette la vita (Es 15, 27; Is 41, 19). Nutre l’uomo con i suoi frutti (cfr. Dan 4, 9). Ce n’è a sufficienza perché si possa paragonare ad un albero verdeggiante sia l’uomo giusto che Dio benedice (Sal 1, 3; Ger 17, 7 s), sia il popolo che egli colma di favori (Os 14, 6 s). È vero che esistono alberi buoni ed alberi cattivi, che si riconoscono dai loro *frutti: i cattivi non meritano che di essere tagliati e gettati nel fuoco; e così anche gli uomini, al momento del *giudizio di Dio (Mt 7, 16-20 par.; cfr. 3, 10 par.; Lc 23, 31). Partendo da questo significato generale il simbolismo dell’albero si sviluppa nella Bibbia in tre direzioni.
    1. L’albero di vita.
    - Riprendendo un simbolo corrente della mitologia mesopotamica, la Genesi colloca nel *paradiso primitivo un albero di *vita, il cui frutto comunica l’immortalità (Gen 2, 9; 3, 22). In connessione con questo primo simbolo la falsa sapienza, che l’uomo usurpa attribuendosi «la conoscenza del bene e del male», è pure rappresentata come un albero cui frutto è vietato (Gen 2, 16 s). Sedotto dall’apparenza ingannatrice di quest’albero, l’uomo ne ha mangiato il frutto (Gen 3, 2-6). Conseguentemente, ora non ha più via libera all’albero di vita (Gen 3, 22 ss). Ma tutto lo svolgimento della storia sacra gli mostrerà come Dio gliene restituisce l’accesso. Nell’escatologia profetica la *terra santa è descritta, negli ultimi tempi, come un paradiso ritrovato, i cui alberi meravigliosi forniranno agli uomini cibo e rimedio (Ez 47, 12; cfr. Apoc 22, 2). Fin d’ora la *sapienza è, per l’uomo che l’afferra, un albero di vita che dà la felicità (Prov 3, 18; 11, 30; cfr. Eccli 24, 12-22). Ed infine, nel NT, Cristo promette a coloro che gli rimarranno fedeli che mangeranno dell’albero di vita che è nel paradiso di Dio (Apoc 2, 7).
    2. L’albero del regno di Dio.
    - Le mitologie orientali conoscevano pure il simbolo dell’albero cosmico, rappresentazione figurata dell’universo. Questo simbolo non è ripreso nella Bibbia, la quale però paragona volentieri gli imperi umani, che tengono sotto la loro *ombra tanti popoli, ad un albero straordinario, che sale fino al cielo e discende fino agli inferi, dà ricetto a tutti gli uccelli e a tutte le bestie (Ez 31, 1-9; Dan 4, 7 ss). Grandezza fittizia, perché è fondata sull’*orgoglio. Il giudizio di Dio abbatterà quest’albero (Ez 31,10-18; Dan 4, 10-14). Ma il *regno di Dio, nato da un umile seme, diventerà esso stesso un grande albero dove tutti gli uccelli verranno a fare il nido (Ez 17, 22 ss; Mt 13, 31 s par.).
    3. L’albero della croce.
    - L’albero può diventare segno di *maledizione quando è usato come patibolo per i condannati a morte (Gen 40, 19; Gios 8, 29; 10, 26; Est 2, 23; 5, 14): colui che ne pende contamina la terra santa, perché è una maledizione di Dio (Deut 21, 22 s). Ora Gesù ha voluto prendere su di sé quella maledizione (Gal 3, 13). Ha portato i nostri peccati nel suo corpo sul legno della *croce (1 Piet 2, 24), vi ha inchiodato la sentenza di morte che era emessa contro di noi (Col 2, 14). Nello stesso tempo l’albero della croce è divenuto il «legno che salva» (cfr. Sap 14, 7): è aperta la via che conduce al. paradiso ritrovato, dove fruttifica per noi l’albero di vita (Apoc 2, 7; 22, 14). L’antico segno di maledizione è divenuto esso stesso quest’albero di vita: «O Croce sempre fedele, sei l’unico albero glorioso. Nessuna selva ne produce uguali, per fronde, fiori e ceppo» (liturgia del Venerdì santo).
    P. É. BONNARD e P. GRELOT
    → croce I 3.4 - frutto - ombra II - paradiso - regno NT II 1 -sapienza VT III 3 - vita III 1
    .

    ALFA E OMEGA (inizio)

    →nuovo IV - scrittura V - tempo NT III 1.

    ALI (inizio)

    → ombra II 2.

    ALIMENTO (inizio)

    → albero 1 - animati II 2 - eucaristia. II 3, III - latte - manna - nutrimento - olio 1 - pane - pasto - puro VT I 3; NT II 1 - sale 2.3 - vino.

    ALLEANZA (inizio)

    Dio vuole condurre gli uomini ad una vita di comunione con lui. Questa è l’idea, fondamentale per la dottrina della *salvezza, che il tema dell’alleanza esprime. Nel VT esso domina tutto il pensiero religioso, ma vediamo che si approfondisce con il tempo. Nel NT acquista una pienezza senza pari, perché ormai ha come contenuto tutto il mistero di *Gesù Cristo.
    VECCHIO TESTAMENTO
    Prima di riguardare i rapporti degli uomini con Dio, l’alleanza (berît) appartiene all’esperienza sociale e giuridica degli uomini, Questi si legano fra loro con patti e contratti che implicano diritti e doveri il più delle volte reciproci. Accordi tra gruppi o individui uguali che vogliono aiutarsi reciprocamente: sono le alleanze di pace (Gen 14, 13. 21 ss; 21, 22 ss; 26, 28; 31, 44 ss;1 Re 5, 26; 15, 19), le alleanze di fratelli (Am 1, 9), i patti di amicizia (1 Sam 23, 18), e lo stesso matrimonio (Mal 2, 14). Trattati disuguali in cui il potente promette la sua protezione al debole, mentre questi s’impegna a servirlo: l’Oriente antico praticava correntemente questi patti di vassallaggio e la storia biblica ne offre parecchi esempi (Gios 9, 11-15; 1 Sam 11, 1; 2 Sam 3, 12 ss). In questi casi l’inferiore può sollecitare l’alleanza; ma il potente l’accorda secondo il suo beneplacito e detta le sue condizioni (cfr. Ez 17, 13 s). La conclusione del patto avviene secondo un rituale consacrato dall’uso. Le parti si impegnano con *giuramento. Si tagliano degli animali in due parti e si passa tra di esse pronunziando imprecazioni contro gli eventuali trasgressori (cfr. Ger 34, 18). Infine si stabilisce un *memoriale: si pianta un albero o si drizza una pietra, che saranno oramai i testimoni del patto (Gen 21, 33; 31, 48 ss). Questa è l’esperienza fondamentale, in base alla quale Israele si è raffigurato i suoi rapporti con Dio.
    I. L’ALLEANZA DEL SINAI
    Il tema dell’alleanza non si è introdotto nel VT in epoca tarda: sta al punto di partenza di tutto il pensiero religioso differenziandolo da tutte le religioni vicine orientate verso le divinità della natura. Al Sinai il popolo liberato è entrato in alleanza con Jahvè, ed in questo modo il culto di Jahvè è diventato la sua religione nazionale. L’alleanza in questione non è evidentemente un patto tra eguali; è analoga ai trattati di vassallaggio Jahvè decide con libertà sovrana accordare la sua alleanza ad Israele e detta le sue condizioni. Tuttavia il paragone non dev’essere spinto troppo avanti, perché l’alleanza sinaitica, per il fatto di chiamare in causa Dio, appartiene ad un ordine particolare: rivela a priori un aspetto essenziale del *disegno di salvezza. 1. L’alleanza nel disegno di Dio. - Fin dalla visione del cespuglio ardente *Jahvè ha rivelato simultaneamente a Mosè il suo nome ed il suo disegno riguardo ad Israele: vuole liberare Israele dall’Egitto per stabilirlo nella terra di Canaan (Es 3, 7-10. 16 s), perché Israele è «il suo popolo» (3, 10) ed egli vuole dargli la terra promessa ai suoi padri (cfr. Gen 12, 7; 13, 15). Ciò suppone già che, da parte di Dio, Israele sia oggetto di *elezione e depositario di una *promessa. In seguito l’*esodo viene a confermare la rivelazione dell’Horeb: liberando effettivamente il suo popolo, Dio dimostra di essere il padrone e di essere capace d’imporre la sua volontà; il popolo liberato risponde quindi all’evento con la *fede (Es 14, 31). Acquisito questo punto, Dio può ora rivelare il suo disegno di alleanza: «Se ascolterete la mia voce ed osserverete la mia alleanza, sarete il mio popolo privilegiato tra tutti i popoli. Poiché tutta la terra mi appartiene, ma voi sarete per me un regno di sacerdoti ed una nazione consacrata» (Es 19, 5 s). Queste parole sottolineano la gratuità della elezione divina: Dio ha scelto Israele senza meriti da parte sua (Deut 9, 4 ss), perché l’ama e voleva mantenere il giuramento fatto ai suoi padri (Deut 7, 6 ss). Avendolo separato dalle *nazioni pagane, lo riserva a sé in modo esclusivo: Israele sarà il suo *popolo, che lo servirà mediante il suo *culto e diventerà il suo *regno. In cambio Jahvè gli assicura aiuto e protezione: non l’ha forse già, al momento dell’esodo, «portato su ali di aquila e condotto verso di sé» (Es 19, 4)? Ed ora, dinanzi al futuro, gli rinnova le sue promesse: 1’*angelo di Jahvè camminerà dinanzi a lui per facilitargli la conquista della *terra promessa; qui Dio lo colmerà delle sue *benedizioni e gli assicurerà la *vita e la *pace (Es 23, 20-31). Momento capitale nel disegno di Dio, l’alleanza ne determina in tal modo tutto lo svolgimento futuro, i cui particolari però non sono totalmente rivelati fin dall’inizio. 2. Le clausole dell’alleanza. - Accordando la sua alleanza ad Israele e facendogli delle promesse, Dio gli impone pure delle condizioni da osservare fedelmente. I racconti che s’intrecciano nel Pentateuco forniscono parecchie formulazioni di queste clausole, che compongono il patto e costituiscono la *legge. La. prima concerne il culto del solo Jahvè e la proscrizione dell’*idolatria (Es 20, 3 ss; Deut 5, 7 ss). Ne deriva immediatamente il rifiuto di ogni compromesso o di ogni alleanza con le *nazioni pagane (cfr. Es 23, 24; 34, 12-16). Ma ne consegue pure che Israele dovrà accettare tutte le *volontà divine, che circonderanno tutta la sua esistenza sia politica che religiosa con una fitta rete di prescrizioni: «Mosè espose tutto ciò che Jahvè gli aveva prescritto. Allora tutto il popolo rispose: “Tutto ciò che Jahvè ha detto, noi lo osserveremo”» (Es 19, 7 s). Impegno solenne, il cui rispetto condizionerà per sempre il destino storico di Israele. Il popolo di Jahvè è ad un bivio. Se *obbedisce, ha l’assicurazione delle benedizioni divine se rinnega la sua parola, si vota da solo alle *maledizioni (cfr. Es 23, 20-33; Deut 28; Lev 26). 3. La conclusione dell’alleanza. - Il complesso racconto dell’Esodo trasmette due diversi rituali della conclusione dell’alleanza. Nel primo, Mosè, Aronne e gli anziani di Israele prendono un *pasto sacro in presenza di Jahvè, che contemplano (Es 24, 1 s. 9 ss). Il secondo sembra riprodurre una tradizione liturgica conservata nei santuari nel Nord. Mosè innalza dodici stele perle, dodici tribù ed un *altare per il sacrificio. Offre sacrifici, versa una parte del sangue sull’altare e ne asperge il popolo, per connotare l’unione che si stringe tra Jahvè e Israele. Allora il popolo si impegna solennemente ad osservare le clausole dell’alleanza (Es 24, 3-8). Il *sangue dell’alleanza ha una parte essenziale in questo rituale. Concluso il patto, diversi oggetti ne perpetueranno il ricordo, attestando nei secoli l’impegno iniziale di Israele. L’arca della alleanza è una cassetta nella quale sono deposte le «tavole della testimonianza» (cioè, della legge); essa è il memoriale dell’alleanza e il segno della presenza di Dio in Israele (Es 25, 10-22; Num 10, 33-36). La tenda in cui essa è posta, abbozzo del *tempio futuro, è il luogo d’incontro tra Jahvè e il suo popolo (Es 33, 7-11). Arca dell’alleanza e tenda del convegno segnano il luogo di *culto centrale, dove la confederazione delle tribù porta a Jahvè l’omaggio ufficiale del popolo che si è scelto, senza pregiudizio degli altri luoghi di culto. Con ciò viene connotato il legame perpetuo del culto israelitico con l’atto iniziale che ha fondato la nazione: l’alleanza del Sinai. Appunto questo legame dà ai rituali israelitici il loro senso particolare, nonostante gli elementi estranei che vi si possono notare, così come la legge intera non ha senso se non in funzione della alleanza di cui enuncia le clausole. 4. Senso e limiti dell’alleanza sinaitica. - La alleanza sinaitica ha rivelato in modo definitivo un aspetto essenziale del disegno di salvezza: Dio vuole unire a sé gli uomini, facendone una comunità cultuale votata al suo servizio, governata dalla sua legge, depositaria delle sue promesse. Il NT realizzerà appieno questo progetto divino. Sul Sinai ha inizio la realizzazione, che però rimane, sotto più aspetti, ambigua ed imperfetta. Benché l’alleanza sia un libero dono di Dio ad Israele (in altre parole: una *grazia), la sua forma contrattuale sembra legare il disegno di salvezza al destino storico di Israele e corre il rischio di far apparire la salvezza come la mercede di una *fedeltà umana. Inoltre la sua limitazione ad una sola nazione non s’accorda bene con l’universalismo del disegno di Dio, affermato così nettamente altrove. Infine, la posta temporale delle promesse divine (la felicità terrena di Israele) corre pure il rischio di mascherare l’obiettivo religioso dell’alleanza: la costituzione del regno di Dio in Israele e, per mezzo di Israele, su tutta la terra. Nonostante questi limiti, l’alleanza sinaitica determinerà tutta la vita futura di Israele e lo sviluppo ulteriore della rivelazione.
    II. L’ALLEANZA NELLA VITA E NEL PENSIERO DI ISRAELE
    1. I rinnovamenti dell’alleanza.

    - Sarebbe imprudente affermare che l’alleanza venisse rinnovata annualmente nel culto israelitico. Tuttavia il Deuteronomio conserva frammenti di una liturgia che suppone un rinnovamento di tal genere, con l’enunciazione delle maledizioni rituali (Deut 27, 2-26) e la lettura solenne della legge (Deut 31, 9-13. 24-27; 32, 45 ss); ma quest’ultimo punto è previsto soltanto ogni sette anni (31, 10) e la sua pratica nell’epoca antica non si può controllare. È più facile constatare un rinnovamento effettivo dell’alleanza in talune svolte cruciali della storia. Giosuè la rinnova a Sichem ed il popolo riprende il suo impegno verso Jahvè (Gios 8, 30-35; 24, 1-28). II patto di *David con gli anziani di Israele (2 Sam 5, 3) è seguito da una promessa divina: Jahvè accorda la sua alleanza a David ed alla sua dinastia (Sal 89, 4 s. 20-38; cfr. 2 Sam 7, 8-16; 23, 5), ma a condizione che l’alleanza del Sinai sia fedelmente osservata (Sal 89, 31 ss; 132, 12; cfr. 2 Sam 7, 14). La preghiera e la benedizione di Salomone in occasione della inaugurazione del *tempio si ricollegano ad un tempo a questa alleanza davidica ed a quella del Sinai, di cui il tempio conserva il memoriale (1 Re 8, 14-29. 52-61). Identiche rinnovazioni sotto Joas (2 Re 11, 17), e soprattutto sotto Giosia, che segue il rituale deuteronomico (2 Re 23, 1 ss; cfr. Es 24, 3-8). La lettura solenne della legge da parte di Esdra presenta un contesto del tutto simile (Neem 8). Così il pensiero dell’alleanza rimane l’idea direttiva che serve di base a tutte le riforme religiose.
    2. La riflessione profetica.
    - Il messaggio dei *profeti vi fa riferimento costante. Se denunciano unanimemente l’infedeltà di Israele verso il suo Dio, se annunciano le catastrofi che minacciano il popolo peccatore, lo fanno in funzione del patto del Sinai, delle sue esigenze e delle maledizioni di cui era corredato. Ma per conservare viva la dottrina dell’alleanza nello spirito dei loro contemporanei, i profeti vi fanno apparire aspetti nuovi, che la tradizione antica conteneva soltanto allo stato virtuale. Originariamente l’alleanza si presentava soprattutto sotto un aspetto giuridico: un patto tra Jahvè e il suo popolo. I profeti vi aggiungono delle note affettive, cercando nell’esperienza umana altre analogie per spiegare i mutui rapporti tra Dio ed il suo popolo. Israele è il gregge e Jahvè il *pastore. Israele è la *vigna e Jahvè il vignaiolo. Israele è il *figlio e Jahvè il *padre. Israele è la sposa e Jahvè lo *sposo. Queste immagini, soprattutto l’ultima, fanno apparire l’alleanza sinaitica come un rapporto di *amore (cfr. Ez 16, 6-14): amore preveniente e gratuito di Dio, che domanda in cambio un amore che si tradurrà in *obbedienza. La spiritualità deuteronomica raccoglie il frutto di questo approfondimento: se ricorda continuamente le esigenze, le promesse e le minacce dell’alleanza, lo fa per meglio sottolineare l’amore di Dio (Deut 4, 37; 7, 8; 10, 15) che aspetta l’amore di Israele (Deut 6, 5; 10, 12 s; 11, 1). Questo è lo sfondo su cui spicca oramai la formula fondamentale dell’alleanza: «Voi siete il mio popolo ed io sono il vostro Dio». Naturalmente, anche qui, l’amore di Israele per Dio deve tradursi in *obbedienza. Sotto questo rapporto, il popolo è tenuto a una decisione, che equivarrà per lui a una scelta tra la *vita e la *morte (Deut 30, 15...). È un’altra conseguenza dell’alleanza nella quale è entrato.
    3. Le sintesi di storia sacra.
    - Parallelamente alla predicazione dei profeti, la riflessione degli storici sacri sul passato di Israele ha come punto di partenza la dottrina della alleanza. Già il jahvista collegava l’alleanza del Sinai con l’alleanza più antica conclusa da *Abramo, cornice delle prime promesse (Gen 15). Gli scribi deuteronomisti, raccontando la storia passata, dal tempo di Mosè fino alla rovina di Gerusalemme (da Gios a 2 Re), non hanno altro scopo se non quello di far risaltare nei fatti l’applicazione del patto sinaitico: Jahvè ha mantenuto le sue promesse; ma l’infedeltà del suo popolo lo ha obbligato ad infliggergli pure i *castighi previsti. Questo è il senso della duplice rovina di Samaria (2 Re 17, 7-23) e di Gerusalemme (2 Re 23, 26 s). Allorché, durante la cattività, lo storico sacerdotale delinea il disegno di Dio dalla creazione fino all’epoca mosaica, l’alleanza divina gli serve da filo conduttore: dopo il primo fallimento del disegno creativo e la catastrofe del diluvio, l’alleanza di *Noè assume un’ampiezza universale (Gen 9, 1-17); dopo il secondo fallimento e la dispersione di Babele, l’alleanza di Abramo restringe il disegno di Dio alla sola discendenza del patriarca (Gen 17, 1-14); dopo la prova dell’Egitto l’alleanza sinaitica prepara il futuro fondando il popolo di Dio. In tal modo Israele comprende il senso della sua storia riferendosi al patto del Sinai.
    III. VERSO LA NUOVA ALLEANZA
    1. La rottura dell’antica alleanza.
    - I profeti non hanno soltanto approfondito la dottrina dell’alleanza, sottolineando ciò che il patto sinaitico implicava. Rivolgendo gli occhi verso il futuro, hanno presentato nel suo insieme il dramma del popolo di Dio che si intreccia attorno ad esso. A motivo della infedeltà di Israele (Ger 22, 9), il patto antico è rotto (Ger 31, 32), come un *matrimonio che si disfa a motivo degli adulteri della sposa (Os 2,4; Ez 16, 15-43). Dio non ha preso l’iniziativa di questa rottura, ma ne trae le conseguenze: Israele subirà nella sua storia il giusto castigo della sua infedeltà; questo sarà il senso delle sue *prove nazionali: rovina di *Gerusalemme, *esilio, *dispersione.
    2. Promessa della nuova alleanza.
    - Nonostante tutto ciò, il disegno dell’alleanza rivelato da Dio sussiste immutato (Ger 31, 35 ss; 33, 20-26). Ci sarà dunque, alla fine dei tempi, una nuova alleanza. Osea la evoca sotto i tratti del nuovo fidanzamento, che implicherà nella sposa *amore, *giustizia, *fedeltà, *conoscenza di Dio, e che ristabilirà la *pace tra l’uomo e tutta la creazione (Os 2, 20-24). Geremia precisa che allora i *cuori degli uomini saranno mutati, perché la legge di Dio sarà scritta in essi (Ger 31, 33 s; 32, 37-41). Ezechiele annunzia la conclusione di un’alleanza eterna, di un’alleanza di pace (Ez 36, 26), che rinnoverà quella del Sinai (Ez 16, 60) e quella di David (34, 23 s), e che implicherà il mutamento dei cuori ed il dono dello *Spirito divino (36, 26 s). In tal modo si realizzerà il programma abbozzato un tempo: «Voi sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio» (Ger 31, 33; 32, 38; Ez 36, 28; 37, 27). Nel messaggio di consolazione questa alleanza escatologica riprende i tratti delle nozze di Jahvè e della nuova *Gerusalemme (Is 54): alleanza indistruttibile come quella che fu giurata a Noè (54, 9 s), alleanza costituita dalle grazie promesse a David (55, 3). Essa ha come artefice il misterioso *servo che Jahvè stabilisce «alleanza del *popolo e luce delle *nazioni» (42, 6; 49, 6 ss). Così la visione si allarga in modo magnifico. Il disegno di alleanza che domina tutta la storia umana troverà il suo punto culminante al termine del tempo. Rivelato in modo imperfetto nell’alleanza patriarcale, mosaica, davidica, esso si realizzerà alla fine in una forma perfetta, nello stesso tempo interiore e universale, per la *mediazione del servo di Jahvè. Certamente la storia di Israele continuerà il suo corso. In considerazione del patto del Sinai le istituzioni giudaiche porteranno il nome di alleanza santa (Dan 11, 28 ss). Ma questa storia sarà rivolta di fatto verso il futuro, verso la nuova alleanza, verso il Nuovo Testamento.
    NUOVO TESTAMENTO
    Servendosi del termine diathèke per tradurre l’ebraico berît, i Settanta facevano una scelta significativa, che doveva avere una notevole influenza sul vocabolario cristiano. Nel linguaggio del diritto ellenistico, questa parola designava l’atto con cui uno dispone dei propri beni (testamento) oppure dichiara le disposizioni che intende imporre. L’accento non poggia tanto sulla natura della convenzione giuridica, quanto sull’autorità di colui che, con essa, fissa il corso delle cose. Ricorrendo a questo vocabolo i traduttori greci sottolineano ad un tempo la trascendenza divina e la condiscendenza che sta all’origine del popolo di Israele e della sua legge.
    I. CONCLUSIONE DELLA NUOVA ALLEANZA AD OPERA DI GESÙ
    La parola diathèke figura nei quattro racconti dell’ultima cena, in un contesto di importanza unica. Dopo aver preso il pane ed averlo distribuito dicendo: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo», Gesù prende il calice di vino, lo benedice e lo fa circolare. La formula più breve è conservata da Marco: «Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, che sarà sparso per una moltitudine» (Mc 14, 24); Matteo aggiunge: «per la remissione dei peccati» (Mt 26, 28). Luca e Paolo hanno: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue» (Lc 22, 20; 1 Cor 11, 25), ed il solo Luca: «che sarà sparso per voi». La distribuzione del calice è un gesto rituale. Le parole pronunciate lo ricollegano all’atto che Gesù sta per compiere: la sua *morte accettata liberamente per la *redenzione della moltitudine. Da quest’ultimo particolare si vede che Gesù si considera come il *servo sofferente (Is 53, 11 s) ed intende la sua morte come un *sacrificio *espiatorio (cfr. 53, 10). Con ciò egli diventa il *mediatore di alleanza che il messaggio di consolazione lasciava intravvedere (Is 42, 6). Ma il «sangue della alleanza» ricorda pure che l’alleanza del Sinai era stata conclusa nel *sangue (Es 24, 8): ai sacrifici di animali si sostituisce un sacrificio nuovo, il cui sangue realizza efficacemente un’unione definitiva tra Dio e gli uomini. Si compie così la promessa della «nuova alleanza» enunciata da Geremia e da Ezechiele: in virtù del sangue di Gesù i cuori umani saranno quindi mutati e sarà dato lo Spirito di Dio. La morte di Cristo, che è nello stesso tempo sacrificio di *Pasqua, sacrificio d’alleanza e sacrificio espiatorio, porterà a compimento le *figure del VT, che la delineavano in modi diversi. E poiché quest’atto sarà ormai reso presente in un gesto rituale che Gesù ordina di «ripetere in sua *memoria» (1 Cor 11, 25), mediante la partecipazione *eucaristica realizzata con fede i fedeli saranno uniti nel modo più intimo al mistero della nuova alleanza e beneficeranno delle sue grazie.
    II. RIFLESSIONE CRISTIANA SULLA NUOVA ALLEANZA
    1. San Paolo.
    - Collocato da Gesù stesso al centro del culto cristiano, il tema dell’alleanza sta sullo sfondo di tutto il NT, anche quando non è esplicitamente notato. Nella sua argomentazione contro i giudaizzanti, che ritengono necessaria l’osservanza della legge data nell’alleanza significa, Paolo dice che, ancor prima che venisse la legge, un’altra disposizione (diathèke) divina era stata enunciata nella debita forma: la *promessa fatta ad Abramo. La legge non ha potuto annullare questa disposizione. Ora Cristo è il compimento della promessa (Gal 3, 15-18). Con la *fede in lui si ottiene quindi la salvezza, non con l’osservanza della legge. Questa visione delle cose sottolinea un fatto: l’alleanza antica si inseriva essa stessa in una economia gratuita, una economia di promessa, che Dio aveva liberamente istituita. II NT è il punto d’arrivo di tale economia. Paolo non contesta che la «disposizione» fondata al Sinai venisse da Dio: le «alleanze» rinnovate erano uno dei privilegi *Israele (Rom 9, 4), cui le *nazioni fino allora erano estranee (Ef 2, 12). Ma quando si pone questa disposizione in parallelo con quella che Dio ha rivelato in Cristo, si vede la superiorità della nuova alleanza sull’antica (Gal 4, 24 ss; 2 Cor 3, 6 ss). Nella nuova alleanza i peccati sono tolti (Rom 11, 27); Dio abita in mezzo agli uomini (2 Cor 6, 16) muta il cuore degli uomini e pone in essi il suo Spirito (Rom 5, 5; cfr. 8, 4-16). Non più quindi l’alleanza della lettera, ma quella dello spirito (2 Cor 3, 6), porta con sé la *libertà dei figli di Dio (Gal 4, 24). Essa riguarda sia le nazioni che il popolo di Israele, perché il *sangue di Cristo ha ristabilito la *unità del genere umano (Ef 2, 12 ss). Riprendendo le prospettive delle promesse profetiche, che vede compiute in Cristo, Paolo elabora così un quadro generale della storia umana, di cui il tema dell’alleanza costituisce il filo conduttore.
    2. La lettera agli Ebrei
    La lettera agli Ebrei in una prospettiva un po’ diversa, compie una sintesi parallela degli stessi elementi. Per mezzo della *croce. Cristo-sacerdote è entrato nel santuario del cielo, dove sta per sempre dinanzi a Dio, intercedendo per noi ed inaugurando la nostra comunione con lui. Si realizza così la nuova alleanza annunziata da Geremia (Ebr 8, 8-12; Ger 31, 31-34); un’alleanza «migliore», stante la qualità eminente del suo mediatore (Ebr 8, 6; 12, 24); un’alleanza suggellata nel sangue come la prima (Ebr 9, 20; Es 24, 8), non più nel sangue degli animali, ma in quello di Cristo stesso, versato per la nostra *redenzione (9, 11 s). Questa nuova disposizione era stata preparata dalla precedente, ma l’ha resa caduca, e sarebbe vano attaccarsi a ciò che è destinato a sparire (8, 13). Come una disposizione testamentaria entra in vigore con la morte del testatore, così la morte di Gesù ci ha messi in possesso dell’*eredità promessa (Ebr 9, 15 ss). L’alleanza antica era quindi imperfetta, poiché stava sul piano delle ombre e delle *figure, assicurando solo imperfettamente l’incontro degli uomini con Dio. Invece la nuova è perfetta perché Gesù, nostro sommo sacerdote, ci assicura per sempre l’accesso presso Dio (Ebr 10, 1- 22). Cancellazione dei peccati, unione degli uomini con Dio: questo è il risultato ottenuto da Gesù Cristo, che «mediante il sangue di un’alleanza eterna è diventato il grande *pastore delle pecore» (Ebr 13, 20).
    3. Altri testi.
    - Senza bisogno di citare esplicitamente il VT, gli altri libri del NT evocano i frutti della croce di Cristo in termini che ricordano il tema dell’alleanza. Meglio che non Israele al Sinai, noi siamo divenuti «un *sacerdozio regale ed una nazione santa» (1 Piet 2, 9; cfr. Es 19, 5 s). Questo privilegio si estende ora ad una comunità di cui fan parte uomini «di ogni razza, lingua, popolo e nazione» (Apoc 5, 9 s). Tuttavia quaggiù la realizzazione della nuova alleanza implica limitazioni. Bisogna quindi contemplarla nella prospettiva escatologica della *Gerusalemme celeste: in questa «dimora di Dio con gli uomini», «essi saranno il suo popolo, ed egli, Dio-con-essi, sarà il loro Dio» (Apoc 21, 3). La nuova alleanza culmina nelle nozze dell’agnello e della *Chiesa, sua *sposa (Apoc 21, 2. 9). AI termine dello sviluppo dottrinale, il tema dell’alleanza riprende così tutti quelli che, dal VT al NT, sono serviti per definire i rapporti tra Dio e gli uomini. Per farne apparire il contenuto bisogna parlare di *filiazione, di *amore, di *comunione. Bisogna soprattutto riferirsi all’atto con cui Gesù ha fondato la nuova alleanza: mediante il *sacrificio del suo corpo immolato e del suo sangue versato, egli ha fatto degli uomini il suo *corpo. Il VT non conosceva ancora questo dono di Dio; tuttavia la sua storia e le sue istituzioni ne abbozzavano oscuramente i tratti, poiché in esso tutto riguardava già l’alleanza tra Dio e gli uomini.
    J. GIBLET e P. GRELOT
    → Abramo II 1 - adulterio 2 - amico 1 - amore I - arca d’alleanza - benedizione III 3, IV 2 - circoncisione VT 2 - comunione VT 2 - conoscere VT 3 - culto - David 0.3 - diluvio 1.3 - disegno di Dio VT I - elezione - eredità VT - eucaristia IV, V - fede VT II - fedeltà - gioia VT II - Israele VT l; NT 2 - legge A 1; B - liberazione - libertà II 2 - matrimonio VT II 3 - mediatore - memoria - Mosè 0.2.3 - Noè 1 - nuovo II 3, III 2 - pace I 1.2, II 3 a - pasto II, III - peccato II 1 - Pentecoste 1 2 - pietà VT 2 - popolo A I 1, II 1; B I; C I - presenza di Dio VT I, III 2 - redenzione VT - sacrificio VT III 1; NT 1 - sale 2.3 - sangue - servo di Dio I, II 2 - unità II - verità VT 1.2 - vocazione II
    .

    ALLELUIA (inizio)

    → lode II 2.

    ALTARE (inizio)

    In tutte le religioni l’altare è il centro del *culto sacrificale (ebr. zabah = sacrificare, radice di mizbeah = altare). L’altare è il segno della *presenza divina; Mosè suppone una simile credenza quando spruzza metà del sangue delle vittime sull’altare e l’altra metà sul popolo, che in tal modo entra in comunione con Dio (Es 24, 6 ss); e così pure Paolo: «Coloro che mangiano le vittime non sono forse in comunione con l’altare?» (1 Cor 10, 18). Nel *sacrificio perfetto il segno fa posto alla realtà: Cristo è ad un tempo sacerdote, vittima ed altare.
    1. Dal memoriale al luogo del culto.
    - Alle origini, se l’uomo costruiva un altare, lo faceva per rispondere a Dio che l’aveva visitato; questo è quel che significa la formula frequente che accompagna il gesto dei patriarchi: «Edificò un altare a Jahvè ed invocò il suo *nome» (Gen 12, 7 s; 13, 18; 26, 25). Prima di essere un luogo in cui si offrono sacrifici, l’altare era un *memoriale del favore divino; i nomi simbolici che questi altari ricevono ne sono una *testimonianza (Gen 33, 20; 35, 1-7; Giud 6, 24). Tuttavia esso era pure il luogo delle libagioni, dei sacrifici e delle offerte di *profumo. Se in origine ci si poteva accontentare di *rocce più o meno ben adattate (Giud 6, 20; 13, 19 s), presto ci si preoccupò di costruire un altare in terra battuta o in *pietre grezze, senza dubbio grossolane, ma meglio confacenti allo scopo (Es 20, 24 ss). Per i discendenti dei patriarchi il luogo del culto tendeva ad avere maggior valore che non il ricordo della teofania che vi aveva dato occasione; così spesso diventava un luogo di *pellegrinaggio. Questo primato del luogo sul memoriale si manifestava già nel fatto che si sceglievano spesso antichi luoghi di culto cananei, come Bethel (Gen 35, 7) o Sichem (33, 19 s), e più tardi Gilgal (Gios 4, 20) o Gerusalemme (Giud 19, 10). Di fatto, quando entra in Canaan, il popolo eletto è in presenza degli altari pagani, che la legge gli impone di demolire senza pietà (Es 34, 13; Deut 7, 5; Num 33, 52); e Gedeone (Giud 6, 25-32) o Jehu (2 Re 10, 27) distruggono in tal modo gli altari di Baal. Ma ordinariamente ci si accontenta di «battezzare» le alture con il loro materiale cultuale (1 Re 3, 4). A questo stadio, l’altare può contribuire alla degenerazione della religione per una duplice ragione: dimenticanza che esso è soltanto un *segno per raggiungere il Dio vivente, assimilazione di Jahvè agli *idoli. Di fatto Salomone inaugura un regime di tolleranza per gli idoli apportati dalle sue mogli straniere (1 Re 11, 7 s). Achab agirà allo stesso modo (1 Re 16, 32), Achaz e Manasse introdurranno nel tempio stesso degli altari alla moda pagana (2 Re 16, 10-16; 21, 5). Dal canto loro i profeti vituperano la moltiplicazione degli altari (Am 2, 8; Os 8, 11; Ger 3, 6).
    2. L’altare nel tempio unico di Gerusalemme.
    - Un rimedio alla situazione fu apportato con la centralizzazione del culto a Gerusalemme (2 Re 23, 8 s; cfr. 1 Re 8, 63 s). L’altare degli olocausti cristallizza ormai la vita religiosa di Israele, e numerosi salmi testimoniano il posto che esso occupa nel cuore dei fedeli (Sal 26, 6; 43, 4; 84, 4; 118, 27). Quando Ezechiele descrive il tempio futuro, l’altare è oggetto di descrizioni minuziose (Ez 43, 13-17) e la legislazione sacerdotale che lo concerne è collegata a Mosè (Es 27, 1-8; Lev 1 - 7). I corni dell’altare, menzionati già da gran tempo come luogo d’asilo (1 Re 1, 50 s; 2, 28), assumono una grande importanza: saranno frequentemente aspersi di *sangue per il rito della *espiazione (Lev 16, 18; Es 30, 10). Questi riti indicano chiaramente che l’altare simboleggia la presenza di Jahvè. Nello stesso tempo si precisano le funzioni *sacerdotali: i sacerdoti diventano in modo esclusivo i ministri dell’altare, mentre i leviti sono incaricati delle cure materiali (Num 3, 6-10). Il Cronista, che sottolinea questa usanza (1 Cor 9, 26-30), mette la storia della monarchia in accordo con queste prescrizioni (2 Cron 26, 16-20; 29, 18-36; 35, 7-18). Infine, segno di venerazione per l’altare, la prima carovana dei rimpatriati dall’esilio ci tiene a ricostruire subito l’altare degli olocausti (Esd 3, 3 ss) e Giuda Maccabeo manifesterà più tardi la stessa pietà (1 Mac 4, 44-59).
    3. Dal segno alla realtà.
    - Per Gesù l’altare rimane *santo, ma è tale in virtù di ciò che significa. Gesù ricorda quindi questo significato, dimenticato dalla casistica dei Farisei (Mt 23, 18 ss) e trascurato nella pratica: accostarsi all’altare per sacrificare, significa accostarsi a Dio; non lo si può fare con un cuore irato (5, 23 s). Cristo non soltanto dà il vero senso del culto antico, ma vi pone termine. Nel nuovo *tempio, che è il suo corpo (Gv 2, 21), non c’è più altro altare che lui (Ebr 13, 10). Infatti è l’altare che santifica la vittima (Mt 23, 19); quando dunque egli si offre, vittima perfetta, è egli stesso a santificarsi (Gv 17, 19); è ad un tempo il sacerdote e l’altare. E quindi, comunicare con il corpo e con il sangue del Signore significa *comunicare con l’altare che è il Signore, significa condividere la sua mensa (1 Cor 10, 16-21). L’altare celeste di cui parla l’Apocalisse e sotto il quale stanno i martiri (Apoc 6, 9), altare d’oro la cui fiamma fa salire a Dio un fumo abbondante ed odoroso al quale sono unite le preghiere dei santi (8, 3), è un simbolo che designa Cristo e completa il simbolismo dell’*agnello. È l’unico altare del solo sacrificio il cui profumo sia gradito a Dio; è l’altare celeste di cui parla la liturgia e sul quale le offerte della Chiesa sono presentate a Dio, unite all’unica e perfetta offerta di Cristo (Ebr 10, 14). Di quest’altare i nostri altari di pietra non sono che immagini; e questo esprime il rituale pontificale dicendo: «l’altare è Cristo».
    D. SESBOÜÉ
    → culto VT I - monte II 2 - pellegrinaggio VT 1 - pietra 1 - profumo 2 - sacrificio VT I 1; NT II 1 - sangue VT 3 - tempio
    .

    ALTEZZA (inizio)

    → ascensione - cielo - monte.

    ALTURA (inizio)

    → altare 1 - monte II 2 - pellegrinaggio - presenza di Dio VT III 1.

    AMEN (inizio)

    Lungi dall’essere reso sempre ed esattamente dalla traduzione abituale «Così sia!», che esprime un semplice augurio e non una certezza, il termine Amen significa innanzitutto: certamente, veramente, sicuramente, o semplicemente sì. In effetti questo avverbio deriva da una radice ebraica, che implica fermezza, solidità, sicurezza (cfr. *fede). Dire Amen, significa proclamare che si ritiene vero ciò che è stato detto, al fine di ratificare una proposta o di unirsi ad una preghiera.
    1. Impegno ed acclamazione.
    - Confermando una parola, l’Amen può avere un senso debole che equivale al nostro «Sia!» (Ger 28, 6). Ma per lo più è una *parola che impegna: con essa si attesta il proprio accordo con qualcuno (1 Re 1, 36), si accetta una missione (Ger 11, 5), si assume la responsabilità di un giuramento ed il giudizio di Dio che gli terrà dietro (Num 5, 22). Ancor più solenne è l’impegno collettivo preso in occasione del rinnovamento liturgico dell’alleanza (Deut 27, 15-26; Neem 5, 13). Nella liturgia la parola può assumere anche un altro valore; se ci si impegna nei confronti di Dio, lo si fa perché si ha fiducia della sua parola e ci si affida alla sua potenza e alla sua bontà; questa adesione totale è nello stesso tempo *benedizione di colui al quale ci si sottomette (Neem 8, 6); è *preghiera sicura di essere esaudita (Tob 8, 8; Giudit 15, 10). L’Amen è allora una acclamazione liturgica ed a questo titolo trova posto dopo le dossologie (1 Cron 16, 36); ha sovente questo senso nel NT (Rom 1, 25; Gal 1, 5; 2 Piet 3, 18; Ebr 13, 21). Acclamazione mediante la quale l’assemblea si unisce a colui che prega in nome suo, l’Amen suppone che, per aderire alle parole ascoltate, se ne comprenda il senso (1 Cor 14, 16). Adesione, acclamazione, l’Amen conclude infine i cantici degli eletti nella liturgia del cielo (Apoc 5, 14; 19, 4), dove si unisce all’Alleluia.
    2. L’Amen di Dio e l’Amen del cristiano.
    - Dio, che si è impegnato liberamente, rimane fedele alle sue *promesse; egli è il *Dio di *verità: tale è il significato del titolo Dio-Amen (Is 65, 16). L’Amen di Dio è Cristo Gesù. Di fatto, per mezzo suo, Dio realizza pienamente le sue *promesse e manifesta che non c’è in lui si e no, ma soltanto si (2 Cor 1, 19 s). In questo testo Paolo rende l’Amen ebraico con una parola greca, Nài, che significa Sì. Quando Gesù introduce le sue dichiarazioni con un Amen (Mt 5, 18; 18, 3...), raddoppiato nel vangelo di Giovanni (Gv 1, 51; 5, 19...), si conduce in modo inaudito per il popolo ebraico; senza dubbio utilizza la formula liturgica, ma, facendola propria, traspone probabilmente l’annuncio profetico: «Così parla Jahvè». Non si limita a sottolineare che è l’inviato del Dio di verità, ma afferma anche che le sue parole sono vere. La frase così introdotta ha una preistoria, che rimane inespressa e di cui l’Amen è la conclusione; che cos’altro potrebbe essere se non il dialogo tra il Padre e il Figlio? Perché Gesù non è soltanto colui che dice il vero dicendo le parole di Dio; è la *parola stessa del vero Dio, l’Amen per eccellenza, il *testimone fedele e vero (Apoc 3, 14). II cristiano quindi, unendosi a Cristo, deve rispondere a Dio, se vuole essere *fedele; il solo Amen efficace è quello pronunciato da Cristo a gloria di Dio (2 Cor 1, 20). La Chiesa pronuncia questo Amen in unione con gli eletti nel cielo (Apoc 7, 12) e nessuno lo può pronunciare se la grazia del Signore Gesù non è con lui; quindi l’augurio, che chiude la Bibbia e che un ultimo Amen suggella, è che questa grazia sia con tutti (Apoc 22, 21).
    C. THOMAS
    → fede 0 - fedeltà-incredulità 0 - lode III - promesse - verità VT
    .

    AMICO (inizio)

    1. «L’amico fedele non ha prezzo» (Eccli 6, 15 s; 7, 18).
    «L'amico fedele non ha presso», perché «ama in ogni tempo» (Prov 17, 17), rendendo la vita deliziosa (Sal 133; Prov 15, 17). Come dimenticare la meravigliosa amicizia che, scaturita spontaneamente, unì David e Gionata (1 Sam 18, 14), perdurò nella prova (1 Sam 19 - 20), fino alla morte (2 Sam 1, 25 s), e sopravvisse nella *memoria del cuore (2 Sam 9, l; 21, 7)? Ora, se esistono simili amicizie, ce ne sono pure delle illusorie. Perché i ricchi hanno tanti amici, e così pochi i poveri, gli ammalati, i perseguitati (Prov 14, 20; cfr. Sal 38, 12; 55, 13 s; 88, 19; 109, 4 s; Giob 19, 19)? Perché «colui che divide il mio pane alza il calcagno contro di me» (Sal 41, 10)? Queste dolorose esperienze insegnano ad essere prudenti nella scelta degli amici, tanto che talvolta conviene diffidare (Eccli 6, 5-13; 12, 8 - 13, 23; 37, 1-5). Anche se sincera (Giob 2, 12 s), l’amicizia non può essere forse deludente (Giob 6, 15-30), ed anche trascinare al male (Deut 13, 7; Eccli 12, 14; cfr. 2 Sam 13, 3-15)? Anche l’amicizia guadagna invecchiando: «Vino nuovo, amico nuovo; se è invecchiato, lo berrai con gioia» (Eccli 9, 10); apprezza il rimprovero aperto (Prov 27, 5 s); soprattutto si alimenta con il *timore di Dio: «Chi teme il Signore si fa dei veri amici, perché quale si è, tale è l’amico che si ha» (Eccli 6, 16 s). Di fatto (cfr. *amore) il modello e la sorgente della vera amicizia è l’amicizia che Dio stringe con l’uomo, con un Abramo (Is 41, 8; Gen 18, 17 ss), un Mosè (Es 33, 11), con i profeti (Am 3, 7).
    2. Inviando il Figlio suo in mezzo a noi, Dio s’è mostrato «amico degli uomini» (Tito 3, 4).

    Inviando il Figlio suo in mezzo a noi, Dio s’è mostrato «amico degli uomini» (Tito 3, 4); e Gesù lo ha descritto come colui che si lascia incomodare dall’amico importuno (Lc 11, 5-8). Soprattutto, *Gesù ha dato a questa amicizia un volto di carne: ha amato il giovane ricco (Mc 10, 21), ha amato teneramente Lazzaro e, attraverso di lui, tutti coloro che per mezzo della fede dovevano risorgere dalla tomba (Gv 11, 3. 11. 35 s). Ebbe dei «compagni» che condivisero la sua esistenza (Mc 3, 14), ma non tutti divennero suoi «amici» (gr. filos); così Giuda è ancora chiamato «compagno» (gr. hetàiros) (Mt 26, 50; cfr. 20, 13; 22, 12), mentre agli altri discepoli Gesù dichiara: «Non vi chiamo più *servi, ma amici» (Gv 15, 15): essi hanno condiviso le sue prove, sono pronti ad affrontare la notte della passione (Lc 22, 28 s); Gesù quindi comunica loro i segreti del Padre suo (Gv 15, 15), come tra amici. Il tipo dell’amico di Gesù, fedele fino alla croce, è «il discepolo che Gesù amava» (cfr. Gv 13, 23; 21, 7. 20) e che affida alla propria madre (19, 26). Coloro che il Signore ha scelto come amici non possono mancare di sentirsi legati tra loro da amicizia. Certo, non senza tempeste: così Paolo, unito ai fratelli da tanti solidi legami (cfr. Rom 16, 1-16) e così preoccupato in ogni occasione di tutto quanto li riguarda (cfr. 1 Tess 2, 7-12; 2 Cor 11, 28 s), incontra serie difficoltà con Barnaba (Atti 15, 36-39); addirittura con Pietro stesso (Gal 2, 11-14); al tramonto della vita, si sentirà quasi solo, privo di ogni amicizia (2 Tim 4, 9- 14). Ma al di là di queste crisi, permane la certezza che la volontà. del Signore è l’*amore fraterno tra i suoi (Gv 15, 12 ss); l’immagine dell’amicizia che regnava nella comunità primitiva (Atti 2, 44 ss - 4, 32) resta per tutti i cristiani un ideale e una forza.
    3. L’amico dello sposo.
    - Le usanze del *matrimonio in Israele comportano la presenza di un «amico dello sposo», incaricato di preparare l’incontro nuziale e di servire da intermediario tra i fidanzati fino al momento delle nozze, quando presenta allo sposo la sua giovane moglie. Si ritrovano allusioni a questa usanza nei testi in cui il Signore viene descritto come lo *sposo di Israele. Essere suo amico, è compito del profeta, che canta nel dolore l’infedeltà della sposa (Is 5, 1-7). È inoltre la parte che spetta a Giovanni Battista, che prepara gli uomini all’incontro con il Signore, poi si ritira, pago della loro gioia reciproca (Gv 3, 28 ss). È infine la funzione di Paolo che «fidanza» la comunità di Corinto con Cristo (2 Cor 11, 2); ma più tardi, riprendendo l’immagine, l’apostolo si renderà conto che in effetti è lo Sposo ad avere tutta l’iniziativa: egli «presenta a se stesso» la sposa, che può piacergli solo a condizione che lui stesso prima la colmi di tutti i suoi doni (Ef 5,27): lo Sposo svolge quindi personalmente le funzioni che un tempo spettavano all’«amico» e Gesù lo ha descritto come colui che si lascia incomodare dall’amico importuno (Lc 11, 5-8). Soprattutto, *Gesù ha dato a questa amicizia un volto di carne: ha amato il giovane ricco (Mc 10, 21), ha amato teneramente Lazzaro e, attraverso di lui, tutti coloro che per mezzo della fede dovevano risorgere dalla tomba (Gv 11, 3. 11. 35 s). Ebbe dei «compagni» che condivisero la sua esistenza (Mc 3, 14), ma non tutti divennero suoi «amici» (gr. filos); così Giuda è ancora chiamato «compagno» (gr. hetàiros) (Mt 26, 50; cfr. 20, 13; 22, 12), mentre agli altri discepoli Gesù dichiara: «Non vi chiamo più *servi, ma amici» (Gv 15, 15): essi hanno condiviso le sue prove, sono pronti ad affrontare la notte della passione (Lc 22, 28 s); Gesù quindi comunica loro i segreti del Padre suo (Gv 15, 15), come tra amici. Il tipo dell’amico di Gesù, fedele fino alla croce, è «il discepolo che Gesù amava» (cfr. Gv 13, 23; 21, 7. 20) e che affida alla propria madre (19, 26). Coloro che il Signore ha scelto come amici non possono mancare di sentirsi legati tra loro da amicizia. Certo, non senza tempeste: così Paolo, unito ai fratelli da tanti solidi legami (cfr. Rom 16, 1-16) e così preoccupato in ogni occasione di tutto quanto li riguarda (cfr. 1 Tess 2, 7-12; 2 Cor 11, 28 s), incontra serie difficoltà con Barnaba (Atti 15, 36-39); addirittura con Pietro stesso (Gal 2, 11-14); al tramonto della vita, si sentirà quasi solo, privo di ogni amicizia (2 Tim 4, 9- 14). Ma al di là di queste crisi, permane la certezza che la volontà. del Signore è l’*amore fraterno tra i suoi (Gv 15, 12 ss); l’immagine dell’amicizia che regnava nella comunità primitiva (Atti 2, 44 ss - 4, 32) resta per tutti i cristiani un ideale e una forza. - Le usanze del *matrimonio in Israele comportano la presenza di un «amico dello sposo», incaricato di preparare l’incontro nuziale e di servire da intermediario tra i fidanzati fino al momento delle nozze, quando presenta allo sposo la sua giovane moglie. Si ritrovano allusioni a questa usanza nei testi in cui il Signore viene descritto come lo *sposo di Israele. Essere suo amico, è compito del profeta, che canta nel dolore l’infedeltà della sposa (Is 5, 1-7). È inoltre la parte che spetta a Giovanni Battista, che prepara gli uomini all’incontro con il Signore, poi si ritira, pago della loro gioia reciproca (Gv 3, 28 ss). È infine la funzione di Paolo che «fidanza» la comunità di Corinto con Cristo (2 Cor 11, 2); ma più tardi, riprendendo l’immagine, l’apostolo si renderà conto che in effetti è lo Sposo ad avere tutta l’iniziativa: egli «presenta a se stesso» la sposa, che può piacergli solo a condizione che lui stesso prima la colmi di tutti i suoi doni (Ef 5,27): lo Sposo svolge quindi personalmente le funzioni che un tempo spettavano all’«amico». → amore - fratello - Giovanni Battista 2 - nemico - pasto I, III - servire III 2 - servo di Dio III 3.

    C. WIÉNER

    → amore - fratello - Giovanni Battista 2 - nemico - pasto I, III - servire III 2 - servo di Dio III 3.

    AMMIRAZIONE (inizio)

    → adorazione - benedizione I, II 3, III 5 - eucaristia IV 2 - lode II 2 - miracolo - opere VT I 1.2 - ringraziamento.

    AMORE (inizio)

    «Dio è amore» - «Amatevi gli uni gli altri». Prima di giungere a questo culmine della rivelazione del NT, l’uomo deve purificare le concezioni puramente umane che si fa dell’amore, per accogliere il mistero dell’amore divino - che passa attraverso la croce. Di fatto la parola «amore» designa una quantità di realtà diverse, carnali o spirituali, passionali o meditate, gravi o leggere, esaltanti o distruttive. Si ama una cosa piacevole, un animale, un compagno di lavoro, un amico, dei congiunti, i propri figli, ed infine una donna. L’uomo biblico conosce tutto questo. La Genesi (cfr. Gen 2, 23 s; 3, 16; 12, 10-19; 22; 24; 34), la storia di David (cfr. 1 Sam 18, 1 ss; 2 Sam 3, 16; 12, 15-25; 19, 1-5), il Cantico dei Cantici sono, tra molti altri, i testimoni di ogni specie di sentimenti. Sovente vi si mescola il peccato, ma vi si trova pure rettitudine, profondità e sincerità sotto termini abitualmente sobri e discreti. Poco portato all’astrazione intellettuale, Israele dà sovente alle parole un colorito affettivo: per esso, *conoscere significa già amare; la sua *fedeltà ai legami sociali e familiari (hesed) è tutta impregnata di slancio e di spontaneità generosa (cfr. Gen 24, 29; Gios 2, 12 ss; Rut 3, 10; Zac 7, 9). «Amare» (ebr. ‘ahab; gr. agapàn) ha tante risonanze quante nelle nostre lingue. In breve, l’uomo biblico conosce il valore dell’affettività (cfr. Prov 15, 17), pur non ignorandone i rischi (Prov 5; Eccli 9, 1-9). Quando la nozione di amore pervade la sua psicologia religiosa, essa è tutta impregnata d’un’esperienza umana densa e concreta. Nello stesso tempo solleva numerose questioni. Dio, così grande, così puro, può abbassarsi ad amare l’uomo piccolo e peccatore? E se Dio si degna di amare l’uomo, come può l’uomo rispondere a questo amore con un amore? Quale rapporto esiste tra l’amore di Dio e l’amore degli uomini? Tutte le religioni a loro modo si sforzano di rispondere a queste domande, cadendo ordinariamente in uno dei due eccessi opposti: per mantenere la distanza tra Dio e l’uomo, relegare l’amore divino in una sfera inaccessibile - o per rendere Dio presente all’uomo, profanare l’amore di Dio in un amore del tutto umano. A questa inquietudine religiosa dell’uomo la Bibbia, dal canto suo, risponde con chiarezza. Dio ha preso l’iniziativa di un dialogo d’amore con gli uomini; in nome di questo amore li impegna ed insegna loro ad amarsi gli uni gli altri.
    I. IL DIALOGO D’AMORE TRA DIO E L’UOMO
    VECCHIO TESTAMENTO
    Benché la parola «amore» non vi figuri, i racconti della creazione (Gen 1- 3) evocano l’amore di Dio attraverso la bontà di cui Adamo ed Eva sono l’oggetto. Dio vuole dare loro la *vita in pienezza, ma questo dono suppone una libera adesione alla sua *volontà: Dio inizia il dialogo d’amore per la via indiretta del comandamento. Adamo ha voluto impadronirsi con la forza di ciò che gli era destinato come dono: ha peccato. Allora il mistero della bontà si approfondisce in *misericordia nei confronti del peccatore mediante *promesse di *salvezza; progressivamente si ristabiliranno i legami d’amore che uniscono Dio e l’uomo. La storia del paradiso annuncia già tutta la storia sacra.
    1. Amici e confidenti di Dio.
    - Chiamando *Abramo, scelto tra i pagani (Gios 24, 2 s), a diventare suo amico (Is 41, 8), Dio esprime il suo amore sotto la forma di una *amicizia: Abramo diventa il confidente dei suoi segreti (Gen 18, 17). E ciò perché Abramo ha risposto alle esigenze dell’amore divino: ha lasciato la sua patria dietro l’appello di Dio (12, 1); deve penetrare più a fondo nel mistero del *timore di Dio che è amore, perché è chiamato a sacrificare il suo figlio unico, e con esso il suo amore umano: «Prendi il figlio tuo, quello che tu ami» (22, 2). *Mosè non deve sacrificare il proprio figlio, ma tutto il suo popolo è chiamato in causa dal conflitto tra la santità divina e il peccato; egli è diviso tra Dio, di cui è l’inviato, e il popolo che rappresenta (Es 32, 9-13). Se resiste fedelmente, si è perché, dalla sua vocazione (3, 4) fino alla morte, non ha cessato di progredire nell’intimità di Dio, intrattenendosi con lui come con un suo *prossimo (33, 11); ha avuto la rivelazione dell’immensa *tenerezza di Dio, di un amore che, senza sacrificare nulla della *santità, è *misericordia (34, 6 s).
    2. La rivelazione profetica.
    - Confidenti anch’essi di Dio (Am 3, 7), amati personalmente da un Dio la cui scelta li afferra (7, 15) e talvolta li dilania (Ger 20, 7 ss), ma li riempie pure di gioia (20, 11 ss), i *profeti sono i testimoni del dramma dell’amore e dell’*ira di Jahvè (Am 3, 2). Osea, poi Geremia ed Ezechiele, rivelano che Dio è lo *sposo di Israele, che tuttavia è sempre infedele; questo amore appassionato e geloso (cfr. *zelo) non è ricambiato se non con l’ingratitudine e il tradimento. Ma l’amore è più forte del peccato, quand’anche debba soffrire (Os 11, 8); egli *perdona e ricrea in Israele un *cuore *nuovo capace di amare (Os 2, 21 s; Ger 31, 3. 20. 22; Ez 16, 60-63; 36, 26 s). Altre immagini, come quella del *pastore (Ez 34) o della *vigna (Is 5; Ez 17, 6-10) esprimono lo stesso ardore divino e lo stesso dramma. Promulgato senza dubbio (2 Re 22) al momento in cui il popolo sembra preferire definitivamente all’amore di Dio il culto degli *idoli, il Deuteronomio ricorda instancabilmente che l’amore di Dio per Israele è gratuito (Deut 7, 7 s) e che Israele deve «amare Dio con tutto il suo cuore» (6, 5). Questo amore si esprime in atti di *adorazione e di *obbedienza (11, 13; 19, 9) che suppongono una scelta radicale, un distacco penoso (4, 15-31; 30, 15-20). Ma esso non è possibile se Dio in persona non viene a *circoncidere il cuore di Israele ed a renderlo capace di amare (30, 6).
    3. Verso un dialogo personale.
    - Dopo l’*esilio Israele, purificato dalla *prova, scopre sempre di più che la vita con Dio è un dialogo d’amore. Senza dubbio è così che rilegge il Cantico dei Cantici: con alterne vicende di possesso e di ricerca, lo *sposo e la sposa si amano di un amore «forte come la morte» (Cant 8, 6). Dopo l’esilio inoltre, ci si rende conto meglio che Dio si rivolge al cuore di ciascuno: non ama soltanto la collettività (Deut 4, 7), o i suoi capi (1 Sam 12, 24 s), ma ogni ebreo, soprattutto il *giusto (Sal 37, 25-29; 146, 8), il *povero e il piccolo (Sal 113, 5-9). E a poco a poco va anche delineandosi l’idea che oltre all’ebreo l’amore di Jahvè riguardi anche i pagani (Giona 4, 10 s), anzi ogni creatura (Sap 11, 23-26). Avvicinandosi la venuta di Cristo, il giudeo *pio (ebr. hasîd: Sal 4, 4; 132, 9. 16) che medita la Bibbia prende coscienza di essere amato da un Dio, di cui canta la misericordia *fedeltà all’*alleanza (Sal 136; Gioe 2, 13), la bontà (Sal 34, 9; 100, 5), la *grazia (Gen 6, 8; Is 30, 18), la *tenerezza (Sal 86, 15; Sap 15, 1). In cambio egli ripete incessantemente il suo amore per Dio (Sal 31, 24; 73, 25; 116, 1) e per tutto ciò che a lui si collega: il suo *nome, la sua *legge, la sua *sapienza (Sal 34, 13; 119, 127; ls 56, 6; Eccli 1, 10; 4, 14). Questo amore sovente dev’essere messo alla prova di fronte all’esempio e alla pressione degli *empi (Sal 10; 40, 14-17; 73; Eccli 2,11-17); e questo può giungere fino al *martirio, come avvenne al tempo dei Maccabei (2 Mac 6 - 7) o più tardi a Rabbi Aqiba, che muore per la sua fede nel 135 d. C.: «Io l’ho amato con tutto il mio cuore - dirà -, e con tutte le mie sostanze; non avevo ancora avuto l’occasione di amarlo con tutto me stesso (cfr. *anima). Il momento è giunto». Quando queste parole sublimi venivano pronunziate, la rivelazione completa era già stata data agli uomini da *Gesù Cristo.
    NUOVO TESTAMENTO
    L’amore tra Dio e gli uomini si era rivelato nel VT attraverso una specie di fatti: iniziative divine e rifiuti dell’uomo, sofferenza dell’amore respinto, superamento doloroso per essere all’altezza dell’amore ed accertarne la grazia. Nel NT l’amore divino si esprime in un fatto unico la cui stessa natura trasfigura i dati della situazione: Gesù viene a vivere come Uomo-Dio il dramma del dialogo d’amore tra Dio e l’uomo.
    1. Il dono del Padre.
    - La venuta di Gesù è in primo luogo un atto del Padre. Secondo i profeti e le promesse del VT, «ricordandosi della sua misericordia» (Lc 1, 54 s; Ebr 1, 1 s), Dio si fa conoscere (Gv 1, 18); manifesta il suo amore (Rom 8, 39; 1 Gv 3, 1; 4, 9) in colui che non è soltanto il *Messia salvatore atteso (Lc 2, 11), ma anche il suo proprio *Figlio (Mc 1, 11; 9, 7; 12, 6), colui che egli ama (Gv 3, 35; 10, 17; 15, 9; Col 1, 13). L’amore del Padre si esprime allora in un modo insuperabile. Ecco realizzata la nuova *alleanza, e concluse le nozze eterne dello *sposo con l’umanità. La generosità divina, manifestata fin dalle origini di Israele (Deut 7, 7 s), raggiunge il suo culmine, accogliendo il Figlio, l’uomo non può che rinunciare a ogni *orgoglio, a ogni *fierezza fondata sul proprio merito: il dono d’amore fatto da Dio è integralmente gratuito (Rom 5, 6 s; Tito 3, 5; 1 Gv 4, 10- 19). Questo dono è definitivo, al di là dell’esistenza terrena di Gesù (Mt 28, 20; Gv 14, 18 s); è spinto all’estremo, poiché acconsente alla morte del Figlio affinché il *mondo abbia la vita (Rom 5, 8; 8, 32) e noi siamo *figli di Dio (1 Gv 3, 1; Gal 4, 4-7). Se «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unico» (Gv 3, 16), lo ha fatto affinché gli uomini abbiano la *vita eterna; ma condannano se stessi coloro che rifiutano di credere in colui che è stato mandato e «preferiscono» le tenebre alla luce (3, 19). L’opzione è inevitabile: o l’amore mediante la fede nel Figlio, o l’*ira per il rifiuto della fede (3, 36).
    2. L’amore perfetto rivelato in Gesù.
    - Ormai il dramma dell’amore non si svolge soltanto in occasione del contatto con Gesù, ma attraverso la sua persona. Con la sua stessa esistenza Gesù è rivelazione concreta dell’amore, Gesù è l’*uomo che realizza il dialogo finale con Dio e ne porta la testimonianza dinanzi agli uomini. Gesù è Dio che viene a vivere in piena umanità il suo amore ed a farne sentire l’appello ardente. Nella persona di Gesù l’uomo ama Dio e ne è amato.
    a) La vita intera di Gesù testimonia questo duplice dialogo. Donato al Padre fin dall’inizio (Lc 2, 49; cfr. Ebr 10, 5 ss), vivendo nella preghiera e nel ringraziamento (cfr. Mc 1, 35; Mt 11, 25) e soprattutto nella perfetta conformità alla *volontà divina (Gv 4, 34; 6, 38), egli è continuamente in *ascolto di Dio (5, 30; 8, 26. 40), il che gli dà la sicurezza di essere da lui ascoltato (11, 41 s; cfr. 9, 31). Nei confronti degli uomini la sua vita è interamente donata, non soltanto a qualche amico (cfr. Mc 10, 21; Lc 8, 1 ss; Gv 11, 3. 5. 36), ma a tutti (Mc 10, 45); passa facendo il bene (Atti 10, 38; Mt 11, 28 ss), nel disinteresse totale (Lc 9, 58) e nell’attenzione per tutti, ivi compresi, ed in modo particolare, i più disprezzati e i più indegni (Lc 7, 36-50; 19, 1-10; Mt 21, 31 s); sceglie gratuitamente quelli che vuole (Mc 3, 13) per farne i suoi amici (Gv 15, 15 s). Questo amore domanda la reciprocità, il comandamento del Deuteronomio rimane in vigore (Mt 22, 37; cfr. Rom 8, 28; 1 Cor 8, 3; 1 Gv 5, 2), ma vi si obbedisce attraverso Gesù: amandolo, si ama il Padre (Mt 10, 40; Gv 8, 42; 14, 21-24). Infine, amare Gesù significa custodire integralmente la sua *parola (Gv 14, 15. 21. 23) e *seguirlo rinunziando a tutto (Mc 10, 17-21; Lc 14, 25 ss). Perciò in tutto il vangelo si opera una divisione (Lc 2, 34) tra coloro che accettano e coloro che rifiutano questo amore, di fronte al quale non si può rimanere neutrali (Gv 6, 60-71; cfr. 3, 18 s; 8, 13-59; 12, 48).
    b) Sulla *croce l’amore rivela in modo decisivo la sua intensità ed il suo dramma. Bisognava che Gesù *soffrisse (Lc 9, 22; 17, 25; 24, 7. 26; cfr. Ebr 2, 17 s), perché fossero pienamente rivelati la sua *obbedienza al Padre (Fil 2, 8) ed il suo amore verso i suoi (Gv 13, 1). Perfettamente libero (cfr. Mt 26, 51-54; Gv 10, 18), attraverso la tentazione e l’apparente *silenzio di Dio (Mt 26, 39-44; 27, 46; cfr. Ebr 4, 15) nella radicale *solitudine umana (Mc 14, 50; 15, 29-32), tuttavia perdonando ed ancora accogliendo (Lc 23, 28. 34. 43; Gv 19, 26 s), Gesù giunge all’istante unico dell’«amore più grande» (Gv 15, 13). In esso egli dona tutto a Dio senza riserva (Lc 23, 46) ed a tutti gli uomini senza eccezione (Mc 10, 45; 14, 24; 2 Cor 5, 14 s; 1 Tim 2, 5 s). Per mezzo della croce Dio è pienamente *glorificato (Gv 17, 4); «l’uomo Gesù» (1 Tim 2, 5), e con lui l’umanità intera, merita di essere amato da Dio senza riserva (Gv 10, 17; Fil 2, 9 ss). Dio e l’uomo sono congiunti nella *unità, secondo l’ultima preghiera di Gesù (Gv 17). Tuttavia bisogna che l’uomo accetti liberamente un amore così totale ed esigente, che deve portarlo a sacrificarsi sull’esempio di Cristo (17, 19). Sulla sua strada egli trova lo *scandalo della croce, che non è altro se non lo scandalo dell’amore. Qui si manifesta pienamente il dono dello sposo alla sposa (Ef 5, 25 ss; Gal 2, 20), ma anche, per l’uomo, la tentazione suprema dell’infedeltà.
    3. L’amore universale nello Spirito.
    - Se il Calvario è il luogo dell’amore perfetto, il modo in cui esso la manifesta è una *prova decisiva: di fatto, gli amici del Crocifisso l’abbandonano (Mc 14, 50; Lc 23, 13-24); e ciò perché l’adesione all’amore divino non consiste nell’incontro fisico né nel ragionamento umano, in breve nella «conoscenza secondo la *carne» (2 Cor 5, 16); vi occorre il dono dello *Spirito, che crea nell’uomo un «*cuore *nuovo» (cfr. Ger 31, 33 s; Ez 36, 25 ss). Effuso nella *Pentecoste (Atti 2, 1-40) come Cristo aveva promesso (Gv 14, 16 ss; cfr. Lc 24, 49), da allora lo Spirito è presente nel mondo (Gv 14, 16) per mezzo della Chiesa (Ef 2, 21 s), ed *insegna agli uomini ciò che Gesù ha detto (Gv 14, 26), facendolo loro comprendere dal di dentro, con una vera *conoscenza religiosa; *testimoni o no della vita terrena di Gesù, gli uomini qui sono uguali, senza distinzione né di tempo, né di razza. Ogni uomo ha bisogno dello Spirito per poter dire «Padre» (Rom 8, 15) e glorificare Cristo (Gv 16, 14). Così è effuso in noi un amore (Rom 5, 5) che ci incalza (2 Cor 5, 14), un amore da cui nulla può più separarci (Rom 8, 35-39) e che ci prepara all’incontro di amore definitivo in cui «conosceremo come siamo conosciuti» (1 Cor 13, 12).
    4. Dio è amore.
    - Il cristiano, in tal modo guidato dallo Spirito a vivere con il Signore in un dialogo d’amore, si avvicina al mistero stesso di *Dio. Perché questi non rivela di primo acchito ciò che è: parla, chiama, agisce, e l’uomo accede per questa via a una conoscenza più profonda. Donando suo figlio, Dio rivela che egli è colui che si dona per amore (cfr. Rom 8, 32). Vivendo con il Padre in un dialogo d’amore assoluto, rivelando in tal modo che il Padre e lui sono «uno» da tutta l’eternità (Gv 10, 30; cfr. 17, 11. 21 s) e che egli stesso è Dio (Gv 1, 1; cfr. 10, 33-38; Mt 11, 27), il *Figlio unico «che è nel seno del Padre», ci fa conoscere il Dio che «nessuno ha mai visto» (Gv 1, 18). Questo Dio, sono lui e suo Padre nell’unità dello Spirito. E il «discepolo diletto», colui che ha fatto l’esperienza della carità e della fede, può formulare quello che senza dubbio rappresenta l’ultima parola di ogni cosa: «Dio è amore» (1 Gv 4, 8. 16). Di tutte le parole umane, con le loro ricchezze e i loro limiti, è la parola «amore» quella che può lasciarci intravvedere meglio il mistero di *Dio Trinità, il dono reciproco ed eterno del Padre, del Figlio e dello Spirito.
    II. LA CARITÀ FRATERNA
    VECCHIO TESTAMENTO 
    Già nel VT il comandamento dell’amore di Dio è completato dal «secondo comandamento»: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (Lev 19, 18). A dire il vero, questo comandamento è presentato in modo meno solenne dell’altro (cfr. Lev 19, 1-37 e Deut 6, 4-13), ed il termine *prossimo vi ha senza dubbio un senso molto ristretto. Ma già l’israelita è invitato a prestare attenzione agli «altri». Fin nei testi più antichi costituisce un’offesa a Dio l’essere indifferente od ostile al proprio prossimo (Gen 3, 12; 4, 9), e la legge unisce alle esigenze che concernono le relazioni con Dio quelle che toccano le relazioni tra gli uomini: così il decalogo (Es 20, 12-17), od il «Codice dell’alleanza» che abbonda di prescrizioni di attenzione verso i *poveri ed i piccoli (Es 22, 20-26; 23, 4-12). Tutta la tradizione profetica (Am 1-2; Is 1, 14 17; Ger 9, 2-5; Ez 18, 5-9; Mal 3, 5) e tutta la tradizione sapienziale (Prov 14, 21; 1, 8-19; Eccli 25, 1; Sap 2, 10 ss) hanno lo stesso indirizzo: non si può piacere a Dio senza rispettare gli altri uomini, soprattutto i più abbandonati, i meno «interessanti». Non si è mai creduto di poter amare Dio senza interessarsi agli uomini: «Egli praticava la giustizia e il diritto... giudicava la causa del povero e del disgraziato. *Conoscermi, non è forse tutto questo?» (Ger 22, 15 s). L’oracolo concerne Giosia, ma tocca tutto Israele (cfr. Ger 9, 4). Non è detto spesso che questo dovere sia chiamato esplicitamente «amore» (Lev 19, 18. 34; Deut 10, 19). Tuttavia, già in occasione dell’amore per lo *straniero, il comandamento è fondato sul dovere di agire come Jahvè al tempo dell’*esodo: «Jahvè ama lo straniero al quale dà pane e vestiti. Amate lo straniero, perché nel paese d’Egitto foste stranieri» (Deut 10, 18 s). Il motivo non è una semplice solidarietà naturale, ma la storia della salvezza. Prima della venuta di Cristo il giudaismo approfondisce la natura dell’amore *fraterno. Nell’amore del prossimo si include l’avversario giudeo, persino il *nemico pagano; l’amore diventa più universale, quantunque Israele conservi il suo posto centrale. «Ama la pace - dice Hillel -. Aspira alla pace. Ama le creature, conducile alla legge». Si scopre che amare significa prolungare l’azione divina: «Come il Santo - sia egli benedetto! - riveste coloro che sono nudi, consola gli afflitti, seppellisce i morti, così anche tu rivesti coloro che sono nudi, visita gli ammalati, ecc.». Era quindi facile stabilire il legame tra i due comandamenti d’amore per Dio e per il prossimo; è quel che fece un giorno uno scriba rivolgendosi a Gesù (Lc 10, 26 s).
    NUOVO TESTAMENTO
    Se la concezione giudaica poteva lasciar credere che l’amore fraterno si giustapponga su un piano di eguaglianza con altri comandamenti, la visione cristiana gli dà il posto centrale, anzi unico.
    1. I due amori.
    - Da un capo all’altro del NT l’amore del *prossimo appare indissociabile dall’amore di Dio: i due comandamenti sono il vertice e la chiave della legge (Mc 12, 28-33 par.) la carità fraterna è la realizzazione di ogni esistenza morale (Gal 5, 14; 6, 2; Rom 13, 8 s; Col 3, 14), è in definitiva l’unico comandamento (Gv 15, 12; 2 Gv 5), l’opera unica e multiforme di ogni *fede viva (Gal 5, 6. 22): Chi non ama il fratello che vede, non può amare quel Dio che non vede... amiamo i figli di Dio quando amiamo Dio» (1 Gv 4, 20 s). Non si potrebbe affermare meglio che, in sostanza, non c’è che un solo amore. L’amore del prossimo è quindi essenzialmente religioso; non è una semplice filantropia. Anzitutto è religioso per il suo modello: imitare l’amore stesso di Dio (Mt 5, 44 s; Ef 5, 1 s. 25; 1 Gv 4, 11 s). Poi, e soprattutto, per la sua sorgente, perché è l’opera di Dio in noi: come potremmo essere *misericordiosi come il Padre celeste (Lc 6, 36), se il Signore non ce lo insegnasse (1 Tess 4, 9), se lo Spirito non lo effondesse nei nostri cuori (Rom 5, 5; 15, 30)? Questo amore viene da Dio ed esiste in noi per il fatto stesso che Dio ci prende come *figli (1 Gv 4, 7). E, venuto da Dio, esso ritorna a lui: amando i nostri fratelli, amiamo il Signore stesso (Mt 25, 40), perché tutti assieme forniamo il *corpo di Cristo (Rom 12, 5-10; 1 Cor 12, 12-17). Questo è il modo in cui possiamo rispondere all’amore con cui Dio ci ha amati per primo (1 Gv 3, 16; 4, 19 s). In attesa della parusia del Signore, la carità è l’esigenza essenziale, in base alla quale gli uomini saranno giudicati (Mt 25, 31-46). Questo è il testamento lasciato da Gesù: «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati, (Gv 13, 34 s). L’atto d’amore di Cristo continua ad esprimersi attraverso gli atti dei discepoli. Questo comandamento, benché antico perché legato alle sorgenti stesse della rivelazione (1 Gv 2, 7 s), è *nuovo: di fatto Gesù ha inaugurato una nuova era mediante il suo sacrificio, fondando la nuova comunità annunziata dai profeti, donando ad ognuno lo Spirito che crea dei cuori nuovi. Se dunque i due comandamenti sono uniti, si è perché l’amore di Cristo continua ad esprimersi attraverso la carità che i discepoli manifestano tra loro.
    2. L’amore è dono.
    - La carità cristiana, soprattutto dai sinottici e da Paolo, è vista ad immagine di Dio che dona gratuitamente il Figlio suo per la salvezza di tutti gli uomini peccatori, senza merito alcuno da parte loro (Mc 10, 45; Rom 5, 6 ss). Essa è quindi universale, e non lascia sussistere nessuna barriera sociale o razziale (Gal 3, 28), non disprezza nessuno (Lc 14, 13; 7, 39); più ancora, esige l’amore dei *nemici (Mt 5, 43-47; Lc 10, 29-37). L’amore non può scoraggiarsi: ha come espressione il *perdono senza limiti (Mt 18, 21 s; 6, 12. 14 s), il gesto spontaneo verso l’avversario (Mt 5, 23 s), la *pazienza, il rendere bene per male (Rom 12, 14- 21; Ef 4, 25 - 5, 2 ). Nel *matrimonio esso si esprime sotto forma di dono totale, ad immagine del sacrificio di Cristo (Ef 5, 25-32). Per tutti infine è una mutua *schiavitù (Gal 5, 13), in cui l’uomo rinunzia a se stesso con il Cristo crocifisso (Fil 2, 1-11). Nel suo «inno alla carità» (1 Cor 13), Paolo manifesta la natura e la grandezza dell’amore. Senza trascurare affatto le sue esigenze quotidiane (13, 4 ss), egli afferma che, senza la carità, nulla ha valore (13, 1 ss), che solo essa sopravvivrà a tutto: amando come Cristo, noi viviamo già una realtà divina ed eterna (13, 8-13), per mezzo della quale la Chiesa è *edificata (1 Cor 8, l; Ef 4, 16) e l’uomo diventa perfetto per il *giorno del Signore (Fil 1, 9 ss).
    3. L’amore è comunione.
    - Certamente anche Giovanni parla della universalità e della gratuità dell’amore divino (Gv 3, 16; 15, 16; 1 Gv 4, 10), ma, più sensibile alla *comunione del Padre e del Figlio nello Spirito, ne sottolinea le conseguenze per l’amore dei cristiani tra loro. La loro fraternità deve essere una comunione totale, in cui ognuno si impegna con tutta la sua capacità d’amore e di fede, di fronte al *mondo in cui non può amare il regno del «maligno» (1 Gv 2, 14 s; cfr. Gv 17, 9), il cristiano amerà i suoi *fratelli con un amore esigente e concreto (1 Gv 3, 11- 18), in cui vige la legge della rinuncia e della morte, senza la quale non c’è vera *fecondità (Gv 12, 24 s). Mediante questa carità il credente *rimane in comunione con Dio (1 Gv 4, 7 - 5, 4). (Questa era l’ultima preghiera di Gesù: «che l’amore, con cui mi hai amato, sia in essi ed io in essi» (Gv 17, 26). Vissuto dai discepoli in mezzo al mondo al quale non appartengono (17, 11. 15 s), questo amore fraterno è la *testimonianza attraverso la quale il mondo può riconoscere Gesù come l’inviato del Padre (17, 21): «Da questo tutti vi riconosceranno come miei discepoli: dall’amore che avete gli uni per gli altri» (13, 35).
    C.WIÉNER
    → adulterio 1 - alleanza - amico - carcere III - colomba - comunione - conoscere - cuore - desiderio - Dio NT 4, III - diritto NT - dono - elemosina - elezione VT II 1 - esempio NT - fedeltà - fiducia 3 - fratello - fuoco VT II 3 - ira - legge B II 3; C - matrimonio - miracolo I 2 c - misericordia - mitezza 3 - nemico II 3, III - odio - opere NT II 2 - ospitalità - padri e Padre - pastore e gregge - pazienza - perfezione NT 2.4 - pietà VT 2; NT 2 - predestinare - profumo 1 - prossimo - Provvidenza - redenzione NT 5 - retribuzione III 2 - sacrificio NT II 1 - scisma NT - sessualità - Sposo-sposa - speranza - tenerezza - timor di Dio 0, III - umiltà III - unità - verginità - violenza IV 2.3 - virtù e vizi - volontà di Dio - zelo
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    LUIS MARTINEZ FERNANDEZ
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