CHERUBINI - CONOSCERE - DIZIONARIO DI TEOLOGIA BIBLICA

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C: CHERUBINI - CONOSCERE

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  ................. LUIS MARTINEZ FERNANDEZ

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    CHERUBINI (inizio)

    → angeli VT 1 - arca d'alleanza 0.

    CHIAMATA (inizio)

    → Chiesa I - elezione - nome - vocazione.

    CHIAVE (inizio)

    → porta.

    CHIESA (inizio)

    Se molti contemporanei non vanno oltre l’aspetto umano della Chiesa - società mondiale e ben inquadrata di uomini uniti dalle credenze e dal culto - la Scrittura, parlando alla nostra fede, la designa come un *mistero, un tempo nascosto in Dio, ma oggi svelato e in parte realizzato (Ef 1, 9 s; Rom 16, 25 s). Mistero di un popolo ancora peccatore, ma che già possiede il pegno della salvezza, perché è l’estensione del corpo di Cristo, il focolare dell’amore; mistero di una istituzione umano-divina in cui l’uomo può trovare la luce, il perdono e la grazia «per la lode della gloria di Dio» (Ef 1, 14). A questa fondazione inedita i primi cristiani di lingua greca hanno dato il nome biblico di ekklesìa, che pur indicando una continuità tra Israele e il popolo cristiano, era attissimo ad assumere un contenuto nuovo.
    I. SIGNIFICATI DELLA PAROLA
    Nel mondo greco la parola ekklesia, di cui «chiesa» non è che un ricalco, designa l’assemblea del dèmos, del popolo come forza politica. Di questo senso profano (cfr. Atti 19, 32. 39 s) si tinge il senso religioso quando Paolo parla dello svolgimento attuale di un’assemblea cristiana riunita «in chiesa» (ad es. 1 Cor 11, 18). Nei Settanta, invece, la parola designa una assemblea convocata per un atto religioso, spesso cultuale (ad es. Deut 23; 1 Re 8; Sal 22, 26): corrisponde all’ebr. qahal, usato soprattutto dalla scuola deuteronomica per designare l’assemblea dell’Horeb (ad es. Deut 4, 10), delle steppe di Moab (Deut 31, 30) o della terra promessa (ad es. Gios 8, 35; Giud 20, 2), e dal Cronista (ad es. 1 Cron 28, 8; Neem 8, 2) per designare l’assemblea liturgica di Israele al tempo dei re o dopo l’esilio. Ma se ekklesìa traduce sempre qahal, quest’ultima parola è resa talvolta con altri vocaboli, specialmente con synagoghè (ad es. Num 16, 3; 20, 4; Deut 5, 22), che per lo più rende il termine sacerdotale ‘edah. Chiesa e sinagoga sono due termini pressochè sinonimi (cfr. Giac 2, 2): non si opporranno che quando i cristiani si saranno appropriato il primo, riservando il secondo ai Giudei recalcitranti. La scelta di ekklesìa da parte dei Settanta è stata senza dubbio guidata dall’assonanza qahal/ekklesìa, ma anche dalle suggestioni della etimologia: questo termine, venendo da enkalèo (chiamo da, convoco), indicava di per sé che Israele, il popolo di Dio, era il raduno degli uomini convocati dall’iniziativa divina, e si collegava ad una espressione sacerdotale in cui era espressa l’idea di chiamata: kletè haghìa, traduzione letterale di miqrah qodeš, «convocazione santa» (Es 12, 16; Lev 23, 3; Num 29, 1). È naturalissimo che Gesù, fondando un nuovo popolo di Dio in continuazione dell’antico, l’abbia designato con un nome biblico dell’assemblea religiosa (ha dovuto dire in aramaico sia ‘edta, sia keništa, tradotto per lo più con synagoghè, sia più probabilmente qehalah), nome reso con ekklesìa in Mt 16, 18. Così pure la prima generazione cristiana, cosciente di essere il nuovo *popolo di Dio (1 Piet 2, 10) prefigurato dalla «chiesa del deserto» (Atti 7, 38), ha adottato un termine che, venendo dalle Scritture, era attissimo a designarla come «*Israele di Dio» (Gal 6, 16; cfr. Apoc 7, 4; Giac 1, 1; Fil 3, 3). Questo termine inoltre presentava il vantaggio di includere il tema dell’appello che Dio rivolge gratuitamente in Gesù Cristo prima ai Giudei, poi ai pagani, per formare «la convocazione santa» degli ultimi tempi (cfr. 1 Cor 1, 2; Rom 1, 7:«convocati santi»).
    II. PREPARAZIONE E COMPIMENTO DELLA CHIESA
    Dio ha preparato lungamente la riunione dei suoi figli dispersi (Gv 11, 52). La Chiesa è la comunità degli uomini beneficiari della *salvezza in Gesù Cristo (Atti 2, 47): «noi i salvati», scrive Paolo (1 Cor 1, 18). Ora il *disegno divino della salvezza, se culmina in questa comunità, è stato non di meno concepito «fin da prima della creazione del mondo» (Ef 1, 4) ed abbozzato tra gli uomini fin da Abramo, anzi fin dalla apparizione di Adamo.
    1. Creazione prima e creazione nuova.
    - Fin dalle origini l’uomo è chiamato a fare società (Gen 1, 27; 2, 18) ed a moltiplicarsi (1, 28), vivendo nella familiarità di Dio (3, 8). Ma il *peccato intralcia il piano divino; invece di rimanere capo di un popolo radunato per vivere con Dio, Adamo è padre di una umanità divisa dall’*odio (4, 8; 6, 11), dispersa dall’orgoglio (11, 8 s), che fugge il suo creatore (3, 8; 4, 14). Sarà quindi necessario che un nuovo *Adamo (1 Cor 15, 45; Col 3, 10 s) inauguri una nuova *creazione (2 Cor 5, 17 s; Gal 6, 15), nella quale sia restaurata la vita di amicizia con Dio (Rom 5, 12 ...), l’umanità sia ricondotta all’*unità (Gv 11, 52) ed i suoi membri siano riconciliati (Ef 2, 15-18). Tale sarà la Chiesa, preparata da Israele. La Bibbia, collocando la storia di Abramo e della sua discendenza nella storia universale di un mondo in cui il peccato dispiega le sue conseguenze, mostra nello stesso tempo che la Chiesa, vero popolo di Abramo (Rom 4, 11 s), deve inserirsi nel mondo ed essere in esso la risposta al peccato, nonchè alle divisioni ed alla *morte che ne derivano. Già le tradizioni sul *diluvio fornivano ad Israele l’esempio di un giusto, posto da Dio all’inizio di una nuova creazione dopo il pullulare del peccato; questa salvezza universale accordata per mezzo dell’*acqua alla discendenza di Noè, era una *figura di quella, ben altrimenti ricca, che Cristo avrebbe apportato per mezzo del *battesimo (1 Piet 3, 20 s).
    2. Antico e nuovo Israele.
    - Con l’*elezione di Abramo, già suggellata da un’*alleanza (Gen 15, 18» inizia il processo decisivo di formazione di un *popolo di Dio. Da questa razza benedetta, di cui egli è il ceppo, uscirà il Cristo, nel quale giungeranno a pieno compimento le *promesse (Gal 3, 16), e che a sua volta fonderà il popolo definitivo, posterità spirituale di *Abramo il credente (Mt 3, 9 par.; Gv 8, 40; Gal 4, 21-31; Rom 2, 28 s; 4, 16; 9, 6 ss). Entrando nella Chiesa di Gesù Cristo per mezzo della fede tutte le *nazioni saranno benedette in Abramo (Gal 3, 8 s = Gen 12, 3 LXX;cfr. Sal 47, 10). Tra Israele, posterità carnale dei patriarchi, e la Chiesa, c’è nello stesso tempo rottura e continuità. Il NT applica quindi al nuovo popolo di Dio i nomi dell’antico, ma per mezzo di trasposizioni e di contrasti. Entrambi sono la ekklesìa, ma la parola significa ora il mistero ignoto al VT, il *corpo di Cristo (Ef 1, 22 s); ed il *culto che vi si rende a Dio è tutto spirituale (Rom 12, 1). La Chiesa è *Israele, ma Israele di Dio (Gal 6, 16), spirituale e non più carnale (1 Cor 10, 18); è un popolo di acquisto, ma acquistato col *sangue di Cristo (Atti 20, 28; 1 Piet 2, 9 s; Ef 1, 14) e tratto pure di mezzo ai gentili (Atti 15, 14). E’ la *sposa, non più adultera (Os; Ger 2 - 3; Ez 16), ma immacolata (Ef 5, 27); la *vigna, non più bastarda (Ger 2, 21), ma feconda (Gv 15, 1-8); il *resto santo (Is 4, 2 s). E’ il gregge, non più radunato una volta (Ger 23, 3) e poi di nuovo disperso (Zac 13, 7 ss), ma gregge definitivo del *pastore immolato e risorto per esso (Gv 10); è la *Gerusalemme di lassù, non più schiava, ma libera (Gal 4, 24 s). E il popolo della nuova *alleanza predetta dai profeti (Ger 31, 31 ss; Ez 37, 26 ss), ma suggellata dal sangue di Cristo (Mt 26, 28 par.; Ebr 9, 12 ss; 10, 16), che è *luce delle nazioni (Is 42, 6). La sua carta di alleanza non è più la *legge di Mosè, incapace di comunicare la vita (Gal 3, 21), ma quella dello *Spirito (Rom 8, 2), scritta nei cuori (Ger 31, 33 s; Ez 36, 27; cfr. 1 Gv 2, 27). E’ il *regno dei santi, annunziato da Daniele e prefigurato dall’assemblea davidica del Cronista: non più costituzione temporale di una nazione (Gv 18, 36), ma germe visibile dovunque ed abbozzo spirituale di un regno invisibile ed atemporale dove la morte sarà distrutta (1 Cor 15, 25 s; Apoc 20, 14). Infine, poiché il *tempio della nuova economia, non fatto da mano d’uomo (Mc 14, 58) e indistruttibile (Mt 16, 18), è il *corpo risorto di Cristo (Gv 2, 21 s), la Chiesa, corpo di Cristo, è parimenti il tempio nuovo (2 Cor 6, 16; Ef 2, 2 1; 1 Piet 2, 5), luogo di una *presenza e di un *culto accessibile a tutti (Mc 11, 17).
    III. FONDAZIONE DELLA CHIESA
    Il VT prepara quindi la Chiesa e la prefigura; Gesù la rivela e la fonda.
    1. Le tappe della Chiesa.
    - Il pensiero di Gesù si inserisce nella cornice della sua proclamazione del *regno dei cieli; con un linguaggio profetico dove non sempre i piani si distinguono, egli rivela che la fase celeste del regno (Mt 13, 43; 25, 31-46) sarà preceduta da una fase di lenta crescita terrena (13, 31 s). In attesa della *messe, la zizzania del peccato seminata dal Malvagio deve crescere con il grano buono (13, 24-30. 36-43). Questa fase terrena, a sua volta, comprenderà due tappe. La prima è la vita mortale di Gesù che, con la sua predicazione, la sua azione su Satana e la formazione della comunità messianica, rende il regno già presente (Mt 12, 28; Lc 17, 21). La seconda sarà il tempo della Chiesa propriamente detto (Mt 16, 18), che inizierà con tre avvenimenti principali: - il *sacrificio di Gesù che fonda (Mt 26, 28) questa «comunità della nuova alleanza», zelatrice di un culto puro (cfr. Mal 3, 1-5), che Geremia aveva sperato al tempo di Giosia (2 Re 23) e poi spostato nel futuro escatologico (Ger 31, 31 s), e che i gruppi di Qumrân e di Damasco credevano di rappresentare; - la sua risurrezione, dopo la quale riunirà in Galilea il gregge disperso (Mt 14, 27 s) - la rovina di Gerusalemme (Mt 23, 37 ss; cfr Lc 21, 24), che è nello stesso tempo segno della sostituzione della Chiesa alla maggior parte del popolo giudaico e prodromo del giudizio finale.
    2. Reclutamento e formazione dei discepoli.
    - Durante la sua vita mortale Gesù raccoglie ed *educa dei *discepoli, ai quali rivela i *misteri del regno (Mt 13, 10-17 par.): è già il «piccolo gregge» (Lc 12, 32) del buon pastore (Gv 10) annunciato dai profeti, il regno dei santi (Dan 7,18-22). Gesù ha preso in considerazione la sopravvivenza e la crescita di questo gruppo dopo la sua morte ed ha abbozzato le grandi linee del suo statuto futuro. Le sue predizioni sulla persecuzione dei suoi (Mt 10, 17-25 par.; Gv 15, 18...), probabilmente anche le sue parole sulla mescolanza di giusti e di peccatori (Mt 22, 11 ss; 13, 24-30. 36-43. 47-50) oltrepassano, nel suo pensiero, il tempo della sua vita terrena, soprattutto, le sue istruzioni ai Dodici presuppongono una certa durata.
    a) I Dodici. - Di fatto Gesù si sceglie, tra i discepoli, dodici intimi che saranno le cellule fondamentali ed i capi del nuovo Israele (Mc 3, 13-19 par.; Mt 19, 28 par.). Fa fare loro il tirocinio del rito battesimale (Gv 4, 2) della predicazione, della lotta contro i *demoni e le *malattie (Mc 6, 7-13 par.). Insegna loro a preferire il servizio ai primi posti (Mc 9, 35), a dare la priorità alle «pecore perdute» (Mt 10, 6), a non temere le persecuzioni inevitabili (10, 17...), a riunirsi nel suo *nome per pregare in comune (18, 19 s), a perdonarsi reciprocamente (18, 21-35) ed a non scomunicare i pubblici peccatori senza aver tentato la persuasione (18, 15-18). La Chiesa, facendo risalire a Gesù alcune delle sue più antiche pratiche (cfr. Mt 18, 15-20 con 1 Cor 5, 1-13; 2 Cor 13, l; 1 Tim 5, 19), c’insegna che essa deve riportarsi sempre all’esperienza prepasquale dei Dodici per trovarvi le sue regole di vita.
    b) Missione universale dei Dodici. - Il tirocinio missionario degli *apostoli non esce dalla cornice di Israele (Mt 10, 5 s). Soltanto dopo la risurrezione di Gesù essi riceveranno l’ordine di istruire e di battezzare tutte le *nazioni (Mt 28, 19). Tuttavia, ancor prima di morire, Gesù annuncia l’accesso dei pagani nel regno. I «figli del regno» (Mt 8, 12), cioè i *Giudei, che avevano priorità di ingresso, se lo vedranno ritirare (Mt 21, 43), perché hanno rifiutato di lasciarsi «radunare» (Mt 23, 37) da Cristo; al posto della massa giudaica, provvisoriamente esclusa (cfr. Mt 23, 39; Rom 11, 11-32), entreranno i pagani (Mt 8, 11 s; Lc 14, 21-24; Gv 10, 16), su un piano di uguaglianza (Mt 20, 1-16) con il nucleo giudaico dei peccatori pentiti che hanno creduto in Gesù (Mt 21, 31 ss). In tal modo la Chiesa, prima realizzazione di un regno che non è di questo mondo (Gv 18, 36), realizzerà e supererà le più audaci profezie universalistiche del VT (ad es. Giona; Is 19, 16-25; 49, 1-6). Gesù non la lega per nulla al trionfo temporale di Israele, di cui egli stesso si disinteressa. Dura lezione per la folla (Gv 6, 15-66), ed anche per i Dodici (Atti 1, 6), che non la comprenderanno bene se non dopo la Pentecoste. Ma allora, essi non tenteranno di articolare la loro missione universale su una rivincita della loro nazione, e predicheranno la lealtà verso le *autorità imperiali (Rom 13, 1...; 1 Piet 2, 13 s). La norma delle relazioni tra la Chiesa e lo Stato essi la troveranno nella frase di Cristo: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt 22, 21 par.). All’imperatore, il tributo e tutto ciò che è necessario per soddisfare le giuste esigenze dello stato per il bene temporale dei popoli (Rom 13, 6 s), a Dio, il cui diritto sovrano proclamato dalla Chiesa crea, supera e giudica quello di Cesare (Rom 13, 1), il resto, cioè tutto il nostro essere.
    c) Autorità dei Dodici. - Ai capi occorrono poteri. Gesù li promette ai Dodici: a *Pietro, *roccia che garantisce la stabilità della Chiesa, la responsabilità del maggiordomo che apre o chiude le *porte della città celeste, e l’esercizio dei poteri disciplinari e dottrinali (Mt 16, 18 s; cfr. Lc 22, 32; Gv 21); agli apostoli - oltre la ripetizione della cena (Lc 22, 19) - il medesimo incarico «di legare e sciogliere», che verterà specialmente sul giudizio delle coscienze (Mt 18, 18; Gv 20, 22 s). Questi testi rivelano già la natura della Chiesa, di cui *Gesù Cristo è creatore e Signore: essa sarà una società organizzata e visibile, che inaugura quaggiù il regno di Dio; costruita sulla pietra, perpetuando la presenza di Cristo mediante l’esercizio dei poteri apostolici e mediante l’eucaristia, essa vincerà l’*inferno e gli strapperà la sua preda. In tal modo appare come fonte di vita e di perdono. Nel pensiero di Gesù una simile *missione durerà quanto il mondo: altrettanto sarà quindi delle strutture visibili e dei poteri ordinati a questa missione. Certamente, tutta una parte della funzione apostolica non è trasmissibile: la situazione degli *apostoli, *testimoni di Gesù durante la sua vita e dopo la sua risurrezione, è unica nella storia. Ma quando Gesù risuscitato, secondo la teologia matteana, incarica i Dodici di insegnare, di battezzare, di dirigere, e promette loro di rimanere con essi per sempre, sino alla fine del mondo (Mt 28, 20), lascia intravedere la permanenza dei poteri così conferiti per tutti i secoli futuri, anche oltre la morte degli apostoli. Così lo intenderà la Chiesa primitiva, in cui i poteri apostolici continueranno ad essere esercitati da capi che gli apostoli sceglieranno e consacreranno per questa funzione, *imponendo loro le mani (2 Tim 1, 6). Ancor oggi i poteri dei vescovi non hanno altra fonte che queste parole di Gesù.
    IV. NASCITA E VITA DELLA CHIESA
    1. Pasqua e Pentecoste.

    - La Chiesa nasce nella *Pasqua di Cristo, quando egli «passa» da questo mondo al Padre (Gv 13, 1). Con Cristo liberato dalla morte e divenuto «spirito che dà la vita» (1 Cor 15, 45), sorge una *nuova umanità (Ef 2, 15; Gal 6, 15), una nuova *creazione. I Padri hanno detto sovente che la Chiesa, nuova Eva, era nata dal costato di Cristo durante il sonno della morte, come l’antica Eva dal costato di Adamo addormentato; Giovanni, testimoniando gli effetti del colpo di lancia (Gv 19, 34 s), suggerisce questa idea, se è vero che per lui il sangue e l’acqua simboleggiano da prima il sacrificio di Cristo e lo Spirito che anima la Chiesa, e poi i sacramenti del battesimo e dell’eucaristia che le trasmettono la vita. Ma il corpo ecclesiale non è vivo se non in quanto è il *corpo di Cristo *risorto («risvegliato», cfr. Ef 5, 14), che effonde lo *Spirito (Atti 2, 33). Questa effusione di Spirito incomincia fin dal giorno di Pasqua (Gv 20, 22), quando Gesù «alita» lo Spirito ricreatore (Gv 20, 22; cfr. Gen 1, 2) sui discepoli finalmente da lui radunati (cfr. Mc 14, 27), capi del nuovo popolo di Dio (cfr. Ez 37, 9). Luca, da parte sua, pone nel giorno di *Pentecoste, che il giudaismo considerava come la commemorazione dell’adempimento della Pasqua e del dono dell’Alleanza, la grande effusione carismatica (Atti 2, 4), in vista della *testimonianza dei Dodici (Atti 1, 8) e della manifestazione pubblica della Chiesa; questo giorno quindi è per essa come una data di nascita ufficiale e un po’ quel che per Gesù, concepito di Spirito Santo (Lc 1, 35), era stata l’*unzione conferitagli da questo Spirito all’alba della sua missione messianica (Atti 10, 38; Mt 3, 16 par.), e quel che per il cristiano è il dono dello Spirito con 1’imposizione delle mani, che pone il *sigillo alla sua opera nel battesimo (Atti 8, 17; cfr. 2, 38).
    2. Estensione della Chiesa.
    - Dopo la Pentecoste, la Chiesa cresce rapidamente. Vi si entra accogliendo la *parola degli apostoli (Atti 2, 41), che genera la *fede (2, 44; 4, 32) in Gesù risorto, Signore e Cristo (2, 36), capo e salvatore (5, 31), poi ricevendo il *battesimo di acqua (2, 41), seguito da una imposizione delle mani che conferisce lo Spirito e i suoi *carismi (8, 16 s; 19, 6). Vi si rimane membro vivo (Atti 2, 42), mediante una quadruplice fedeltà: all’*insegnamento degIi apostoli che approfondisce la prima fede generata dalla proclamazione del messaggio di salvezza, alla *comunione fraterna (koinonìa), alla frazione del *pane ed alle preghiere in comune. Specie durante la frazione del pane, cioè durante il banchetto *eucaristico (cfr. 1 Cor 11, 20-24), si crea l’umanità (Atti 2, 46), si esperimenta la presenza di Cristo risorto, già commensale dei Dodici (Atti 10, 41), il suo sacrificio è «annunziato» ed è tenuta viva la attesa del suo ritorno (l Cor 11, 26). A Gerusalemme la *comunione degli spiriti giunge fino ad ispirare una libera comunanza dei beni materiali (Atti 4, 32-35; Ebr 13, 16), che ricorda quella che era di regola a Qumrân; ma Luca stesso permette di scorgere qualche ombra nel quadro (Atti 5, 2; 6, 1). I fedeli sono raggruppati sotto l’autorità degli *apostoli, a capo dei quali sta Pietro (Atti 1, 13 s), che di concerto con essi esercita il primato che ha ricevuto da Cristo. Un collegio di anziani condivide in sott’ordine l’autorità degli apostoli (Atti 15, 2), poi, dopo la partenza di questi, l’autorità di Giacomo (21, 18), divenuto capo della Chiesa locale. Sette uomini ripieni dello Spirito (tra cui Stefano e Filippo) sono preposti al servizio dei cristiani «ellenisti» (6, 1-6). L’ardire di questi ultimi, soprattutto di Stefano, provoca la loro dispersione (Atti 8, 1-4). Ma questa permette l’estensione della Chiesa dalla Giudea (8, 1; 9, 31-43) fino ad Antiochia (11, 19-25), e di qui «fino ai confini della terra» (Atti 1, 8; cfr. Rom 10, 18; Col 1, 23), almeno fino a Roma (Atti 28, 16-31). Il rifiuto che Paolo subisce da parte dei Giudei facilita l’innesto della pianta selvatica pagana sul tronco privo di rami del popolo eletto (Rom 11, 11-18). Ma né Paolo, né Pietro che, battezzando Cornelio, ha compiuto un atto decisivo non smentito da talune concessioni eccessive ai giudaizzanti (Gal 2, 11-14), accettano di sottoporre i pagani che entrano nella Chiesa alle pratiche giudaiche che i cristiani «ebrei» osservano ancora (Atti 10, 14; 15, 29).
    3. Originiatà della Chiesa
    Si afferma in tal modo l’originalità della Chiesa di fronte al giudaismo, si attua la sua cattolicità, è osservato l’ordine di missione ricevuto da Cristo. La sua *unità appare come dominante i luoghi e i popoli, poiché tutte le comunità si riconoscono cellule d’una ekklesìa unica l’estensione alle assemblee pagano-cristiane di questa parola biblica applicata da prima ai cristiani di Gerusalemme, la colletta fatta per questi ultimi tra i convertiti di Paolo (2 Cor 8, 7- 24), l’appello alle, usanze delle Chiese per regolare un punto di disciplina (1 Cor 11, 16; 14, 33), l’interesse che esse si dimostrano reciprocamente (Atti 15, 12; 21, 20; 1 Tess 1, 7 ss; 2, 14; 2 Tess 1, 4), i saluti che si mandano (1 Cor 16, 19 s; Rom 16, 16; Fil 3, 21 s), sono indizi caratteristici di una vera coscienza di Chiesa.
    V. LA RIFLESSIONE CRISTIANA SULLA CHIESA
    1. Tutti gli aspetti collettivi della salvezza in Gesù Cristo interessano la Chiesa. Tuttavia Paolo è il solo autore ispirato che ne abbia scrutato il mistero per se stesso e sotto il suo nome proprio. Nella sua visione di Damasco egli ha avuto di colpo la rivelazione di una misteriosa identità tra Cristo e la Chiesa (Atti 9, 4 s); a questa intuizione originaria si aggiunge una riflessione stimolata dall’esperienza. Di fatto, a misura che *edifica la Chiesa, Paolo ne scopre tutte le dimensioni. Innanzitutto riflette sull’unione vitale che i suoi convertiti contraggono con Cristo e tra loro mediante il rito battesimale, e che lo Spirito rende quasi tangibile con i suoi *carismi. Ai Corinti quindi, che distolgono questi *doni dalla loro funzione «educatrice» ed unificatrice, egli ricorda questo punto fondamentale: «noi siamo stati battezzati tutti in un solo Spirito, per un solo corpo» (1 Cor 12, 13). I battezzati che costituiscono la Chiesa sono quindi membra di questo unico *corpo di Cristo, di cui il pane eucaristico mantiene la coesione viva (1 Cor 10, 17). Questa unità, che è quella della fede e del battesimo, vieta che si parteggi per Cefa, per Apollo, o per Paolo, come se Cristo potesse essere diviso (1 Cor 1, 12 s; 3, 4). Per manifestarla e consolidarla Paolo organizza una colletta a favore dei «santi» di Gerusalemme (1 Cor 16, 1-4; 2 Cor 8 -9; Rom 15, 26 s). Un po’ più tardi, la cattività, che lo distoglie dai problemi troppo immediati, e le speculazioni cosmiche che deve combattere a Colosse, concorrono ad un allargamento dei suoi orizzonti. Tutto il piano divino, che egli vede con i suoi occhi di *apostolo dei pagani (Gal 2, 8 s; Rom 15, 20), gli appare nel suo splendore (Ef 1). Allora la ekklesìa non è più generalmente una determinata comunità locale (come prima, salvo possibili eccezioni in 1 Cor 12, 28; 15, 9; Gal 1, 13); è, in tutta la sua ampiezza e universalità, il corpo di Cristo, punto della riconciliazione dei Giudei e dei Gentili che costituiscono un solo *uomo perfetto (Col 1, 18-24; Ef 1, 23; 5, 23 ss; cfr. 4, 13). A questo tema essenziale Paolo sovrappone l’immagine di Cristo, capo (cfr. *testa) della Chiesa; Cristo è distinto dalla sua Chiesa, ma essa gli è unita come al suo capo (Ef 1, 22 s; Col 1, 18) - ed in questo essa condivide la condizione delle potenze angeliche (Col 2, 10) - e soprattutto come al suo principio di vita, di coesione e di *crescita (Col 2, 19; Ef 4, 15 s): il corpo incompiuto cresce «verso colui che è la testa», Cristo glorioso (4, 15). Più volte l’immagine del *tempio, che si edifica su Cristo come pietra angolare e sugli apostoli e profeti come fondamenta (Ef 2, 20 s), si mescola al tema del corpo, tanto da produrre uno scambio di verbi: l’edificio cresce (Ef 2, 21), ed il corpo si edifica (4, 12. 16). In Ef 5, 22-32, le idee di corpo e di capo si combinano con l’immagine biblica della *sposa: *Gesù, capo (= testa) della Chiesa, è anche il Salvatore che ha amato la Chiesa come una fidanzata (cfr. 2 Cor 11, 2), immolandosi per comunicarle, mediante il battesimo, santificazione e purificazione, per presentarla a se stesso risplendente, e unirla a sé come sposa. Infine una ultima nozione entra in composizione con le precedenti per definire la Chiesa secondo Paolo: la Chiesa è la parte eletta di quella *pienezza (pleroma) che risiede in Cristo in quanto Dio (Col 2, 9), salvatore degli uomini aggregati al suo corpo (Ef) e capo di tutto l’universo governato dalle potenze cosmiche (Col 1, 19 s); anch’essa può quindi essere chiamata il pleroma (Ef 1, 23); e lo è di fatto, perché Cristo la «riempie» ed a sua volta essa lo «riempie», completando il suo corpo con la sua crescita progressiva (Ef 4, 13), mentre il principio ed il termine di tutto ciò è la pienezza di Dio stesso (3, 19).
    2. Senza usare la parola, Giovanni suggerisce una teologia profonda della Chiesa. Le sue allusioni ad un nuovo *esodo (Gv 3, 14; 6, 32 s; 7, 37 ss; 8, 12) evocano un nuovo popolo di Dio, che le immagini bibliche della *sposa (3, 29), del *gregge (10, 1-16) e della *vigna (15, 1-17) designano direttamente, e di cui il piccolo gruppo dei discepoli tratti dal mondo (15, 19; cfr. 1, 39. 42 s) costituisce l’embrione. Il passaggio da questo gruppo alla Chiesa si compie mediante la morte e la risurrezione di Gesù, il quale muore «per radunare i dispersi» (11, 52) in un solo gregge, senza distinzione di Giudei, di Samaritani e di Greci (10, 16; 12, 20. 32; 4, 21 ss. 30- 42), e sale al Padre per dare lo Spirito ai suoi (16, 7; 7, 39), specialmente ai suoi inviati incaricati di rimettere i peccati (20, 21 s). La Chiesa riporrà nei granai le *messi che Cristo ha preparato (4, 38) e con ciò prolungherà la *missione di Cristo (20, 21). Ne può fare testimonianza Giovanni, che ha toccato il Verbo fatto carne (1 Gv 1, 1), e ha dato lo Spirito ai convertiti di Filippo (Atti 8, 14-17, in contrasto con Lc 9, 54). Tuttavia Giovanni, conformemente al suo genio, si occupa di preferenza della vita interiore della Chiesa. Coloro che la compongono, riuniti sotto la guida di Pietro (Gv 21), traggono la loro vita profonda dalla loro unione con Cristo-vite (15), realizzata mediante il battesimo (3, 5) e l’eucaristia (6); meditano insieme sotto la direzione dello Spirito le parole di Cristo (14, 26), e, amandosi gli uni gli altri (13, 33-35), portano il *frutto che Dio attende da essi (15, 12. 16 s). Mediante tutto questo la Chiesa manifesta la sua *unità, che ha come fonte e come modello l’unità stessa delle persone divine presenti in tutti ed in ciascuno (17); e, assuefatta alla *persecuzione (15, 18- 16,4), essa l’affronta con una fiducia trionfante, poiché la *vittoria sul *mondo e sul suo principe è già riportata (16, 33). Quest’ultima idea è centrale nell’Apocalisse, dove la Chiesa è raffigurata alternativamente dalla *città santa, o meglio dal tempio e dai suoi altri, dove una schiera di veri fedeli è preservata mentre sulla piazza la bestia (l’impero pagano) uccide due testimoni-profeti (Apoc 11, 1-13), poi dalla *donna alle prese con il dragone (*Satana) (Apoc 12), che si serve della *bestia per perseguitare i santi, ma i cui giorni sono contati. Il millennio del cap. 20, che non è un tempo di trionfo terreno della Chiesa, designa un rinnovamento spirituale nel suo seno (cfr. 20, 6 e 5, 10; Ez 37, 10 = Apoc 11, 11), oppure la felicità dei martiri ancor prima del giudizio universale? In ogni caso la Chiesa aspira innanzitutto alla nuova *Gerusalemme, al *cielo (3, 12; 21, 1-8; 21, 9 - 22, 5). «Lo Spirito e la sposa dicono: Vieni!» (22, 17). Nella vita celeste, realizzando infine pienamente gli annunci dei profeti, il peccato sarà totalmente eliminato (Is 35, 8; Apoc 21, 27), e così pure il dolore e la morte (Apoc 21, 4; cfr. Is 25, 8; 65, 19); allora la *dispersione di *Babele, di cui la *Pentecoste è già l’antitesi, troverà la sua replica definitiva (Is 66, 18; Apoc 7, 9 s). Allora inoltre spariranno le caricature: imperi orgogliosi, «sinagoghe di Satana» (Apoc 2, 9; 3, 9). Rimarrà solo «la dimora di Dio con gli uomini» (21, 3), «il nuovo universo» (21, 5).
    VI. ABBOZZO DI SINTESI TEOLOGICA
    Creazione di Dio, costruzione di Cristo, animata ed abitata dallo Spirito (1 Cor 3, 16; Ef 2, 22), la Chiesa è affidata a uomini, agli apostoli «scelti da Gesù sotto l’azione dello Spirito Santo» (Atti 1, 2), poi a coloro che, mediante la imposizione delle mani, riceveranno il carisma di governare (1 Tim 4, 14; 2 Tim 1, 6). Guidata dallo Spirito (Gv 16, 13), la Chiesa è «colonna e sostegno della verità» (1 Tim 3, 15), capace, senza venir meno, di «custodire il deposito delle sane parole ricevute» dagli apostoli (2 Tim 1, 13 s), cioè di enunciarlo e di spiegarlo senza errore. Costituita in corpo di Cristo per mezzo del vangelo (Ef 3, 6), nata da un solo battesimo (Ef 4, 5), nutrita di un solo pane (1 Cor 10, 17) essa raduna in un solo popolo (Gal 3, 28) i figli dello stesso Dio e Padre (Ef 4, 6); cancella le divisioni umane, riconciliando in un solo popolo Giudei e pagani (Ef 2, 14 ss), civili e barbari, padroni e schiavi, uomini e donne (1 Cor 12, 13; Col 3, 11; Gal 3, 28). Questa unità è cattolica, come si dice dal sec. II; è fatta per riunire tutte le diversità umane (cfr. Atti 10, 13: «Uccidi e mangia»); per adattarsi a tutte le civiltà (1 Cor 9, 20 ss) ed abbracciare l’universo intero (Mt 28, 19). La Chiesa è *santa (Ef 5, 26 s), non soltanto nel suo capo, nelle sue giunture e legamenti, ma anche nelle sue membra, che il battesimo ha santificato. Certamente ci sono nella Chiesa dei *peccatori (1 Cor 5, 12); ma essi sono lacerati tra il loro peccato e le esigenze della chiamata che li ha fatti entrare nell’assemblea dei «santi» (Atti 9, 13). Sull’esempio del Maestro, la Chiesa non li respinge e offre loro il *perdono e la purificazione (Gv 20, 23; Giac 5, 15 s; 1 Gv 1, 9), sapendo che la zizzania può sempre diventare frumento, finchè la morte non abbia anticipato per ognuno la *messe (Mt 13, 30). La Chiesa non ha il suo termine in se stessa: conduce al *regno definitivo che la parusia di Cristo le sostituirà ed in cui non entrerà nulla di impuro (Apoc 21, 27; 22, 15). Le *persecuzioni ravvivano la sua aspirazione a tramutarsi in *Gerusalemme celeste. Il modello perfetto della fede, della speranza e della carità della Chiesa è *Maria, che la vide nascere sul Calvario (Gv 19, 25) e nel cenacolo (Atti 1, 14). Paolo, dal canto suo, è ripieno d’un amore ardente (1 Cor 4, 15; Gal 4, 19) e concreto della Chiesa: è divorato dalla «*preoccupazione di tutte le Chiese» (2 Cor 11, 28) e, sminuzzando per gli uomini a prezzo di grandi *sofferenze (1 Cor 4, 9-13; 2 Cor 1, 5-9) i frutti infiniti della *croce «completa nella sua carne ciò che manca alle *prove di Cristo per il suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24). La sua vita come «ministro della Chiesa» (1, 25) è un *esempio, soprattutto per i continuatori dell’opera apostolica. Tutti i membri del popolo cristiano (laòs), e non soltanto i capi, sono chiamati a *servire la Chiesa mediante l’esercizio dei loro *carismi, a vivere sulla vite come tralci carichi del *frutto della carità, ad onorare il loro *sacerdozio (1 Piet 2, 5) mediante il *sacrificio della fede (Fil 2, 17) ed una vita pura secondo lo Spirito (Rom 12, 1; 1 Cor 6, 19; Fil 3, 3), a prendere parte attiva al *culto dell’assemblea, ed infine, se hanno ricevuto il carisma della *verginità, ad aderire interamente al Signore, oppure, se hanno contratto *matrimonio, a modellare la loro vita coniugale sull’unione matrimoniale che esiste tra Cristo e la Chiesa (Ef 5, 21-33). La città santa, che Gesù ha amato come una sposa feconda (5, 25) ed alla quale «ognuno dice: “*Madre!”» (Sal 87, 5 = Gal 4, 26), merita il nostro amore filiale; ma l’ameremo *edificandola a nostra volta.
    P. TERNANT
    → apostoli - apparizioni di Cristo 5.7 - autorità NT II - carismi II - casa - comunione NT 1 - Corpo di Cristo III - crescita 2 d. 3 - culto NT II 2 - diluvio 3 - disegno di Dio NT - dispersione 2 - donna NT 3 - edificare III - elezione NT II - eresia - fecondità III 3 - fratello NT - Gerusalemme III - Gesù Cristo I 3; II 1 d. 2 b c - guerra NT II - Israele NT 2 - madre II 3 - Maria V – mediatore II 2 - ministero - missione NT II - mistero NT II 2 - nazioni NT II - opere NT II 3 - pace III 4 - pastore e gregge NT 2 - Pentecoste II 3 - pienezza 3 - Pietro (S.) 3 a - popolo II 3 - prova-tentazione NT II - profeta NT II 3 - regno NT III 2 - resto NT. - rivelazione NT I 2 a - scisma NT 2 - segno NT II 3 - Spirito di Dio NT IV, V 4 - Sposo-sposa NT - tempio NT II 2, III 2 - tempo NT II - testa 3.4 - tradizione NT II 2 - unità III - verginità NT 1.3 – vite-vigna 3 - vocazione III.

    CHIUDERE (inizio)

    → porta - sigillo.

    CIELO (inizio)

    Se il cielo può designare ad un tempo il regno degli astronomi e degli astronauti e la dimora dove Dio raduna i suoi eletti, ciò non è dovuto ad una confusione grossolana di cui sarebbe responsabile il linguaggio infantile della Bibbia, ma è il riflesso d’una esperienza umana universale e necessaria: Dio si rivela all’uomo attraverso tutta la sua *creazione, ivi comprese le sue strutture visibili. La Bibbia presenta questa *rivelazione sotto una forma talvolta complessa, ma immune da molte confusioni. Distingue perfettamente il cielo fisico, avente la stessa natura della *terra, «il cielo e la terra», - e il cielo di Dio, «il cielo che non è la terra». Ma è sempre il primo che permette all’uomo di pensare al secondo.
    I. IL CIELO E LA TERRA
    Per gli Ebrei, come per noi, il cielo è una parte dell’universo, diversa dalla terra, ma in contatto con essa, una semisfera che l’avvolge e costituisce con essa l’universo; questo, in mancanza di un termine atto a designarlo, è chiamato sempre «il cielo e la terra» (Gen 1, 1; Mt 24, 35). Se è sensibile allo splendore di questo cielo ed avido della sua *luce, se sa ammirare la sua trasparenza (Es 24, 10), l’israelita è soprattutto impressionato dalla incrollabile solidità del firmamento (Gen 1, 18). Il cielo è per lui una costruzione tanto solidamente edificata ed organizzata quanto la terra, sostenuta da colonne (Giob 26, 11) e da fondamenta (2 Sam 22, 8), provvista di serbatoi per la pioggia, per la neve, per la grandine, per il vento (Giob 38, 22 ss; 37, 9 ss; Sal 33, 7), munita di «finestre» e di «chiuse», di dove, al momento buono, escono gli elementi così immagazzinati (Gen 7, 11; 2 Re 7, 2; Mal 3, 10). Gli *astri fissati a questo firmamento, l’esercito innumerevole delle stelle (Gen 15, 5), con la magnifica regolarità del suo ordine, testimoniano la potenza di questa architettura (cfr. ls 40, 26; Giob 38, 31 s).
    II. IL CIELO CHE NON È LA TERRA
    Tale quale si offre allo sguardo, con la sua ampiezza, la sua luce, la sua armonia meravigliosa ed inesplicabile, il cielo impone all’uomo, in modo visibile e permanente, il sentimento immediato di tutto ciò che l’universo implica di *mistero impenetrabile. Senza dubbio le profondità della terra e dell’abisso sono anch’esse inaccessibili all’uomo (Giob 38, 4 ss. 16 ss), ma l’inaccessibilità del cielo è esposta in permanenza e come visibilmente rivelata; l’uomo appartiene alla *terra ed il cielo gli sfugge: «Nessuno è salito al cielo» (Gv 3, 13; cfr. Prov 30, 4; Rom 10, 6). Occorre la follia del re di Babele per sognare di salire al cielo (cfr. Gen 11, 4): e cioè farsi uguale all’Altissimo (Is 14, 13 s). Si stabilisce così, con tutta naturalezza, una relazione tra il cielo e *Dio: Dio ha la sua dimora in cielo: «I cieli sono i cieli di Jahvè, ma egli ha dato la terra ai figli di Adamo» (Sal 115, 16). Questa impressione religiosa, evocata spontaneamente dal cielo, spiega l’uso frequente nei Settanta del plurale «cieli»; il giudaismo ed il NT hanno accentuato il valore religioso di questo plurale, a tal punto che *regno dei cieli diviene identico a regno di Dio. Tuttavia nè nei Settanta, né nel NT si può porre come regola che il cielo designi il cielo fisico, ed i cieli la dimora di Dio. E se avviene che questo plurale possa esprimere la concezione diffusa in Oriente di più cieli sovrapposti (cfr. 2 Cor 12, 2; Ef 4, 10), sovente non è che una espressione dell’entusiasmo lirico e poetico (cfr. Deut 10, 14; 1 Re 8, 27). La Bibbia non conosce due tipi di cieli, uno dei quali sarebbe materiale e l’altro spirituale, ma nel cielo visibile scopre il mistero di Dio e della sua opera.
    III. IL CIELO, DIMORA DI DIO
    Il cielo è la dimora (cfr. *rimanere) di Dio; dopo averlo disteso come una tenda, al di sopra delle sue acque egli ha edificato le stanze del suo palazzo (Sal 104, 2 s); di là si slancia per cavalcare le nubi (Sal 68, 5. 34; Deut 33, 26) e far risuonare la sua voce al di sopra delle grandi *acque, nello strepito dell’*uragano (Sal 29, 3). Egli vi ha il suo trono e vi convoca la sua corte, «l’esercito dei cieli», che sbriga e compie i suoi ordini fino alle estremità del mondo (1 Re 22, 19; cfr. Is 6, 1 s. 8; Giob 1, 6-12). Egli è in verità il Dio del cielo (Neem 1, 4; Dan 2, 37). Queste formule non sono immagini infantili o iperboli poetiche; sono visioni, indubbiamente poetiche, ma profonde e vere, della realtà del nostro mondo, di un universo che è tutto soggetto alla sovranità di Dio e penetrato dal suo sguardo. Se il *Signore «siede in trono nei cieli», si è perché se ne ride dei re della terra e dei loro complotti (Sal 2, 2 ss; cfr. Gen 11, 7), si è perché «le sue palpebre scrutano i figli di Adamo» (Sal 11, 4) e perché gli occorre questa altezza suprema per rendere giustizia a tutti, «una gloria al di sopra dei cieli», per «rialzare il povero dalla polvere» (Sal 113, 4 ss), perché gli giunga «la supplica di ogni uomo e di tutto il suo popolo Israele» (1 Re 8, 30...); si è perché, pur essendo un Dio vicino, non è di meno Dio lontano (Ger 23, 23 s), non soltanto perché «la sua gloria riempie tutta la terra» (Is 6, 3), ma anche perché nulla al mondo, neppure «i cieli ed i cieli dei cieli», è capace di contenerlo (1 Re 8, 27). La dimora celeste di Dio certamente evoca in primo luogo la sua trascendenza invulnerabile, ma, come l’onnipresenza del cielo attorno all’uomo, significa pure la sua *presenza vicinissima. Più di un testo associa in modo esplicito questa infinita distanza e questa prossimità, dalla scala che Giacobbe vide a Bethel, «che poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo» (Gen 28, 12), agli oracoli profetici: «Il cielo è il mio trono... quale casa protreste costruirmi?...Colui sul quale io volgo lo sguardo è il povero e il cuore contrito» (Is 66, 1 s; cfr. 57, 15).
    IV. CIELI, SPARGETE LA VOSTRA RUGIADA
    Poichè il Dio di Israele è un Dio salvatore ed ha la sua dimora in cielo, vi è dunque con la sua *verità (Sal 119, 89 s), con la sua *grazia e *fedeltà (Sal 89, 3), vi è per effondere la *salvezza sulla terra. Simbolo della presenza sovrana ed avvolgente di Dio, il cielo è pure il simbolo della salvezza preparata alla terra. Dal cielo d’altronde discendono in *benedizione la pioggia che rende fertile e la rugiada, espressioni della generosità divina e della sua gratuità. Simboli naturali e ricordi storici convergono per fare della *speranza di Israele l’attesa di un evento venuto dal cielo: «Ah! Se tu squarciassi i cieli e discendessi!» (la 63, 19; cfr. 45, 8). Già il rapimento di Enoch (Gen 5, 24) e quello di Elia (2 Re 2, 11) invitavano a cercare in questa direzione la comunione senza fine con Dio, alla quale erano stati ammessi. A loro volta i veggenti delle apocalissi, Ezechiele, Zaccaria e soprattutto Daniele, ricevono dal Dio che è in cielo la rivelazione dei *misteri concernenti il destino dei popoli (Dan 2, 28); la salvezza di Israele si trova quindi scritta in cielo e ne discenderà. Dal cielo Gabriele cala su Daniele (9, 21) per promettergli la fine della desolazione (9, 25); sulle nubi del cielo deve apparire il *figlio dell’uomo, perché il regno sia dato ai santi (7, 13. 27). Dal cielo infine, dove «sta dinanzi a Dio» (Lc 1, 19), Gabriele è mandato a Zaccaria ed a Maria, ed al cielo ritornano gli *angeli venuti a celebrare «la gloria di Dio nel più alto dei cieli e la pace sulla terra» (2, 11-15). La presenza dei suoi angeli in mezzo a noi è il segno che Dio ha veramente lacerato i cieli e che egli è Emmanuel, Dio con noi.
    V. IN GESÙ CRISTO IL CIELO È PRESENTE SULLA TERRA
    1. Gesù parla del cielo.
    - Il cielo è una parola frequente nel linguaggio di Gesù, ma non designa mai una realtà esistente per se stessa, indipendentemente da Dio. Gesù parla del *regno dei cieli, della ricompensa riservata nei cieli (Mt 5, 12), del tesoro che si deve costituire nei cieli (6, 20; 19, 21), ma lo fa perché pensa sempre al *Padre che è nei cieli (5, 16. 45; 6, 1. 9), che sa, che «è presente, nel segreto, e che vede» (6, 6. 18). Il cielo è questa *presenza paterna, invisibile ed attenta, che avvolge il mondo, gli uccelli del cielo (6, 26), i giusti e gli ingiusti (5, 45), con la sua inesauribile bontà (7, 11). Ma, allo stato normale, gli uomini sono ciechi a questa presenza; affinché essa diventi una realtà viva e trionfante, affinché venga il regno dei cieli, Gesù è venuto a parlare di ciò che sa, ad attestare ciò che ha visto (Gv 3, 11).
    2. Gesù viene dal cielo.
    - Di fatto Gesù, quando parla del cielo, non ne parla come di una realtà meravigliosa e lontana, ma come del mondo che è suo e che è per lui una realtà più profonda e più seria che per noi il nostro mondo. Del regno dei cieli egli possiede i segreti (Mt 13, 11); il Padre che abbiamo nei cieli, egli lo conosce come suo proprio Padre (12, 50; 16, 17; 18, 19). Per parlare in tal modo del cielo, bisogna venirne, perché «nessuno è salito al cielo se non colui che è disceso dal cielo, il figlio dell’uomo che è in cielo» (Gv 3, 13). Poichè egli è il *figlio dell’uomo, un uomo il cui destino appartiene al cielo, un uomo venuto dal cielo per ritornarvi (Gv 6, 62), le sue *opere sono dal cielo, e la sua opera essenziale, il sacrificio che egli fa della sua carne e del suo sangue, è il *pane che Dio ci dona, il pane «venuto dal cielo» (Gv 6, 33-58) e che dà la *vita eterna, la vita del Padre, la vita del cielo.
    3. In terra come in cielo.
    - Se Gesù viene dal cielo e vi ritorna, se inoltre è vero dire che i cristiani sono già in cielo con lui e il Padre li ha «risuscitati e fatti sedere nei cieli» (Ef 2, 6; cfr. Col 2, 12; 3, 1-4), l’opera di Gesù nondimeno prosegue; essa consiste nell’unire indissolubilmente la *terra al cielo, nel fare in modo che «venga il regno» dei cieli, che la *volontà di Dio si faccia «in terra come in cielo» (Mt 6, 10), «che tutti gli esseri siano riconciliati per mezzo suo sia in terra che nei cieli» (Col 1, 20). Avendo ricevuto alla *risurrezione «ogni potere in cielo ed in terra» (Mt 28, 18), essendo penetrato, mediante il sangue del suo *sacrificio, nel santuario di Dio, il cielo (Ebr 4, 14; 9, 24); essendo esaltato «più alto dei cieli» (7, 26) ed assiso alla destra di Dio, egli ha suggellato tra la terra e il cielo la nuova alleanza (9, 25), ed affida alla sua Chiesa il suo potere, ratificando in cielo gli atti che essa compie sulla terra (Mt 16, 19; 18, 19).
    4. I cieli aperti.
    - Di questa *riconciliazione compiuta da Gesù ci sono dati dei segni. Su di lui si sono aperti i cieli (Mt 3, 16), è disceso lo Spirito di Dio (Gv 1, 32); a loro volta i suoi hanno conosciuto questa esperienza: in un gran rumore (Atti 2, 2), in una luce (Atti 9, 3), in una visione (10, 11), il cielo si è aperto su di essi ed è disceso lo Spirito. Cristo ha mantenuto la sua promessa: «Vedrete il cielo aperto... sul figlio dell’uomo» (Gv 1, 51).
    VI. LA SPERANZA DEL CIELO
    «La nostra patria è nei cieli, donde aspettiamo ardentemente, come salvatore, il Signore Gesù Cristo, che trasfigurerà il nostro corpo di miseria per conformarlo al suo corpo di gloria, con quella forza con cui può anche sottomettere a sè tutte le cose» (Fil 3, 20 s). Tutti gli elementi del cielo che è oggetto della *speranza cristiana sono qui raccolti. È una *città, una comunità fatta per noi, una *nuova *Gerusalemme (Apoc 3, 12; 21, 3. 10 ss); è fin d’ora la nostra *città, in cui si costruisce la dimora (cfr. *rimanere) alla quale aspiriamo (2 Cor 5, 1). È un nuovo universo (Apoc 21, 5), composto, come il nostro, di «nuovi cieli e nuova terra» (2 Piet 3, 13; Apoc 21, 1), ma di dove saranno spariti «morte, lutto, grido, dolore» (Apoc 21, 4), «impurità» (21, 27) e «notte» (22, 5). Quando esso apparirà, l’antico universo, «il primo cielo e la prima terra» saranno spariti (21, 1) nella fuga (20, 11), come un libro che si ravvolge (6, 14). Sarà non di meno il nostro universo, perché il nostro universo è per sempre quello del Verbo fatto *carne e del suo corpo; ed il cielo non sarebbe nulla per noi, se non fosse la *comunione con il *Signore (1 Tess 4, 17; 2 Cor 5, 8; Fil 1, 23) che sottomette a sé tutte le cose per rimetterle tutte a Dio Padre (1 Cor 15, 24-28).
    J. M FENASSE e J. GUILLET
    → angeli - ascensione - astri - beatitudine VT II 2 - bianco 1 - casa II 2.3 - città NT 2 - eredità NT II - feste NT - Gerusalemme VT III 3; NT II - gioia NT III - luce e tenebre NT II 4 - manna 2.3 - mondo 0 - nube - paradiso 3.4 - Pasqua III 3 - patria NT 2 - porta VT II; NT - regno NT I 1 - retribuzione III 1 - rimanere I - riposo III 3 - speranza NT IV - tempio - terra NT I 2, II 2 - vedere NT II.

    CIMITERO (inizio)

    → inferi e inferno VT I - morte VT I 2.3 - sepoltura - sonno 1 1.

    CIRCONCISIONE (inizio)

    VECCHIO TESTAMENTO
    1. La circoncisione, *segno di appartenenza ad una comunità.

    - La circoncisione è praticata da numerosi popoli, generalmente in connessione con l’ingresso nella comunità degli adulti o con il matrimonio. Israele deve averla ricevuta come un’usanza remota: appare in testi di carattere arcaico, che evocano l’uso di coltelli di pietra (Es 4, 24 ss; Gios 5, 2-9) e tuttavia non è prescritta da nessuna parte nei testi veramente antichi. La circoncisione è allora un fatto che non si discute né si giustifica. E non essere circoncisi costituisce un «disonore» (cfr. *vergogna) (Gios 5, 9; Gen 34, 14). Di fronte ad incirconcisi Israele prova sempre ripugnanza (Giud 14, 3; 1 Sam 17, 26. 36; 1 Cron 10, 4; Ab 2, 16; Ez 44, 7 ss): l’incirconciso non è un vero uomo. La circoncisione è quindi innanzitutto un fatto complesso che indica l’appartenenza ad una comunità.
    2. La circoncisione, segno dell’alleanza.
    - Questo rito d’altronde ha necessariamente un significato religioso: si circoncide per ordine di Jahvè (Gios 5, 2), o per sfuggire alla sua ira (Ez 4, 24). Si compie un passo decisivo quando questo rito diventa, soprattutto nella letteratura sacerdotale, il segno fisico dell’*alleanza, che ogni israelita maschio deve portare nella sua carne fin dall’ottavo giorno di vita. E’ il *sangue allora versato (cfr. Es 4, 26), che recherà spesso (almeno nel giudaismo posteriore) il nome di «sangue dell’alleanza». Collegata ad Abramo, padre del popolo (Gen 17, 9-14; 21, 4), promulgata nella legge (Lev 12, 3), essa è la condizione indispensabile per poter celebrare la *Pasqua, in cui Israele si dichiara popolo eletto e salvato da Jahvè (Es 12, 44. 48). Proibita dall’autorità pagana al tempo della persecuzione (1 Mac 1, 48), essa diventerà il segno stesso della opzione giudaica: gli uni cercheranno di dissimularla (1 Mac 1, 15), mentre gli altri la praticheranno sui loro figli con pericolo della propria vita (1 Mac 1, 60; 2 Mac 6, 10) e l’imporranno a forza agli esitanti (1 Mac 2, 46).
    3. La circoncisione del cuore.
    - Israele poteva quindi essere tentato di credere che bastasse essere circoncisi per beneficiare delle *promesse dell’alleanza. Geremia, indubbiamente per primo, gli ricordò che la circoncisione fisica, praticata da molti popoli, non ha in se stessa alcun valore (Ger 9, 24); ciò che conta è togliere il prepuzio dei *cuori (Ger 4, 4), secondo una metafora utilizzata in molti altri casi (6, 10; Lev 19, 23). Il Deuteronomio proclama lo stesso appello alla circoncisione del cuore, cioè all’amore esclusivo di Jahvè ed alla carità fraterna (Deut 10, 12- 22); la tradizione sacerdotale gli fa anche essa eco (Lev 26, 41; Ez 44, 7 ss). Questa circoncisione del cuore, che Israele è incapace di procurarsi, nel *giorno della salvezza sarà data da Dio: «Jahvè circonciderà il tuo cuore... affinché tu ami Jahvè... per vivere» (Deut 30, 6). In questo stesso discorso (30, 12), Paolo scorgerà a giusto titolo l’annuncio della salvezza mediante la *grazia e la *fede (Rom 10, 6 ss).
    NUOVO TESTAMENTO
    1. La pratica della circoncisione.

    - Gesù, come il Battista, è stato circonciso (Lc 1, 59; 2, 21): come i suoi discepoli egli era in primo luogo (Mt 15, 24 par.) «al servizio dei circoncisi» (Rom 15, 8). Ma il suo vangelo doveva essere annunziato anche alle *nazioni (Rom 15, 9-12), estensione che avrebbe sollevato la questione della pratica della circoncisione: bisognava esigere da tutti il rito di appartenenza alla posterità di Abramo? Come sovente avviene, la risposta pratica precedette la teoria. Ai pagani, che si convertivano un po’ dovunque, si amministrò ordinariamente il battesimo senza imporre la circoncisione (Atti 10 - 11). Nonostante la pressione di taluni cristiani di origine giudaica, il concilio di Gerusalemme sanzionò con un decreto la libertà già praticata nei confronti della circoncisione (Atti 15), e già autorizzata in una rivelazione a Pietro (Atti 10. 45 ss). Questa decisione, che avrebbe potuto essere presa per una misura di opportunità (facilitare l’accesso dei pagani che avrebbero sentito ripugnanza per un atto che consideravano come una mutilazione), aveva di fatto una portata dottrinale. Paolo doveva mostrarlo in occasione di una crisi simile nella Galazia. Certamente il pagano incirconciso vive lontano da Dio (cfr. Col 2, 13); ma se si fa circoncidere, deve sopportare il peso di tutte le pratiche legali, che di fatto non può compiere (Gal 3, 2; 5, 10; 6, l3): corre quindi verso la perdizione. Più ancora: legare la salvezza alla circoncisione significa non dare alcuna importanza alla promessa che Abramo ricevette gratuitamente da Dio prima di essere circonciso: la circoncisione è venuta in seguito, non come fonte, ma come suggello della *giustizia già acquisita mediante la promessa e mediante la fede (Gal 3, 6-29; Rom 4, 9-12); significa soprattutto vanificare la *croce di Cristo che salva realizzando questa promessa gratuita (Gal 5, 11 s).
    2. La circoncisione spirituale.
    - Ormai l’appello profetico alla «circoncisione del cuore» mediante la ratifica interna del rito esterno si attua diversamente, mediante il superamento delle distinzioni razziali che il rito supponeva. «Né la circoncisione, né la incirconcisione hanno valore, ma soltanto la fede operante per mezzo della carità» (Gal 5, 6); quel che conta è «essere una nuova creatura» (Gal 6, 15) e «osservare i comandamenti di Dio» (1 Cor 7, 19); che importa quindi lo stato in cui ci si trovava al momento della chiamata? La fede giustifica i circoncisi come gli incirconcisi, perché Dio è il Dio di tutti (Rom 3, 29 s). Cristo è tutto in tutti (Col 3, 11). Ma se il rito è stato soppresso, la parola continua ad avere un significato. I credenti possono esclamare: «Noi siamo i circoncisi, noi che offriamo il culto secondo lo Spirito di Dio (Fil 3, 3). In questo senso si *compiono gli oracoli profetici: la vera circoncisione, nascosta, spirituale, interiore (Rom 2, 28 s), non è più fatta dalla mano dell’uomo (Col 2, 11); si identifica col *battesimo che assimila il credente alla «circoncisione di Cristo», operando nel battezzato «l’intero spogliamento del *corpo carnale» (Col 2, 11 s) per farlo vivere con Cristo, per sempre.
    C. WIÉNER
    → Abramo II 4 - battesimo I 2, IV 4 - cuore I 3, II 1 - Giudeo I 1 - legge C II, III 1 - primizie II - segno VT II 2; NT II 1 - sessualità II 1.

    CITTÀ (inizio)

    La vita urbana, come forma di esperienza di vita sociale in un certo tipo di civiltà, è una realtà umana con la quale la rivelazione biblica non poteva mancare di essere in contatto, sia per emettere su di essa un giudizio di valore, sia per trovarvi un punto di partenza alla sua stessa espressione.
    VECCHIO TESTAMENTO
    1. Dalla vita nomade alla vita urbana.
    - Israele è consapevole che la vita urbana risale a un’epoca molto anteriore ai patriarchi ebrei; dopo aver contrapposto la vita pastorale di Abele alla vita agricola di Caino (Gen 4, 2), la Genesi attribuisce a quest’ultimo la fondazione della prima città, a cui egli dà il nome di suo figlio Enoch (gioco di parole sul significato del termine che è «dedicazione»: 4, 17). Ma soltanto dopo l’interruzione del diluvio si assiste alla fondazione delle grandi città intorno alle quali si organizzano gli imperi mesopotamici (10, 10 s). Gli antenati di *Abramo vivevano sul loro territorio (11, 31). Ma al tempo dei patriarchi la vita pastorale è essenzialmente nomade o semi-nomade, in margine alle città di Canaan. Durante la permanenza in Egitto, le città costruite dagli Ebrei prigionieri sono delle fortezze egiziane (Es 1, 11). Così la generazione dell’esodo riprende la tradizionale vita nomade nella steppa. Soltanto con la conquista di Canaan, Israele si abitua definitivamente alla vita agricola e urbana: riceve come un dono di Dio città, case e piantagioni (Deut 6, 10 s; Gios 24, 13). L’attaccamento alle antiche usanze nomadi continuerà a sussistere solo in alcuni gruppi marginali, che in questo modo intenderanno protestare contro la corruzione della civiltà (come i Recabiti: Ger 35, 6-10; cfr. 2 Re 10, 15 ss).
    2. Ambiguità della civiltà urbana.
    - Malgrado tutto, questo nuovo sistema di vita, sul piano religioso, ha un valore ambiguo. Per i contadini, la città è un rifugio contro le razzie e gli eserciti stranieri; molti possiedono un luogo di culto ormai consacrato a Jahvè. Questo vale soprattutto per Gerusalemme, città di *David (Sal 122, 5) e capitale della potenza politica (Is 7, 8), ma anche città del gran *re (Sal 48, 4; cfr. 46, 5), luogo di raduno cultuale delle tribù e segno di unità di tutto il *popolo (Sal 122, 3 s). Tuttavia, i peccati di Canaan corrompono facilmente questa civiltà urbana (Am 3, 9 s; 5, 7-12; Is 1, 21-23), così come il paganesimo aveva corrotto città importanti come Ninive e Babilonia. Perciò i profeti promettono alle capitali e alle città di Israele la stessa sorte che a tante città del mondo pagano (Am 6, 2; Mi 3, 12): una rovina simile a quella di Sodoma e Gomorra (cfr. Gen 9). Questo annuncio del *giudizio di Dio non risparmia d’altronde le città pagane: Tiro, Sidone, Babilonia sono oggetto di minacce analoghe.
    3. Le due città.
    - Tuttavia, l’escatologia profetica continua a riservare un posto privilegiato alla nuova *Gerusalemme (Is 54; 60; 62), centro religioso della terra santa (cfr. Ez 45), mentre dipinge la caduta definitiva delle città empie di cui *Babilonia è il prototipo (Is 47). Infine, sarà l’apocalittica a delineare il quadro contrastato delle due città: la città del nulla (Is 24, 7-13), cittadella degli orgogliosi (25, 2; 26, 5) e la città forte rifugio del popolo di Dio sostituito dagli umili (26, 1-6). Queste immagini opposte di *giudizio e di *salvezza fanno eco alla fondamentale ambiguità della civiltà urbana, ricevuta come un dono di Dio, ma pur sempre capace di generare il male.
    NUOVO TESTAMENTO
    1. Salvezza e giudizio di Dio.

    - Il retroscena della civiltà urbana è ovunque presente nel NT, in Palestina come in tutto l’impero romano. L’annuncio del *vangelo si adatta a questa situazione sociale sia al tempo di Gesù che al tempo degli apostoli. Ma l’accettazione della *parola di Dio differisce molto a seconda dei casi: rifiuto di Gesù da parte delle città galilee; rifiuto del vangelo ad Atene (Atti 17, 16 ss), che contrasta con l’accoglienza di Corinto (18, 1-11); aperture ed opposizioni ad Efeso (1 Cor 16, 8 s). Per questo Gesù riprende gli anatemi dei profeti contro le città del lago (Mt 11, 20-24 par.) e contro Gerusalemme (Lc 19, 41 ss; 21, 20-24 par.; 23, 28- 31), che personificano i loro abitanti increduli.
    2. Le due città.
    – Infine, se la capitale giudaica sperimenta il *giudizio di Dio già ai tempi apostolici (Apoc 11, 2. 8), l’escatologia cristiana continua a svilupparsi intorno al tema delle due città, quando la *Chiesa di Gesù deve affrontare l’impero romano persecutore. L’Apocalisse annuncia la caduta della nuova Babilonia (17, 1-7; 18; 19, 2), mentre alla fine dei tempi la nuova Gerusalemme scende dal cielo sulla terra perché vi si riuniscano tutti gli eletti (21). Del resto, quaggiù i battezzati le si erano già avvicinati (Ebr 12, 22), dato che vi avevano diritto di cittadinanza (Fil 3, 20). La città di lassù è già la loro madre (Gal 4, 25 s); e appunto perché ricercano la città del futuro (Ebr 13, 14), non hanno quaggiù una città permanente. Così l’esperienza umana della vita urbana consente di evocare un aspetto essenziale del mondo futuro verso il quale siamo avviati (cfr. Ebr 11, 16).
    P. GRELOT
    → Babele-Babilonia - casa - Chiesa V 2 - cielo VI - David 1 - edificare III 4 - Gerusalemme - porta VT I - rimanere - santo NT V - terra.

    CITTADELLA (inizio)

    → città - forza I 1 - roccia 1.

    COLLETTA (inizio)

    → Chiesa IV 3, V 1 - elemosina NT 3 b.

    COLOMBA (inizio)

    1. Tortorella, palombo, piccione o colomba sono le principali varietà di volatili, selvatiche o no, che la Bibbia raggruppa sotto il nome generico di colomba (ebr. jónab). È l‘unico uccello offerto in sacrificio al tempio. Offerta dei poveri, essa è utilizzata soprattutto nei *riti di purificazione (Lev 1,14; 5, 7. 11; Num 6, 10; Lc 2, 24, citando Lev 12,8). Di qui la presenza nel tempio dei mercanti di colombe (Mt 21,12 par.; Gv 2,14.16).
    2. Conoscendo le abitudini della colomba, i Giudei se ne ispirano volentieri per fare dei paragoni. Se Israele attende la salvezza che non viene, fa udire i gemiti della colomba (Is 38,14; 59, 11; Nah 2,8). Scoraggiato, vorrebbe volarsene via nel deserto (Sal 55, 7 s). Le migrazioni stagionali mettono in rilievo nella colomba una conoscenza istintiva che invece Israele nei confronti di Dio non possiede (Ger 8,7); esse evocano volta a volta la fuga in esilio (Ez 7,16) o il raduno nel nascondiglio (Os 11, 11; Is 60,8). D‘altra parte, «Efraim è una colomba ingenua e senza cervello» (Os 7, 11), che il pericolo rende spaurita. Di tutti questi paragoni, Gesù non ne ha ripreso nessuno tal quale; procede per contrapposizione chiedendo ai discepoli di dimostrarsi «prudenti come serpenti e candidi come colombe» (Mt 10,16).
    3. Infine, nella Bibbia, come presso molti poeti, la colomba può designare simbolicamente l‘amore. L‘amata è agli occhi dell‘innamorato «la mia colomba» (Cant 2,14; 5,2 ...). Israele si attribuisce lui stesso questo nome: «Non dare in balia della bestia la vita della sua tortorella» (Sal 74,19). Al battesimo di Gesù, lo Spirito di Dio discende come una colomba e si posa su Gesù (Mt 3,16 par.). Di questo simbolo, non è stato possibile dare alcuna interpretazione certa. Molto probabilmente, non si tratta di un‘allusione alla colomba che ritorna all‘arca di Noè (Gen 8, 8-12). Certuni, basandosi su tradizioni giudaiche, identificano la colomba con Israele. Non potrebbe suggerire piuttosto l‘amore di Dio che discende simbolicamente sulla terra? Infine, conformemente ad altre tradizioni giudaiche che vedevano nello Spirito di Dio una colomba svolazzante sulle acque (Gen 1, 2), certi critici reputano che evochi la nuova creazione che ha luogo al battesimo di Gesù.
    X. LÉON-DUFOUR
    → animali - battesimo III 2 - semplice 2 - Spirito di Dio NT 1 1 - tempio NT I 1.

    COMANDAMENTI (inizio)

    → amore I VT 0, NT 2 a; II - autorità - legge - volontà di Dio 0; NT I 2, II.

    COMBATTIMENTO (inizio)

    → correre - fedeltà NT 2 - guerra - nemico - preghiera V 2 a - prova-tentazione.

    COMPASSIONE (inizio)

    → consolazione - misericordia - tenerezza.

    COMPIERE (inizio)

    Progetti abortiti e decisioni non ben mantenute costellano le nostre vite, segni della debolezza e della incostanza umane. Il Dio onnipotente e fedele non si accontenta di opere incompiute: la Bibbia intera testimonia il compimento dei suoi disegni. Compiere dice più che fare; i termini che questa parola traduce evocano l’idea di *pienezza (ebr. male’; gr. pleroûn oppure quella di termine (ebr. kalah; gr. telèin) e di *perfezione (ebr. tamm; gr. teleioûn). Si compie un’opera incominciata (1 Re 7, 22; Atti 14, 26), cioè la si porta a buon fine. Si compie una parola, comandamento, *promessa o *giuramento: la parola è come una forma cava, in cui deve essere colata la realtà; è la prima tappa di un’attività che deve continuare e raggiungere il suo scopo.
    VECCHIO TESTAMENTO 
    I. PROSPETTIVE DI COMPIMENTO
    1. Parola di Dio e legge.

    - Più di qualunque altra parola, la *parola di Dio tende a compiersi: «La parola che esce dalla mia bocca non torna a me senza risultato» (Is 55, 11). Dio «non parla invano» (Ez 6, 10). La sua *legge, i suoi ordini esigono l’obbedienza (Ez 20...), e alla fine l’otterranno (Deut 4, 30, s; 30, 6 ss; Ez 36, 27).
    2. Profezie.
    - Le *profezie divine presto o tardi si realizzano: «Da tempo avevo rivelato... all’istante ho agito, e si è verificato» (Is 48, 3; cfr. Zac 1, 6; Ez 12, 21-28). Il compimento è il segno di Dio che garantisce la vocazione d’un profeta e l’autenticità del suo messaggio (Deut 18, 22). Il VT constata più di una volta che, di fatto, un determinato avvenimento si è verificato «perché si compisse la parola di Jahvè» trasmessa da un profeta. In tal modo sono preservate la conservazione della dinastia di Davíd e la costruzione del tempio (1 Re 8, 24), la partenza perl’esilio ed il ritorno per la ricostruzione del tempio (2 Cron 36, 21 ss; Esd 1, 1 s). Queste realizzazioni passate sono il pegno dei compimenti futuri. 3. I tempi si compiono. - Per quanto talvolta sia repentino, il compimento non avviene a caso, ma «a suo tempo» (Lc 1, 20), al termine di una specie di gestazione. Affinché una parola si realizzi, bisogna che «il suo tempo sia compiuto» (ad es. Ger 25, 12), ed affinché tutto il *disegno di Dio giunga a termine, occorrerà che sia giunta la pienezza dei tempi (Ef. 1, 10; Gal 4, 4; cfr. Mc 1, 15).
    NUOVO TESTAMENTO
    «È COMPIUTO»
    Di fatto il tempo per eccellenza del compimento è quello del NT. Gli evangelisti, soprattutto Matteo, si adoperano per convincercene.
    1. Profezie.
    - La formula «affinché si compia ciò che era stato detto da...» ricorre dieci volte in Mt, per la concezione verginale e la fuga in Egitto, per la guarigione degli ammalati, l’insegnamento in parabole, l’ingresso trionfale a Gerusalemme, i denari di Giuda... Formule analoghe si incontrano negli altri vangeli. Queste annotazioni particolareggiate mirano a farci comprendere che tutto il VT era orientato verso la rivelazione di Gesù; compimenti che vi erano sottolineati non erano che una lenta preparazione alla piena realizzazione del disegno di Dio nell’esistenza terrena di Gesù. In questa stessa esistenza non tutti i compimenti sono posti allo stesso livello. Uno di essi, ed uno solo, è destinato come un «termine»: la morte di Gesù in croce. Nella formula di Gv 19, 28 «affinché si compia la Scrittura», il verbo teleioun sostituisce l’abituale pleroûn, ed il contesto insiste con la ripetizione dell’ «è compiuto» (19, 30). Lc non usa quest’ultimo verbo se non in riferimento alla passione (Lc 12, 50; 18, 31; 22, 37) e secondo la lettera agli Ebrei Gesù è stato reso perfetto, portato a termine, dalla sua passione (Ebr 2, 10; 5, 8 s). Tutti i compimenti della storia sacra sono quindi orientati verso la venuta di Cristo e, nella vita di Cristo, tutti i compimenti della Scrittura culminano nel suo *sacrificio; in tal modo «in lui tutte le *promesse di Dio hanno avuto il loro sì» (2 Cor 1, 20). Questo compimento è più di una realizzazione di quanto era previsto. Per la verità, la legge stessa dei compimenti divini consiste nel fatto che essi vadano oltre tutto quanto era possibile concepire in precedenza. Ne risulta che il compimento del VT nel NT non può tradursi in semplici termini di corrispondenza e di continuità, ma include nello stesso tempo divergenze e fratture, esigenza del passaggio ad un livello superiore. Questo triplice rapporto (somiglianza, differenza, superiorità) è messo in luce in modo particolare dall’autore di Ebr, quando fa il confronto tra Mosè e Cristo (Ebr 3, 1-6), l’antico sacerdozio e il sacerdozio di Cristo (5, 1-10; 7, 11-28) ecc., ma la concezione stessa sottintende necessariamente tutto il NT: la realizzazione ultima è essa stessa rivelazione; integrando le parole antiche in una sintesi fino ad allora imprevedibile, essa conferisce loro una nuova pienezza di significato. Perciò *Gesù Cristo è effettivamente il successore promesso a David (2 Sam 7, 12 s; Lc 1, 32 s), però il suo regno non è di questo mondo (Gv 18, 36 s), perché nella sua persona si realizza nello stesso tempo la profezia del *servo che muore umiliato (Is 53; 1 Piet 2, 24 s) e quella del figlio dell’uomo celeste (Dan 7, 13 s; Mc 14, 62), Signore trionfante (Sal 110; Mt 26, 64). Grazie a lui viene edificato un tempio nuovo, in cui affluiscono le ricchezze dei pagani (Agg 2, 6-9; Is 60, 7-13), ma è un tempio «non fatto da mano d’uomo» (Mc 14, 58), il suo corpo risuscitato (Gv 2, 21), di cui noi diventiamo le membra (1 Cor 12, 27). Il modo a volte sconcertante con cui gli scritti del VT vengono utilizzati dal NT trova spesso in ciò la sua spiegazione: gli autori non si preoccupano tanto del contesto primitivo di ogni parola quanto di questo nuovo contesto fissato da Dio stesso tramite i fatti.
    2. La legge.
    - La parola di Dio non è soltanto promessa, ma anche esigenza. Nel discorso della montagna, parlando della *legge, Gesù proclama che non è venuto «ad abolire, ma a portare a compimento» (Mt 5, 17). Il contesto ci fa capire che, lungi dal sopprimere la legge mosaica, Gesù ne approfondisce i precetti: spinge l’esigenza fino all’intenzione e al desiderio segreto. Ma soprattutto rinnova la legge, la rende «perfetta» (Giac 1, 25), rivelando pienamente l’esigenza centrale che dà la chiave di tutte le altre, il comandamento dell’*amore. Qui si ritrovano la legge e i profeti, riassunti ed innalzati alla loro perfezione (Mt 7, 12; 22, 40 par.). Per «portare a compimento la legge» Gesù d’altronde non si accontenta di promulgare il suo comandamento; egli stesso, a cui «conviene compiere ogni *giustizia» (Mt 3, 15) realizza nella sua persona ed in quella dei credenti tutto ciò che esige: il suo sacrificio è il vertice dell’amore (Gv 15, 13) e ne è pure la fonte; «reso perfetto» (Ebr 5, 9), Cristo ha nello stesso tempo «reso perfetti coloro che santifica», (Ebr 10, 14; cfr. Gv 17, 4. 23). Un simile compimento della legge antica può essere presentato senza paradosso come sua abrogazione. Quando giunge ciò che è perfetto, finisce ciò che è parziale (cfr 1 Cor 13, 10). È il punto di vista di Paolo. Da una parte la carità che compendia la legge, la domina e l’informa, sopprimendo per ciò stesso l’asservimento alle prescrizioni. «Colui che ama il prossimo ha compiuto la legge» (Rom 13, 8; cfr. 13, 10; Gal 5, 14). Dall’altra parte lo spirito legalista è scalzato alla base; l’uomo non può più pretendere di creare la propria perfezione compiendo la legge. «Affinchè la giustizia della legge si compisse in noi» fu necessario che Dio ci inviasse il Figlio suo (Rom 8, 3 s) e che per mezzo del suo Figlio noi ricevessimo lo Spirito. Perciò «non siamo più sotto la legge, ma sotto la *grazia» (Rom 6, 15). La realizzazione di opere è ancor sempre richiesta dallo stesso dinamismo della grazia (Col 1, 10 s). Nelle *opere la *fede è resa perfetta (Giac 2, 22; cfr. Gal 5, 6), e così pure l’amore di Dio (1 Gv 2, 5; 4, 12). Ma queste realizzazioni si pongono agli antipodi del legalismo combattuto da Paolo: non si tratta più di una costruzione umana, bensì di una *fecondità divina (Gal 5, 22 s; Gv 15, 5).
    3. Fine dei tempi.
    - L’opera compiuta in croce da Cristo si dispiega in tal modo nel tempo, fino a che giunga «la fine del mondo» annunziata dal VT e dal NT (Mt 24, 3 par.), *giorno del Signore, che sarà la manifestazione piena del compimento del *disegno di Dio in Cristo (cfr. 1 Cor 15, 23 s).
    A. VANHOYE
    → crescita NT 1 - disegno di Dio - figura NT - Gesù Cristo I - giuramento - Legge C - memoria - nuovo - opere NT I 2 - perfezione NT 2 - pienezza - predicare I 3 a - profeta NT I - promesse - regno NT III 3 - rivelazione NT I 3, II 3, III 3 - sigillo 2 - tempo NT - volontà di Dio NT.

    COMUNIONE (inizio)

    La comunione eucaristica è uno degli atti in cui il cristiano manifesta l’originalità della sua fede, la certezza di avere con il Signore un contatto così intimo e reale da trascendere ogni espressione. Questa esperienza ha la sua traduzione nel vocabolario: se il VT non possiede un termine specifico per designarla, la parola greca koinonìa esprime nel NT il rapporto del cristiano con il vero Dio rivelato da Gesù, e quello dei cristiani tra loro. La ricerca di una comunione con la divinità non è estranea all’uomo; la religione, che in lui si esprime come un desiderio di unirsi a Dio, si traduce spesso tramite dei *sacrifici o dei *pasti sacri, nei quali si ritiene che il dio condivida il cibo (cfr. *nutrimento) dei fedeli. D’altra parte, i pasti di alleanza intendono suggellare tra gli uomini dei legami di fraternità o di amicizia. Se soltanto Gesù Cristo, nostro unico *mediatore, è capace di soddisfare questo desiderio, il VT, pur mantenendo gelosamente le distanze invalicabili prima dell’incarnazione, ne prepara già il compimento.
    VECCHIO TESTAMENTO
    1. Il culto ebraico
    Il *culto ebraico riflette il bisogno di entrare in comunione con Dio. Ciò si esprime soprattutto nei sacrifici detti «pacifici», cioè di salute, in cui una parte della vittima torna all’offerente: mangiandola, questi è ammesso alla mensa di Dio. Perciò molte traduzioni lo chiamano «sacrificio di comunione» (cfr. Lev 3). Di fatto il VT non parla mai esplicitamente di comunione con Dio, ma soltanto di pasti presi «dinanzi a Dio» (Es 18, 12; cfr. 24, 11).
    2. L’alleanza.
    - Questo bisogno resterebbe un sogno sterile se Dio non proponesse al suo popolo una forma reale di scambi e di vita comune: con l’*alleanza Jahvè assume la responsabilità dell’esistenza di Israele, ne sposa gli interessi (Es 23, 22), vuole un incontro (Am 3, 2) e cerca di conquistarne il cuore (Os 2, 16). Questo disegno di comunione, molla dell’alleanza, si rivela nell’apparato di cui Dio circonda la sua iniziativa: i suoi lunghi colloqui con Mosè (Es 19, 20- 25; 24, 12-18), il nome di «tenda del convegno» dove lo incontra (33, 7-11).
    3. La legge.
    - Carta dell’alleanza, la *legge ha per scopo di far conoscere ad Israele le reazioni di Dio (Deut 24, 18; Lev 19, 2). Obbedire alla legge, lasciarsi plasmare dai suoi precetti, significa quindi trovare Dio ed unirsi a lui (Sal 119); inversamente, *amare Dio e cercarlo significa osservare i suoi comandamenti (Deut 10, 12 s).
     4. La preghiera.
    - L’israelita che vive nella fedeltà all’alleanza incontra Dio in un modo ancora più intimo, nelle due forme fondamentali della *preghiera: nello slancio spontaneo di ammirazione e di gioia dinanzi alle meraviglie divine, che suscita la *benedizione, la *lode e il *ringraziamento; - e nella supplica appassionata alla ricerca della presenza di Dio (Sal 42, 2-5; 63, 2-6), di un incontro che la stessa *morte non possa interrompere (Sal 16, 9; 49, 16; 73, 24).
    5. La comunione dei cuori. 
    La comunione dei cuori nel popolo è il frutto dell’alleanza: la solidarietà naturale in seno alla famiglia, al clan, alla tribù, diventa l’unione di pensiero e di vita al servizio del Dio che raduna Israele. Per essere fedele a questo Dio salvatore l’ebreo deve considerare il compatriota come suo «*fratello» (Deut 22, 1-4; 23, 20) e prodigare la sua sollecitudine ai più diseredati (24, 19 ss). L’assemblea liturgica delle tradizioni sacerdotali è nello stesso tempo una comunità nazionale in cammino verso il suo destino divino (cfr. Num.1, 16 ss; 20, 6-11; 1 Cron 13, 2), la «comunità di Jahvè» e «tutto Israele» (1 Cron 15, 3).
    NUOVO TESTAMENTO
    In Cristo la comunione con Dio diventa una realtà; condividendo, nella sua stessa debolezza, la condizione comune a tutti gli uomini (Ebr 2, 14), *Gesù Cristo concede loro di partecipare alla sua natura divina (2 Piet 1, 4).
    1. La comunione col Signore vissuta nella Chiesa.
    - Fin dall’inizio della sua vita pubblica Gesù si associa dodici compagni che vuole strettamente partecipi della sua missione di insegnamento e di misericordia (Mc 3, 14; 6, 7-13). Afferma che i suoi devono condividere le sue sofferenze per essere degni di lui (Mc 8, 34-37 par.; Mt 20, 22; Gv 12, 24 ss; 15, 18). Egli è veramente il *Messia, il *re che fa corpo con il suo popolo. Nello stesso tempo sottolinea l’unità fondamentale dei due comandamenti dell’amore (Mt 22, 37 ss). L’unione fraterna dei primi cristiani risulta dalla loro fede comune nel Signore Gesù, dal loro desiderio di imitarlo insieme, dal loro *amore per lui, che implica necessariamente il loro amore reciproco: essi avevano «un cuore e un’anima soli» (Atti 4, 32). Questa comunione tra di loro si realizza in primo luogo nella frazione del pane (2, 42); nell’ambito della Chiesa di Gerusalemme, si traduce nella messa in comune dei beni (4, 32 - 5, 11), poi tra comunità originarie del paganesimo e Gerusalemme, nella colletta raccomandata da S. Paolo (2 Cor 8-9; cfr. Rom 12, 13). L’aiuto materiale apportato ai predicatori del vangelo rivela in modo particolare questa comunione conferendole il carattere della gratitudine spirituale (Gal 6, 6; Fil 2, 25). Le persecuzioni sopportate insieme cementano l’*unità dei cuori (2 Cor 1, 7; Ebr 10, 33; 1 Piet 4, 13), così come la partecipazione alla diffusione del vangelo (Fil 1, 5).
    2. Significato di questa comunione.
    a) Per S. Paolo il fedele che aderisce a Cristo mediante la *fede ed il *battesimo partecipa ai suoi *misteri (cfr. i verbi composti con il prefisso syn-). Morto al peccato con Cristo, il cristiano risuscita con lui ad una vita nuova (Rom 6, 3 s; Ef 2, 5 s); le sue sofferenze, la sua stessa morte lo assimilano alla passione, alla morte e alla risurrezione del Signore (2 Cor 4, 14; Rom 8, 17; Fil 3, 10 s; 1 Tess 4, 14). La partecipazione al Corpo *eucaristico di Cristo (1 Cor 10, 16) realizza ad un tempo la «comunione al Figlio» (1, 9) e l’unione delle membra del corpo (10, 17). Il dono dello Spirito Santo a tutti i cristiani suggella una comunione intima tra loro (2 Cor 13, 13; Fil 2, 1).
    b) Per S. Giovanni, i discepoli che accolgono l’annuncio del «Verbo di vita» entrano in comunione con i suoi testimoni (gli apostoli) e, tramite essi, con Gesù e il *Padre (1 Gv 1, 3; 2, 24). Infine i cristiani, uniti tra loro, *rimangono nell’amore del Padre e del Figlio, come il Padre e il Figlio sono l’uno nell’altro e non fanno che uno (Gv 14, 20; 15, 4. 7; 17, 20-23; 1 Gv 4, 12). La osservanza dei comandamenti di Gesù è il segno autentico del desiderio di questa comunione permanente (Gv 14, 21; 15, 10); la realizza la potenza dello Spirito Santo (14, 17; 1 Gv 2, 27; 3, 24; 4, 13) e ne è l’alimento indispensabile il pane *eucaristico (Gv 6, 56). Così il cristiano *gusta in anticipo la gioia eterna, sogno di ogni cuore umano, speranza di Israele: «essere con il Signore, per sempre» (1 Tess 4, 17; cfr. Gv 17, 24), partecipando alla sua gloria (1 Piet 5, 1).
    D. SESBOÜÉ e J. GUILLET
    → alleanza - altare 3 - amore II NT 3 - calice 1 - Chiesa - conoscere NT 2 - Corpo di Cristo II 2, III 1 - culto VT I; NT III 2 - desiderio IV - eucaristia - imposizione delle mani VT - pane - pasto - presenza di Dio NT II - rimanere II 3 - sacrificio - solitudine II - unità.

    COMUNITÀ (inizio)

    → Chiesa - circoncisione VT 1 - comunione - fratello - pasto - popolo - profeta VT I 3 - unità.

    CONCUPISCENZA (inizio)

    → cupidigia - desiderio II.

    CONDANNA (inizio)

    →castighi 2 - giudizio - maledizione V - processo.

    CONFERMARE (inizio)

    → amen - forza - unzione III 6.

    CONFESSIONE (inizio)

    Nel linguaggio corrente la confessione per lo più evoca soltanto il sacramento della *penitenza ed il confessionale. Ma questo senso abituale non è esso stesso che un senso derivato e particolarissimo. La confessione, sia nel VT che nel NT e nella tradizione cristiana dei santi che confessano la loro fede, è in primo luogo la proclamazione della grandezza di Dio e dei suoi atti salvifici, una professione pubblica e ufficiale di *fede in lui e nella sua azione; e la confessione del peccatore non è vera se non è proclamazione della *santità di Dio. La confessione di fede è un atteggiamento essenziale dell’uomo religioso. Non è necessariamente legata ad una conoscenza distinta e ad una enumerazione completa degli atti di Dio, ma implica in primo luogo un atteggiamento pratico di apertura e di accoglimento nei confronti delle sue iniziative, come il sacerdote Eli che riconosce ad un tempo il peccato dei suoi figli e la grandezza di Dio: «Egli è Jahvè» (1 Sam 3, 18). Essa quindi normalmente porta dalla conoscenza di Dio alla reazione che deve suscitare questa presa di coscienza, il ringraziamento: è la giustificazione e l’espressione pubblica del *ringraziamento e della *lode (Sal 22, 23). Al pari quindi di questi, la confessione si rivolge direttamente a Dio, a differenza della *testimonianza, che ha anch’essa come oggetto gli atti di Dio, ma è rivolta in primo luogo agli uomini.
    VECCHIO TESTAMENTO
    1. Confessare il nome di Dio.

    - La confessione, il ringraziamento, la lode e la *benedizione sono costantemente uniti... hanno come punto di partenza le *opere di Dio; la descrizione dei fatti è l’elemento centrale della confessione. Le formule più antiche sono brevi; sono state utilizzate come titoli attribuiti a Dio nel culto. *Jahvè è innanzitutto colui «che ha fatto uscire Israele dal paese d’Egitto» (Deut 6, 12; 8, 14...), che è la formula più diffusa; è anche il «Dio dei padri» (Es, Deut, Cron); più tardi viene designato come colui che «ha giurato di donare (la terra) ai tuoi padri» (Deut 1, 8. 35). Infine si giunge a riferire nei dettagli la storia della salvezza (26, 5-9): all’esodo, come punto focale, si ricollegano le *promesse, l’*elezione e l’*alleanza. Questa evoluzione continua ad esprimersi in termini concreti: «la mia *roccia, la mia *forza, la mia *salvezza»; anche quando si confessa che Dio è incomparabile (Es 15, 11; Sal 18, 32) ci si riferisce alla sua azione storica, e non si tratta affatto di una riflessione filosofica sulla sua natura. II dovere, che in questo modo si assolve nei confronti del suo gran *nome (Ger 10, 6; Sal 76, 2), assicura la perennità del ricordo e la trasmissione della fede di Israele (Deut 6, 6-9). Il giudaismo precristiano è fedele a questa tradizione. Ogni giorno confessa la sua fede riunendo tre frammenti del Pentateuco, il primo dei quali afferma la fede fondamentale nel *Dio unico che ha stretto alleanza con Israele (Deut 6, 4 s).
    2. La confessione dei peccati.
    La confessione dei peccati significa in profondità che ogni mancanza è commessa contro Jahvè (Lev 26, 40), anche quelle contro il prossimo (Lev 5, 21; 2 Sam 12, 13 s). Il *peccato crea ostacolo alle relazioni che Dio vuole stabilire con l’uomo. La sconfessione, da parte dello stesso colpevole che si riconosce *responsabile, individuo (Prov 28, 13) o collettività (Neem 9, 2 s; Sal 106), dell’atto che l’ha opposto a Dio, riafferma i diritti imprescrittibili che il suo peccato richiamava in causa. Una volta restaurati questi diritti, che si fondano particolarmente sull’*alleanza di cui Dio ha preso l’iniziativa, è accordato il *perdono (2 Sam 12, 13; Sal 32, 5) ed ha termine la rottura che immerge tutto il popolo nella disgrazia (Gios 7, 19 ss).
    NUOVO TESTAMENTO
    1. Confessare Gesù Cristo.
    - Se l’atto del fedele rimane essenzialmente lo stesso, l’oggetto della sua professione di fede subisce una vera trasformazione. La grandezza di Dio si rivela in tutto il suo splendore. Le più antiche confessioni di fede di Israele (Deut 26, 50; Gios 24, 2-13) commemoravano gli avvenimenti dell’uscita dall’Egitto. Ma la liberazione che opera Cristo tocca tutta l’umanità; distrugge il nemico peggiore dell’uomo, quello che lo minava dall’interno, il peccato; non è più temporanea come i salvataggi politici del passato, ma è la *salvezza definitiva. Le confessioni di fede di Pietro (Mt 16, 16 par.; Gv 6, 68 s) e del cieco nato (9, 15 ss. 30-33) dimostrano che questa fede nasce dal contatto vivente con Gesù di Nazaret. Nella Chiesa, Gesù, nella sua morte e risurrezione, è oggetto della professione di fede, in qualità di attore essenziale del dramma della salvezza. Questa professione di fede si manifesta nelle formule primitive «Marana tha» (1 Cor 16, 22) e «Gesù è *Signore» (1 Cor 12, 3; Fil 2, 11) che la riassumono e servono da acclamazioni liturgiche. L’oggetto della fede proclamato nella predicazione in base a uno schema stereotipato (kèrygma) si esprime anche in un abbozzo di credo (1 Cor 15, 3-7) e in inni liturgici (1 Tim 3, 16). Gesù è riconosciuto unico salvatore (Atti 4, 12), Dio (Gv 20, 28), giudice del mondo che verrà (Atti 10, 42), inviato di Dio e nostro sommo sacerdote (Ebr 3, 1). In questa adesione di fede a colui che Dio dona al mondo come *messia e salvatore, la confessione del cristiano è diretta a Dio stesso. Non basta che la parola sia ricevuta e *rimanga in noi (1 Gv 2, 14). Deve essere confessata. Talvolta viene così designata la semplice adesione, in opposizione alle negazioni di colui che non crede alla missione di Gesù (1 Gv 2, 22 s), ma per lo più, come è normale, si tratta della proclamazione pubblica. Necessaria per giungere alla salvezza (Rom 10, 9 s), desiderabile in ogni tempo (Ebr 13, 15), essa ha come modello quella che ha fatto Gesù rendendo testimonianza alla verità (Gv 18, 37; 1 Tim 6, 12 s). Accompagna il *battesimo (Atti 8, 37), ed in modo più particolare la esigono talune circostanze, come quelle in cui l’astensione sarebbe l’equivalente di un rinnegamento (Gv 9, 22). Nonostante la *persecuzione bisognerà professare la propria fede dinanzi ai tribunali, come Pietro (Atti 4, 20), fino al *martirio, come Stefano (Atti 7, 56), sotto pena di essere rinnegati da Gesù dinanzi al Padre suo (Mt 10, 32 s; Mc 8, 38), perché si sarà preferita la gloria umana a quella che viene da Dio (Gv 12, 42 s). Gli eletti continueranno a confessare Dio (Apoc 15, 15, 3 s) e Gesù (5, 9) in cielo. Ogni confessione autentica, essendo l’eco nell’uomo dell’azione di Dio e risalendo fino a lui, è prodotta in noi dallo *Spirito di Dio (1 Cor 12, 3; 1 Gv 4, 2 s), specialmente quella che egli suscita dinanzi ai tribunali persecutori (Mt 10, 20).
    2. La confessione dei peccati.
    - La confessione dei peccati a un uomo che ha ricevuto il potere di perdonarli, non sembra attestata nel NT: la correzione fraterna e l’ammonizione della comunità mirano anzitutto a far riconoscere dal colpevole i suoi torti esterni (Mt 18, 15 ss); la confessione mutua alla quale invita Giac 5, 15 si ispira forse alla pratica giudaica e 1 Gv 1, 9 non precisa la forma che la confessione necessaria deve assumere. Tuttavia la confessione dei propri peccati è sempre il segno del pentimento e la condizione normale del perdono. I Giudei che vengono a trovare Giovanni Battista confessano le loro colpe (Mt 3, 6 par.). Pietro si confessa peccatore, indegno di avvicinarsi a Gesù (Lc 5, 8), e questi, descrivendo il pentimento del figliuol prodigo, vi fa entrare la confessione del suo peccato (Lc 15, 21). Questa confessione, espressa a parole da Zaccheo (19, 8), con atti dalla peccatrice (7, 36-50), od ancora con il silenzio dalla donna adultera che non si difende (Gv 8, 9-11), è la condizione del *perdono che Gesù accorda. Qui è il punto di partenza della confessione sacramentale. Ogni uomo è peccatore e deve riconoscersi tale per essere purificato (1 Gv 1, 9 s). Tuttavia il riconoscimento della sua indegnità è la confessione delle *labbra traggono il loro valore dal pentimento del *cuore, e la confessione di Giuda è vana (Mt 27, 4). Così, sotto le due alleanze, sia colui che confessa la propria fede nel Dio che salva, come colui che confessa il proprio peccato, si trovano liberati entrambi dal peccato per mezzo della *fede (Gal 3, 22). Per essi si realizzano le parole: «la tua fede ti ha salvato» (Lc 7, 50).
    P. SANDEVOIR
    → adorazione - battesimo IV 3 - benedizione II 2.3, III 5, IV - cenere - culto - disegno di Dio VT I, III - elezione VT I 2 - fede - feste - Gesù (nome di) III - Gesù Cristo II 1 a - labbra 2 - lingua - lode - martire - penitenza-conversione - perdono I, II 3 - responsabilità 4 - ringraziamento - Signore - silenzio 2 - testimonianza VT III; NT II, III.

    CONFRONTO (inizio)

    → figura - immagine - parabola.

    CONFUSIONE (inizio)

    → delusione I 2 - fierezza - orgoglio 4 –vergogna.

    CONOSCERE (inizio)

    Conoscere Dio: questo primo appello lanciato al cuore dell’uomo, la Bibbia non lo svolge in un contesto di scienza, ma in un contesto di vita. Di fatto, per il semita, conoscere (ebr. jd’) trascende il sapere astratto ed esprime una relazione esistenziale. Conoscere qualcosa significa averne l’esperienza concreta; così si conosce la sofferenza (Is 53, 3) ed il peccato (Sap 3, 13), la guerra (Giud 3, 1) e la pace (Is 59, 8), il bene ed il male (Gen 2, 9. 17), impegno reale le cui ripercussioni sono profonde. Conoscere qualcuno significa entrare in relazioni personali con lui; poiché queste relazioni possono assumere molte forme e presentano molti gradi, conoscere è suscettibile di tutta una gamma di sensi; la parola serve ad esprimere la solidarietà familiare (Deut 33, 9) ed anche le relazioni coniugali (Gen 4, 1; Lc 1, 34); si conosce Dio quando si è raggiunti dal suo giudizio (Ez 12, 15), lo si conosce in modo del tutto diverso quando si entra nella sua alleanza (Ger 31, 34) e si è introdotti a poco a poco nella sua intimità.
    VECCHIO TESTAMENTO
    1. Iniziativa divina.
    - Nella conoscenza religiosa tutto incomincia per iniziativa di Dio. Prima di conoscere Dio, si è da lui conosciuti. Mistero di *elezione e di sollecitudine: Dio conosce Abramo (Gen 18, 19), conosce il suo popolo: «Non ho conosciuto che voi tra tutte le famiglie della terra» (Am 3, 2). Prima ancora della loro nascita, egli conosce i suoi profeti (Ger 1, 5) e tutti coloro che *predestina ad essere suoi figli adottivi (Rom 8, 29; 1 Cor 13, 12). A coloro che ha così distinto e che conosce per nome (Es 33, 17; cfr. Gv 10, 3), Dio fa conoscere se stesso: rivela loro il suo *nome (Es 3, 14), li permea del suo *timore (Es 20, 18 ss), ma sopratutto testimonia loro la sua tenerezza liberandoli dai nemici, dando loro una terra (Deut 4, 32...; 11, 2...), facendo loro conoscere i suoi comandamenti, via alla felicità (Deut 30, 16; Sal 147, 19 s).
    2. Disconoscimento umano.
    - In risposta, il popolo dovrebbe conoscere il suo Dio, appartenergli nel vero amore (Os 4, 1; 6, 6). Ma fin dall’inizio se ne dimostra incapace (Es 32, 8). «Popolo di cuore errante, quella gente non ha conosciuto le mie vie» (Sal 95, 10). Disconoscendo Dio, lo mette continuamente alla *prova (Num 14, 22; Sal 78). Più irrazionale di una bestia da soma, «Israele non conosce nulla» (Is 1, 3; Ger 8, 7); si rivolta, viola l’alleanza (Os 8, 1), si prostituisce «a dèi che non conosceva» (Deut 32, 17). Anche quando immagina di «conoscere Jahvè» (Os 8, 2), si illude, perché si ferma ad una relazione puramente esteriore, formalistica (Is 29, 13 s; Ger 7); ora l’autentica conoscenza di Dio deve penetrare fino al cuore e tradursi nella vita reale (Os 6, 6; Is 1, 17; Ger 22, 16; cfr Mt 7, 22 s). I profeti lo ripetono a sazietà, ma «la nazione non *ascolta la voce del suo Dio e non si lascia istruire» (Ger 7, 28). Sarà quindi castigata «per mancanza di scienza» (Is 5, 13; Os s 4, 6). Dio si farà conoscere in modo terribile: mediante gli orrori della rovina e dell’*esilio. L’annunzio di questi *castighi è scandito da Ezechiele con un ritornello minaccioso: «E voi saprete che io sono Jahvè» (Ez 6, 7; 7, 4. 9...). Posto di fronte a se stesso ed al suo Dio nella crudezza del fatto, il popolo non può più rimanere nella illusione: deve riconoscere la *santità di Dio ed il suo proprio *peccato (Bar 2).
    3. Conoscenza e cuore nuovo.
    - Rimane la speranza di un rinnovamento meraviglioso, in cui «il paese sarà ripieno della conoscenza di Jahvè come le acque colmano il mare» (Is 11, 9). Ma come ciò può avvenire? Israele non pretende più di arrivarvi da solo, perché ha coscienza di avere «un cuore cattivo» (Ger 7, 24), un «cuore incirconciso» (Lev 26, 41), e per conoscere veramente Dio occorre un *cuore perfetto. Il Deuteronomio insiste su questa necessità di una trasformazione interiore, che non può venire che da Dio. «Finora Jahvè non vi aveva dato un cuore per conoscere» (Deut 29, 3), ma dopo l’esilio «egli *circonciderà il tuo cuore ed il cuore della tua posterità» (Deut 30, 6). La stessa promessa è rivolta da Geremia agli esiliati (24, 7). Essa costituisce l’elemento essenziale dell’annunzio di una nuova *alleanza (Ger 31, 31-34): una purificazione radicale, «io perdonerò il loro delitto», renderà possibile la docilità profonda, «porrò la mia legge nel fondo del loro essere e la scriverò sul loro cuore»; così assicurata, l’appartenenza reciproca «io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» sarà fonte di una conoscenza diretta ed autentica: «Non dovranno più istruirsi reciprocamente, dicendosi l’un l’altro: abbiate la conoscenza di Jahvè. Ma mi conosceranno tutti, dai più piccoli ai più grandi». Ezechiele completa la prospettiva notando la funzione dello *Spirito di Dio in questa rinnovazione interiore: «Vi darò un cuore nuovo, porrò in voi uno spirito nuovo... porrò il mio spirito in voi» (Ez 36, 26 s); sarà la risurrezione del *popolo di Dio (Ez 37, 14). Con ciò Dio si farà conoscere non soltanto da Israele (Ez 37, 13), ma anche dalle *nazioni pagane (Ez 36, 23). Descrivendo in anticipo la salvezza accordata, il Deutero-Isaia ne sottolinea anch’egli le ripercussioni universali. L’*idolatria subirà un colpo senza precedenti (Is 45-46). In occasione di un novello *esodo Dio manifesterà il suo dominio sulla storia e «ogni carne saprà che io, Jahvè, sono il tuo salvatore» (Is 49, 26). Agli Israeliti Dio dice: «Voi siete i miei testimoni... affinché mi si conosca» (Is 43, 10), ed al suo servo: «Farò di te la luce delle nazioni» (Is 49, 6).
    4. La sapienza dall’alto.
    - Un’altra linea di pensiero sfociava in prospettive analoghe. I sapienti di Israele ricercavano e raccoglievano le regole che assicuravano la buona condotta della vita (Prov), e una convinzione si radicava in essi: Dio solo ne conosce il segreto (Giob 28). «Egli ha scrutato l’intera via della conoscenza» (Bar 3, 37). Così dunque «ogni *sapienza viene dal Signore» (Eccli 1, 1). Certamente, nella sua bontà, Dio ne ha già dato la fonte ad Israele: «È la *legge promulgata da Mosè» (Eccli 24, 23 s). Tuttavia questo dono rimane esteriore (cfr. Sap 9, 5) e perciò bisogna ancora supplicare Dio di perfezionarlo ponendo all’interno dell’uomo il suo «spirito di sapienza» (Sap 7, 7; 9). «Di fatto, quale uomo può conoscere il disegno di Dio?» (Sap 9, 13). Gli uomini di Qumrân si dimostrano assetati della «conoscenza dei misteri divini». Ringraziano Dio per le illuminazioni già accordate (1 QH 7, 26 s) e attendono ardentemente il tempo dell’ultima manifestazione, che concederà ai giusti di «comprendere la conoscenza dell’Altissimo» (1 QS 4, 18-22). I Giudei della dispersione, a contatto con il mondo greco, sono indotti a sviluppare un’argomentazione di tono più filosofico, per combattere l’idolatria e diffondere la conoscenza dell’unico vero Dio. L’autore della Sap afferma che lo spettacolo della natura dovrebbe portare gli uomini a riconoscere l’esistenza e la potenza del Creatore (Sap 13, 1-9).
    NUOVO TESTAMENTO
    In *Gesù Cristo viene data la perfetta conoscenza di Dio, promessa per il tempo della nuova alleanza.
    1. Sinottici.
    - Gesù era il solo capace di rivelare il *Padre (Lc 10, 22) e di spiegare il mistero del *regno di Dio (Mt 13, 11). Egli insegnava con autorità (Mt 7, 29). Rifiutando di soddisfare le vane curiosità (Atti 1, 7), il suo insegnamento non era teorico, ma si presentava come una «buona novella» ed un appello alla *conversione (Mc 1, 14 s). Dio si fa vicino, bisogna discernere i segni dei tempi (Lc 12, 56; 19, 42), ed essere disposti ad accoglierlo (Mt 25, 10 ss). Alle parole Gesù univa i miracoli, * segni della sua missione (ad es. Mt 9, 6). Ma tutto questo non era che una preparazione. Non soltanto i suoi nemici (Mc 3, 5), ma i suoi stessi discepoli avevano lo spirito ottuso (Mc 6, 52; Mt 16, 23; Lc 18, 34). Soltanto quando sarà sparso il sangue della nuova alleanza (Lc 22, 20 par.) potrà farsi la piena luce: «allora egli aprì la loro intelligenza» (Lc 24, 45), allora effuse lo Spirito Santo (Atti 2, 33). Così furono instaurati gli ultimi tempi, tempi della vera conoscenza di Dio.
    2. San Giovanni.
    - Ancor più nettamente dei sinottici, Giovanni nota le tappe di questa *rivelazione. Bisogna anzitutto lasciarsi istruire dal Padre; coloro che sono docili nei suoi confronti sono attratti verso Gesù (Gv 6, 44 s). Gesù li riconosce ed essi lo riconoscono (10, 14), ed egli li conduce verso il Padre (14, 6). Tuttavia tutto ciò che egli dice e fa rimane per essi enigmatico (16, 25) finché egli non è stato innalzato sulla croce. Soltanto questa elevazione glorificante lo mette veramente in evidenza (8, 28; 12, 23. 32); essa sola ottiene ai discepoli il dono dello Spirito (7, 39; 16, 7). Questi rivela loro tutta la portata delle parole e delle opere di Gesù (14, 26; cfr. 2, 22; 12, 16) e li conduce a tutta la verità (16, 13). Così i discepoli conoscono Gesù, e per mezzo di Gesù, il Padre (14, 7. 20). Come aveva predetto Geremia, si stabilisce un nuovo rapporto con Dio: «Il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l’intelligenza affinché conoscessimo il vero» (1 Gv 5, 20; 2, 14). La *vita eterna non si definisce diversamente: consiste nel «conoscere te, solo vero Dio, ed il tuo inviato Gesù Cristo» (Gv 17, 3), conoscenza diretta, la quale fa sì che in un certo senso i cristiani «non hanno più bisogno di essere ammaestrati» (1 Gv 2, 27; cfr. Ger 31, 34; Mt 23, 8). Questa conoscenza implica una capacità di discernimento di cui Giovanni spiega gli aspetti fondamentali (1 Gv 2, 3 ss; 3, 19. 24; 4, 2. 6. 13), mettendo in guardia contro le false dottrine (2, 26; 4, 1; 2 Gv 7). Tuttavia, questa conoscenza di Dio, colta nella sua estensione, merita il nome di «comunione» (1 Gv 1, 3), perché è partecipazione ad una stessa vita (Gv 14, 19 s), unione perfetta nella verità dell’amore (Gv 17, 26; cfr. 1 Gv 2, 3 s; 3, 16...).
    3. San Paolo.
    - Al mondo greco, avido di speculazioni filosofiche e religiose (gnosis), Paolo predica arditamente la *croce di Cristo (1 Cor 1, 23). La salvezza non si trova in una sapienza umana, qualunque essa sia, ma nella *fede in Cristo crocifisso, «forza di Dio e sapienza di Dio» (1 Cor 1, 24). Gli uomini avevano la possibilità di conoscere Dio a partire dalla creazione, ma il «loro cuore ottuso si è ottenebrato» e si sono abbandonati all’idolatria, meritando la collera di Dio (Rom 1, 18-22). Devono ormai rinunciare alle proprie pretese (l Cor 1, 29), riconoscersi incapaci di penetrare da soli i segreti di Dio (1 Cor 2, 14) e sottomettersi al vangelo (Rom 10, 16) trasmesso dalla «*folla della predicazione» (1 Cor 1, 21; Rom 10, 14). La fede in Cristo ed il battesimo gli danno allora accesso ad una scienza completamente diversa, «al vantaggio sovraeminente che è la conoscenza di Cristo Gesù», scienza non teorica, ma vitale: «conoscere lui, con la *potenza della sua risurrezione e la partecipazione alle sue sofferenze» (Fil 3, 8 ss). Con ciò l’intelligenza è «rinnovata» e diventa capace di «discernere qual è la «volontà di Dio, ciò che è bene, ciò che gli piace, ciò che è perfetto» (Rom 12, 2). Resistendo alle tendenze gnostiche che si manifestano qua e là tra i cristiani (1 Cor 1, 17; 8, 1 s; Col 2, 4. 18), Paolo li orienta verso una conoscenza più autenticamente religiosa, quella che proviene dallo *Spirito di Dio e grazie alla quale noi siamo veramente in grado di «conoscere i doni che Dio ci ha fatto e di esprimerli in un linguaggio insegnato dallo Spirito (1 Cor 2, 6-16). Dinanzi «all’insondabile ricchezza di Cristo» (Ef 3, 8), lo stupore di Paolo non fa che crescere con gli anni, ed egli augura ai cristiani «che pervengano a ogni ricchezza della piena intelligenza che farà loro penetrare il *mistero di Dio in cui si trovano, nascosti, tutti i tesori della sapienza e della conoscenza» (Col 2, 2 s). Tuttavia egli non dimentica che «la scienza gonfia» e che «la carità edifica» (1 Cor 8, 1; 13, 2): ciò che egli ha di mira non è una gnosi orgogliosa, ma la conoscenza dell’«*amore di Cristo che supera ogni conoscenza» (Ef 3, 19). Egli aspira al momento in cui ciò che è parziale farà posto a ciò che è perfetto, ed egli conoscerà com’è conosciuto (1 Cor 13, 12). Così per Paolo, come per tutta la Bibbia, conoscere significa entrare in una grande corrente di vita e di luce che è sgorgata dal cuore di Dio e che vi riporta.
    J. CORBON e A. VANHOYE
    → amore 0; I NT 3; II VT - apparizioni di Cristo 4 b. 7 - cuore 0, II 1.2 a - fede - follia - gustare - insegnare - Maria II 4 - mistero - predestinare - profeta VT IV 4 - rivelazione - sapienza - sogni NT - Spirito di Dio VT I 3; NT V 5 – Spososposa VT 1 - vedere - verità VT 3; NT 2.3 - volontà di Dio NT II 1.

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