GALILEA - GIUDAISMO - DIZIONARIO DI TEOLOGIA BIBLICA

Vai ai contenuti

Menu principale:

G
G: GALILEA - GIUDAISMO

CERCA NELLA PAGINA

Il termine cercato viene evidenziato in giallo in tutta la pagina
 jQuery: cercare ed evidenziare parole nel testo


  ................. LUIS MARTINEZ FERNANDEZ

G

    ____________________________________________________________

    GALILEA (inizio)

    → apparizioni di Cristo 3 - città NT 1 - Gerusalemme NT I 1.2.

    GEENNA (inizio)

    → fuoco VT III; NT I 1 - inferi e inferno VT II.

    GELOSIA (inizio)

    → amore I - Dio VT III 3.4 - fuoco VT I 3 - odio - peccato III 3 - sposo-sposa VT 1 - zelo.

    GENERARE (inizio)

    → fecondità - madre - nascita (nuova) - padri e Padre – sterilità.

    GENERAZIONE (inizio)

    Partendo dal senso di procreazione, la parola generazione tende ad esprimere la solidarietà che unisce degli uomini tra loro. Come nelle nostre lingue, il termine biblico può designare coloro che vivono nella stessa epoca (i contemporanei); ma a questo significato sociologico l’ebraico aggiunge una sfumatura storica: la solidarietà di coloro che discendono da una stessa famiglia o da una stessa razza (discendenza, stirpe). Con questa parola e con l’uso delle «genealogie», la Bibbia vuol sottolineare la solidarietà degli uomini nella benedizione o nel peccato, e ciò da Adamo a Cristo e fino alla fine dei tempi.
    1. Comunanza di razza.
    - Ogni uomo nasce in una generazione; è quanto indicano i toledôt (dalla radice jalad, generare) o liste genealogiche (Gen 5, 1; 11, 10; 1 Cron 1 - 9). Eredita le *benedizioni e le *promesse divine accordate agli antenati. Quando si tratta di Gesù Cristo, figlio di Abramo e figlio di Adamo, promesse e benedizioni trovano in lui il loro compimento (Mt 1, 1-17 par.). Queste generazioni portano la realizzazione di una storia di salvezza che non si limita a una banale agitazione di uomini. Ne afferrano il senso e cantano Dio e le sue opere (Sal 145, 4) o proclamano beata la madre di Gesù (Lc 1, 48).
    2. Libera solidarietà.
    - L’uomo è erede della benedizione, ma anche del peccato delle generazioni precedenti (Mi 23, 35 s); esiste una «generazione perversa e sviata» (Deut 32, 5), che Gesù riconosce in quella dei suoi contemporanei (Mt 12, 39; 17, 17), e specialmente nei *farisei che qualifica come razza di vipere (Mt 12, 34; 23, 33); essa ha per padre il demonio (Gv 8, 44-47),la sua ostinazione (*indurimento) provoca il disgusto e l’*ira di Dio (Ebr 3, 7-19; Sal 95, 8-11). Ma l’appartenenza a questa generazione perversa non è più fatale, dopo che Cristo ha inviato lo Spirito per la remissione dei peccati: è possibile «salvarsene» (Atti 2, 40) ed appartenere alla generazione di *Abramo il credente (Rom 4, 11 s), essere la «generazione eletta» (1 Piet 2, 9; cfr. Is 43, 20) di coloro che credono nel Figlio di Dio e sono nati da Dio (Gv 1, 12 s; 1 Gv 5, 1). Vi sono dunque due generazioni o due «*mondi», che non sono privi di rapporti, ed è dovere dei cristiani «rendersi irreprensibili e puri, figli di Dio in mezzo ad una generazione perversa e sviata, ad un mondo in cui essi brillano come luminari, presentandogli la parola di vita» (Fil 2, 15; cfr. Lc 16, 8).
    A. BARUCQ
    → fecondità - padri e Padre I 2, II, V 2 - seminare II 1.

    GENEROSITÀ (inizio)

    → amore - benedizioni I, II 1 - dono - elemosina - grazia - ricchezza.

    GENITORI (inizio)

    →bambino - educazione 0, I 1 - madre - padri e Padre.

    GENTILI (inizio)

    → apostoli II 2 –nazioni.

    GEOVA (inizio)

    → Jahvè 3.

    GERARCHIA (inizio)

    → carismi II 4 - ministero II - sacerdozio VT 1 4.5.

    GERME (inizio)

    → promesse II 4 - re VT II 1.2 - seminare II 1 - servo di Dio II 2.

    GERUSALEMME (inizio)

    Gerusalemme è una «città santa», venerata dai giudei, dai cristiani e dai musulmani per motivi che in parte sono connessi. Ma agli occhi dei cristiani la sua funzione nel piano divino appartiene al passato. Ora sussiste soltanto il significato profondo che il NT le ha scoperto. 
    VECCHIO TESTAMENTO 
    I. LA VOCAZIONE
    1.
    La città cananea di Urushalim («fondazione del dio Shalem») è conosciuta da documenti accadici del sec. XIV (lettere di Tell el-Amarna). La tradizione biblica la riconosce nella città di *Melchisedec, contemporaneo di Abramo (Gen 14, 18 ss), e ne identifica forse la posizione con il Monte Moria dove Abramo offrì il suo sacrificio (2 Cron 3, 1). Al tempo dei Giudici, Gerusalemme era ancora una città pagana (Giud 19, 11 s), perché gli Israeliti avevano fallito nel loro primo tentativo di conquista (Giud 1, 1). Infine *David la prese ai Gebusei (2 Sam 5, 6 ss). Ne chiamò la cittadella «*città di David» (5, 9), la fortificò e ne fece la capitale politica del suo regno. Trasportandovi l’*arca dell’alleanza (6), vi fissò il santuario confederale delle dodici tribù, che precedentemente era a Silo. La promessa di Natan confermò che Dio gradiva questo luogo di residenza (7), e Salomone portò a termine su questo punto l’opera del padre costruendo il *tempio e dedicandolo solennemente (1 Re 6 - 8). Venne così ad essere determinato il destino religioso della città.
     2. Nella *terra santa Gerusalemme occupa un posto a parte. Possesso personale della dinastia di David, essa rimane fuori del catasto delle tribù. Capitale politica, rappresenta in concreto l’unità nazionale del *popolo di Dio. Capitale religiosa, è il centro spirituale di Israele perché Jahvè risiede in essa, sul *monte Sion, che ha scelto come dimora (Sal 78, 68 s; 132, 13-18); così i credenti salgono ad essa in frequenti *pellegrinaggi. Duplice significato che giustifica il suo carattere di città santa e le conferisce una funzione di primo piano nella fede e nella speranza di Israele.
    II. IL DRAMMA
    A motivo di questo significato, Gerusalemme è trascinata nel dramma che scuote tutte le istituzioni del popolo di Dio nella epoca regia: esperimenta alternativamente la *grazia e l’*ira di Dio.
    1. Immediatamente dopo l’apogeo del tempo di Salomone, Gerusalemme subisce subito il contraccolpo dello *scisma che consegue alla sua morte. Il libro dei re vi vede il castigo provvidenziale delle infedeltà del monarca (1 Re 11). Collegata a Giuda, la città rimane la capitale di un regno ridotto e conserva il tempio. Ma Geroboamo crea in Israele dei santuari ufficiali che le fan concorrenza (12, 26-33), e presto la fondazione di Samaria (16, 24) le innalzerà di fronte una capitale rivale. Viene così ad essere spezzata l’unità della funzione politica e della funzione religiosa realizzata da David.
    2. Tuttavia il significato di Gerusalemme sussiste, soprattutto agli occhi dei Giudei fedeli. Dopo la caduta di Samaria, le speranze si rivolgono ad essa, ed Ezechia tenta di riunirle le tribù del Nord. Vi realizza una prima riforma religiosa (2 Re 18, 1-4; cfr. 2 Cron 29 - 31), e sotto il suo regno la città esperimenta una liberazione straordinaria in occasione dell’invasione di Sennacherib (2 Re 18, 13 -19, 36): il suo ricordo rimarrà scolpito negli spiriti, a gloria della città santa (Sal 48, 5-9). Un secolo più tardi, Giosia tenta di nuovo di raggruppare tutti gli Israeliti attorno ad un santuario dove il culto sarà ormai centralizzato in modo stretto (2 Re 22, 1 -23, 25). Ultimo tentativo per salvare l’opera nazionale di David.
    3. Di fatto, «Dio non si ritrasse dalla vampa della sua ira... Disse: rigetterò questa città che avevo scelto, Gerusalemme, ed il tempio di cui avevo detto: ivi sarà il mio *nome» (2 Re 23, 26 s). Nonostante riforme temporanee, Gerusalemme è di fatto una città infedele al suo Dio, e ciò determina il suo destino. Infedele nei suoi *re, che si abbandonano all’idolatria (2 Re 16, 2 ss; 21, 3-9) e perseguitano i profeti (2 Cron 24, 21; cfr. Ger 36-38). Infedele nel suo *sacerdozio, che disprezza l’insegnamento profetico (Ger 20) e permette all’idolatria di stabilirsi nel tempio (2 Re 21, 4 s. 7; Ez 8). Infedele nel suo *popolo, attirato dalle alleanze pagane, incurante della legge di Dio (Is 1, 16 s; Ger 7, 8 ss). «Perché è diventata una prostituta, la città fedele?» (Is 1, 21). A meno di una conversione sincera, l’ira di Dio si abbatterà dunque su di essa: Isaia non vede salvezza che per un *resto santo (Is 4,2 s); Geremia promette al tempio la sorte di quello di Silo (Ger 7, 14); Ezechiele, ríepilogando le infedeltà della città, le annunzia il castigo vicino (Ez 11, 1-12; 23; 24, 1-14), perché Jahvè ha deciso di abbandonarla (10, 18 ss).
    4. Questi oracoli comminatori illuminano il significato della sua distruzione finale sotto i colpi di Nabuchodonosor. È il *giudizio di Dio che si compie (cfr. Ez 9, 1 - 10, 7). Verificatosi l’evento, la «figlia di Sion» non ha più che da confessare la sua lunga colpevolezza (Lam 1 -2); i suoi figli pregano Dio di far ricadere sui pagani il male che questi hanno fatto a Gerusalemme, sua *eredità (Sal 79). Al termine di questo dramma, il problema che si pone concerne ormai il futuro.
    III. VERSO LA NUOVA GERUSALEMME
    1. Parallelamente allo svolgimento del dramma ed a misura che ne annunciavano la soluzione, i profeti rivolgevano i loro sguardi verso un’altra Gerusalemme. Isaia la vedeva ritornata, dopo la prova, «città di giustizia e cittadella fedele» (Is 1, 26 s). Geremia scorgeva il giorno in cui il popolo di Israele restaurato sarebbe tornato ad adorare Dio a Sion (Ger 31, 6. 12). Ezechiele descriveva minuziosamente la città futura, ricostruita attorno al tempio (Ez 40 - 46), centro di un paese paradisiaco (47, 1 - 48, 29), largamente aperta alle dodici tribù (48, 30-35) ed avente come nome «Jahvè è là» (48, 35). Durante il periodo dell’esilio queste visioni del futuro si sviluppano in promesse grandiose: Gerusalemme, vuotato il *calice dell’*ira divina, ritroverà le sue *vesti festive (Is 51, 17-52, 2). Magnificamente ricostruita (54, 11 s) e diventata nuovamente la *sposa di Jahvè (54, 4-10), essa vedrà moltiplicarsi meravigliosamente i suoi figli (54, 1 ss; 49, 14-26).
    2. La restaurazione conseguente all’editto di Ciro (Esd 1 - 3) e poi la ricostruzione del tempio (5 - 6) sembrano mettere a portata di mano la realizzazione di questi oracoli. I profeti contemporanei annunciano la gloria della nuova città e del suo tempio, chiamati a diventare il centro religioso dell’universo (Agg 2, 6-9; Is 60; 62). Anzi, presto, il quadro si stacca dalle realtà prosaiche e si confonde con l’immagine del *paradiso ritrovato (Is 65, 18): Sion partorirà il nuovo *popolo per una gioia senza pari (66, 6-14). Tuttavia la situazione concreta rimane meno brillante, e la città continua a conoscere la sua parte di prove: le mura restano a lungo in rovina (cfr. Sal 51, 20; 102, 14-18), ed occorre l’energia di Neemia per ricostruirle (Neem 1 - 12). Sotto l’impulso dei suoi restauratori, essa diventa la «fortezza della torah», isolata il più possibile dagli influssi stranieri (cfr. Neem 13). Ma questa capitale di una minuscola provincia è ormai priva di ogni funzione politica importante.
    3. Sul piano religioso Gerusalemme svolge ora la sua missione essenziale. Da ogni parte i Giudei si rivolgono ad essa (Dan 6, 11). Vi si sale in pellegrinaggio (Sal 122) e si pone la propria gioia nel dimorarvi (Sal 84). È l’epoca delle belle liturgie nel tempio (Eccli 50, 1-21). I salmi celebrano la residenza di Jahvè (Sal 46; 48), chiamata a diventare la *madre di tutte le *nazioni (Sal 87). Giocando sul significato del suo nome, le si augura la «pace» (šalom: Sal 122, 6-9) e la si invita a lodare Dio (Sal 147, 12 ss). Gli ultimi testi profetici ne fanno il teatro del *giudizio escatologico (Gioe 4, 9-17) e del banchetto di gioia offerto a tutta l’umanità (Is 25, 6 ss); ne evocano la liberazione e la trasfigurazione finale (Zac 12; 14). Descrivendo in anticipo in termini lirici la felicità che Dio le riserva (cfr. Tob 13), la invitano alla fiducia (Bar 4, 30 - 5, 9). Essa conoscerà ancora la prova, sotto il re Antioco che la profanerà (1 Mac 1, 36-40). Ma, in contrasto con questa realtà storica spesso poco brillante, le apocalissi giudaiche presenteranno un’immagine sempre più fantastica della città futura. Per esse, esiste fin d’ora una Gerusalemme celeste, di cui la città davidica non è che la riproduzione imperfetta. Negli ultimi tempi questa Gerusalemme sarà rivelata da Dio e discenderà sulla terra. Come esprimere meglio la trascendenza dell’ordine futuro in rapporto ad un’esperienza storica che ne racchiudeva già la *figura piena di significato? 
    NUOVO TESTAMENTO
    I. LA GERUSALEMME TERRENA E LA REALIZZAZIONE DELLA SALVEZZA
    Da Marco a Giovanni, Gerusalemme occupa un posto sempre più importante nei vangeli. Ma in Luca la sua funzione e meglio sottolineata, nel punto d’unione del vangelo e degli Atti.
    1. Secondo il vangelo di Marco, l’eco della predicazione di Giovanni Battista giunge fino a Gerusalemme (Mc 1, 5). Ma il vangelo del regno annunziato da Gesù ha inizio e si isola dapprima in Galilea (1, 28. 39). Gesù non si volge a Gerusalemme se non dopo aver urtato contro l’incredulità delle città di Galilea (6, 1-6; 8, 11 s; 9, 30) e dopo aver annunziato per tre volte la sua passione: non vi sale che per consumarvi il suo sacrificio (10, 32 ss). Da questo momento si svolge il dramma: Gesù entra trionfalmente nella città conformemente alla Scrittura (11, 1-11) e vi compie azione di profeta purificando il tempio (11, 15-19). Successo senza domani, perché egli urta contro l’opposizione delle autorità giudaiche (11, 27 - 12, 40). Perciò, nella prospettiva della sua morte imminente (12, 6-9), egli profetizza il castigo della città e la profanazione del suo tempio (13, 14-20), fine di un’economia religiosa scaduta e preludio alla consumazione finale (13, 24-27). Effettivamente Gesù, rigettato dal popolo (15, 6-15), condannato dai suoi capi (14, 53-64), è crocifisso fuori della città (15, 20 ss). Mentre egli muore, il velo del tempio si lacera, per indicare che l’antico santuario ha perso il suo carattere sacro (15, 33-38). Qui Gerusalemme è il luogo del grande rifiuto.
    2. A questo schema, Matteo aggiunge parecchi tratti. Il dramma futuro si proietta sull’infanzia di Gesù: mentre dei pagani guidati da un astro (cfr. Num 24, 17) vengono a Betlemme ad adorare il Messia (Mt 2, 1 s. 9 ss), gli scribi non sanno riconoscere in Gesù colui che le loro Scritture annunciano (2, 4 ss) ed il re Erode medita già di farlo morire (2, 16 ss). L’emozione puramente umana di Gerusalemme (2, 3) non perviene quindi ad un atto di fede. La capitale è privata della corona a vantaggio di Betlemme e di Nazaret. Figlio di David, Gesù non porterà il nome di Gerusalemme, la città del suo antenato, ma quello di Nazaret (2, 23). Durante il ministero pubblico, gli avversari peggiori di Gesù vengono da Gerusalemme (15, 1). Perciò egli fa lamento sulla sorte riservata alla città, che mette a morte gli inviati divini (23, 37 ss). Di conseguenza, in Galilea hanno luogo infine le apparizioni durante le quali Gesù risorto manda i suoi apostoli a tutte le nazioni (28, 7. 16-20).
    3. In questo disegno un po’ convenzionale, Giovanni introduce annotazioni storiche più complesse. Egli di fatto conosce parecchi viaggi di Gesù a Gerusalemme, dove si svolge la maggior parte del dramma. Presenta a lungo l’incredulità del suo popolo (Gv 2, 13-25), la difficoltà che i suoi dottori migliori incontrano nel credere (3, 1-12), i miracoli che Gesù vi compie e le contraddizioni che vi deve subire (5; 7-10). Il suo ultimo miracolo è compiuto alle porte di Gerusalemme, come un’ultima testimonianza sulla sua opera salutare; ma Gesù se ne ritira quando sa che si complotta contro di lui (11, 1-54). Non vi ritorna che per portare a compimento la sua *ora (12, 27; 17, 1). Ancor più che in Marco, qui è sottolineato il grande rifiuto.
    4. Unendo al racconto evangelico un abbozzo delle origini cristiane, Luca mette in evidenza un’altra faccia di questo dramma sacro di cui Gerusalemme è il centro. Nella vita di Gesù essa è il luogo al quale tutto fa capo. Il bambino Gesù vi è presentato, ed anime fedeli ve lo sanno riconoscere (Lc 2, 22-38); vi sale all’età di dodici anni e vi manifesta la sua sapienza in mezzo ai dottori (2, 41-50): annunzi velati della sua manifestazione e del suo sacrificio futuri. Infatti Gerusalemme è lo scopo della sua vita: «Non conviene che un profeta perisca fuori di Gerusalemme» (13, 33). Luca quindi dà un grande rilievo all’ascesa di Gesù verso la città in cui deve avvenire la sua partenza (9, 31; 9, 51; 13, 22; 17, 11; 18, 31; 19, 11. 28). Dinanzi al rifiuto definitivo opposto alla sua missione, egli ne annunzia la rovina in termini più precisi che non in Marco e in Matteo (19, 41-44; 21, 20-24). Ma la prospettiva di un tempo intermedio, il «tempo dei pagani», separa nettamente questo evento dalla consumazione finale (21, 24-28). Di fatto, se la storia di Gesù termina a Gerusalemme con il suo sacrificio, le sue apparizioni e la sua ascensione (24, 36-53; Atti 1, 4-13), di là riparte poi la storia della testimonianza resa dagli apostoli. A Gerusalemme essi ricevono lo Spirito (Atti 2). Da quel momento hanno la *missione di portare il *vangelo da Gerusalemme fino in Giudea, in Samaria ed alle estremità della terra (1, 8; cfr. Lc 24, 47 s). Effettivamente essi annunciano dapprima la buona novella nella città e vi fondano la comunità cristiana (Atti 2 - 7). Il sinedrio vi rinnova contro di essi l’ostilità che aveva causato la morte di Gesù (4, 1-31; 5, 17-41). Per bocca di Stefano, Dio annunzia quindi la distruzione del tempio fatto da mano d’uomo, in punizione della resistenza di Israele allo Spirito Santo e del suo rigetto di Gesù (7, 44-53). La persecuzione suscitata da queste parole provoca la dispersione di una parte della comunità (8, 1); ed ecco, per una conseguenza paradossale, una nuova espansione del vangelo in Samaria (8, 2-40), a Cesarea (10), poi fino ad Antiochia (11, 19-26), dove i primi pagani sono accolti nella Chiesa. Così pure la morte del primo testimone del vangelo ha come frutto la conversione di Saulo, il persecutore che diventerà uno strumento eletto nelle mani di Dio (7, 58 - 8, 1 ss; 9, 1-30). Da quel momento Saulo lascia Gerusalemme per incominciare il suo compito di missionario (9, 30; 11, 25 s): anche Pietro la lascia dopo la sua prigionia (12, 17); Gerusalemme cessa così di essere il centro della evangelizzazione per andare verso il destino che Gesù le ha predetto. Infine, un giorno, Paolo vi salirà di nuovo, ma per soffrirvi come Cristo (21, 11) e subirvi un altro rifiuto (22, 17-23). Il vangelo lascia Gerusalemme per raggiungere «le estremità della terra».
    II. DALLA GERUSALEMME TERRESTRE ALLA GERUSALEMME CELESTE
    1. S. Paolo, lo «strumento eletto» convertito sulla strada di Damasco (Atti 9) è il primo a sottolineare il superamento dell’antica Gerusalemme da parte di una nuova Gerusalemme che ha radici nel cielo. Ai Galati egli presenta questa Gerusalemme di lassù, madre nostra, erede delle *promesse divine, perseguitata dalla Gerusalemme della terra, che è chiamata a scomparire dinanzi ad essa (Gal 4, 24-31).
    2. La lettera agli Ebrei riprende la stessa immagine. Questa Gerusalemme celeste, città del Dio vivente (Ebr 12, 21 ss), cui i cristiani si sono già avvicinati al momento del battesimo, è la residenza divina dove si trova il *tempio «non fatto da mano d’uomo», termine della missione di Cristo (9, 24; cfr. 9, 11 s). Questo tempio era il modello (typos: 8, 5), di cui il tempio di quaggiù non era che la copia, l’ombra, la riproduzione, la *figura (8, 5; 10, 1): realtà trascendente che le apocalissi giudaiche evocavano in termini magnifici.
    3. L’Apocalisse giovannea ne riprende la descrizione per contemplare nella sua perfezione finale la *Chiesa, *sposa dell’agnello (Apoc 21, 1- 22, 5), meraviglia sfavillante e città di sogno. I testi profetici che descrivevano la nuova Gerusalemme, specialmente quelli di Ezechiele e del libro di Isaia, sono qui ripresi e reinterpretati in modo tale che la città terrestre è persa di vista. È inteso soltanto il suo modello celeste; ma la Chiesa della terra ne porta già in sé l’immagine, perché partecipa al suo mistero: essa è la città santa che i pagani calpestano con la persecuzione (11, 2). A1 termine del NT la capitale di Israele, l’antico luogo di residenza di Jahvè in terra, non ha più che il valore di una figura. Nel momento stesso in cui si realizza per essa la nuova tragedia annunziata da Gesù, le promesse di cui era provvisoriamente depositatia passano ad un’altra Gerusalemme, ad un tempo attuale e tesa verso la sua perfezione finale, patria definitiva di tutti i redenti: «Gerusalemme, città del cielo, beata visione di pace» (Inno della dedicazione delle Chiese).
    M. JOIN-LAMBERT e P. GRELOT
    → Babele-Babilonia 6 - Chiesa V 2 - città - David 1 - edificare III 4 - madre II 3 - monte III 1.2 - nuovo IV - patria VT 2; NT 1.2 - pellegrinaggio - pietra 6 - popolo II 4 - porta - sposo-sposa NT - tempio VT I - terra VT II 4.

    GESÙ (NOME DI) (inizio)

    Questo articolo intende soltanto mettere in rilievo tutto ciò che l’uso del nome di Gesù, fra tanti nomi diversi, suggerisce e significa.
    I. «QUEL GESÙ»
    Questo nome significa anzitutto ciò che il *nome designa normalmente nel linguaggio umano ed in particolare nel pensiero biblico: l’essere stesso nella sua singolarità, nella sua individualità concreta e personale: lui e non un altro, lui e tutto ciò che egli è, quel Gesù, come lo chiamano parecchi testi (Atti 1, 11; 2, 36; 5, 30; 9, 17). Questo dimostrativo, espresso o no, traduce quasi sempre l’affermazione cristiana fondamentale, la continuità tra il personaggio apparso nella *carne, e l’essere divino confessato dalla fede: «Quel Gesù che voi avete crocifisso, Dio lo ha fatto Signore e Cristo» (2, 36); «Quel Gesù, or ora salito al cielo, ritornerà nello stesso apparato con cui lo avete visto andarvi» (1, 11); «Colui che è stato abbassato per un momento al di sotto degli angeli, Gesù, noi lo vediamo coronato di gloria eterna» (Ebr 2, 9). La rivelazione che convertì Saulo sulla strada di Damasco è dello stesso tipo: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (Atti 9, 5; 22, 8; 26, 15); non soltanto essa scopre al persecutore, inseparabile dai suoi, la presenza del loro Signore, ma gli fa riconoscere l’identità tra l’essere celeste che gli si impone con la sua onnipotenza, ed il bestemmiatore galileo che egli perseguitava con il suo odio. Egli è stato per sempre «afferrato da Cristo Gesù» (Fil 3, 12) e sacrifica tutti i suoi vantaggi per entrare nella «conoscenza di Cristo Gesù. [suo] Signore» (3, 8). Il Cristo grandioso che riempie l’universo con la *pienezza divina (Col 1, 15-20) rimane «il Cristo quale voi avete ricevuto, Gesù il Signore» (2, 6).
    II. GESÙ NAZARENO
    Essere di carne, «nato da una donna, nato suddito della legge (Gal 4, 4), Gesù è apparso nel mondo ad una data determinata, «mentre Quirino era governatore di Siria» (Lc 2, 2), in una famiglia umana, quella di Giuseppe, della casa di David» (1, 27), residente «in una città di Galilea, chiamata Nazaret» (1, 26). il nome che, come ogni bambino giudeo, egli riceve alla circoncisione (Lc 1, 31; 2, 21; Mt 1, 21. 25) non è eccezionale in Israele (cfr. Eccli 51, 30). Ma Dio, che in questo bambino si è fatto Emmanuel, «Dio Con noi» (Mt 1, 23), realizza in lui la promessa fatta al primo Gesù, *Giosuè, di essere con lui e di rivelarsi *Jahvè salvatore» (Deut 31, 7 s). Tuttavia la sua origine appare così comune che, per designarlo, non si aggiunge normalmente al suo nome, come nel caso di una famiglia nota, il nome del *padre e degli antenati (cfr. Eccli 51, 30), ma semplicemente quello di Nazaret, sua patria. Più tardi le genealogie di Mt e di Lc sottolineeranno l’ascendenza regale di Gesù, le prime proclamazioni della fede insistono piuttosto sul modo corrente di designarlo e sul ricordo lasciato dal passaggio di «Gesù Nazareno» (Gv 19, 19;. Atti 2, 22; 4, 10; 6, 14; 22, 8).
    III. GESÙ NEI VANGELI
    Gesù è il nome ordinariamente usato dai vangeli per designare il Cristo e riferire la sua attività. Pare tuttavia che lo si sia chiamato generalmente «rabbi», maestro (Mc 4, 38; 5, 35; 10, 17), e, dopo la sua morte ed il suo ingresso nella gloria, si evoca «il *Signore». Ma i vangeli, a parte talune determinate eccezioni (cfr. Mt 21, 3 e soprattutto i passi puramente «lucani»: Lc 7, 13; 10, 1; ecc.), parlano sempre semplicemente di Gesù. Non si tratta affatto di uno sforzo artificioso per rendere un linguaggio anteriore alla fede, del tempo in cui Gesù non aveva ancora finito di rivelarsi ed in cui la maggioranza non vedeva in lui che un uomo. Senza il minimo artificio i vangeli seguono il movimento stesso della *fede, che consiste sempre nell’applicare a «quel Gesù», al personaggio concreto, i titoli salvifici e divini, quelli di *Signore (Atti 1, 21; 2, 36; 9, 17; ecc.), di Cristo (2, 36; 9, 22; 18, 28; ecc.), di salvatore (5, 31; 13, 23), di *Figlio di Dio (9, 20; 13, 33), di *servo di Dio (4, 27. 30). Parlando sempre di Gesù, i vangeli sono esattamente nella linea di ciò che vogliono essere: il *vangelo, l’annunzio della buona novella di Gesù (8, 35), di Cristo Gesù (5, 42; 8, 12), del Signore Gesù (11, 20; cfr. 15, 35). Il vangelo di Giovanni, che è il più attento nel sottolineare costantemente la qualità divina di Cristo, nel far vedere in ciascuno dei suoi atti la *gloria del Figlio unico (Gv 1, 14), la sovranità rimessa al figlio dell’uomo (1, 51; 3, 14), non perde occasione di pronunziare il nome di Gesù, ripetendolo anche quando sembra superfluo, nei dialoghi più semplici (Gv 4, 6. 21; 11, 32-41). Attraverso la volontà di «*confessare Gesù Cristo venuto nella *carne» (1 Gv 4, 2), questa attenzione rivela la certezza, ogni volta che questo nome ritorna, di toccare e di rivelare la *ricchezza del «Verbo di vita» (1, 1).
    IV. IL NOME AL DI SOPRA DI OGNI NOME
    Se la fede cristiana non può staccarsi da Gesù e da tutto ciò che questo nome implica di abbassamento e di umanità concreta, si è perché questo nome è diventato quello del Signore e non si può più ormai separarlo dal «nome al di sopra di ogni nome», di modo che «dinanzi al nome di Gesù ogni *ginocchio piega, in cielo, sulla terra e negli inferi» (Fil 2, 9 ss). Diventando il Signore, Gesù non perde il proprio nome, così come non perde la propria umanità, ma il suo nome è come trasfigurato, circondato e impregnato dalla grandezza e dalla potenza del nome ineffabile. L’unica salvezza dell’umanità (Atti 4, 12), l’unica *ricchezza della Chiesa (3, 6), l’unica *potenza di cui essa dispone, è Gesù: «*Gesù Cristo ti guarisce» (9, 34). Tutta la missione della Chiesa consiste nel «parlare nel nome di Gesù» (5, 40). Così Paolo, nelle sinagoghe di Damasco, l’indomani della sua conversione, «predica Gesù (9, 20); sull’agorà di Atene, «egli annunzia Gesù e la risurrezione» (17, 18), ed a Corinto, «Gesù Cristo e Gesù Cristo crocifisso» (1 Cor 2, 2). Tutta l’esistenza cristiana consiste nel «consacrare la propria vita al nome del nostro Signore Gesù Cristo» (Atti 15, 26), e la *gioia suprema consiste nell’essere «stimati degni di subire oltraggi» (5, 41) e di «morire per il nome del Signore Gesù» (21, 13).
    J. GUILLET
    → adorazione II 2 - confessione NT 1 - feste NT 1 2 - Gesù Cristo - ginocchio 1 - Giosuè 2 - messia NT - nome NT 2.3 - potenza V - salvezza NT 1 2 b - Signore.

    GESÙ CRISTO (inizio)

    Abbinando queste due parole, un nome di persona - *Gesù - e un nome di funzione - Cristo -, la Chiesa primitiva (non soltanto Paolo, ma anche Mt 1, 1. 18; 16, 21; Mc 1, 1; Gv 1, 17; 17, 3; Atti passim) non si limita ad attribuire a Gesù il titolo di *messia, come fa per altri appellativi: agnello di Dio, David, figlio di Dio, figlio dell’uomo, mediatore, parola di Dio, profeta, santo, salvatore, signore, servo di Dio... Dicendo Gesù Cristo, la Chiesa associa in una intima relazione il titolo proclamato dai credenti e la persona storica vissuta sulla terra, l’interpretazione e il fatto originale. Ogni interpretazione che conglobi uno dei due termini nell’altro sminuisce indebitamente il vangelo. La critica deve scomporre in due tempi il movimento che porta alla conoscenza di Gesù; spetta alla contemplazione orante ricomporla per incontrare un vivente. Questo articolo, senza elencare nei particolari «tutto ciò che Gesù ha fatto», resoconto che neppure il mondo intero potrebbe contenere (Gv 21, 25), si concentra sulla figura del maestro stesso. Considerare Gesù di Nazaret con il rigore della critica letteraria, significa udire la domanda rivolta da Gesù: «E voi chi dite che io sia?» (I), interrogativo al quale gli autori del NT si sforzano di rispondere (II). E questa risposta rimanda sempre alla persona storica che ha posto la domanda.
    I. GESÙ DI NAZARET
    I *vangeli non sono delle vite di Gesù redatte secondo i principi della moderna storiografia. Scritti da dei credenti, per suscitare e rafforzare la fede, organizzano dei ricordi che sono stati certo illuminati e trasfigurati dalla fede pasquale, ma che, criticati con perspicacia, consentono di inquadrare sicuramente Gesù di Nazaret.
    1. Situazione escatologica di Gesù.
    - La buona novella annunciata da Gesù, è che il regno di Dio si inaugura con la sua stessa parola: «Beati i vostri occhi perché vedono e le vostre orecchie perché ascoltano. Perché in verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete e non l’hanno visto, e udire ciò che voi udite e non l’udirono» (Mt 13, 16 par.). Che cosa dunque hanno visto e udito? Innanzitutto degli esorcismi interpretati da Gesù stesso: «Ma se io scaccio i demoni in virtù del dito di Dio, è dunque venuto per voi il regno di Dio» (Lc 11, 20 par.); infatti il nemico è vinto: «Vedevo Satana cadere dal cielo come la folgore» (10, 18). Poi, dei *miracoli che attestano, secondo Gesù, che si è entrati in un’era nuova: «I ciechi vedono e gli zoppi camminano diritti, i lebbrosi sono purificati e i sordi sentono, i morti risuscitano». Infine hanno ascoltato la scelta definitiva di Gesù, ancora più importante: «Ai poveri è annunziata la buona novella» (Mt 11, 5 par.). Perché, parlando così, Gesù dichiara che si è realizzata la profezia di Isaia (Is 29, 17 s; 35, 5 s; 61, 1). Ai suoi occhi, infatti, l’annuncio è escatologico: porta a *compimento il disegno di Dio, ricapitolandolo. Gesù quindi si colloca in rapporto al VT. Ammira Giovanni come l’ultimo e il più grande dei profeti: «In verità vi dico: fra i nati di donna non è apparso uno più grande di Giovanni Battista», ma poiché il regno di Dio ha inaugurato una era nuova, Gesù prosegue: «e tuttavia il più piccolo del regno dei cieli è più grande di lui» (Mt 11, 11 s). La radicale novità del regno di Dio non consiste solo nel fatto della sua presenza, ma nella sua natura. «Dai giorni di Giovanni Battista fino ad ora il regno dei cieli soffre *violenza e i violenti se ne impadroniscono (strappandolo a quelli che vogliono entrarvi)» (Mt 11, 12). Gesù perciò deve ergersi contro i seguaci dell’ordine sabbatico e rituale istituito dai dottori della legge con la loro casistica e le loro sottigliezze (Mt 15, 1-20; 23, 1-33). Ma deve anche purificare l’attesa dei suoi contemporanei che confondono regno di Dio e liberazione nazionale e terrena (Mt 16, 22; 20, 21; 21, 9 par.; Lc 19, 11; 22, 38; 24, 21; Gv 6, 15; Atti 1, 6). Gesù stabilisce anche le distanze da Giovanni Battista (Mt 11, 3): come lui, esige la piena *conversione, ma, anziché annunciare l’imminente condanna da parte di un Dio vendicatore (Mt 3, 7-10), proclama un anno di grazia (Lc 4, 19). Questa è la situazione unica nella quale Gesù ritiene di trovarsi. La *gioia è promessa a coloro che scoprono il tesoro (Mt 13, 44 s). Beati quelli che vivono quell’ora!
    2. La decisione nei confronti di Gesù.
    - È inutile chiedersi quando suonerà questa ora: «Il regno di Dio non viene ostensibilmente, né si potrà dire: “Eccolo qua”, oppure, «Eccolo là; ecco, infatti, il regno di Dio è tra voi» (Lc 17, 20 s). Il regno di Dio semplicemente non è più futuro, è alla portata di tutti: basta riconoscere i tempi messianici e far convergere gli sguardi su Gesù. Chi è dunque? Questo Gesù non è un rabbino ordinario che spiega le Scritture, insegna con autorità (Mc 1, 22). A differenza dei *profeti, non enuncia semplicemente l’oracolo di Dio, proclama: «Io, però, vi dico» (Mt 5, 22. 28. 34. 39. 44), facendo precedere le sue dichiarazioni da un’attestazione solenne: «Qui c’è più che Giona... Qui c’è più che Salomone» (Mt 12, 41 s; Lc 11, 31 s). Per questo, convertirsi a Dio significa *seguire Gesù, decidersi per lui o contro di lui. «Chi non è con me è contro di me e chi non raccoglie con me disperde» (Mt 12, 30). Ascoltare Gesù significa ascoltare Dio stesso, perché equivale a «costruire la propria casa sulla roccia» (7, 24). Ma, di fronte a un Gesù, il cui comportamento sconcerta, come prendere una simile decisione?: «Beato chi non sarà *scandalizzato da me!» (11, 6 par.). Gesù deve perciò giustificare la sua pretesa. Non già dichiarando la propria identità, ma dimostrando di avere una relazione unica con il Padre. Tutto gli è possibile perché crede (Mc 9, 23), di una fede che sarà definita prototipo di ogni *fede (cfr. Ebr 12, 2). Inoltre, parla a Dio come un «papà» (Mc 14, 36), e, collegandosi alla tradizione apocalittica di Daniele (Dan 2, 23- 30) osa affermare che i misteri gli sono rivelati perché egli è «il Figlio» in relazione unica con «il Padre» (Mt 11, 25 ss par.). Non si attribuisce tuttavia la conoscenza di ogni cosa (Mc 13, 32) e subordina la propria volontà a quella del Padre (14, 36; cfr. Mt 13, 3-9 par.), come dimostra il suo comportamento nei confronti dei poveri e dei peccatori, simbolo dell’atteggiamento stesso di Dio (Lc 15).
    3. Gesù e l’avvenire.
    - Gesù è vissuto da buon giudeo. Ma domina le tradizioni giudaiche, di cui stima il valore in base alla *volontà di Dio, col quale intrattiene la relazione unica che abbiamo indicato. Viene a portare a *compimento la legge e i profeti (Mt 5, 17). L’ideale d’amore assoluto che propone sconvolge le sottigliezze della casistica e si mantiene impraticabile per colui che non *segue Gesù; non può essere ben visto né perseguito se non in una stretta dipendenza nei suoi confronti: «Venite a me... perché il mio giogo è dolce e il mio fardello leggero» (Mt 11, 28 s). Gesù realizza inoltre la tradizione profetica quando, a dispetto dei suoi contemporanei, annuncia che anche i pagani riceveranno la salvezza (Lc 13, 28 s par.). Ai fini della realizzazione di quest’opera, Gesù ha forse pensato che la Chiesa avrebbe preso il suo posto? Sarebbe ingenuo ritenere che Gesù abbia costituito la Chiesa quale la conosciamo noi; ma è falso affermare che Gesù abbia pensato che, alla sua morte, non vi sarebbe più stato posto per dei tempi intermedi prima della parusia (cfr. *giorno del Signore). Radunando intorno a sé la cerchia dei discepoli (Lc 10, 1 s par.) e in particolare quella dei Dodici (Mc 3, 12), che devono venire dietro a lui (Lc 9, 57-61 par.) per estendere la sua azione e la sua presenza - fatto storico riconosciuto anche se è difficile datarlo con precisione -, Gesù senza dubbio non ha voluto inaugurare una *Chiesa concepita sugli schemi della comunità separatista di Qumrân, ma prefigurare il *popolo di Dio definitivo (Mt 19, 28 par.). D’altra parte, contrariamente a Giovanni Battista, ha sicuramente pensato che l’instaurazione del regno di Dio sarebbe avvenuta per gradi (Mc 4, 29; Mt 13, 24-30), che Simone avrebbe dovuto consolidare i compagni nella fede (Lc 22, 32) e che i suoi discepoli, dopo la sua morte, sarebbero stati destinati a soffrire (Mt 9, 15 par.; Mc 8, 34 par.; Lc 6, 22 par.). Per questo la parola ekklesìa, equivalente del termine aramaico sôd o ‘edah, utilizzato a Qumrân per designare la comunità escatologica degli eletti di Dio, poté effettivamente ricorrere sulle labbra di Gesù, anche se si trova nei vangeli solo due volte (Mt 16,18; 18, 17). Negare a Gesù la prospettiva di un tempo dopo la morte significherebbe semplificare i dati neotestamentari; il che non esclude assolutamente la convinzione personale che, con la sua morte, sarebbe sopravvenuta la fine (cfr. Mc 9, 1). Per apprezzare il senso di quest’ultima affermazione, bisogna pesare altre parole di Gesù. Gesù ha previsto di andare verso una morte imminente, come affermano gli annunci che non accennano alla risurrezione (Lc 13, 31 ss; cfr. 17, 25; Mc 8, 31; 9, 12). Ha visto questa morte nel disegno di Dio, come un servizio, come un riscatto sacrificale (Mc 10, 45); e, nel momenti in cui sta per andare a morte, lascia ai suoi il testamento di reciproco servizio (Lc 22, 25 ss). Queste indicazioni impediscono di fare di Gesù un uomo che avrebbe subito involontariamente una morte inflittagli da nemici più forti di lui. Molti esegeti si spingono più in là e pensano che Gesù abbia identificato la propria esistenza con quella del *servo di Dio. Effettivamente, Gesù presenta il proprio destino, quello del *figlio dell’uomo, mediante le espressioni stesse dei canti del servo in Isaia (52, 13 - 53, 12): la sua obbedienza si esprime con il «è necessario...» (Lc 17, 25), il sacrificio della sua vita è offerto per la moltitudine (Mt 20, 28 par.; 26, 28 par.; Lc 22, 16. 18. 30 b), quella che istituisce è l’*alleanza (Lc 22, 20). Se Gesù in effetti ha avvertito la propria morte, perché non avrebbe presentito la risurrezione? Le precisazioni apportate dai tre grandi annunci della passione e della risurrezione di Gesù (Mt 16, 21 par.; 17, 22 s par.; 20, 18 s par.; cfr. Lc 24, 25 s. 45) indubbiamente rivelano l’influsso della comunità primitiva; ma la fede di Gesù nella sua risurrezione entro un breve lasso di tempo si rivela chiaramente dalle sue parole. Come ogni ebreo credente, sa di dover risuscitare alla fine dei tempi (cfr. Mt 22, 23-32 par.); inoltre, come si è visto, si colloca a parte, e anche alla fine dei tempi. Convinto d’altronde della relazione unica che ha con Dio e con tutti gli uomini, come avrebbe potuto dubitare Gesù del successo finale della sua missione e di un intervento particolare del Padre in suo favore? La certezza della risurrezione non lo sottrae certo alla condizione umana: colto da *angoscia, trema nel Getsemani (Mc 14, 36) e si considera addirittura abbandonato da Dio (15, 34); ma sa di essere «il Figlio». Rimane un ultimo interrogativo. Per rivelare chi era, Gesù ha scelto un metodo sbrigativo, utilizzando formule correnti nel giudaismo, come messia, Figlio di Dio, figlio dell’uomo? Nei vangeli, questi appellativi ricorrono indifferentemente tutti sulle sue labbra. Tuttavia, a parte le designazioni «il Figlio» e «figlio dell’uomo», che non possono essergli categoricamente negate, le critiche ritengono che la Chiesa nascente abbia se non deformato, almeno reso esplicito il pensiero di Gesù facendogli dire di essere «il Figlio di Dio» o «il messia». Gesù non ha preso l’iniziativa di proclamarsi messia, appellativo cui solo la morte in croce avrebbe tolto il suo carattere di ambiguità; ma mette i contemporanei sulla via del riconoscimento, quando proibisce ai discepoli di svelare la sua vera identità (Mc 8, 27-30 par.), quando si lascia acclamare figlio di David, al momento del suo ingresso in Gerusalemme (Mt 21, 1-9 par.), o quando, al sommo sacerdote che lo sta interrogando: «Sei tu il figlio del Benedetto?» risponde in modo involuto, secondo l’antica formula tipica di Matteo: «Tu lo dici» (Mt 26, 64). Nel suo comportamento rivelatore, Gesù non annette importanza a questi «titoli», che senza dubbio avrebbero falsato il rapporto autentico che intendeva stabilire con gli uomini. Presentandosi come l’uomo che ha una relazione unica con Dio e unica con tutti gli uomini, Gesù ha rivolto la domanda definitiva: «E voi, chi dite che io sia?» (Mt 16, 15 par.).
    II. GESÙ, SIGNORE, CRISTO E FIGLIO DI DIO
    A questa domanda, i discepoli non erano in grado di rispondere correttamente, prima che Gesù, morto in croce, si manifestasse loro, vivo, con delle *apparizioni. Rispondendo con la loro *fede all’iniziativa di Gesù, i discepoli scoprono il senso della vita e il mistero della persona di Gesù di Nazaret. Per esprimere questo senso, applicano a Gesù degli appellativi desunti dal linguaggio tradizionale, caricandoli di un nuovo significato. Le formulazioni sono varie ed esitanti, a seconda dei doni di ciascuno e degli ambienti di vita. Questa cristologia ha senza dubbio una storia, ma non siamo in grado di rintracciarla con sicurezza, dato che le fonti presentano mescolati i sottofondi palestinesi e le interpretazioni ellenistiche. Ci è tuttavia possibile individuare i primi presentimenti del mistero di Gesù, e quindi le prospettive tipiche degli evangelisti.
    1. Primi passi verso il mistero.
    - Nella formulazione dell’esperienza pasquale, si possono collegare quattro prospettive che potrebbero riflettere una certa evoluzione storica. Sotto il segno della parusia, si afferma l’esaltazione celeste di Gesù Cristo. La *croce redentrice concentra la ricerca sul servo. Infine, l’attenzione si rivolge all’uomo Gesù, in primo luogo nel mistero della sua persona, poi nella sua relazione con l’universo. Questo articolo utilizzerà soprattutto le confessioni di fede e gli inni, materiali anteriori alla teologia paolina e alle presentazioni evangeliche; tuttavia i prolungamenti teologici neotestamentari saranno indicati come riferimento (cfr.).
    a) Gesù, elevato al cielo, Signore e Cristo. - Essendo stati in contatto con Gesù da vivo, i discepoli proclamano: «Dio (l’) ha risuscitato di tra i morti» (1 Tess 1, 10; Rom 10, 9; cfr. 8, 11; Gal 1, 1; 1 Piet 1, 21; Atti 4, 10). Questa affermazione non è ottenuta a partire da una riflessione su un qualche testo scritturale (cfr. 1 Cor 15, 4), ma esprime con immediatezza, con l’aiuto del linguaggio teologico giudaico della *risurrezione, che l’esperienza pasquale presuppone l’esaltazione e 1’intronizzazione di Gesù, come manifestano l’esperienza di Stefano (Atti 7, 56) e quella di Paolo (7, 3; 22, 6; 26, 13). A questo dato primitivo della fede cristiana, corrisponde l’antichissima acclamazione aramaica «Marana tha» (1 Cor 16, 22; Apoc 22, 20; cfr. in eco 1 Cor 11, 26), cioè secondo l’interpretazione più probabile: «Vieni, o Signore nostro!». Essa precisa che quel Gesù esaltato e assiso in trono nel cielo è il «giudice» escatologico; inoltre, chiarisce il vero senso della venuta di Gesù glorificato (Atti 1, 11), venuta che non è un semplice «ritorno» alla fine dei tempi, ma una continua manifestazione lungo il corso della storia degli uomini: Gesù è il Signore della storia (cfr. Mt 28, 20). Un’altra antica espressione, elaborata senza dubbio dalle Chiese ellenistiche, è la *confessione di fede: «Gesù [è] Signore» (1 Cor 12, 3; Rom 10, 9; Fil 2, 11), anche essa «proclamata» in ambiente liturgico. Non si tratta di un’arida formula di fede, ma di un atto di riconoscimento e di sottomissione al Signore che è diventato Gesù. Così annunciato, l’evento vedrà precisata la sua natura grazie alle Scritture. Le profezie messianiche (2 Sam 7, 14; Sal 2, 7; 110, 1) aiutano in tal modo a comprendere che Gesù è stato «fatto Signore e Cristo» (Atti 2, 36), che «è stato costituito Figlio di Dio» (Rom 1, 4; Atti 13, 33); sta alla destra di Dio (Atti 7, 56; forse 2, 33 ss; 5, 31; Mc 14, 62 par.; Rom 8, 34...), condivide infine l’onnipotenza divina (cfr. Mt 28, 18). Nella prospettiva dell’esaltazione, i titoli *messia, *Figlio di Dio, e *Signore hanno in origine un significato analogo: non si riferiscono immediatamente alla morte o alla vita terrena di Gesù; affermano semplicemente che Gesù di Nazaret realizza le speranze di Israele e diventa il Signore di tutti i tempi. Gli sviluppi teologici degli autori del NT si innestano appunto qui. Così Paolo non si limita a far sua la trasposizione su Gesù dell’appellativo Kýrios, che designa Dio nella LXX (Rom 10, 2 s [Fil 2, 11]; 1 Cor 2, 8; cfr. 15, 25; Ef 1, 20); contrappone Gesù ai «*signori» di pagani (1 Cor 8, 5 s; 10, 21); di qui deriverebbe l’appellativo «Nostro Signore Gesù Cristo». Così gli evangelisti fanno chiamare Gesù non più semplicemente «rabbi», ma «Signore» (cfr. Mt 8, 25 par.; Lc 7, 19 par.).
    b) La morte salutare di Gesù. - Di fronte allo scandalo della morte ignominiosa di Gesù, la fede pasquale ricerca nelle sacre Scritture il senso che essa può avere. Gesù, durante la vita terrena, aveva, sia pur velatamente, interpretato il proprio destino basandosi sulla profezia del servo sofferente ed esaltato. La Chiesa primitiva attribuisce al Signore il titolo di *servo (Atti 3, 26; 4, 25-30) ed esprime il senso degli avvenimenti passati con le parole di Isaia (52, 13 - 53, 12). Gesù è stato esaltato (Atti 2, 33; 5, 31), «glorificato» (3, 13); la passione viene evocata in questo modo, in un testo anteriore all’epistola di Pietro (1 Piet 2, 21-25) e nella catechesi di Filippo (Atti 8, 30-35). Infine, una delle più antiche formule di fede dichiara che «Gesù è morto per i nostri peccati secondo le Scritture» (1 Cor 15, 3). La preposizione hypèr, qui come altrove (Gal 1, 4; 2 Cor 5, 14 s. 21; 1 Cor 11, 24) serve ad esprimere il valore salutare della morte di Gesù. Subentrano poi altri appellativi, di significato analogo a quello assunto dal titolo di servo, che esprimono la stessa realtà. Gesù è «il giusto» (Atti 3, 14), colui che conduce alla vita (3, 15; cfr. 5, 31), l’agnello di Dio senza macchia (1 Piet 1, 19 s; cfr. Gv 29, 36). È il sommo sacerdote immacolato, mediatore della nuova alleanza (Ebr 2, 14-18; 4, 14). A partire di qui, sotto l’influsso congiunto delle religioni ellenistiche, nelle ultime lettere paoline si legge l’appellativo di «salvatore» (Tito 1, 4; 2, 13; 3, 6; 2 Tim 1, 10). Sempre a partire di qui, si sviluppa la mistica paolina del battezzato associato alla morte e alla risurrezione di Cristo (Gal 2, 19; Rom 6, 3-11), di cui viene approfondita la dottrina della propiziazione, e così via (Rom 3, 23 s...).
    c) L’uomo Gesù. - Prestando sempre maggior attenzione alle origini di colui che sa essere vivo oggi dopo la morte, la Chiesa apostolica non ha tardato a prendere in esame l’esistenza terrena di Gesù. La tradizione evangelica, quindi, prende forma come risposta alla duplice esigenza di far conoscere la vita di colui che si crede risorto (Atti 10, 37 s) e di portarla ad esempio per il comportamento dei fedeli. A poco a poco, vanno così precisandosi e raggruppandosi i ricordi, tutti polarizzati dalla fede nel Signore Gesù. In questa luce che l’aureola e la trasfigura, appare la figura dell’uomo Gesù. Paolo non si interessa tanto alla sua esistenza terrena quanto al suo insegnamento e alla sua morte redentrice. La lettera agli Ebrei, dal canto suo, mette in evidenza il significato delle *sofferenze di Cristo. Gesù ha accettato volontariamente la morte (Ebr 10, 7), «fu reso perfetto delle sofferenze» (2, 10): sopportò la croce anziché la gioia (12, 2) e da questo patire imparò l’obbedienza (5, 7 s): è il «pioniere e il realizzatore della fede» (12, 2). Il movimento di risalita continua fino alle origini stesse di Gesù, aiutato probabilmente dal ricorso a profezie come quella di Natan (2 Sam 7, 12 ss) o il Sal 16, 10 s. L’esistenza di Gesù comporta due modi d’essere: uno terreno nella carne, l’altro celeste in virtù dello Spirito (Rom 1, 3 s; 1 Píet 3, 18; 1 Tim 3, 16a). Trasformato interiormente dallo Spirito, Gesù ha ricevuto un’*unzione, innanzitutto concepita come regale in occasione della sua intronizzazione (Ebr 1, 9), poi *profetica al momento del battesimo, in vista del ministero (Atti 10, 38; cfr. 4, 27; Lc 4, 18). La risurrezione, interpretata come una realizzazione della promessa fatta a David (Atti 2, 34 s; 2 Tim 2, 8), induce a vedere in Gesù il figlio di David (Rom 1, 3 s; 2 Tim 2, 8; Atti 13, 22 s; 15, 16 e forse Mc 12, 35 ss). Con un processo analogo, si elaborano le genealogie di Cristo (Mt 1, 1-17; Lc 3, 23-37). Lo stesso intendimento (cristologia più esplicita, compimento delle Scritture) hanno i prologhi dei vangeli, che rappresentano le tradizioni sull’infanzia di Gesù (Mt 1-2; Lc 1-2); la storia aneddotica che raccontano rivela una profonda teologia, il cui proposito fondamentale è rispondere alla seguente domanda: quale fu l’origine di colui che adoriamo come il Signore?
    d) Il primogenito avanti ogni creatura. - Risalire ancora più indietro significa scoprire la preesistenza di Gesù, secondo un procedimento che dovette ispirarsi non già al mito gnostico del Dio-salvatore, ma alle tradizioni apocalittiche giudaiche, preoccupate di mettere in evidenza l’unità della creazione e della fine dei tempi. Perciò, nel libro di Enoch si afferma la preesistenza del *figlio dell’uomo (Enoch 39, 6 s; 40, 5; 48, 2 s; 49, 2; 62, 6 s); altrove, certi ambienti giudaici vedevano all’origine della creazione la *sapienza (Giob 28, 20-28; Bar 3, 32-38; Prov 8, 22-31; Eccli 24, 3-22; Sap 7, 25 s). Con l’antichissimo inno soggiacente a Fil 2, 6-11, vengono descritti i tre stati successivi di Gesù, che era a «forma di Dio», prima di annientarsi nella vita terrena ed essere quindi esaltato in cielo. Questo testo non afferma che una certa natura umana viene «assunta» da una persona divina; si sforza di dimostrare che la presenza di Gesù si estende a tutta la durata del tempo. Gesù è «colui per mezzo del quale tutto esiste e grazie al quale noi (andiamo a Dio)» (1 Cor 8, 6), è la roccia che accompagnava il popolo nel deserto (10, 4). Infine, forse prima che si elaborasse la teologia di Paolo, Gesù è definito «*immagine del Dio invisibile, primogenito avanti ogni creatura» (Col 1, 15), colui «in cui abita la *pienezza della divinità» (2, 9). Dopo aver affermato la perfetta *giustizia e *santità di Gesù (Atti 3, 14). il NT si avvia verso la proclamazione della sua divinità. Egli è il «Figlio di Dio», in un senso che rende esplicite le allusioni fatte da Gesù di Nazaret e che oltrepassa il significato messianico, perché si basa sulla preesistenza del Figlio che Dio ha rivelato a Paolo (Gal 1, 12) e di cui questi proclama il vangelo (Rom 1, 9). Gesù è «il Figlio di Dio»: questa è la fede del cristiano (1 Gv 4, 15; 5, 5), proclamata incessantemente nei vangeli (Mc 1, 11; 9, 7; 14, 61; Lc 1, 35; 22, 70; Mt 2, 15; 14, 33; 16, 16; 27, 40- 43), come eco della parola di Gesù sul «Figlio» (Mt 11, 27 par.; 21, 37 ss par.; 24, 36 par.). Il movimento della rivelazione porta a proclamare (forse già in Rom 9, 5, secondo ogni probabilità in Ebr 1, 8; Tito 2, 13 e certamente in Gv 1, 1. 18; 20, 28) che Gesù è *Dio con Dio. Come corollario della preesistenza, si svela a sua volta la dimensione ecclesiale e cosmica di Gesù. Egli è il capo (*testa) della Chiesa che è il suo *corpo (Col 1, 18); 1a sua signoria si estende sul mondo intero, del quale ha percorso i tre spazi: terra, inferi, cieli (Fil 2, 10). Non è forse il «Signore della gloria» (1 Cor 2, 8), perché «primogenito di tra i morti» (Col 1, 18)? A questa prospettiva si ricollegano vari titoli. Gesù è il nuovo *Adamo (1 Cor 15, 15. 45; Rom 5, 12-21) colui in cui Dio riunisce (anakephalaiòo) ogni cosa (Ef 1, 10), colui che ha fondato la *pace facendo un solo *uomo (2, 13-16); è il mediatore della nuova alleanza (1 Tim 2, 5; Ebr 9, 15; 12, 24)…
    2. Presentazione evangelica del mistero.
    - I primi sintomi che si cominciava a presentire il mistero di Gesù sono stati da noi raggruppati in modo artificioso; in effetti, solo i vangeli sono autentiche cristologie. Prima della redazione scritta dei quattro vangeli, la tradizione evangelica ha lavorato all’interpretazione del mistero di Gesù; lo si riconosce dalla punta cristologica di ogni pericope evangelica nonché dalle diverse sistemazioni presinottiche. L’interesse rivolto alla vita terrena di Gesù è quindi significativo per se stesso, indipendentemente da ogni biografia di Gesù. Per essere più precisi, rivela una duplice preoccupazione. Prima di tutto, contro ogni tentativo di evaporazione gnostica in qualche mito, intende mantenere la rivelazione di Gesù radicata nella storia; poi, contro ogni tentativo archeologizzante, che si limiti a risuscitare il passato, si esprime muovendo da una convinzione: colui che è vissuto è ancora vivo e parla ai cristiani dell’epoca attuale. I vangeli sono tutti delle «attualizzazioni» dell’evento Gesù di Nazaret. Se esiste nel NT una cristologia, è proprio il *vangelo che precede i vangeli. Questa cristologia non è elaborata in forma sistematica, né in un’occasione epistolare, ma con l’unico intento di presentare e rendere attuale il mistero di Gesù divenuto Signore. Quanto ai vangeli, essi offrono vari aspetti di questa presentazione, rinviando sempre all’unico vangelo proclamato nello Spirito Santo. Concluderemo questa panoramica con alcune brevi note in proposito.
    a) S. Marco invita il lettore a riconoscere in Gesù di Nazaret il Figlio di Dio, colui che ci ha salvati trionfando di Satana. Insiste sull’evento puntuale dell’incontro personale con Dio in Gesù, quando sopravverrà la fine dei tempi. Da notare la riservatezza di Marco in rapporto a Mt o a Lc nell’utilizzazione dell’espressione «Figlio di Dio». Ad eccezione della confessione proferita dai demoni in un racconto (Mc 5, 7) e in un sommario di esorcismi (3, 11), il titolo si riscontra solo ai tre vertici della rivelazione: per voce di Dio al battesimo (1, 11) e alla trasfigurazione (9, 7) e poi dalla bocca del centurione. Il velo del tempio si è lacerato, il tempo del giudaismo è finito; solo allora viene proclamata, in nome dei pagani, l’efficacia della morte di Gesù: «Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio» (15, 39).
    b) S. Matteo fa culminare il vangelo nel «manifesto» di Cristo risorto: «ogni potere mi è stato dato... Io sono con voi sino alla fine dei secoli» (Mi 28, 18 ss). Gesù si presenta come il figlio dell’uomo, annunciato dal profeta Daniele (Dan 7, 13 s), che ha ricevuto la sovranità universale; il vangelo deve dimostrare in che modo Gesù, dopo aver rifiutato di accettare questa sovranità da Satana (Mt 4, 8 ss), poiché il Padre gli ha tutto rimesso (11, 27), abbia trionfato dei suoi nemici: il regno di Dio è il regno di Cristo. Per dimostrarlo, Mt sottolinea l’argomentazione scritturale della Chiesa primitiva, perché Gesù viene a coronare il passato di Israele. Ha scritto il vangelo ecclesiastico per eccellenza, attualizzando per la sua epoca gli avvenimenti passati (ad es. 14, 33).
    c) S. Luca, che nel libro degli Atti degli Apostoli fa chiaramente trapelare l’interesse che porta alla Chiesa, dà consistenza al tempo di Gesù che intercorre tra quello dell’annuncio profetico e quello della Chiesa (cfr. Lc 16, 16; 22, 35-38; Atti 10, 38). La vita di Gesù acquista valore per il tempo ecclesiale; è stata il primo atto del disegno di Dio nella Chiesa, un atto che ha valore tipico. Il futuro che gli succede si basa incessantemente su di essa: evento passato che rimane perennemente presente. D’altra parte, il ritratto di Cristo è più quello del salvatore misericordioso (Lc 3, 6; 9, 38. 42; Atti 10, 38), che si rivolge ai poveri (Lc 4, 18), ai peccatori (15), ai diseredati di questa terra. Infine, l’appellativo «Figlio di Dio» assume in lui un senso ben preciso, nettamente distinto da quello di Cristo (1, 35; 22, 70).
    d) S. Giovanni prende come punto di partenza per la sua presentazione l’affermazione tradizionale della preesistenza e mette in evidenza in Gesù la *gloria del Padre, la gloria della risurrezione già presente attraverso i segni che egli opera durante il suo passaggio in terra. Il figlio dell’uomo, che è in cielo, è presente già quaggiù e ritorna al cielo (Gv 3, 13. 31; 6, 62; cfr. 13, 1; 14, 28; 16, 28; 17, 5). È la *parola di Dio manifestata nella carne mortale di Gesù (1, 14). Egli è quindi il rivelatore assoluto e definitivo, colui al quale donare la propria fede, se si vuole vivere (3, 16 s 36; 11, 25 s...), colui di cui si sentono le proclamazioni di eternità (8, 58; 10, 38) o di immanenza nel Padre (10, 38; 14, 9 s 20; 17, 21). Per essere più precisi, il libro di Giovanni rimane il vangelo per eccellenza, nella misura in cui riporta incessantemente il credente alla persona e all’attività terrena di Gesù di Nazaret, senza la quale nessuna esistenza ecclesiale può avere senso: questo vale per la vita sacramentale, battesimo (3, 22-30) ed eucaristia (6).
    CONCLUSIONE
    Prima di concludere, ricordiamo l’Apocalisse. Alla confluenza di numerose correnti e in particolare della vita liturgica, essa presenta il Cristo vivente, il Signore che guida e regge la Chiesa (Apoc 1- 3). Domina soprattutto la figura dell’agnello: questi reca le tracce della passione sofferta (5). Assicura il trionfo sui nemici della Chiesa (6, 15 ss; 17, 14) dopo di che celebrerà le proprie nozze con lei (19, 7 s; 17, 14). Signore della storia degli uomini, è il primo e l’ultimo (1, 17), il principio e la fine (22, 13), l’alfa e l’omega (1, 8; 21, 6), l’amen (3, 14), l’unto di Dio, infine il re dei re e il Signore dei Signori, al quale è reso onore e ogni gloria (19, 19; 17, 14). Le presentazioni del mistero di Gesù di Nazaret divenuto Signore e Cristo non possono essere ridotte a un unico sistema; ma manifestano un movimento unico: la volontà di rendere attuale per un dato ambiente la presenza di questo Gesù che è vissuto ed è morto per noi. L’ortodossia si misura dalla solidarietà del legame che unisce l’interpretazione cristiana al fatto di Gesù: «Ogni spirito che confessa Gesù Cristo venuto nella carne è di Dio» (1 Gv 4, 2). La fede nascente, per esprimersi e comunicarsi, si è dimostrata tributaria delle varie culture della sua epoca: del giudaismo palestinese, quindi, della diaspora o dell’ellenismo ambientale. Adattandosi così alle diverse civiltà, la Chiesa abbozza e *prefigura ogni futura interpretazione. Dopo il NT, l’ermeneutica prosegue il suo movimento; arriva, per esempio, a parlare di «coscienza» di Gesù, di «natura» e di persona, senza pretendere di fissare l’interpretazione per sempre; ancor oggi, deve essere praticata nelle diverse culture nelle quali si esprime la fede in Gesù Cristo.
    X. LÉON-DUFOUR
    → Abramo II 4 - Adamo II - agnello di Dio - alleanza NT - amore I NT 2 - apparizioni di Cristo - ascensione - benedizione IV - Chiesa III - compiere NT I - corpo di Cristo - creazione NT I 2, II - croce - deserto NT I - disegno di Dio NT I 1 - Dio NT - educazione II - elezione NT I - Elia NT 2 - esempio NT - figlio dell’uomo NT - figlio di Dio NT I - Gesù (nome di) - giorno del Signore NT - guerra NT I - immagine IV - insegnare NT I - legge C I - luce e tenebre NT I - mistero NT II 2 - obbedienza III - opere NT I - pace III - padri e Padre IV, V - parola di Dio NT I 1, III 1 - pastore e gregge NT 1 - pienezza - predestinare - preghiera IV - presenza di Dio NT I - re NT - redenzione NT - risurrezione NT I - rivelazione NT I 1, II 1, III 1 - sacerdozio NT I - sacrificio NT - salvezza NT I 1 - santo NT I - sapienza NT I - servo di Dio III - Signore NT - sofferenza NT I, II - Spirito di Dio NT I – sposo-sposa NT 1 - tempio NT I - testa - testimonianza NT II - vedere NT I - verità NT 3 a - via III - vita IV - volontà di Dio NT I 2. GIACOBBE →Abramo Il 1 - casa II 1 - elezione VT I 3 b - fratello VT 2 - imposizione delle mani VT - Israele 0 - menzogna I 1 - nemico I 1 - nome VT 1 - padri e Padre I 2, II - popolo A II 1 - potenza I 1 - ricchezza I 1 - terra VT II l.

    GINOCCHIO (inizio)

    1. Piegare il ginocchio.
    Piegare il ginocchio dinanzi ad uno significa esprimere simbolicamente che non si è sul suo stesso piano, confessare la propria inferiorità, manifestare la propria sottomissione. Così al passaggio di Aman tutti devono piegare il ginocchio e prostrarsi (Est 3, 2). Questo atto può assumere una sfumatura religiosa, ad es. davanti ad Elia, uomo di Dio (2 Re 1, 13). I primi cristiani hanno dovuto riconoscere un vero atto di adorazione (Mt 8, 2) nell’atteggiamento del lebbroso che «piega il ginocchio» (Mc l, 40) o «si getta faccia a terra» (Lc 5, 12), ed una parodia sacrilega negli scherni dei soldati (Mt 27, 29 par.). Questo atto significa esplicitamente un’*adorazione agli occhi di «coloro che non hanno piegato il ginocchio dinanzi a Baal» (1 Re 19, 18 = Rom 11, 4), o quando Jahvè vuole che sia riservato a lui solo (Is 45, 23; cfr. Mt 4, 9). Infine il cristiano sa che nel *nome di Gesù ogni ginocchio deve piegarsi (Fil 2, 10), per riconoscere che Gesù è *Signore.
    2. L’inginocchiarsi nella preghiera.
    L'inginocchiarsi nella pregfhiera - forma più semplice della prostrazione completa - caratterizza un atteggiamento d’animo diverso da quello che si ha nella posizione a sedere od in piedi. La *preghiera che si fa allora non ha nulla del discorso, della esortazione o della benedizione: è un’implorazione talvolta muta, una supplica profonda. Nel VT sono riferiti quattro casi di una simile preghiera, ufficiale o privata. Al termine della dedicazione del tempio, Salomone si volta verso l’assemblea che sta in piedi, la benedice e le rivolge un breve discorso (1 Re 8, 14-21); poi si rivolge verso l’altare e durante la sua lunga preghiera (8, 22-53) rimane «inginocchiato, con le mani stese verso il cielo» (8, 54); infine si rialza, sta ritto in piedi e benedice il popolo esortandolo (8, 55-61). Elia, dopo la vittoria sui sacerdoti di Baal, ha presentito la fine della siccità con la quale era stata castigata l’apostasia di Israele. «Salì sulla cima del Carmelo, si chinò a terra e mise il volto tra i ginocchi» (1 Re 19, 42); e incominciò a cadere la pioggia. Parecchi secoli dopo, alla notizia dei matrimoni contratti dai Giudei con donne straniere, Esdra rimane «a sedere desolato fino all’offerta della sera»; allora «mi ripresi dall’abbattimento, caddi in ginocchio, stendendo le mani verso il cielo e dissi...» (Esd 9, 4 s) una preghiera alla quale si unisce il popolo in lacrime (10, 1). Infine Daniele, solo nella sua camera superiore, «tre volte al giorno si poneva in ginocchio, pregando e confessando Dio: così aveva sempre fatto» (Dan 6, 11). Gesù stesso non lo vediamo inginocchiato se non per la preghiera dell’agonia (Lc 22, 41), «prostrato al suolo» (Mc 14, 35), «la faccia a terra» (Mt 26, 39). Ma l’inginocchiarsi è segnalato volentieri da Luca nelle circostanze solenni: Stefano, al momento di perdonare ai suoi carnefici (Atti 7, 60), Pietro prima di risuscitare Tabita (9, 40), Paolo dopo il lungo discorso di addio ai presbiteri di Efeso (20, 36), e tutti i cristiani in coro sulla spiaggia al momento della separazione (21, 5). Inginocchiarsi è. una posizione normale nella preghiera per esprimere la supplica nell’adorazione (Ef 3, 14).
    X. LÉON-DUFOUR
    → adorazione - benedizione II 0 - Gesù (nome di) IV.

    GIOGO (inizio)

    → Legge C I 2, II 2, III 2 - schiavo.

    GIOIA (inizio)

    La rivelazione del Dio creatore e salvatore provoca nell’uomo una gioia traboccante. Come contemplare la *creazione senza proclamare: «Quanto a me, ho la mia gioia in Jahvè» (Sal 104, 34) e senza desiderare «che Dio si rallegri nelle sue *opere» (104, 31)? Al cospetto di Dio che agisce nella storia, la gioia pervade colui che non è insensato (92, 5 ss), e diventa comunicativa: «Venite, leviamo grida di gioia per Jahvè... roccia della nostra salvezza» (95, 1); «Si allietino i cieli ed esulti la terra!... al cospetto di Jahvè, perché viene» (96, 11 ss). E se viene, è per invitare i suoi servi fedeli ad entrare nella sua stessa gioia e per aprirne loro l’accesso (Mt 25, 21).
    VECCHIO TESTAMENTO
    I. LE GIOIE DELLA VITA
    Delle gioie della vita umana Dio fa un elemento delle sue *promesse (Deut 28, 3-8; Ger 33, 11), e castiga l’infedeltà con la loro privazione (Deut 28, 30-33. 47 s; Ger 7, 34; 25, 10 s). L’umile gioia che l’uomo assapora con la donna amata (Eccle 9, 9), nel frutto del suo lavoro (3, 22), nutrendosi e sollazzandosi un poco (2, 24; 3, 12 s), resiste alla critica spietata dello stesso Qohelet; il quale loda questa gioia (8, 15) che permette all’uomo di dimenticare i mali della vita; essa è la porzione che Dio gli dona (5, 17 ss). Di fatto il *vino è stato creato per procurare la gioia (Giud 9, 13; Sal 104, 15) a chi ne fa uso moderato (Eccli 31, 27); perciò anche la *vendemmia è tempo di gioia (Is 16, 10), al pari della *messe (Sal 126, 5 s). Quanto alla gioia di cui una donna con la sua grazia e la sua virtù colma il marito (Prov 5, 18; Eccli 26, 2. 13), essa è l’immagine delle gioie più alte (Is 62, 5); per gli sposi, la fecondità è causa di letizia (1 Sam 2, 1. 5; Sal 113, 9; cfr. Gv 16, 21), soprattutto se il figlio è sapiente (Prov 10, 1). Oltre alle gioie rumorose dei grandi giorni - incoronazione del re (1 Re 1, 40), vittoria (1 Sam 18, 6) o ritorno dei prigionieri (Sal 126, 2 s) -, ce ne sono altre così intime che non si possono comunicare ad un estraneo (Prov 14, 10). Il sapiente conosce il valore di questa gioia del cuore che è pure un fattore di salute (Prov 17, 22) ed alla quale si può contribuire con una buona parola (12, 25) o con uno sguardo benevolo (15, 30). Dio condanna soltanto le gioie perverse, quelle che si ricercano facendo il male (2, 14), specialmente la gioia malvagia che la sventura del giusto procura ai suoi nemici (Sal 13, 5; 35, 26).
    II. LE GIOIE DELL’ALLEANZA
    Dio, dal quale provengono le gioie sane della vita, ne offre delle maggiori al suo popolo: quelle che esso troverà nella fedeltà all’alleanza.
    1. Gioie del culto comunitario.
    - Nel *culto, Israele trova la gioia di *lodare Dio (Sal 33, 1), che si è degnato di essere suo re (Sal 149, 2) e che lo invita a rallegrarsi alla sua *presenza (Deut 12, 18); *gusta pure la dolcezza di una riunione fraterna (Sal 133). Trova così il mezzo per resistere efficacemente alla tentazione dei culti cananei, i cui riti sensuali sono oggetto di abominio per Dio (Deut 12, 30 s; 23, 18 s). Le *feste che si celebrano in un clima di entusiasmo e di giubilo (Sal 42, 5; 68, 4 s; 100, 2) ricordano al popolo «il *giorno che il Signore ha fatto per la sua gioia e la sua letizia» (Sal 118, 24); talune di queste celebrazioni hanno segnato date memorabili nella storia, come la Pasqua di Ezechia (2 Cron 30, 21-26), quella del ritorno dall’esilio (Esd 6, 22) e soprattutto la festa dei Tabernacoli in cui Esdra, dopo aver fatto leggere la legge, invitò il popolo a un gioioso banchetto e proclamò: «Questo giorno è santo... Non affliggetevi: la gioia di Jahvè è la nostra forza» (Neem 8, 10). Per mantenere intatta questa gioia la legge prescrive al popolo di andare ad attingerla alla sua fonte, radunandosi a Gerusalemme nelle tre feste annuali per ottenere le *benedizioni divine (Lev 23, 40; Deut 16, 11. 14 s). A questa fonte Dio desidera che vengano ad attingere tutte le *nazioni (Is 11, 3; 55, 1; 56, 6 s).
    2. Gioie della fedeltà personale.
    - Questa gioia, offerta a tutti, è il retaggio degli *umili che costituiscono il vero popolo di Dio (Sal 149, 4 s); come Geremia, essi divorano la *parola divina che è la letizia del loro cuore (Ger 15, 16); pongono la loro gioia in Dio (Sal 33, 21; 37, 4; Gioe 2, 23) e nella sua legge (Sal 19, 9), che è il loro tesoro (119, 14. 111. 162) e che rimane la loro delizia nel colmo dell’*angoscia (119, 143); questi umili *cercatori di Dio possono quindi giubilare (34, 3; 69, 33; 70, 5; 105, 3), giustificati come sono dalla *grazia (32, 10 s) e dalla *misericordia di Dio (51, 10. 14). L’unione fiduciosa con quel Signore che è il loro unico *bene (16, 2; 73, 25. 28) fa loro intravvedere prospettive di gioia eterna (16, 9 ss), di cui la loro intimità con la sapienza divina è la pregustazione (Sap. 8, 16).
    3. Gioie escatologiche.
    - Di fatto Israele vive nella speranza. Il culto gli ricorda le grandi azioni di Dio, e, in primo luogo, l’esodo, per fargli desiderare un nuovo *esodo, nel quale si rivelerà il Dio senza uguali, salvatore universale (Is 45, 5-8. 21 s). Allora sarà la gioia messianica di cui Isaia annunziava la sovrabbondanza (9, 2); il deserto esulterà (35, 1); dinanzi all’azione di Dio i cieli esulteranno di gioia, la terra giubilerà (44, 23; 49, 13), mentre i prigionieri liberati arriveranno a Sion, urlanti di gioia (35, 9 s; 51, 11), per esservi rivestiti di salvezza e di giustizia (61, 10) e per gustarvi la gioia eterna (61, 7) che colmerà la loro speranza (25, 9). Allora i servi di Dio canteranno, con la gioia nel cuore, in una *creazione rinnovata; perché Dio creerà Gerusalemme «gioia» ed il suo popolo «letizia», per rallegrarsi in essi e procurare a tutti un giubilo senza fine (65, 14. 17 ss; 66, 10). Questa è la gioia che Gerusalemme attende dal suo Dio, il santo e l’eterno la cui misericordia la salverà (Bar 4, 22. 36 s; 5, 9). L’artefice di quest’opera di salvezza è il suo re che viene ad essa nell’umiltà; l’accolga essa nell’esultanza (Zac 9, 9).
    NUOVO TESTAMENTO
    I. LA GIOIA DEL VANGELO
    Questo re umile è Gesù Cristo che annunzia la gioia della salvezza agli umili e la dà loro mediante il suo sacrificio.
    1. La gioia della salvezza annunziata agli umili
    - La venuta del salvatore crea un clima di gioia che Luca, più degli altri evangelisti ha reso sensibile. Ancor prima che ci si rallegri della sua nascita (Lc 1, 14), quando viene Maria, *Giovanni Battista sussulta di gioia nel seno della madre (1, 41. 44); e la Vergine, che il saluto dell’angelo aveva invitato alla gioia (1, 28: gr. chàire = rallégrati), canta con gioia pari all’umiltà il Signore che è divenuto suo figlio per salvare gli umili (1, 42. 46-55). La nascita di Gesù è una grande gioia per gli angeli che l’annunziano e per il popolo che egli viene a salvare (2, 10. 13 s; cfr. Mt 1, 21); essa pone termine all’attesa dei giusti (Mi 13, 17 par.) che, come Abramo, esultavano già pensandovi (Gv 8, 56). In *Gesù Cristo il regno di Dio è già presente (Mc 1, 45 par.; Lc 17, 21); egli è lo sposo la cui voce colma di gioia il Battista (Gv 3, 29) e la cui presenza non permette ai suoi discepoli di *digiunare (Lc 5, 34 par.). Questi hanno la gioia di sapere che i loro *nomi sono scritti in cielo (10, 20), perché rientrano nel numero dei *poveri ai quali appartiene il regno (6, 20 par.), tesoro per il quale si sacrifica tutto con gioia (Mt 13, 44); e Gesù ha insegnato loro che la *persecuzione, confermando la loro certezza, doveva intensificare la loro letizia (Mt 5, 10 ss par.). I discepoli hanno ragione di rallegrarsi dei *miracoli di Gesù che attestano la sua missione (Lc 19, 37 ss); ma non devono porre la loro gioia nel potere miracoloso che Cristo comunica loro (10, 17-20); esso non è che un mezzo destinato non a procurare una vana gioia a uomini come Erode, amanti del meraviglioso (23, 8), ma a far lodare Dio dalle anime rette (13, 17) e ad attirare i peccatori, al salvatore, disponendoli ad accoglierlo con gioia ed a *convertirsi (19, 6. 9). Di questa conversione i discepoli si rallegreranno da veri fratelli (15, 32), come se ne rallegrano in cielo il Padre e gli angeli (15, 7. 10. 24), come se ne rallegra il buon *pastore, il cui amore ha salvato le pecore smarrite (15, 6; Mt 18, 13). Ma per condividere la sua gioia, bisogna amare com’egli ha amato.
    2. La gioia dello Spirito, frutto della croce.
    - Di fatto Gesù, che aveva esultato di gioia perché il Padre si rivelava per mezzo suo ai piccoli (Lc 10, 21 s), dà la propria vita per questi piccoli, suoi *amici, allo scopo di comunicare loro la gioia di cui il suo amore è la fonte (Gv 15, 9-15), mentre ai piedi della sua croce i suoi nemici ostentano la loro gioia malvagia (Lc 23, 35 ss). Attraverso la *croce Gesù va al Padre; i discepoli dovrebbero rallegrarsene, se lo amassero (Gv 14, 28) e se comprendessero lo scopo di questa partenza, che è il dono dello Spirito (16, 7). Grazie a questo dono, essi vivranno della vita di Gesù (14, 16-20) e, poiché domanderanno nel suo *nome, otterranno tutto dal Padre; allora la loro *tristezza si muterà in gioia, la loro gioia sarà perfetta e nessuno la potrà togliere loro (14, 13 s; 16, 20-24). Ma i discepoli hanno così poco compreso che la passione porta alla risurrezione, e la passione distrugge a tal punto la loro speranza (Lc 24, 21) che non osano abbandonarsi alla gioia che li invade dinanzi alle *apparizioni (24, 41). Tuttavia quando il risorto, dopo aver loro mostrato che le Scritture erano compiute ed aver loro promesso la forza dello Spirito (24, 44. 49; Atti 1, 8), sale al cielo, essi hanno una grande gioia (Lc 24, 52 s); la venuta dello Spirito la rende tanto comunicativa (Atti 2, 4. 11) quanto incrollabile: «sono lieti di essere giudicati degni di soffrire per il nome» del salvatore di cui sono i *testimoni (Atti 5, 41; cfr. 4, 12; Lc 24, 46 ss).
    II. LA GIOIA DELLA NUOVA VITA
    La parola di Gesù ha prodotto il suo frutto: coloro che credono in lui hanno in sé la pienezza della sua gioia (Gv 17, 13); la loro comunità vive in una letizia semplice (Atti 2, 46) e la predicazione della buona novella è dovunque fonte di grande gioia (8, 8); il battesimo riempie i fedeli di una gioia che viene dallo Spirito (13, 52; cfr. 8, 39; 13, 48; 16, 34) e che fa cantare gli apostoli nelle prove peggiori (16, 23 ss).
    1. Le fonti della gioia spirituale.
    - Di fatto la gioia è un *frutto dello Spirito (Gal 5, 22) ed una nota caratteristica del regno di Dio (Rom 14, 17). Non si tratta dell’entusiasmo passeggero che la *parola suscita e la tribolazione distrugge (cfr. Mc 4, 16), ma della gioia spirituale dei fedeli che, nella *prova, sono di *esempio (1 Tess l, 6 s) e che, con la loro generosità gioiosa (2 Cor 8, 2; 9, 7), con la loro *perfezione (2 Cor 13, 9), con la loro unione (Fil 2, 2), con la loro docilità (Ebr 13, 17) e la loro *fedeltà alla *verità (2 Gv 4; 3 Gv 3 s), sono presentemente e saranno nel *giorno del Signore la gioia dei loro apostoli (1 Tess 2, 19 s). La carità che rende i fedeli partecipi della verità (1 Cor 13, 6) procura loro una gioia costante che è alimentata dalla *preghiera e dal *ringraziamento incessanti (1 Tess 5, 16; Fil 3, 1; 4, 4 ss). Come rendere grazie al Padre di essere trasferiti nel regno del suo Figlio diletto, senza essere nella gioia (Col 1, 11 ss)? E la preghiera assidua è fonte di gioia perché la anima la *speranza e perché il Dio della speranza vi risponde colmando di gioia il fedele (Rom 12, 12; 15, 13). Pietro lo invita quindi a benedire Dio con esultanza; la sua *fede, che l’afflizione mette alla prova, ma che è sicura di ottenere la salvezza, gli procura una gioia ineffabile che è la pregustazione della gloria (1 Piet 1, 3-9).
    2. La testimonianza della gioia nella prova.
    - Ma questa gioia non appartiene che alla fede provata. Per essere nella letizia al momento della rivelazione della gloria di Cristo, bisogna che il suo discepolo si rallegri nella misura in cui partecipa alle sue *sofferenze (1 Piet 4, 13). Come il suo maestro, egli preferisce in terra la *croce alla gioia (Ebr 12, 2); accetta con gioia di essere spogliato dei suoi beni (Ebr 10, 34), considerando come gioia suprema l’essere messo alla prova in tutti i modi (Giac 1, 2). Per gli apostoli, come per Cristo, la *povertà e la *persecuzione portano alla gioia perfetta. Nel suo ministero apostolico, Paolo gusta questa gioia della croce, che è un elemento della sua testimonianza: «afflitti», i ministri di Dio sono «sempre lieti» (2 Cor 6, 10). L’apostolo sovrabbonda di gioia nelle sue tribolazioni (2 Cor 7, 4); con un disinteresse totale egli si rallegra purché Cristo sia annunciato (Fil 1, 17 s) e trova la sua gioia nel soffrire per i suoi fedeli e per la Chiesa (Col 1, 24). Invita persino i Filippesi a condividere la gioia che egli avrebbe nel versare il proprio sangue come suprema testimonianza di fede (Fil 2, 17 s).
    III. LA PARTECIPAZIONE ALLA GIOIA ETERNA
    Ma la prova avrà fine e Dio *vendicherà il *sangue dei suoi servi giudicando Babilonia che se n’è ubriacata; ci sarà allora letizia in cielo (Apoc 18, 20; 19, 1-4) dove si celebreranno le nozze dell’*agnello; coloro che vi prenderanno parte, renderanno gloria a Dio nella letizia (19, 7 ss). Sarà la manifestazione della gioia perfetta che è sin d’ora il retaggio dei figli di Dio; perché lo Spirito, che è stato dato loro, fa sì che essi abbiano comunione con il Padre e con il suo Figlio Gesù Cristo (1 Gv 1, 2 ss; 3, 1 s. 24).
    A. RIDOUARD e M.-F. LACAN
    → beatitudine - benedizione - bianco - consolazione - correre 2 - feste - fiducia 3 - lode - messe I, III 1 - olio 2 - pasto - persecuzione II 3 - profumo 1 - ringraziamento 0; VT 2 - riposo - riso 2 - sofferenza NT III 2 - tristezza NT 3 - ubriachezza 3 - unzione I 1 - vendemmia 1 - vino - vite-vigna.

    GIORDANO (inizio)

    → acqua IV 2 - battesimo Il, III 1.

    GIORNO (inizio)

    → astri 1.2 - giorno del Signore - luce e tenebre - notte - tempo VT I.

    GIORNO DEL SIGNORE (inizio)

    Per il credente, la storia non è un perpetuo ricominciare; conosce una progressione, segnata dalle *visite di Dio in *tempi, giorni, *ore, momenti privilegiati: il Signore è venuto, viene continuamente, verrà, per *giudicare il mondo e *salvare i fedeli. In un simile complesso, per designare l’intervento solenne di Dio nel corso della storia, «il giorno del Signore» è un’espressione privilegiata, abbreviata talvolta in «il giorno» o «quel giorno». Essa implica una duplice accezione. È anzitutto un evento storico, il giorno per eccellenza, che vede il trionfo di Dio sui suoi nemici. È pure una designazione cultuale, il giorno consacrato in modo speciale al culto di Dio. Questi due significati non sono senza correlazione. Il *culto commemora ed annunzia l’intervento di Dio nella storia; l’evento storico, emanando da Dio, emerge fuori del tempo; appartiene al presente eterno di Dio, che il culto deve attualizzare nel *tempo storico.
    VECCHIO TESTAMENTO
    I. L’ANNUNZIO DEL GIORNO DI JAHVÈ
    L’attesa di un intervento folgorante di Jahvè in favore di Israele sembra aver trovato espressione molto presto nella credenza popolare: si attendeva un «giorno di *luce» (Am 5, 18). Di fatto, attraverso le varie applicazioni che ne fanno i profeti, dal sec. VIII al sec. IV, si ritrova lo stesso schema che descrive il giorno del Signore. Jahvè lancia il suo grido di guerra (Sof l, 14; Is 13, 2): «Il giorno di Jahvè è vicino!» (Ez 30, 3; Is 13, 6; Gioe 1, 15), e raduna i suoi eserciti per il combattimento (Is 13, 3 ss). È un giorno di nubi (Ez 30, 3), di fuoco (Sof 1, 18; Mal 3, 19); i cieli sono arrotolati (Is 34, 4), la terra trema (Gioe 2, 1. 10 s), il mondo è devastato (Is 7, 23), immerso in una solitudine simile a quella di Gomorra (Sof 2, 9) e del deserto (Is 13, 9). Il panico si impadronisce degli uomini (Is 2, 10. 19): essi si nascondono (2, 21), pieni di turbamento (Ez 7, 7), spaventati (Is 13, 8); sono accecati (Sof 1, 17), le loro braccia cadono (Ez 7, 17), il loro cuore vien meno (Is 13, 7), non riescono a stare in piedi (Mal 3, 2). È lo sterminio generale (Sof 1, 18), il giudizio, la scelta (Mal 3, 20), la purificazione (3, 3); è la fine (Ez 7, 6 s). Quantunque, dopo l’esilio, questa descrizione si riferisca all’ultimo giorno, essa si applica in primo luogo agli eventi del corso della storia. Così la rovina di Gerusalemme fu «un giorno di Jahvè» (Ez 13, 5; 34, 12; Lam 1, 12; 2, 22). L’origine dello schema non si deve quindi cercare in primo luogo in qualche mito della *guerra degli dèi (anche se le immagini relative al giorno conservano tratti mitici). Non si deve neppure cercare nel culto (anche se le feste religiose erano anch’esse qualificate come «giorno di Jahvè»). Sullo sfondo si trova un’esperienza storica: gli interventi di Jahvè che combatte per il suo popolo. Come «il giorno di Madian», in cui Jahvè si era distinto dando ad Israele una meravigliosa *vittoria (Is 9, 3; cfr. Giud 7, 15-25), come il giorno di *Giosuè (Gios 10, 12 s) od il giorno di Jizreel (Os 2, 2) o molti altri «giorni» di vittoria (Is 28, 21; cfr. 2 Sam 5, 17- 25). Secondo la tradizione della *guerra santa, Jahvè entrava in combattimento lanciando il grido di guerra (Num 10, 35 s; Sal 68, 2); fermava, all’occorrenza, il sole (Gios 10, 12 ss; cfr. Es 14, 20; Gios 24, 7), chiamava al suo servizio la nube (Giud 5, 4 s), il tuono (1 Sam 7, 10) o le pietre celesti (Gios 10, 11); seminava il terrore nelle file nemiche e le annientava (Es 15, 14 ss; 23, 27 s; Gios 2, 9; 5, 1...). Muovendo dai ricordi della sua epopea nazionale Israele ha elaborato la sua concezione del giorno di Jahvè; e affermato attraverso queste immagini, la sua fede: Jahvè è il Signore che dirige la storia.
    II. L’ATTESA DELL’ULTIMO GIORNO
    Jahvè porta pure a termine la storia. L’annunzio del giorno di Jahvè per Israele si trasformerà quindi nell’annunzio di un giorno per tutto il mondo. Questo giorno non sorgerà nel corso del tempo, ma alla fine dei tempi, alla fine del mondo presente. Primitivamente l’orizzonte del giorno di Jahvè era limitato ad Israele. Lottando contro la falsa sicurezza del popolo che riteneva di dover essere incondizionatamente salvato da tutte le sue difficoltà, i profeti andavano contro la speranza popolare, con o senza l’espressione «giorno di Jahvè» (Am 5, 18 ss; Os; Is 28, 14 ss; Mi 1, 2 s; Ger 4): soltanto per un *resto quel giorno sarebbe stato la vittoria di Israele. Con il profeta Sofonia (sec. VI) l’orizzonte si allarga: il giorno colpirà le *nazioni nemiche (Sof 2, 4-15), preparerà la loro conversione e la restaurazione di Israele (3, 9-18). In seguito, dopo che Gerusalemme è passata attraverso il giorno dell’*ira di Jahvè (Lam 1, 12), si afferma il duplice tema del giorno che è *giudizio delle *nazioni e vittoria per il *resto di Israele: il giorno colpisce Babele (Is 13), Edom (Is 34); per Israele, che deve essere sempre purificato (Mal 3, 2; Zac 13, 1, 1 s), è una protezione assicurata (Zac 12, 1-4), il dono dello Spirito (Gíoe 3; Zac 12, 10), un *paradiso rinnovato (Gioe 4, 18; Zac 14, 8). Suonata l’ora delle nazioni (Ez 30, 3 s), Israele sarà vendicato dei suoi nemici (Ger 46, 10): questo è «il giorno della *vendetta di Jahvè» (Is 34, 8). Lo stesso movimento che estende alle nazioni il giorno di Jahvè lo riporta alla fine dei tempi. Già per Ezechiele il giorno segnava una «fine» (Ez 7, 6 s); con Daniele sarà la «fine del mondo» (Dan 9, 26; 11, 27; 12, 13), preceduta dal «tempo della fine» (8, 17; 11, 35. 40; 12, 4. 9). Le immagini della *guerra di Jahvè contro i nemici di Israele (cfr. Zac 14, 12-20) si arricchiscono allora delle immagini cosmiche rappresentanti la lotta originale di Jahvè, quando trionfò delle *bestie e del caos. Si rimane tuttavia in contatto con la storia: la coalizione organizzata ai quattro angoli della terra contro Gerusalemme (Zac 12, 3) sarà spezzata da Jahvè, che sarà riconosciuto giudice di tutta la terra (Sal 94, 2; 96, 13); la terra intera sarà spopolata (Is 24, 1), saranno annientati i popoli guidati da Gog (Ez 38), al pari degli dèi che li ispiravano. Il giorno di Jahvè segnerà in tal modo la *vittoria definitiva di Dio sui suoi nemici. I salmi del regno trasformano in preghiera questa speranza, facendo appello al Dio delle vendette (Sal 94) od annunziando che Dio regna (Sal 93; 96-99).
    NUOVO TESTAMENTO
    Con la venuta di Cristo, il *tempo acquista una nuova dimensione, che è riflessa dalla complessità del vocabolario usato. Si tratta sempre del giorno della *visita (1 Piet 2, 12), dell’ira (Rom 2, 5), del *giudizio (2 Piet 2, 9), di «quel giorno» (Mt 7, 22), del giorno del Signore (1 Tess 5, 2; 2 Tess 2, 2); ma anche del giorno del Signore Gesù (1 Cor 1, 8), di Cristo (Fil 1, 6. 10), del figlio dell’uomo (Lc 17, 24 ss); si trovano parimenti i termini apokalypsis (2 Tess 1, 7; 1 Piet 1, 7. 13), epifàneia (1 Tim 6, 14; Tito 2, 13), parousìa (Mt 24, 3. 27; 1 Tess 2, 19; 2 Tess 2, 1; 1 Cor 15, 23; Giac 5, 7 s; 1 Gv 2, 28). Quest’ultimo termine significa ordinariamente «presenza» (2 Cor 10, 10) o «venuta» (2 Cor 7, 6 s); era usato nel mondo greco-romano per designare le visite ufficiali degli imperatori; il suo uso nel NT può anche derivare dalla tradizione apocalittica del VT sulla «venuta del Signore» (ad es. Zac 9, 9). Come dimostra il vocabolario del NT, il giorno del Signore è ormai il giorno di Cristo; certi testi (2 Tim 1, 10) anticipano 1’«epifania» del Signore all’incarnazione; altri manifestano un movimento di spiritualizzazione, pur conservando l’apparato apocalittico del VT.
    I. LA VENUTA DEL SIGNORE
    La venuta del Signore è pienamente realizzata con la comparsa sulla terra di Gesù di Nazaret divenuto Signore? Tra l’escatologia tradizionale e la sua attualizzazione permane una certa tensione. È il giudice della fine dei tempi, quello che «viene», proclama il Battista (Mt 3, 11); lo Spirito «viene» su Gesù al battesimo (3, 16). E tuttavia, Giovanni si chiede se Gesù sia «colui che deve venire» (11, 3). «Il regno dei cieli è qui», annuncia Gesù con una formula simile a quella che nel VT annunciava il giorno del Signore; «è giunto» (12, 28). La pentecoste realizza la profezia di Gioele: il giorno del Signore inaugura «gli ultimi giorni» (Atti 2, 17); allo stesso modo l’ingresso dei Gentili nella Chiesa adempie la profezia di Amos (Atti 15, 16 ss). Tuttavia, né la Pasqua, né la Pentecoste vengono chiamate, fuori del culto, «giorno del Signore». L’espressione, realizzata in certo qual modo nei «giorni» del Signore Gesù, continua ad esprimere la speranza dei cristiani che ne attendono il ritorno.
    1. Il giorno del figlio dell’uomo.
    - Perché, colui che aspettano per la fine dei tempi è Gesù glorificato sotto i tratti danielici del *figlio dell’uomo, come ha annunciato egli stesso (Lc 17, 24 ss). In questi logia, Gesù riprende le descrizioni classiche del VT, con l’apparato delle teofanie grandiose e i *segni della fine dei tempi, specialmente nel1’«apocalisse sinottica» (Mt 24 par.). Vi si riconoscono gli elementi guerreschi (24, 6 ss), cosmici (24, 29), il trasalire degli idolatri (24, 15), la scelta del giudizio (24, 37-43), il carattere subitaneo, imprevedibile del giorno che viene (24, 44). Di nuovo, nei confronti del VT, c’è la venuta del figlio dell’uomo nella sua gloria (24, 30 s). Immagini simili sono usate negli altri testi apocalittici del NT. Così Paolo evoca la tromba e l’arcangelo della fine (1 Tess 4, 16 s; 1 Cor 15, 52); ricorda che il giorno verrà come un ladro, causando dolori terribili (1 Tess 5, 3), e segnerà la vittoria definitiva sui nemici (1 Cor 15, 24-28); ma aggiunge pure che allora avverrà la risurrezione dei morti e l’incontro con Cristo che discende dal cielo (1 Tess 4, 16 s). Così pure l’Apocalisse conserva l’apparato guerresco (ira, eserciti, grida di vittoria), giudiziario (assise) (Apoc 20, 21 ss), e cosmico (21, 1). In sostanza, nel giorno del Signore scoppierà il trionfo di Dio (VT) per mezzo di suo Figlio Gesù (NT). In vista della salvezza (1 Piet 1, 4 s) ogni cosa verrà ristabilita (Atti 1, 6; 3, 20) e i nostri corpi saranno trasfigurati nel suo corpo di gloria (Fil 3, 20 s).
    2. Luce sull’esistenza quotidiana.
    - Questo fatto futuro ha una portata già in terra e determina il comportamento del fedele. La parusia permette di stimare gli uomini nel loro giusto valore (1 Cor 3, 13), di giudicare il significato delle opere umane (4, 3 ss), di valutare il peso e la solidità di questo mondo, la cui «figura passa» (7, 31). La prospettiva della parusia chiarisce molti giudizi di Paolo (cfr. 6, 12 ss; 7, 26...); mantiene il cristiano nella speranza (Tito 2, 13), gli fa accogliere con gioia la *persecuzione, come anticipazione dell’ultimo giorno (1 Piet 4, 13 s), che deve essere augurato: «Venga il regno di Dio!». Perché Dio condurrà a compimento l’opera della salvezza (Fil 1, 6), rendendo saldi e irreprensibili i suoi fedeli (1 Cor 1, 8; Fil 1, 9 s; 2 Tim 1, 12. 18) che attendono con amore quest’ultima «epifania» (2 Tim 4, 8). Questa fiducia che l’Apocalisse, sulle orme di Paolo, vuole inculcare, costituisce il fondamento della *fierezza del cristiano, posto di fronte alla prospettiva di un ritorno imminente del Signore (1 Gv 2, 28; 4, 17) e già alle prese con le manifestazioni dell’*anticristo (4, 14).
    II. IMMINENZA E RITARDO DELLA PARUSIA
    Come la venuta del Signore, così anche la sua attesa è ambigua, perché, se i fedeli sono certi che «Gesù or ora salito al cielo ritornerà nello stesso apparato con cui lo avete visto andarvi» (Atti 1, 11), ignorano radicalmente la data di questa venuta (Mt 24, 42); la sua imminenza perpetua si impone alla loro coscienza di fede con una forza tale che essi sono spontaneamente portati a supporne la data vicina. La tradizione del NT conserva l’imminenza qualitativa entro un «ritardo» sempre più evidente: imminenza non vuole dire prossimità cronologica.
    1. Prossimità della parusia.
    - Sembra che alle origini della Chiesa i fedeli, pervasi dalla luce di Pasqua e di Pentecoste, abbiano pensato che Cristo sarebbe subito ritornato. La comunità di Tessalonica riflette ancora questa convinzione con eccessi istruttivi: i defunti non sarebbero partecipi della *benedizione della parusia (1 Tess 4, 13...); il lavoro non è più necessario, perché il Signore viene (2 Tess 3, 6); più ancora, la parusia avrebbe già avuto luogo. Per correggere queste illusioni Paolo non dice mai che la parusia avverrà dopo un lungo lasso di tempo; al contrario, nutre la speranza di essere allora vivente (1 Tess 4, 17). Insiste soprattutto sul dovere di *vegliare, perché «il giorno viene come un ladro in piena notte» (1 Tess 5, 2). D’altronde il carattere imminente della parusia è difficile da esprimere senza essere proiettato sul quadrante del tempo: ciò che è imminente sembra «vicino». Così gli autori del NT presentano la parusia come «più vicina» ora che non all’inizio (Rom 13, 11): il giorno si è avvicinato, il giudizio è vicino (1 Piet 4, 5 ss); ancora un poco, ed il giorno che viene arriverà (Ebr 10, 25. 37). Gesù dice: «Vengo presto» (Apoc 22, 20).
    2. Ritardo della parusia.
    - Ne consegue che, agli occhi del fedele, la parusia sembra tardare. Gesù aveva annunziato questo ritardo (Mt 25, 5. 19), esortando per questo motivo ad una *vigilanza costante (24, 42-51), che permetta di custodire immacolato il mandato (1 Tim 6, 15). Il tempo che separa dalla parusia deve essere occupato nel far fruttare i talenti (Mt 25, 14-30), nel soccorrere gli altri uomini (25, 31-46), seguendo il comandamento nuovo insegnato da Gesù in occasione della sua dipartita e dell’annunzio del suo ritorno (Gv 13, 33-36). «Finché abbiamo tempo - conclude S. Paolo - pratichiamo quindi il bene» (Gal 6, 10; cfr. Col 4, 5; Ef 5, 16). Di fatto, se la parusia tarda a venire, bisogna guardarsi dal prestare orecchio ai falsi dottori: essa avrà sicuramente luogo (2 Piet 3, 10); se attualmente nulla è mutato in apparenza (3, 4), si è perché si aspetta il *castigo del mondo mediante il *fuoco (3, 7); se essa si fa attendere, si è perché il Signore non misura il tempo come gli uomini (3, 8) e perché spera, nella sua *pazienza, la conversione di tutti gli uomini (3, 8). Il fedele deve quindi pregare affinché la parusia abbia luogo, perché essa è l’avvento del *regno nella sua pienezza: «Signor nostro, vieni!» dicevano i primi cristiani (1 Cor 16, 22; Apoc 22, 17. 20).
    III. PASQUA E PARUSIA
    La fine della storia coronata dalla venuta del Signore, per quanto sia importante, non deve abbagliare il fedele al punto di nascondere il senso del giorno di Pasqua e di Pentecoste: Cristo è già nella sua gloria, e, in certo modo, il suo giorno è presente sin d’ora. 1. «I figli del giorno» (1 Tess 5, 5). - Usando questa espressione, Paolo riflette la fede comune. Dopo che Cristo è risorto, il fedele non appartiene più semplicemente alla *notte, ma al giorno; il giorno non è più semplicemente da attendere in un futuro imminente - il che illuminerebbe già il comportamento del cristiano -, ma è spiritualmente interiorizzato nel fedele, al punto che questi diventa un «figlio della *luce» (Ef 5, 8). Altrove una simile convinzione si esprime in un linguaggio teologico: noi siamo già risorti con Cristo mediante il battesimo (Rom 6, 3 s), la salvezza è già acquisita (Ef 2, 5 s), la nostra vita è nascosta in Dio (Col 3, 3 s).
    2. Nel quarto vangelo.
    Nel quarto vangelo la tensione tra il futuro e il presente è conservata, benché la realtà attuale della salvezza prevalga sulla sua attesa nel futuro. Si ritrovano i temi classici dell’escatologia: tribolazione messianica (Gv 13, 19; 14, 1...;16, 1-4), ultimo giorno (6, 39 s. 44. 54; 11, 24; 12, 48), venuta di Gesù (21, 22 s), risurrezione per il giudizio (5, 28; 11, 24), il fuoco (15, 6), il nemico gettato fuori (12, 31). Ma «fin d’ora» (5, 25; 12, 31) tutto si compie: la voce del figlio dell’uomo prende il posto della tromba del giudizio (5, 25), il giudizio si compie e l’ira incombe sull’incredulo (3, 36), la vita eterna è data (5, 24), la gloria è manifestata (1, 14; 2, 11; 11, 40); è giunta l’*ora, che è la passione gloriosa del figlio dell’uomo (12, 27. 31; 13, 1; 17, 1). Così l’atto di fede in Gesù che si presenta rende attuale il giorno del giudizio (5, 24; 6, 47). La Chiesa infine è il luogo della presenza di Cristo, quando rimane nel comandamento dell’amore (13, 35). Senza svalutare la parusia imminente, l’evangelista Giovanni ha così spiritualizzato la tradizione, attualizzando mediante la fede il giorno del Signore.
    3. La domenica, giorno del Signore.
    - La parusia si attualizza anche nel culto. Nell’Apocalisse, Giovanni parla del «giorno del Signore», dies domenica (Apoc 1, 10), durante il quale ebbe la sua visione. Si tratta anzitutto del «primo giorno della settimana» (1 Cor 16, 2; Atti 20, 7), nel corso del quale i cristiani festeggiavano il Signore; questo giorno cadeva all’indomani del *sabato; se è stato scelto non è in vista di soppiantare il sabato, ma per commemorare un evento storico - il giorno di Pasqua secondo la precisazione che sarà data all’inizio del sec. II. Di fatto la domenica ricorda la vittoria del Signore nel grande giorno della risurrezione; d’altra parte, siccome è il giorno della celebrazione eucaristica, essa annunzia pure il ritorno del Signore, la sua parusia (1 Cor 11, 26). La tradizione completerà questa interpretazione, chiamando la domenica «l’ottavo giorno», per ricordare che in quel giorno di Pasqua, che anticipa la parusia, la creazione del primo giorno è giunta al suo pieno compimento.
    P. AUVRAY e X. LÉON DUFUOR
    → calamità 2 - compiere VT 3; NT 3 - disegno di Dio NT IV - Elia VT 5 - feste NT II - figlio dell’uomo - fuoco VT III; NT I - Gesù Cristo I 3 - giudizio - ira - luce e tenebre VT II 3 - messe III 1.2 c - notte VT 2; NT 3 - nube 3.4.5 - Pasqua III 1 - pellegrinaggio VT 2 – penitenza-conversione NT I, IV 2 - perfezione NT 6 - risurrezione NT II 1 - sabato NT 2 - salvezza VT 1 2; NT II 3 - segno NT II 4 - sofferenza NT II - tempo VT III 2; NT II 3, III - timore di Dio 1 - vegliare I - visita.

    GIOSUÈ (inizio)

    1. Capo di Israele.
    - Nella prospettiva del VT, l’opera di Giosuè rappresenta una tappa essenziale della storia sacra. Servo di Mosè (Es 17, 9; Num 11, 28), ha scalato con lui la montagna del Sinai (Es 24, 13), è vissuto in prossimità del santuario (Es 33, 11). Vi ha attinto una fedeltà profonda che si rivela in occasione della questione delle spie inviate in Canaan (Num 13); perciò Chaleb e lui saranno gli unici della generazione del deserto ad entrare nella terra promessa (Num 14.30.38). Scelto da Dio quale successore di Mosè alla guida di Israele, è investito dallo Spirito di Dio, quando Mosè gli impone le mani (Num 27, 15-23; Deut 31, 7 s. 14-23). Non appena morto quest’ultimo, può quindi mettersi a capo del popolo. Lo si vede allora, pieno di coraggio (Gios 1, 6), dar prova del proprio valore nel condurre la *guerra santa. Tuttavia, questa ha un capo celeste di cui Giosuè è solo il rappresentante (Gios 5, 13 ss) e la cui assistenza diventa palese quando le forze della natura si mettono a servizio di Israele per aiutarlo nelle operazioni belliche (6, 20; 10, 10-14). Lo scopo della conquista non è d’altronde distruggere i Cananei, ma dare al popolo di Dio la terra dei pagani in eredità (Sal 78, 54 s; 105, 44 s): questo paese degli antenati non è forse la *terra promessa? Israele tuttavia vi viene introdotto solo per mantenere l’alleanza di Dio e osservarne la legge. Giosuè, con un’intransigenza religiosa assoluta (Gios 23), ne dà personalmente l’esempio e trascina Israele sulla via della fedeltà (8, 30-35; 24).
    2. Figura del Salvatore.
    - La meditazione dei sapienti ritornerà volentieri su questo brano di storia esemplare: successore di Mosè nella sua missione profetica, Giosuè, secondo il suo nome (ebr. = «Jahvè salva») ha salvato gli eletti di Dio (Eccli 46, 1). E tuttavia questo primo «*Gesù» non era che il pallido abbozzo di un altro salvatore futuro, che a sua volta avrebbe portato lo stesso *nome (Mt 1, 21). La sua azione non era che un episodio preparatorio nella lunga storia della salvezza (Atti 7, 45); oggi, con Gesù Cristo morto, risorto e asceso al cielo, al popolo di Dio si è rivelata la vera *salvezza. La terra promessa raggiunta da Giosuè non era che una tappa, e non la meta, una figura e non il vero riposo (Ebr 4, 8). Ci viene promesso un *riposo migliore: quello del settimo giorno, partecipazione allo stesso riposo divino. Giosuè, uomo di valore, ci invita a combattere in vista di raggiungere quel riposo, dove troveremo la ricompensa alle nostre pene (Apoc 14, 13)
    P. GRELOT
    → Gesù (nome di) II - imposizione delle mani VT 2 - salvezza VT I 0 - terra VT II 2.

    GIOVANNI BATTISTA (inizio)

    Per testimonianza di Gesù, Giovanni è più che un profeta (Lc 7, 26 par.). Messaggero che precede il Signore (Lc 1, 76; Mt 11, 10 par.; cfr. Mal 3, 1), egli inaugura il vangelo (Atti 1, 22; Mc 1, 1-4); «fino a lui furono la legge ed i profeti; da allora il regno di Dio è annunziato» (Lc 16, 16 par.). Profeta senza pari (Mt 11, 11 par.), egli prepara le vie del Signore (Mt 3, 3 par.) di cui è il «.precursore» (Atti 13, 24 s) ed il testimone (Gv 1, 6 s).
    1. Il precursore ed il suo battesimo.
    – Giovanni, ancor prima di nascere da una madre fino allora sterile, è consacrato a Dio e ripieno dello Spirito Santo (Lc 1, 7. 15; cfr. Giud 13, 2-5; 1 Sam 1, 5-11). Colui che deve essere un nuovo *Elia (Lc 1, 16 s) evoca il grande profeta con le sue *vesti e la vita austera (Mt 3, 4 par.) che conduce nel deserto fin dalla giovinezza (Lc 1, 80). Fu egli formato da una comunità come quella di Qumrân? In ogni caso, giunto il tempo della sua manifestazione ad Israele, accuratamente datato da Luca (3, 1 s), egli appare come un maestro circondato da discepoli (Gv 1, 35), cui insegna a digiunare ed a pregare (Mc 2, 18; Lc 5, 33; 11, 1). La sua voce potente scuote la Giudea; egli predica una *conversione, il cui segno è un bagno rituale accompagnato dalla confessione dei peccati, ma che esige inoltre uno sforzo di rinnovamento (Mc 1, 4 s); infatti è inutile essere figli di Abramo, se non si pratica la *giustizia (Mt 3, 8 s par.) di cui egli dà le regole alla folla degli umili (Lc 3, 10-14). Ma i farisei ed i dottori della legge non credono in lui (Mt 21, 25 par. 32); taluni lo trattano da indemoniato (Mt 11, 18; Lc 7, 33); quando perciò, essi vennero a lui, egli annunciò loro che l’*ira avrebbe consumato ogni albero sterile (Mt 3, 10 par.). Del re Erode, denunzia l’adulterio e si attira così la prigione, e poi la morte (Mt 14, 3-12 par.; Lc 3, 19 s; 9, 9). Per il suo *zelo, Giovanni è appunto il nuovo Elia atteso, che deve preparare il popolo alla venuta del Messia (Mt 11, 14); ma non è riconosciuto, e il suo *martirio annuncia prefigurandola la passione del figlio dell’uomo (Mc 9, 11 ss par.; Gv 5, 33 ss).
    2. Il testimone della luce e l’amico dello sposo.
    - La *testimonianza di Giovanni consiste innanzitutto nel proclamarsi semplice precursore; di fatto la folla si chiede se egli non sia il *Messia (Lc 3,15). Ad una inchiesta ufficiale, il Battista risponde di non essere degno di sciogliere i sandali di colui che egli precede e che «era prima di lui» (Gv 1, 19-30; Lc 3, 16 s par.). Colui «che viene», e che battezzerà nello Spirito (Mc 1, 8) e nel fuoco (Mt 3, 11 s), è Gesù, sul quale lo Spirito è disceso al momento del battesimo (Gv 1, 31-34). Proclamandolo *agnello di Dio che toglie il *peccato del mondo (Gv 1, 29), Giovanni non prevedeva il modo in cui l’avrebbe tolto, come non comprendeva il motivo per cui Cristo aveva voluto essere battezzato da lui (Mt 3, 13 ss). Per togliere il peccato, Gesù avrebbe dovuto ricevere un *battesimo di cui quello di Giovanni non era che la *figura, il battesimo della sua passione (Mc 10, 38; Lc 12, 50); in tal modo avrebbe compiuto ogni giustizia (Mt 3, 15), non sterminando i peccatori, ma *giustificando la moltitudine di cui avrebbe portato i peccati (cfr. Is 53, 7 s. 11 s). Ancor prima della passione, il comportamento di Gesù stupisce Giovanni ed i suoi discepoli che attendevano un giustiziere; Cristo ricorda loro le profezie della salvezza che egli realizza e li invita a non *scandalizzarsi (Mt 11, 2-6 par.; cfr. Is 61, 1). Non soltanto certi discepoli di Giovanni ignoreranno a lungo la portata della venuta di Gesù e il battesimo nello Spirito (cfr. Atti 18, 25; 19, 2), ma una polemica, di cui il vangelo conserva le tracce (cfr. Mc 2, 18) opporrà una setta giovannita alla Chiesa nascente; questa, per dimostrare la superiorità di Cristo, non aveva che da appellarsi alla testimonianza dello stesso Giovanni (Gv 1, 15). Vero amico dello sposo e ricolmo di gioia per la sua venuta, Giovanni si era eclissato dinanzi a lui (3, 27-30) e, con le sue parole, aveva invitato i suoi stessi discepoli a seguirlo (1, 35 ss). Gesù, in cambio, aveva glorificato il suo testimone, *lampada ardente e luminosa (5, 35), il più grande profeta nato da donna (Mt 11, 11); ma aveva aggiunto che il più piccolo nel *regno dei cieli è maggiore di lui; collocava la grazia dei figli del regno al di sopra del carisma profetico, senza tuttavia deprezzare la santità di Giovanni. La gloria di questo umile amico dello sposo è proclamata nel prologo del quarto vangelo, che colloca Giovanni in rapporto al Verbo fatto carne: «Giovanni non era la *luce, ma il testimone della luce»; ed in rapporto alla Chiesa: «Egli venne per rendere testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo suo» (Gv 1, 7 s).
    M. F. LACAN
    → amico 3 - battesimo II - Elia NT 1 - Gesù Cristo I 1 - gioia NT I 1 - penitenza-conversione NT I - profeta NT II 1 - testimonianza NT II - umiltà IV - visita NT 1.

    GIOVINEZZA (inizio)

    → nuovo –vecchiaia.

    GIUBILEO (inizio)

    → settimana 1.

    GIUDA (inizio)

    → Gerusalemme VT II 1 - giudeo I 1 - Israele VT 2 - re VT I 1.3.

    GIUDAISMO (inizio)

    → autorità VT II 2 - giudeo - Israele VT 2 b - nazioni VT IV - opere VT II 3 - popolo A II 1 - tradizione VT II 2; NT I 2.

Home | A | B | C | D | E | F | G | H - I | J - K - L | M | N | O | P | Q | R | S | T | U | V | Z | Esci | Mappa generale del sito
Torna ai contenuti | Torna al menu