UBRIACHEZZA - USCIRE - DIZIONARIO DI TEOLOGIA BIBLICA

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U: UBRIACHEZZA - USCIRE

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  ................. LUIS MARTINEZ FERNANDEZ

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    UBRIACHEZZA (inizio)

    I pericoli dell’ubriachezza appaiono in molti racconti: essa abbandona l’uomo alle sue passioni od ai suoi nemici. Nei profeti è associata spesso ai culti illeciti (Am 2, 8; Os 4, 11; cfr. Apoc 17, 2), ai vizi dei Cananei senza legge (Gen 9, 23. 25; cfr. 19, 32) od allo stato abietto della società. Partendo da taluni aspetti vissuti, l’ubriachezza può assumere valore simbolico.
    1. Ubriachezza e sventura.
    – L’ubriachezza espone alla derisione; ora la Bibbia ha sempre visto nella sventura il suo aspetto di *vergogna. L'uomo ubriaco e l’uomo colpito dalla sventura perdono la *faccia, il contegno e tutto ciò che preserva dagli sguardi. Sia l’uno che l’altro diventano oggetto, spettacolo. Si poteva «far bere» uno per portarlo fino a quel punto. Ab 2, 15 s parte da questa situazione per descrivere la sventura che Jahvè prepara. Si beve allora al *calice dell’ ira (Ger 25, 27 s; 51, 7). Geremia è come ubriaco «a motivo di Jahvè ed a motivo delle sue parole sante» (Ger 23, 9) perché esse annunciano la sventura sotto questa forma estrema. Sembra che la terra vacilli (Is 24, 19 s), che ogni resistenza sia vana, che tutti i capisaldi spariscano: è già l’annuncio dell’ultimo *giorno.
    2. Ubriachezza e vigilanza.
    – Un’annotazione morale, l’ubriachezza che fa dimenticare, può essere seguita fin nelle realtà più profonde. La madre di un re arabo, Lemuel, vede nelle forti bevande il mezzo per dimenticare: se ne diano agli afflitti, ma re e principi le evitino per tema di dimenticare i loro propri decreti e di tradire il diritto (Prov 31, 4-7). Isaia va ancora più lontano: ciò che l’uomo ubriaco dimentica è il *disegno di Jahvè (Is 5, 12). L’ubriachezza è sintomo ed immagine di uno spirito di torpore e di incoerenza (Is 19, 14; 29, 10; Ger 13, 13; Gioe 1, 5). Nella stessa linea, il NT vede nell’ubriachezza l’abbandono della vigilanza che assicura al cristiano la salvezza che si realizza e si realizzerà sulla terra. Si ubriaca colui che è stanco di attender la venuta di Cristo (Mt 24, 45-51 par.). Per non essere insensibili alla venuta di Cristo, bisogna esser sobri e *vegliare, secondo il consiglio di S. Pietro (1 Piet 5, 8) ripreso nell’ufficio di Compieta, e tenere gli occhi aperti: «Coloro che dormono, dormono la notte, coloro che si ubriacano, si ubriacano la notte» (1 Tess 5, 6 ss; Rom 13, 13).
    3. Ubriachezza e Spirito.
    – L’ubriachezza preclude l’accesso al regno (1 Cor 5, 11; 6, 10; Rom 13, 13; Gal 5, 21; 1 Piet 4, 5). Tuttavia essa tenta di penetrare nella sfera del sacro: i Corinzi la mescolano alle agapi (1 Cor 11, 21). Nella folla di Gerusalemme, il giorno della *Pentecoste, taluni per scherno attribuivano all’ubriachezza gli effetti dello *Spirito (Atti 2, 13-15). Ciò che qui attira lo scherno non è più la sventura, ma la visita liberatrice dello Spirito. S. Paolo suggerisce lo stesso rapporto quando comanda di fuggire l’ubriachezza per ricercare la pienezza dello Spirito (Ef 5, 18). Nell’ubriachezza l’uomo cerca di rivelarsi qual è e di essere liberato da ciò che ostacola i suoi discorsi e tutto il suo essere. Prova in essa una *gioia che il Cantico associa a quella dell’amore (Cant 5, 1). Ma soltanto lo Spirito gli può procurare questa pienezza in verità.
    P. BEAUCHAMP
    → carismi II 0 - Noè 1 - nutrimento I - vendemmia - vino.

    ULTIMO (inizio)

    → Adamo II 2 - compiere - Dio VT I 1; NT IV - giorno del Signore VT II; NT - nuovo - tempo VT III; NT III.

    UMILIAZIONE (inizio)

    → umiltà - vergogna I 1.

    UMILTÀ (inizio)

    I. L'UMILTÀ ED I SUOI GRADI
    L’umiltà biblica è anzitutto la modestia che si oppone alla vanità. Il modesto, alieno da pretese irrazionali, non si fida del proprio giudizio (Prov 3, 7; Rom 12, 3. 16; cfr. Sal 131, 1). L’umiltà, che si oppone all’*orgoglio, sta ad un livello più profondo; è l’atteggiamento della creatura peccatrice dinanzi all’onnipotente ed al tre volte santo; l’umile riconosce di aver ricevuto da Dio tutto ciò che ha (1 Cor 4, 7); servo senza valore (Lc 17, 10), da sé non è nulla (Gal 6, 3), se non un peccatore (Is 6, 3 ss; Lc 5, 8). Questo umile che si apre alla sua grazia (Giac 4, 6 = Prov 3, 34), Dio lo glorificherà (1 Sam 2, 7 s; Prov 15, 33). Incomparabilmente più profonda ancora è l’umiltà di Cristo che col suo abbassamento ci salva, ed invita i suoi discepoli a servire i loro fratelli per amore (Lc 22, 26 s), affinché in tutti sia glorificato Dio (1 Piet 4, 10 s).
    II. L'UMILTÀ DEL POPOLO DI DIO
    Israele impara l’umiltà anzitutto facendo l’esperienza dell’onni*potenza del Dio che lo salva e che è il solo altissimo. Conserva viva quest’esperienza commemorando nel *culto le opere di Dio; questo culto è una scuola di umiltà; lodando e ringraziando, l’Israelita imita l’umiltà di David che danza dinanzi all’arca (2 Sam 6, 16. 22) per glorificare Dio al quale deve tutto (Sal 103). Israele ha fatto pure l’esperienza della povertà nella prova collettiva della sconfitta e dell’*esilio o nella prova individuale della *malattia e dell’oppressione dei deboli. Queste umiliazioni gli hanno fatto prendere coscienza dell’impotenza fondamentale dell’uomo e della miseria del peccatore che si separa da Dio. Così l’uomo è incline a rivolgersi a Dio con un cuore contrito (Sal 51, 19), con quella umiltà, fatta di dipendenza totale e di docilità fiduciosa, che ispira le suppliche dei Salmi (Sal 25; 106; 130; 131). Coloro che lodano Dio e lo supplicano di salvarli si chiamano spesso i «*poveri» (Sal 22, 25. 27; 34, 7; 69, 33 s); questa parola, che da prima designava la classe sociale degli sventurati, assume un senso religioso a partire da Sofonia: *cercare Dio significa cercare la povertà, che è l’umiltà (Sof 2, 3). Dopo il giorno di Jahvè, il «resto» del popolo di Dio sarà «umile e povero» (Sof 3, 12; gr. prays e tapeinòis; cfr. Mt 11, 29; Ef 4, 2). Nel VT i modelli di questa umiltà sono *Mosè, il più umile degli uomini (Num 12, 3), ed il misterioso *servo che, con la sua umile sottomissione fino alla morte, realizza il disegno di Dio (Is 53, 4-10). Al ritorno dall’esilio, profeti e sapienti predicheranno 1'umiltà. L’altissimo abita con colui che ha lo spirito umile ed il cuore contrito (Is 57, 15; 66, 2). «Il frutto dell’umiltà è il timor di Dio, ricchezza, gloria e vita» (Prov 22, 4). «Quanto più sei grande, tanto più occorre che ti abbassi per trovare grazia dinanzi al Signore» (Eccli 3, 18; cfr. Dan 3, 39). Infine, a quel che dice l’ultimo profeta, il messia sarà un re umile; entrerà in Sion cavalcando un asinello (Zac 9, 9). Veramente il Dio di Israele, re della creazione, è il «Dio degli umili» (Giudit 9, 11 s).
    III. L'UMILTÀ DEL FIGLIO DI DIO
    Gesù è il messia umile annunziato da Zaccaria (Mt 21, 5). È il messia degli umili che egli proclama beati (Mt 5, 4 = Sal 37, 11; gr. prays = l’umile che la sottomissione a Dio rende paziente e *mite). Gesù benedice i *bambini e li presenta come modelli (Mc 10, 15 s). Per diventare come uno di questi piccoli cui Dio si rivela e che, soli, entreranno nel *regno (Mt 11, 25; 18, 3 s), bisogna mettersi alla scuola di Cristo, «maestro mite ed umile di cuore» (Mt 11, 29). Ora questo maestro non è soltanto un uomo; è il Signore venuto a salvare i peccatori prendendo una carne simile alla loro (Rom 8, 3). Lungi dal cercare la propria gloria (Gv 8, 50), egli si umilia fino a lavare i piedi dei suoi discepoli (Gv 13, 14 ss); egli, che è eguale a Dio, si annienta fino a morire in croce per la nostra redenzione (Fil 2, 6 ss; Mc 10, 45; cfr. Is 53). In Gesù si rivela non soltanto la potenza divina senza la quale noi non esisteremmo, ma la carità divina senza la quale noi saremmo perduti (Lc 19, 10). Questa umiltà («segno di Cristo», dice S. Agostino), è quella del Figlio di Dio, quella della carità. Bisogna seguire la via di questa «nuova» umiltà, per praticare il comandamento nuovo della carità (Ef 4, 2; 1 Piet 3, 8 s; «dov'è l’umiltà, ivi è la carità», dice S. Agostíno). Coloro che «si rivestono di umiltà nei loro rapporti reciproci» (1 Piet 5, 5; Col 3, 12) cercano gli interessi degli altri e prendono l’ultimo posto (Fil 2, 3 s; 1 Cor 13, 4 s). Nella serie dei *frutti dello Spirito, Paolo pone l’umiltà accanto alla fede (Gal 5, 22 s); queste due *virtù (tratti essenziali di Mosè, secondo Eccli 45, 4) sono di fatto connessi, essendo entrambi due atteggiamenti di apertura a Dio, di sottomissíone fiduciosa alla sua grazia ed alla sua parola.
    IV. L'OPERA DI DIO NEGLI UMILI
    Dio guarda gli umili e si china verso di essi (Sal 138, 6; 113, 6 s); infatti, non gloriandosi che della loro debolezza (2 Cor 12, 9), essi si aprono alla potenza della sua grazia che, in essi, non è sterile (1 Cor 15, 10). Non soltanto l’umile ottiene il perdono dei suoi peccati (Lc 18, 14), ma la *sapienza dell’onnipotente ama manifestarsi per mezzo degli umili che il mondo disprezza (1 Cor 1, 25. 28 s). Quale umiltà in colui che il Signore manda a preparargli la via e che desidera solo scomparire (Gv 1, 27; 3, 28 ss). Di una umile vergine, che non vuole essere che la sua ancella, Dio fa la madre del suo Figlio, nostro Signore (Lc 1, 38. 43). Colui che si umilia nella prova sotto la mano onnipotente del Dio di ogni grazia e partecipa agli abbassamenti di Cristo crocifisso, sarà, al pari di Gesù, esaltato da Dio, a suo tempo, e parteciperà alla gloria del Figlio di Dio (Mt 23, 12; Rom 8, 17; Fil 2, 9 ss; 1 Piet 5, 6-10). Con tutti gli umili egli canterà eternamente la santità e l’amore del Signore che ha fatto in essi grandi cose (Lc 1, 46- 53; Apoc 4, 8-11; 5, 11-14). Nel VT la parola di Dio porta l’uomo alla gloria per la via di un’umile sottomissione a Dio, suo creatore e salvatore. Nel NT la parola di Dio si fa carne per condurre l’uomo al culmine dell’umiltà che consiste nel servire Dio negli uomini, nell’umiliarsi per amore al fine di glorificare Dio salvando gli uomini.
    M. F. LACAN
    → bambino II, III - cenere - creazione VT IV 1 - digiuno - fiducia 2 - fierezza 0 - forza II - gioia VT II 2; NT I 1 - Maria IV 3 - mitezza 2 - orgoglio 5 - pasto III - pazienza II 2 - perfezione NT 3 - poveri VT III; NT I, II - virtù e vizi 3.

    UNITÀ (inizio)

    Riconoscendo mediante la fede il Dio unico, Padre, Figlio, e Spirito Santo, l’uomo si apre alla carità che unisce il Padre al Figlio e che lo Spirito gli comunica (Gv 15, 9; 17, 26; Rom 5, 5). Questa carità, unendolo al Dio unico, fa di lui il suo testimone nel mondo ed il cooperatore del suo disegno: unire nel Figlio unico tutti gli uomini e tutto l’universo (Rom 8, 29; Ef 1, 5. 10).
    I. LA FONTE DELL’UNITÀ E LA SUA ROTTURA AD OPERA DEL PECCATO
    L’universo, nella sua meravigliosa varietà, è opera del Dio creatore il cui *disegno si rivela nel comandamento che egli dà all’uomo e alla donna: «Siate fecondi, moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela» (Gen 1, 28). Si vede come, nell’opera divina, si alleano molteplicità ed unità. Affinché la *creazione giunga alla sua unità sotto il dominio dell’uomo, questo deve moltiplicarsi, e, affinché l’uomo sia *fecondo, bisogna che, nell’amore, si compia la sua unità con la donna (Gen 2, 23 s). Ma per realizzare questo disegno l’uomo deve rimanere unito a Dio, riconoscendo la sua dipendenza con una *fedeltà fiduciosa. Il rifiuto di questa fedeltà è il *peccato fondamentale: l’uomo lo commette per farsi uguale a Dio, il che equivale a negare il Dio unico; egli si stacca così da colui che, essendo tutto amore (1 Gv 4, 16), è la fonte dell’unità. Da questa rottura derivano le divisioni che spezzeranno l’unità del *matrimonio con il divorzio e la poligamia (Gen 4, 19; Deut 24, 1), l’unità dei *fratelli con la gelosia omicida (Gen 4, 6 ss. 24), l’unità della società con una discordia il cui simbolo espressivo è la diversità delle *lingue (11, 9).
    II. ALLA RICERCA DELL’UNITÀ MEDIANTE L’ALLEANZA
    Per rimediare a questa rottura Dio sceglie degli uomini ai quali propone la sua *alleanza suggellata nella fede (Os 2, 22); di fatto la *fede è la condizione dell’unione con lui e della collaborazione alla sua opera, quell’opera di unità che egli non cessa di riprendere chiamando nuovi eletti: Noè, Abramo (cfr. Is 51, 2), Mosè, David, il servo. La *legge che egli dà al suo popolo, il *re che gli sceglie nella casa di David, il *tempio dove abita con lui a Gerusalemme, il *servo che gli dà come modello di fedeltà, hanno lo scopo di assicurare l’unità di Israele e di permettergli in tal modo di svolgere la sua missione di *popolo sacerdote (Es 19, 6), e di popolo *testimone (Is 43, 10 ss). Infatti, se Dio fa di Israele un popolo separato, si è per manifestarsi per mezzo suo alle *nazioni e riunirle nell’unità del suo *culto. Anche la *dispersione con cui ha dovuto castigare l’infedeltà di Israele serve, alla resa dei conti, a far conoscere ai pagani l’unico Dio creatore e salvatore (Is 45). Tuttavia, per svolgere la missione del popolo eletto, per restituirgli l’unità infranta dallo scisma in seguito alla infedeltà di Salomone al Dio unico (1 Re 11, 31 ss) e per radunare le nazioni con lui nello stesso culto (Is 56, 6 ss), bisognerà che venga colui che sarà ad un tempo il *servo incaricato di unificare Israele e di salvare con la sua morte la moltitudine dei peccatori (Is 42, 1; 49, 6; 53, 10 ss), il nuovo *David che farà pascere il gregge del Signore riunito sotto la sua regalità (Ez 34, 23 s; 37, 21-24), ed il *figlio dell’uomo, capo del popolo dei santi, il cui regno eterno si estenderà all’universo (Dan 7, 13 s. 27). In grazia sua, Sion, *sposa unica di Jahvè che l’ama di un amore eterno, diventerà la *madre comune di tutte le nazioni (Sal 87, 5; Is 54, 1-10; 55, 3 ss), di cui Jahvè sarà l’unico re (Zac 14, 9).
    III. IL COMPIMENTO DELL’UNITÀ NELLA CHIESA
    Questo *eletto di Dio è il suo *Figlio unico, Cristo Gesù (Lc 9, 35). Egli unisce coloro che lo amano e che credono in lui, dando loro il suo Spirito e la sua madre (Rom 5, 5; Gv 19, 27), e *nutrendoli con un solo *pane, il suo corpo sacrificato sulla croce (l Cor 10, 16 s). In tal modo fa di tutti i popoli un solo *corpo (Ef 2, 14-18); fa dei credenti le sue membra, dotando ognuno di *carismi diversi in vista del bene comune del suo corpo che è la *Chiesa (1 Cor 12, 4-27; Ef 1, 22 s), inserendoli, pietre viventi, nell’unico *tempio di Dio (Ef 2, 19-22; 1 Piet 2, 4 s). Egli è l’unico *pastore che conosce le sue pecore nella loro diversità (Gv 10, 3) e, dando la propria vita, vuole radunare nel suo gregge i figli di Dio *dispersi (Gv 10, 14 ss; 11, 51 s). Per mezzo suo l’unità è restaurata in tutti i campi: unità interna dell’*uomo dilaniato dalle passioni (Rom 7, 14 s; 8, 2. 9); unità della coppia coniugale di cui l’unione di Cristo e della Chiesa è il modello (Ef 5, 25-32); unità di tutti gli uomini che lo Spirito fa figli dello stesso *Padre (Rom 8, 14 ss; Ef 4, 4 ss) e che, non avendo che un *cuor solo ed un’*anima sola (Atti 4, 32), lodano ad una sola voce il loro Padre (Rom 15, 5 s; cfr. Atti 2, 4. 11). Bisogna quindi promuovere questa unità che indubbiamente gli *scismi e le *eresie lacerano (1 Cor 1, 10), ma il cui fondamento e l’unica fede nell’unico Signore (Ef 4, 5. 13; cfr. Mt 16, 16 ss). Il segno dell’unica Chiesa, affidata all’amore di Pietro (Gv 21, 15 ss), è la sua unità, *frutto prodotto da coloro che rimangono nell’amore di Cristo ed osservano fedelmente il suo comandamento unico: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati» (13, 34 s); la loro fedeltà e la loro fecondità sono commisurate alla loro unione con Cristo, simile a quella dei tralci con la vite (15, 5-10). L’unità dei cristiani è necessaria perché in essi sia rivelato al mondo l’amore del Padre manifestato dal dono del suo Figlio unico (3, 16) e perché tutti gli uomini diventino una sola cosa in Cristo (Ef 4, 13); allora sarà realizzato il supremo desiderio di Gesù: «Padre, che tutti siano una cosa sola, come noi siamo una cosa sola!» (Gv 17, 21 ss).
    M. F. LACAN
    → amore - Chiesa - comunione - corpo di Cristo III - disegno di Dio NT III 2 - dispersione - elemosina NT 3 b - eresia - fratello NT 2 - nazioni - pace - padri e Padre V 2 - pane II 3 - pasto III - pastore e gregge VT 2; NT 1 - popolo B II 1. 5. 6, III; C II - riconciliazione II 2 - scisma - Spirito di Dio NT V 5 - Sposo-sposa.

    UNIVERSALISMO (inizio)

    → Abramo II 4 - disegno di Dio - fratello - lode II 3 - missione VT II 2 - nazioni - Pentecoste II - popolo B I 2 - prossimo.

    UNIVERSO (inizio)

    → acqua I - ascensione II 2 - astri - cielo I, II - creazione - mare 1 - mondo - nuovo III 3 b - testa 2.4.

    UNZIONE (inizio)

    Per gli Ebrei, 1’olio penetra profondamente nel corpo (Sal 109, 18), gli conferisce forza, salute, gioia e bellezza. Si comprende come, sul piano religioso, le unzioni con olio siano state considerate come segni di esultanza e di rispetto; sono state parimenti usate come riti di guarigione o di consacrazione.
    I. L’UNZIONE, SEGNO DI GIOIA O DI ONORE
    1.
    L’olio, soprattutto l’olio *profumato, essendo un simbolo di gioia (Prov 27, 9; cfr. Eccle 9, 8), veniva usato specialmente nelle festività (Am 6, 6). Il doversi privare di ogni unzione costituiva una sventura (Deut 28, 40; Mi 6, 15); questa privazione, unita al *digiuno, era un segno di lutto (Dan 10, 3; cfr. 2 Sam 12, 20). Tuttavia Gesù comanda a chi digiuna di ungersi il capo come ad un banchetto (Mt 6, 17), affinché la sua penitenza non sia ostentata dinanzi agli uomini. L’immagine dell’unzione serviva ad esprimere la *gioia del popolo di Israele, riunito a Gerusalemme nelle grandi feste (Sal 133, 2), o la *consolazione apportata agli afflitti di Sion dopo l’esilio (Is 61, 3); faceva pure parte della descrizione del banchetto messianico: «Su questo monte essi berranno la gioia, berranno vino: si ungeranno con olio profumato su questo monte» (Is 25, 6 s LXX). Soprattutto in questo contesto di gioia messianica ritorna la formula «olio di esultanza» (Is 61, 3; Sal 45, 8; Ebr 1, 9).
    2. Versate olio su un ospite era un segno di onore. L’espressione appare nei salmi per figurare l’abbondanza dei favori divini: «Dinanzi a me tu prepari una tavola di fronte ai miei avversari; mi profumi il capo con una unzione» (Sal 23, 5; cfr. 92, 11). I vangeli ricordano due volte che una donna rese a Gesù questo segno di onore. Fu da prima la peccatrice, in casa di Simone il fariseo: mentre quest’ultimo, di cui pure Gesù era ospite, non aveva versato olio sul suo capo, la donna unse di profumo i piedi di Gesù (Lc 7, 38. 46). Alla vigilia dell’ingresso in Gerusalemme, Maria, sorella di Lazzaro, ripeté questa testimonianza di rispetto ungendo Gesù con un nardo di gran prezzo, con scandalo dei discepoli (Mi 26, 6-13 par.; Gv 12, 1-8). Ma Gesù approvò Maria, e nello stesso tempo diede al suo atto un nuovo significato profetico, riferendosi all’uso (Mc 16, 1) di ungere i cadaveri con aromi: l’atto della donna diventava un’anticipazione ed un segno del rito di sepoltura che sarebbe stato praticato sul corpo di Gesù dopo la sua morte in croce (Gv 19, 40).
    II. L’UNZIONE DEGLI AMMALATI E DEGLI INDEMONIATI
    1. I malati.
     
    - Al fine di guarire i *malati, si usava ancora olio, ad es. per medicare le piaghe (Is 1, 6), come fece il buon Samaritano (Lc 10, 34); secondo Lev 14, 10-32, sui lebbrosi guariti si praticavano unzioni con olio come riti di purificazione. Quando i discepoli furono mandati da Cristo a predicare il regno di Dio, ricevettero il potere di scacciare gli spiriti impuri e di guarire ogni malattia ed ogni infermità (Mt 10, 1; Lc 9, 1 s); partiti in *missione, essi facevano unzioni con olio a molti infermi e li guarivano miracolosamente (Mc 6, 13). Queste unzioni, praticate dagli apostoli probabilmente per mandato di Gesù, sono all’origine del rito dell’unzione dei malati nella Chiesa. La lettera di Giacomo prescrive che i presbiteri facciano nel nome del Signore un’unzione con olio sull’infermo: «la preghiera di fede salverà il paziente, ed il Signore lo conforterà. Se ha commesso peccati, gli saranno rimessi» (Giac 5, 15). Poiché la malattia è una conseguenza del peccato, l’unzione fatta «nel nome del Signore» realizza la «*salvezza» del malato: lo fa partecipare alla vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte, sia mediante la guarigione, sia mediante un aumento di forze per affrontare la morte.
    2. Gli indemoniati. 
    L’espulsione dei *demoni è, in Mc 6, 13, strettamente legata alla guarigione dei malati: entrambi questi poteri taumaturgici erano un segno dell’avvento del regno. Perciò, in seguito, parecchie Chiese praticarono sui catecumeni riti di unzione come esorcismi prima del *battesimo.
    III. L’UNZIONE-CONSACRAZIONE
    Le unzioni di cui parla il VT sono per lo più riti consacratori.
    1. Ogetti di culto. 
    - Taluni oggetti del culto erano consacrati con unzioni, specialmente l’*altare (Es 29, 36 s; 30, 26-29; Lev 8, 10 s), che con questo acquistava «una eminente *santità». Un rito analogo antichissimo, probabilmente cananeo, era stato praticato da Giacobbe: dopo la visione notturna, eresse una stele commemorativa, e versò olio sul suo culmine, per segnare il posto della *presenza divina: di qui il nome di Bethel, «casa di Dio» (Gen 28, 18; cfr. 31, 13; 35, 14).
    2. L'unzione regale. 
    - L’unzione *regale occupa un posto unico tra i riti di consacrazione. Era compiuta da un uomo di Dio, profeta o sacerdote. Saul (1 Sam 10, 1) e David (1 Sam 16, 13) furono unti da Samuele; Jehu da un profeta inviato da Eliseo (2 Re 9, 6). I re di Giuda erano consacrati nel tempio ed unti da un sacerdote: Salomone ricevette l’unzione da Sadoq (1 Re 1, 39), Joas del sommo sacerdote Jehojada (2 Re 11, 12). Il senso di questo rito era di connotare con un segno esterno che questi uomini erano stati *eletti da Dio per diventare suoi strumenti nel governo del popolo. Mediante l’unzione il re diventava partecipe dello *spirito di Dio, come si vede nel caso di David: «Samuele prese il corno d’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli. Da quel giorno lo spirito di Jahvè si impadronì di David» (1 Sam 16, 13). Se l’unzione abilitava il re alla sua funzione e manifestava esternamente che egli era stato eletto da Dio per essere il suo *servo, si comprende come il nome di unto di Jahvè abbia potuto essere applicato metaforicamente ad un re pagano, Ciro (Is 45, 1), perché, ponendo fine alla cattività di Babilonia, permise al popolo eletto di rientrare in Israele. Il tema dell’unzione regale avrebbe assunto tutta la sua importanza nell’applicazione al *messia. Il Sal 2, che parla di Jahvè e del suo unto (v. 2), era interpretato nella tradizione giudaica e cristiana in senso messianico (Atti 4, 25 ss). Per i primi cristiani, questo titolo aveva ancora una risonanza regale; assumeva il suo vero significato solo a partire dal momento in cui Gesù era stato intronizzato alla destra di Dio e aveva ricevuto da lui l’unzione di un olio di letizia (Ebr 1, 8 s; cfr. Sal 45, 7 s): con questa unzione regale, era costituito in pieno diritto Signore e «Cristo» (messia) (Atti 2, 36; cfr. Fil 2, 11). La tradizione cristiana posteriore a proposito di questo appellativo di «unto» , avrebbe parlato di una triplice unzione di Cristo, come re, sacerdote e profeta.
    3. I sacerdoti. 
    - I sacerdoti, e più specialmente il sommo sacerdote, erano anch’essi unti (cfr. *sacerdozio). Per ordine di Jahvè (Es 29, 7), Mosè conferisce l’unzione ad *Aronne (Lev 8, 12), e nelle prescrizioni destinate al sommo sacerdote, quest’ultimo è più volte chiamato «il sacerdote consacrato mediante l’unzione» (ad es. Lev 4, 5; 16, 32). Altrove l’unzione è conferita ai semplici sacerdoti, «figli di Aronne» (ad es. Es 28, 41; 40, 15; Num 3, 3). Questi diversi testi appartengono tuttavia al codice sacerdotale, postesilico. È quindi probabile che, sotto la monarchia, soltanto il re venisse unto; all’epoca del secondo tempio, era il sommo sacerdote, diventato capo del popolo, a ricevere l’unzione al suo posto, e ben presto anche tutti i sacerdoti. Verso il primo secolo, la comunità di Qumrân non attendeva soltanto un unto di Giuda, un re, ma anche un «unto» nato da Levi, un sacerdote.
    4. I profeti. 
    - I *profeti non erano unti con olio; l’unzione dei profeti designa metaforicamente la loro investitura: Elia ricevette l’ordine di ungere Eliseo (l Re 19, 16), ma al momento della vocazione di quest’ultimo il Tesbita non fece altro che gettare su di esso il suo mantello e comunicargli il suo spirito (1 Re 19, 19; 2 Re 2, 9-15). Quando l’autore di Is 61 scrive: «Lo spirito del Signore Jahvè è su di me, perché mi ha unto. Mi ha mandato a portare la buona novella ai poveri» (Is 61, 1), lo fa per spiegare la sua missione profetica.
    5. L’unzione di Cristo.
    - Il NT ricorda una sola unzione di Gesù durante la sua vita terrena (per l’unzione regale nella sua intronizzazione celeste cfr. Ebr l, 9), quella che ricevette nel battesimo: «È stato unto con Spirito Santo e con potenza» (Atti 10, 38). Applicando a se stesso il testo di Is 61, 1, Gesù spiega questa unzione come un’unzione profetica per l’annuncio del messaggio. Ma la comunità apostolica, ispirandosi alle parole di Gesù (Mc 10, 38; Lc 12, 50), avrebbe interpretato il battesimo nella prospettiva della morte di Cristo (Atti 4, 27; cfr. Rom 6, 3 s): la missione ricevuta all’inizio della vita pubblica era ancor solo una missione di predicazione, quella del servo-profeta (Is 42, 1-7); ma doveva giungere a compimento sul calvario (cfr. 1 Gv 5, 6), nel sacrificio del servo sofferente.
    6. Il cristiano. 
    - Anche il cristiano riceve un’unzione (2 Cor 1, 21; 1 Gv 2, 20. 27); tuttavia non si tratta di un rito sacramentale (battesimo o confermazione), ma di una partecipazione all’unzione profetica di Gesù, un’unzione spirituale mediante la fede. Prima di ricevere il *sigillo dello *Spirito al momento del battesimo, il catecumeno è stato unto da Dio (2 Cor 1, 21; cfr. Ef 4, 30): Dio ha fatto penetrare in lui la dottrina del *vangelo, ha suscitato nel suo cuore la fede nella parola di verità (cfr. Ef 1, 13). Perciò Giovanni chiama questa parola venuta da Cristo un «olio di unzione» (chrisma): interiorizzato dalla fede sotto la azione dello Spirito (Gv 14, 26; 16, 13), «l’olio di unzione rimane in noi» (1 Gv 2, 27), ci dà il senso della verità (v. 20 s), ci istruisce in ogni cosa (v. 27); Giovanni può quindi dire che il cristiano non ha più bisogno di essere ammaestrato: si realizza la speranza dei profeti nella nuova alleanza (Ger 31, 34; cfr. Is 11, 9). Questa dottrina dell’unzione interiore è importante nella tradizione e nella spiritualità cristiane. Clemente Alessandrino fa rivolgere a Cristo questo invito e questa promessa ai pagani: «Io vi ungerò con l’unguento della fede» ; e S. Bernardo considera come un tratto distintivo dei figli di Dio il fatto che «l’unzione li istruisce in ogni cosa»
    I. DE LA POTTERIE
    → David 2 - malattia-guarigione NT II I - messia - olio 2 - Paraclito 2 - profumo - re VT 1 1.2 - sacerdozio VT I 4 - sepoltura 2 - Spirito di Dio VT 1 2.3.

    UOMO (inizio)

    Gli elementi di un’antropologia biblica sono dati nei diversi articoli *anima, *cuore, *carne, *corpo, *spirito. Secondo questa concezione sintetica, così diversa dalla mentalità comune dei nostri giorni, che vede nel corpo e nell’anima le due componenti dell’uomo, l’uomo si esprime tutto nei suoi diversi aspetti. È anima in quanto animato dallo spirito di vita; la carne fa vedere in lui una creatura caduca; lo spirito significa la sua apertura a Dio; il corpo infine lo esprime all’esterno. A questa prima differenza tra le due mentalità se ne aggiunge un’altra, ancora più profonda. Nella prospettiva della filosofia greca si tratta di analizzare l’uomo, questo microcosmo che unisce due mondi, lo spirituale ed il materiale; la Bibbia, teologica, non considera l’uomo che dinanzi a Dio di cui è l’*immagine. Invece di rinserrarsi in un mondo naturale e chiuso, essa apre la scena alle dimensioni della storia, di una storia il cui attore principale è Dio: Dio che ha creato l’uomo e che, per redimerlo, è diventato egli stesso uomo. L’antropologia, già legata ad una teologia, diventa inseparabile da una cristologia. Perciò i comportamenti vari degli uomini nel corso della storia si sintetizzano nelle due categorie del peccatore e dell’uomo nuovo. E queste ultime realizzano le due figure rivelate in momenti privilegiati della storia sacra, Adamo ed il servo di Jahvè, e portate a compimento da *Gesù Cristo. Il tipo autentico dell’uomo vivente non è quindi Adamo, ma Gesù Cristo; non è colui che è nato dalla terra, ma colui che è disceso dal cielo; o meglio, è Gesù Cristo prefigurato in Adamo, l’Adamo celeste abbozzato nel terrestre.
    I. AD IMMAGINE DI DIO
    1. L’Adamo terrestre.

    - Il c. 2 della Genesi non riguarda soltanto la storia di un uomo, ma quella di tutta l’umanità, come insinua il termine *Adamo, che significa uomo; secondo la mentalità semitica, il capostipite di una stirpe porta in sé la collettività «nata dalle sue reni» ; in lui si esprimono realmente tutti i discendenti: gli sono incorporati; è quel che si è potuto chiamare una «personalità corporativa» . Secondo Gen 2, l’uomo appare in Adamo con le sue tre dimensioni principali: in relazione con Dio, con la terra, con i suoi fratelli.
    a) L’uomo e il suo creatore. - Adamo non è né un dio decaduto, né una particella di spirito caduta dal cielo in un corpo; appare creatura libera in relazione costante ed essenziale con Dio. È quel che indica la sua origine. Nato dalla terra, egli non è limitato ad essa; la sua esistenza è sospesa allo *spirito di vita che Dio gli inspira. Diventa allora *anima vivente, cioè ad un tempo un essere personale ed un essere dipendente da Dio. La «religione» non viene a completare in lui una natura umana, già consistente, ma entra fin dall’origine nella sua stessa struttura. Parlare dell’uomo senza metterlo in relazione con Dio sarebbe quindi un non senso. Al soffio, mediante il quale l’uomo è costituito nel suo essere, Dio aggiunge la sua parola, e questa prima parola assume la forma di un divieto: «Non mangerai dell’albero della conoscenza del bene e del male, perché il giorno in cui ne mangerai, certamente morrai» (Gen 2, 16 s). Nel corso della sua esistenza l’uomo continua così ad essere collegato al suo creatore dall’*obbedienza alla sua *volontà. Questo comando gli appare come un divieto, una limitazione. Di fatto, esso è necessario al suo completamento: permette all’uomo di comprendere che non è Dio, che dipende da Dio, dal quale riceve la vita, come il soffio che lo anima senza che se ne renda conto. L’uomo è quindi unito al creatore da una relazione di dipendenza vitale e primaria che la sua *libertà deve esprimere sotto forma di obbedienza. Questa *legge scritta nel cuore dell’uomo (Rom 2, 14 s) è la *coscienza con la quale il Dio vivente intreccia un dialogo con la sua creatura.
    b) L’uomo dinanzi all’universo. - Dio pone l’uomo in una creazione bella e buona (Gen 2, 9) perché la coltivi e la custodisca come suo intendente. Vuole che Adamo affermi la propria sovranità sugli *animali, dando loro un *nome (2, 19 s; cfr. 1, 28 s), indicando in tal modo che la natura non dev’essere divinizzata, ma dominata, assoggettata. Il dovere del *lavoro della terra non succede al dovere di obbedienza a Dio, vi si riferisce continuamente. Lo testimonia a modo suo il primo racconto della creazione: il settimo giorno, giorno di *riposo, indica la misura del lavoro umano, perché l’*opera delle mani dell’uomo deve esprimere l’opera del creatore.
    c) L’uomo in società. - Infine l’uomo è un essere sociale per la sua stessa natura (cfr. *carne), e non in virtù di un comando che gli rimarrebbe estrinseco. La differenza fondamentale dei *sessi è ad un tempo il tipo e la fonte della vita in società, fondata non sulla forza ma sull’amore. Dio intende questa relazione come un aiuto reciproco; e l’uomo, riconoscendo nella donna, che Dio gli ha presentata, l’espressione di se stesso, si dispone alla pericolosa uscita da sé che è costituita dall’*amore. Ogni incontro con il prossimo trova in questa prima relazione il suo ideale, al punto che Dio stesso esprimerà l’alleanza contratta con il suo popolo sotto l’immagine delle nozze (cfr. *sposo-sposa). Uomo e donna, senza *vesti, sono «nudi e non provano vergogna l’uno dinanzi all’altra». Tratto significativo: la relazione sociale è ancora senz’ombra, perché la *comunione con Dio è totale e splendente di gloria. L’uomo quindi non ha paura di Dio, è in *pace con colui che passeggia familiarmente nel suo giardino, è dialogo trasparente con la sua compagna, con gli animali, con tutta la creazione.
    d) Ad immagine di Dio. - Il racconto sacerdotale (Gen 1) riassume le affermazioni del jahvista, facendo vedere che la creazione dell’uomo viene a coronare quella dell’universo, e notando lo scopo di Dio: «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza... Siate fecondi... soggiogate la terra e abbiate dominio su tutti gli animali» (Gen 1, 26 ss). L’uomo, creato ad *immagine di Dio, può entrare in dialogo con lui; egli non è Dio, vive in dipendenza da Dio, in una relazione analoga a quella di un figlio nei confronti del padre (cfr. Gen 5, 3); tuttavia con questa differenza, che l’immagine non può sussistere indipendentemente da colui che deve esprimere, come dice il termine «soffio» nel racconto della creazione. L’uomo esercita la sua funzione di immagine con due principali attività: immagine della *paternità divina, egli deve moltiplicarsi per riempire la terra; immagine della sovranità (cfr. *signore) divina, deve assoggettare la terra al suo dominio. L’uomo è il signore della terra, è presenza di Dio in terra.
    2. L’Adamo celeste.
    - Tale è il progetto di Dio. Ma questo progetto si realizza perfettamente soltanto in Gesù Cristo, Figlio di Dio. Cristo eredita gli attributi della *sapienza, «riflesso della luce eterna, specchio senza macchia dell’attività di Dio, immagine della sua eccellenza» (Sap 7, 26). Se Adamo era creato ad immagine di Dio, Cristo solo è «l’immagine di Dio» (2 Cor 4, 4; cfr. Ebr 1, 3). Paolo commenta: «Egli è l’immagine del Dio invisibile, primogenito di ogni creatura, perché in lui sono state create tutte le cose, in cielo e in terra... tutto è stato creato per mezzo di lui e per lui. Egli è prima di tutte le cose e tutto sussiste in lui; è pure il capo del corpo, cioè della Chiesa» (Col 1, 15-18). Si ritrova ancora la triplice dimensione di Adamo, netta ma sublimata.
    a) Il Figlio dinanzi al Padre. - Colui che è l’immagine di Dio, è il Figlio di cui Paolo ha or ora parlato (Col 1, 13). Egli non è semplicemente l’immagine visibile del Dio invisibile, è il *Figlio sempre unito al Padre. Come dice egli stesso di sé: «Il Figlio non può fare nulla da sé che non veda fare al Padre... Io non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 5, 19 s. 30; cfr. 4, 34). Ciò che doveva essere Adamo: creatura in relazione costante di dipendenza filiale nei confronti di Dio, Gesù lo realizza perfettamente. Chi vede lui, vede il Padre (14, 9).
    b) Cristo e l’universo. - L’uomo compie l’opera delle sue mani; Gesù compie quella del Padre: «Il Padre mio agisce continuamente, ed io pure agisco» (Gv 5, 17). Ora quest’opera è in realtà la stessa *creazione: «tutto è stato creato per mezzo di lui» ; sotto il suo sguardo la creazione si anima e diventa parabola del regno dei cieli. E come nel racconto della creazione, tutto ordinato all’uomo, ecco che «tutto è stato creato per lui» ; di fatto il suo dominio si estende non soltanto sugli animali, ma ad ogni creatura.
    c) Cristo e l’umanità. - Egli infine è il «capo, la testa del corpo» . Ciò significa innanzitutto che egli è colui che dà la vita, 1’«ultimo Adamo» (1 Cor 15, 45), l’Adamo celeste di cui bisogna rivestire l’immagine (15, 49). È il capo della famiglia che è la *Chiesa, società umana perfetta. Meglio ancora, egli è il principio di unificazione della società costituita dagli uomini (Ef 1, 10). Adamo quindi non trova il senso del suo essere e della sua esistenza che in Gesù Cristo, il Figlio di Dio che si è fatto uomo affinché noi diventassimo figli di Dio (Gal 4, 4 s).
    II. ATTRAVERSO L’IMMAGINE SFIGURATA
    All’ideale fissato dalla creazione, al quale bisogna continuamente riferirsi, non si può più giungere, e neppure mirare direttamente. Oramai l’uomo deve passare dall’immagine mutilata, offerta dal peccatore, all’immagine ideale del servo di Dio. Queste sono le nuove condizioni in cui si svolge la vita dell’uomo concreto.
    1. Adamo peccatore.
    - L’autore di Gen 3 non ha voluto tracciare il quadro di una sconfitta, ma annunziare la *vittoria dopo la lotta. Prima di pronunziare il mutamento che colpirà l’uomo nella sua triplice dimensione, Dio pone nel suo cuore la speranza: la discendenza della donna sarà senza dubbio colpita dal calcagno dal suo avversario, ma schiaccerà la testa della razza del serpente (Gen 3, 15). Questo protovangelo illumina i foschi annunci che seguono ed assicurano l’uomo del trionfo finale di Dio.
    a) Divisioni della famiglia umana. - Ciò che Adamo peccatore constata in primo luogo è che la sua nudità (Ger 3, 7. 11), fin qui solo simboleggiata, diventa separazione: alla domanda di Dio, Adamo, accusando la moglie, fa vedere che rifiuta la solidarietà con essa (Gen 3, 12). Dio allora annunzia ad entrambi che la loro unità è scissa: le loro relazioni si eserciteranno sotto il dominio della forza istintiva della concupiscenza, della sete di potere; il frutto del loro *amore verrà loro concesso solo a prezzo dei dolori del parto. I capitoli della Genesi che seguono mostrano come questa prima divisione si ripercuota attraverso tutti i legami sociali: tra Caino ed Abele, *fratelli nemici (Gen 4), tra gli uomini che a Babele non si comprendono più (Gen 11, 1-9). La storia sacra è un tessuto di *divisioni, una sequela di *guerre, tra il popolo e le *nazioni, tra i membri di questo stesso *popolo, tra il ricco ed il povero... Ma la promessa della vittoria rimane, aurora nella notte, ed i profeti non cesseranno di annunziare il principe pacifico che riconcilierà gli uomini fra loro (Is 9, 5 s...).
    b) L’universo ostile all’uomo. - Per la colpa di Adamo, ecco che ormai il suolo è maledetto; l’uomo dovrà mangiare il pane non più come un frutto spontaneo della terra, ma a forza di pene, col sudore della sua fronte (3, 17 s). La creazione dunque è, suo malgrado, assoggettata alla corruzione (Rom 8, 20): invece di lasciarsi sottomettere volentieri, essa si rivolta contro l’uomo; certamente, in qualunque modo, la terra avrebbe tremato, avrebbe prodotto spine; ma questi rovi e queste *calamità non significano più soltanto che il mondo è caduco, ma anche che l’uomo è peccatore. E tuttavia i profeti annunciano uno stato *paradisiaco (Is 11, 6-9), rivelando a qual punto rimane viva nell’uomo la natura qual è uscita dalle mani del creatore: la speranza non è morta (Rom 8, 20).
    c) L’uomo in balìa della morte. - «Tu sei polvere e ritornerai in polvere» (Gen 3, 19). Invece di ricevere come un dono la vita divina, Adamo ha voluto disporre della propria vita, e, mangiando del frutto dell’*albero, diventare un dio. Con questa disobbedienza l’uomo ha spezzato il suo legame con la fonte della vita. Mentre la *morte sarebbe stata un semplice passaggio verso Dio, non è più soltanto un fenomeno naturale: divenuta fatale, significa il *castigo, la morte eterna. È quel che simboleggia pure l’*esilio dal paradiso. Avendo rigettato la legge interna (reo-nomia), l’uomo è abbandonato a se stesso, alla sua fallace auto-nomìa. La storia racconta i ripetuti fallimenti di colui che pensava di uguagliare Dio, ed è diventato soltanto un mortale. Tuttavia il sogno di una vita piena non svanisce; Dio apre di nuovo all’uomo la via verso l’*albero della vita (Prov 3, 18; 11, 30): la sua legge, fonte di *sapienza per colui che la pone in pratica. Ma essa, avendo abbandonato il suo cuore, gli sembra ormai esteriore (etero-nomìa).
    d) Divisione della *coscienza. - Ora questa legge, capace di far vedere dov’è la salvezza, ma incapace di darla, scava nell’uomo una divisione ad un tempo mortale e salutare. All’Adamo, che la comunione con il creatore unificava, succede un Adamo che fugge se stesso fuggendo Dio. Si nasconde dinanzi a colui che lo chiama (Gen 3, 10). Questa paura, caricatura dell’autentico *timore di Dio, è contagiosa; significa la divisione della coscienza. Soltanto un essere internamente unificato poteva afferrare e dominare questo intimo divorzio: lo esprime Paolo, illuminato dallo Spirito. Nella lettera ai Romani egli descrive l’io abbandonato dal dominio del peccato ed esistente senza lo Spirito che gli è nondimeno indispensabile. Come un decapitato che rimanesse vivo, egli ha coscienza del suo disordine: «Io sono un essere di carne venduto al potere del peccato. Quel che faccio, non lo comprendo: perché non faccio ciò che voglio, ma faccio ciò che odio» (Rom 7, 14 s). Senza cessare di simpatizzare con la legge di Dio nel suo foro interno, l’uomo, che ha permesso al peccato di installarsi in lui, vede la *carne rendere «carnale» il suo intelletto (Col 2, 18), *indurire il suo *cuore (Ef 4, 18), tiranneggiare il suo *corpo al punto da fargli produrre *opere cattive (Rom 8, 13). Gli sembra così di andare alla morte in modo irrimediabile. Ciò tuttavia non è vero, perché un atto di fede può strappare il peccatore al dominio della carne. Ma fino a quest’atto di fede, il peccatore rimane in uno stato di alienazione. Gli manca il suo principio di unità e di personalizzazione: lo *Spirito. Per bocca di Paolo egli invoca il salvatore con quel grido che era risuonato durante tutto il VT: «O me infelice! chi mi libererà da questo corpo, fonte di morte?» (Rom 7, 24). Con questa invocazione il peccatore termina il suo itinerario: avendo rifiutato di ricevere la vita come un dono, avendo constatato il suo fallimento nell’impadronirsene con le proprie forze, egli si rivolge infine a colui dal quale viene la *grazia. Eccolo nuovamente nell’atteggiamento fondamentale della creatura; ma il dialogo che inizia è ormai quello di un peccatore con il suo salvatore.
    2. Il servo di Dio.
    - Questo salvatore, Paolo, sull’esempio della comunità primitiva, lo ha visto annunciato da Isaia sotto i tratti del *servo di Dio. Di fatto, al momento del trionfo pasquale, i cristiani non si sono rivolti ad una qualche descrizione grandiosa del *messia-re, o del glorioso *figlio dell’uomo. Essi non avevano bisogno di un superuomo, ma dell’uomo che porta e toglie il peccato del mondo.
    a) Fedele a Dio fino alla morte. - Nel suo servo Dio si compiace e «ha posto il suo spirito, affinché porti con *fedeltà il *diritto alle nazioni» (Is 42, 1 ss). Mentre pare che sprechi le sue forze e si affatichi invano, egli sa che Dio lo glorifica continuamente (49, 4 s); è obbediente, come il discepolo di cui ogni mattina Dio apre l’orecchio; non oppone resistenza, neppure sotto gli oltraggi, perché la sua *fiducia in Dio non è scossa (50, 4-7). E quando viene l’ora del sacrificio, «trattato in modo orribile, egli si umilia, non apre bocca, come un agnello condotto al macello» (53, 7). Accetta in modo perfetto la volontà del Signore che fa ricadere su di lui i delitti degli uomini, e offre se stesso alla morte (53, 12). Tale è il servo fedele, ultimo resto dell’umanità, che con la sua *obbedienza riannoda il legame spezzato da Adamo e, accettando la morte, manifesta il carattere assoluto di questo legame.
    b) L’uomo dei dolori. - Adamo peccatore s’era visto afflitto da pene e da dolori, II servo porta le nostre *sofferenze ed i nostri dolori (Is 53, 3); più ancora, colui che doveva dominare sugli animali, è divenuto simile ad essi, «non ha più apparenza umana» (Is 52, 14), è «un verme, non un uomo» (Sal 22, 7).
    c) Dinanzi alla società. - «Oggetto di disprezzo e rifiuto dell’umanità» (Is 53, 3), il servo infine è rigettato da tutti; i suoi contemporanei non vi vedono che fallimento (52, 14); ma, tramite il suo profeta, Dio fa loro riconoscere e *confessare il valore espiatorio e salutare di questo sacrificio: «Egli è stato trafitto a motivo dei nostri peccati, schiacciato a motivo dei nostri delitti... Il castigo che ci rende la pace è su di lui: grazie alle sue piaghe noi siamo guariti» (53, 5). Nell’uomo di dolore, il profeta intravvede l’intercessore che prega per i peccatori e la vittima che *giustifica la moltitudine (53, 11). Attraverso la morte del Servo, Adamo può confessarsi vinto dal peccato, ed è proprio nel momento in cui rinuncia alla propria giustizia che si opera la salvezza; l’azione di Dio diventa efficace solo attraverso la passione ultima dell’uomo abbandonato dagli uomini. Invero la vita non è più il risultato di una conquista, ma il frutto sempre nuovo di un dono gratuito.
    d) Il servo Gesù Cristo. - La profezia del servo è soggiacente a numerosi inni cristiani primitivi. Essi riassumono l’esistenza di Gesù in un dittico che dipinge la miseria e la grandezza dell’uomo: abbassamento ed esaltazione (Fil 2, 6-11; Ebr 1, 3; Rom 1, 3 s; ecc.). Colui che, durante tutta la vita, si era nutrito della volontà del Padre, lungi dal ritenere gelosamente la dignità che lo faceva uguale a Dio, prese la condizione di schiavo; diventando simile agli uomini, si umiliò ancora di più, obbedendo fino alla morte ed alla morte di croce. Perfettamente obbediente, Gesù si è comportato da vero Adamo, entrando nella *solitudine perfetta per diventare il padre della nuova stirpe, fonte di vita per sempre. Pilato lo fa vedere, vestito da re da burla, sul palco: «Ecco l’uomo» (Gv 19, 5): questa è la via della *gloria. Attraverso questa immagine sfigurata dal suo peccato, l’uomo deve riconoscere il Figlio di Dio, che «è stato fatto peccato affinché in lui diventassimo giustizia di Dio» (2 Cor 5, 21).
    III. AD IMMAGINE DI CRISTO
    Adamo, peccatore, non può tornare ad essere pienamente ciò che è di diritto - «ad immagine di Dio» - se non è nuovamente modellato «ad immagine di Cristo» , non semplicemente ad immagine del Verbo, ma ad immagine del crocifisso, vincitore della morte. I valori riconosciuti al c. 2 della Genesi si ritroveranno, trasferiti sulla persona di Cristo.
    1. Obbedienza della fede a Gesù Cristo.
    - L’uomo non deve più rivolgere la sua obbedienza ed il suo omaggio direttamente a Dio né alla legge misericordiosamente donata all’uomo peccatore, bensì a colui che è venuto ad assumere figura umana (cfr. Rom 10, 5-13); l’unica opera da compiere è di credere in colui che Dio ha mandato (Gv 6, 29). Infatti «unico è il *mediatore tra Dio e gli uomini, Cristo Gesù, uomo egli stesso» (l Tim 2, 5). Unico è il Padre al quale i credenti sono condotti per avere, per mezzo del Figlio, la vita in abbondanza e per sempre.
    2. Primato di Cristo.
    - Gesù dà la vita del Padre perché è «il principio, primogenito di tra i morti... Piacque a Dio far abitare in lui tutta la *pienezza, e per mezzo suo *riconciliare con sé tutti gli esseri, facendo la pace mediante il sangue della sua croce» (Col 1, 18 ss). Le divisioni che affliggono l’umanità peccatrice non sono disconosciute, ma sono ormai superate e poste in rapporto ad un essere *nuovo, secondo una nuova dimensione, l’essere in Cristo: «Non c’è più né Giudeo né Greco, non c’è più né schiavo né libero, non c’è più né uomo né donna; perché voi tutti non fate che uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28). Tra i sessi la differenza era diventata conflitto; la scissione della coppia si era dilatata in divisioni sociali e razziali. Ritrovando la propria unità in Cristo, l’uomo è in grado di dominare le situazioni umane: *libertà o *schiavitù, *matrimonio o *verginità (1 Cor 7), ciascuna ha un senso, ciascuna ha il suo valore in Cristo Gesù. La confusione delle *lingue, che simboleggiava la divisione e la *dispersione degli uomini, è superata dal linguaggio dello Spirito che Cristo dona continuamente; e questa carità si esprime attraverso la varietà dei *carismi, a gloria del Padre.
    3. L’uomo nuovo.
    -
    E'  anzitutto Cristo in persona (Ef 2, 15), ma anche ogni credente nel Signore Gesù. La sua esistenza non è più asservita alla *carne, ma vittoria continua dello *spirito sulla carne (Gal 5, 16-25; Rom 8, 5-13). Unito a colui che prese un «corpo di carne» (Col 1, 22), il *corpo del cristiano partecipando nel *battesimo alla morte di Cristo (Rom 6, 5 s), è morto al peccato (Rom 8, 10), il suo corpo di miseria diventerà un corpo di gloria (Fil 3, 21), un «corpo spirituale» (1 Cor 15, 44). Il suo intelletto è rinnovato, trasformato (Rom 12, 2; Ef 4, 3); sa giudicare (Rom 14, 5) alla luce dello Spirito di cui esprime razionalmente le esperienze: non è esso forse l’intelletto stesso di Cristo (1 Cor 2, 16)? Se l’uomo non è più un semplice mortale perché la fede ha posto nel suo cuore un germe di immortalità, deve nondimeno morire continuamente all’«uomo *vecchio» , in unione con Gesù Cristo morto una volta per tutti; la sua vita è *nuova. Così «noi tutti che, a viso scoperto, riflettiamo come in uno specchio la gloria del Signore, siamo trasformati in questa stessa immagine, sempre più gloriosa, come conviene all’azione del Signore che è Spirito» (2 Cor 3, 18). L’uomo nuovo deve progredire continuamente lasciandosi pervadere dall’immagine unica che è Cristo: attraverso l’immagine sfigurata dell’uomo vecchio si manifesta sempre meglio l’immagine gloriosa dell’uomo nuovo, Gesù Cristo nostro Signore; e con ciò l’uomo «si rinnova ad immagine del suo creatore» (Col 3, 9).
    4. La creazione.
    - Infine la *creazione, che suo malgrado fu assoggettata alla vanità e che fino a questo giorno geme con noi nel travaglio del parto, conserva anch’essa la *speranza di essere liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella *libertà gloriosa dei figli di Dio. Se, in seguito al peccato, il lavoro resta penoso, è nuovamente valorizzato dalla speranza di essere trasfigurato nella gloria finale (Rom 8, 18-30). E quando l’ultimo nemico, la morte, sarà stato distrutto, il Figlio consegnerà il regno a Dio Padre, e così Dio sarà tutto in tutti (1 Cor 15, 24-28).
    X. LÉON DUFOUR
    → Adamo - anima - bene e male I 3 - carne - corpo - creazione VT II 1.2, IV - Dio VT III 5 - donna - figlio dell’uomo VT I - figlio di Dio NT II - Gesù Cristo II I c - immagine - lavoro - matrimonio - mondo - nuovo III 3 - opere VT II - prova-tentazione VT II - responsabilità - sapienza VT II 2 - sessualità I - solitudine I - spirito - terra VT I; NT II 3 – veste.

    URAGANO (inizio)

    1. Interpretazione pagana.
    - Nell’Oriente antico, l’uragano è considerato come la manifestazione di un dio (Baal in Canaan). Questa manifestazione presenta tre caratteristiche. Spiegamento di forze cosmiche dinanzi alle quali l’uomo non può nulla, l’uragano rivela la maestà terrificante del dio. Fenomeno pericoloso per l’uomo, è, a questo titolo, un segno di ira: il dio, nascosto nella nube, urla contro i suoi nemici (= tuono) e lancia contro di essi le sue saette (= lampi) (cfr. Sal 18, 6-16). Infine, apportando la pioggia che fertilizza, l’uragano fa vedere nel dio la fonte della fecondità.
    2. L’uragano, segno della maestà divina.
    - Nel linguaggio biblico è eliminata ogni risonanza politeistica, specialmente quella connessa con i culti di fecondità; ma l’uragano conserva un senso. È una delle meraviglie che proclamano la grandezza del creatore (Ger 51, 16 s; Sal 135, 7; Giob 38, 34-38), una manifestazione velata della sua terribile maestà (Giob 36, 29 - 37, 5): Dio siede in trono sopra di esso nella sua trascendenza (Sal 29). Perciò esso permette di rappresentare il Signore nella sua *gloria (Giob 38, l; Ez 1, 13 s; 10, 5; Apoc 4, 5; 8, 5 ss; 10, 3 s). È la cornice della teofania classica in cui sono evocati gli interventi di Dio in terra: quelli della storia sacra, al momento dell’esodo (Sal 77, 19 ss), al Sinai (Es 19, 16-19), per l’ingresso in Canaan (Giud 5, 4 s); quelli mediante i quali libera il suo unto (Sal 18) od il suo popolo (Ab 3, 3-16); quello che inaugurerà il suo regno definitivo (Sal 97, l-6). Tuttavia Dio non è soltanto una *presenza maestosa che ispira un terrore sacro. Elia all’Horeb è già invitato ad andare oltre questo segno parziale, per intendere una rivelazione più alta: Dio è pure una presenza intima, che parla all’uomo con la dolcezza di una brezza leggera (1 Re 19, 11 ss ).
    3. L’uragano, segno dell’ira divina.
    - Per manifestare le disposizioni di Dio nei confronti degli uomini, l’uragano rimane un segno ambiguo: segno benefico, quando, grazie ad esso, Dio accorda la *fecondità ad una natura desolata (1 Re 18); ma anche flagello temibile, che Dio riserva ai suoi nemici come un segno della sua *ira (Es 9, 13-34). La teofania dell’uragano conviene quindi particolarmente a Dio quando giudica e *castiga (Is 30, 27 ss), soprattutto al momento del *giudizio finale quando lancerà le sue folgori contro *Babilonia (Apoc 16, 18; cfr. 11, 19). Perciò, per anticipazione di questo giudizio, la voce divina si fa sentire come un colpo il tuono quando proclama la glorificazione del Figlio nel momento in cui il principe di questo mondo sarà cacciato fuori (Gv 12, 28-32). Questa prospettiva di giudizio farebbe tremare di spavento se Dio non desse assicurazione ai suoi che sarà loro riparo contro l’uragano: da questo flagello escatologico è minacciato soltanto il mondo peccatore (Is 4, 6). Infatti *Dio è ben diverso da un Giove tonante: Gesù fa comprendere ai «figli del tuono» (Mc 3, 17) che egli non si compiace nello scagliare le sue folgori su coloro che non l’accolgono (Lc 9, 54 s). La teofania dell’uragano è ormai completata dalla rivelazione della grazia divina, che ci è data nella persona di Gesù (cfr. Tito 2, 11). «Trombe, lampi, terremoti; ma quando tu discendesti nel seno di una vergine, il tuo passo non fece alcun rumore» (epigramma cristiano sulla natività di Cristo).
    P. GRELOT
    → calamità 0 - fuoco VT I 2 - gloria III 1 - nube - presenza di Dio VT II.

    USCIRE (inizio)

    → esodo - porta.

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