ICONA - INFANZIA SPIRITUALE - DIZIONARIO DI MISTICA

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ICONA - INFANZIA SPIRITUALE

I - K

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I

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ICONA. (inizio)

Premessa. Fra le più nobili attività dell'ingegno umano sono, a pieno diritto, annoverate le arti liberali, soprattutto l'arte religiosa e il suo vertice, l'arte sacra (cf SC). Una forma particolare di arte sacra è l'i. La tecnica e alcuni elementi estetici rivelano il carattere particolare di quest'arte. In effetti, essa è una pittura ad encausto o a tempera, su un pannello di legno, eseguita secondo una tradizione tramandata da secoli. Vi sono raffigurati il Cristo, la Madonna, i santi, scene dell'AT e del NT, nonché numerose feste del calendario liturgico.

I. Il termine. I. (dal greco eikon) significa immagine. Tuttavia l'i., per il suo carattere simbolico, aggiunge all'immagine un'altra dimensione, quella del trascendente: supera le forme del nostro mondo per rendere presente il mondo di Dio. Riflette, perciò, le realtà invisibili nella materia (Giovanni Damasceno). In effetti, l'i. rappresenta un personaggio (o un avvenimento): richiama colui che raffigura e diviene, pertanto, un legame tra colui che è rappresentato e lo spettatore attraverso un'analogia. Neanche la più elevata unione mistica può equivalere alla perfetta unione.

II. Nella vita cristiana. L'intero percorso mistico orienta a questa unione con Dio. Che l'anima cristiana abbia sete di qualche mezzo che la elevi e la unisca al divino, è innegabile. La preghiera e soprattutto la contemplazione sono mezzi efficaci e indispensabili. Infatti l'uomo, per instaurare un incontro con Dio, deve liberarsi da ogni legame con il mondo e il peccato, come pure da ogni influsso esteriore, immergersi nella notte mistica ed attendere l'illuminazione divina. L'i. opera questo incontro nella preghiera. Invitando l'orante a riconciliarsi con Dio, lo aiuta a ritrovarlo e, infine, a realizzare una visione spirituale, ma non meno reale di Dio.

Un incontro personale esige una presenza personale, perciò la presenza divina è necessaria nell'incontro dell'orante con Dio e l'i., per gli orientali, è come un sacramentale di tale presenza. Questo afferma il Concilio Costantinopolitano IV dell'869-870: " Ciò che il Vangelo ci dice con le parole, l'i. ce lo annuncia con i colori e lo rende presente ". E una presenza dinamica al punto da rendere misteriosamente presente Dio. Essa ricrea nel credente la coscienza di una presenza divina tangibile. Vale la pena sottolineare che è proprio la teologia della presenza, secondo la Chiesa ortodossa, che costituisce l'essenza dell'i.

Il Metodo della Riforma carmelitana di Touraine, dopo aver descritto in poche parole la vita mistica, conclude tutto il trattato sull'orazione con queste parole: " Ecco i confini di quella regione al cui possesso aspirano gli esercizi dell'orazione e della presenza di Dio ". Quella regione è il divino e il suo possesso va inteso come comunione interpersonale tra Dio e l'uomo. Da parte sua, l'i. permette questo possesso o comunione per il fatto che è un simbolo. Secondo la tradizione secolare della Chiesa d'Oriente e d'Occidente, l'esperienza spirituale che si avvale delle i. può trasformarsi in sorgente di santità e di mistica comunione con il Dio di Gesù Cristo.

Essa, infatti, si ritrova nell'esperienza dei mistici. Ai suoi vertici tale esperienza trascende verso l'indescrivibile e l'ineffabile, postula una radicale metamorfosi dell'essere umano, la sua deificazione. " Se l'arte non compie il miracolo di trasformare l'anima dello spettatore, non è che una passione passeggera... " (N. Gogol). Per questo motivo, non si può neppure pensare che la più alta forma dell'arte sacra, l'i., non trasformi l'anima dell'orante. In effetti, attraverso l'i. l'invisibile si lascia intravedere, contemplare, e tale contemplazione trasforma l'orante di luce in luce, di gloria in gloria: è la divinizzazione.

Di conseguenza, l'orante sente in se stesso di comprendere infinitamente chi è Dio e sperimenta in sé un'infinita gioia. Tuttavia, nessun mistico può narrare adeguatamente la sua esperienza, neppure gli stessi mistici possono comprendere ciò che sperimentano. Ciò nonostante, è facile dedurre dalle loro parole che le cose che vengono ad essi comunicate dalla divina generosità sono mirabili e soavissime e che nessuna delizia della terra può essere paragonata ad esse. E siccome nella contemplazione mistica tutto l'uomo, spirito e corpo spiritualizzato, partecipa all'esperienza delle cose divine, anche il corpo è, a volte, ripieno di grandi delizie. Si dice che A. Rublëv ( 1430) e un suo amico trascorressero i rari momenti di riposo davanti alle antiche icone, " ripieni di gioia divina ", come assorti in una incessante contemplazione.

Bibl. J. Castellano, s.v., in DES II, 1241-1251; M. Donadeo, Le icone, Brescia 1980; P. Evdokimov, Teologia della bellezza, Roma 19905; G.I. Gargano, Icona e Parola, in C. Valenziano (cura di) Spiritualità cristiana orientale, Milano 1986, 61-72; M.G. Muzj, Trasfigurazione. Introduzione alla contemplazione delle icone, Cinisello Balsamo (MI) 1987; H. Nouwen, Behold the Beauty of the Lord - Praying with Icons, Notre-Dame 1987; M. Quenot, L'icona, finestra sull'Assoluto, Roma 1991; E. Sendler, L'icona immagine dell'invisibile, Roma 19924; T. Spidlík - P. Miquel, s.v., in DSAM VII, 1224-1239; L. Uspenskij, La teologia dell'icona, Milano 1995.

V. Borg Gusman

IDENTIFICAZIONE. (inizio)

I. Il termine. L'i. psicologica è un concetto di origine freudiana interpretabile in diversi modi, costituito da elementi disuguali, ma non discordanti. E un termine ambiguo in quanto esprime, a volte, un'i. parziale, frutto di una repressione che esclude le potenzialità umane superiori dal campo della consapevolezza e che porta in se stesso un vizio di fondo che proviene dall'immagine ristretta e riduttiva della persona, chiusa al mondo dei valori.

E ambiguo anche perché, al posto di un'imitazione cosciente e libera di un modello o di un santo, suggerisce l'idea di un meccanismo inconscio di difesa di sé, di orientamento psicosessuale, prodotto dalla necessità di affetto, di sicurezza e di stima. Tende, altresì, a copiare il comportamento esterno e a cercare il superamento dell'ansia o della frustrazione che proviene generalmente da bisogni non soddisfatti.

Inoltre, è ambiguo perché ispira sia il senso attivo di identificare o di riconoscere qualcosa nelle sue caratteristiche, sia il senso riflessivo di immedesimarsi con qualche persona o cosa.

Tale termine, adoperato prevalentemente nelle scuole psicanalitiche, si riferisce alla dinamica psicologica secondo cui " un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo di un'altra persona e si trasforma, totalmente o parzialmente, sul modello di quest'ultima ".1

II. La personalità si costituisce e si differenzia attraverso una serie di identificazioni. In tale processo sono fondamentali due momenti chiave dello sviluppo personale, cioè il superamento del complesso edipico attraverso l'i. inconscia con la figura paterna o materna e la formazione della propria identità adolescenziale attraverso l'immedesimazione con la condotta di un eroe, di una moda o di un gruppo. Questi e altri processi di i. sono frequenti nella società dei consumi o del divismo, per questo alcuni autori studiano i vari pericoli cui si va incontro, quali il narcisismo (Freud) o l'i. con l'aggressore (Spitz).

In questo senso l'i. costituisce un tentativo immaturo per pervenire ad un'identità sicura, in quanto fa tendere ad imitare il comportamento esterno, ma crea delle persone dipendenti, invece di conferire loro l'originalità fondata sull'assunzione dei valori.

III. Nell'ambito della mistica interessa piuttosto quest'ultimo atteggiamento, perciò, sulla scia delle nuove correnti psicologiche, come quella della " Self-Esteem " (N. Branden) o quella " Transpersonale " (K. Wilber), l'i. si riferisce alla scoperta prima e all'impegno poi, rivolti ai valori superiori della vita, della religione, della fede.

E l'i. trascendentale che esprime il desiderio di realizzare se stessi nell'amore e nella giustizia con il compiere la propria missione universale. Le psicologie transpersonali descrivono una indefinita unione o i. con la divinità, con una certa coscienza di unità con tutta la creazione. La psicosintesi, in particolare, la definisce come " identità intuitiva ", imperfetta e non pienamente integrata all'inizio con una visibile distinzione tra l'individuo e l'Assoluto. Ma nello stadio finale il soggetto entra pienamente nel regno dello Spirito e trascende ogni differenza in modo tale da smettere di esistere come realtà separata perché si è identificato con la vita eterna ed immutabile.

Si tratta di un viaggio spirituale come presa di coscienza sempre più chiara e di un'i. progressiva con la realtà totale. E un cammino di trasformazione interiore accompagnato da forti purificazioni. Ogni attaccamento ad immagini ed elementi parziali fissa il centro della coscienza solo su un piano bio-psico-sociale e impedisce tale processo di trascendenza. Per questo motivo, la disidentificazione o il distacco da essa è indispensabile per favorire lo sviluppo integrale della coscienza e con esso la possibilità di unificare il complesso dei pensieri, dei sentimenti, delle emozioni e degli istinti.

Nell'i. totale dell'io la persona ha integrato le potenzialità umane inferiori e si è immersa nel mondo universale e infinito, eterno ed immutabile. E la vita propria del santo, che ormai ha superato ogni divisione e conflitto e si situa nella perfetta armonia. Una visione unitaria della creazione lo ha portato al superamento delle i. parziali e alla riunificazione degli elementi dispersi, ragion per cui contempla ogni cosa, anche la morte stessa, come il momento trascendentale di liberazione e di integrazione al tutto da cui è disceso. Ha raggiunto uno stato di sintonia con i ritmi della vita cosmica, ricco di concordanza interiore e di unità esteriore. Come conseguenza, egli gode di un amore universale, che diffonde altruismo e oblatività.

Note: 1 J. Laplanche - J.B. Pontalis, Enciclopedia della psicanalisi, Roma 1987, 214.

Bibl. R. Assaggioli, Psicosintesi, Roma 1971; E.H. Erikson, Gioventù e crisi d'identità, Roma 1987; S. Freud, Totem e tabù (1912-13), VII, Torino 1977; Id., Introduzione al narcisismo (1914), VII, Torino 1977; D. Giovannini (ed.), Identità personale: Teoria e ricerca, Bologna 1979; L. e R. Grinberg, Identità e cambiamento, Roma 1992; J. Laplanche - J.B. Pontalis, Enciclopedia della psicanalisi, Roma 1987; G. Morino, Il concetto di identificazione, Torino 1980; B.M. Olivetti, Identificazione e proiezione, Bologna 1976; G. Scarpellini, s.v., in DES II, 1253-1254; W. Toman, s.v., in Aa.Vv., Dizionario di psicologia, Roma 1982, 507.

B. Goya

IEROGNOSI. (inizio)

I. Il termine etimologicamente significa " conoscenza di ciò che è sacro ". Si usa per indicare la facoltà di alcuni santi, specialmente in estasi, di riconoscere le cose sacre: le sacre particole, i rosari, gli scapolari benedetti e altro, da quelli non consacrati o non benedetti. Riferiamo alcuni esempi. Distinsero la particola consacrata dalla non-consacrata, la beata Sibillina di Pavia ( 1367), la beata Margherita di Castello ( 1320), s. Caterina da Siena, s. Liduina ( 1433), s. Francesca Romana, il beato Umile da Bisignano ( 1637), S. Francesco Borgia ( 1572), la beata Anna Maria Taigi ( 1837), Caterina Emmerick e altri. Quest'ultima aveva il dono di riconoscere le autentiche reliquie dalle false.

In alcuni casi il riconoscimento è fatto perché un angelo avverte il soggetto, oppure perché questi non sente un particolare profumo o non ha una particolare esperienza spirituale quando l'oggetto non è sacro.

Come si spiega tale conoscenza? Alcuni ricorrono alla chiaroveggenza o alla telepatia. Alla chiaroveggenza, quando il sacerdote, nel caso dell'Eucaristia, ritiene che nel vaso sacro non ci siano particole, mentre c'è un frammento che il comunicando avverte. Si ricorre alla telepatia, invece, nei casi in cui il sacerdote sa quello che fa e il comunicando legge il suo pensiero. Questo caso è più frequente. Ma vi sono casi in cui non si possono addurre tali spiegazioni e sono quelli nei quali l'angelo ammonisce, si avverte il profumo, si provano particolari esperienze spirituali.

II. Gratia gratis data. Il padre Arintero spiega questa facoltà con una sorta di simpatia o di connaturalità con la realtà divina acquisita dall'anima ormai trasformata in Dio. In ultima analisi si può parlare di una gratia gratis data non permanentemente concessa alle persone né necessariamente ai mistici.

Bibl. A. Imbert-Gourbeyre, s.v., in Aa.Vv., La stigmatisation, t. II, Paris 1894, 298-315; I. Rodríguez, s.v., in DES II, 1254-1255; A. Royo-Marin, Teologia della perfezione cristiana Roma 1965, 1082-1085; W. Schamoni, Wunder sind Tatsachen, Würzburg 1976.

V. Marcozzi

IGNAZIO D'ANTIOCHIA (santo). (inizio)

I. Vita e opere. " I., tuttora celeberrimo, occupa la sede vescovile di Antiochia, secondo dopo s. Pietro ".1 Succede a Evodio 2 nell'anno 70; 3 ha relazioni con gli apostoli.4 E inviato dalla Siria a Roma per essere gettato in pasto alle fiere a causa della testimonianza da lui resa a Cristo.

Compiendo il suo viaggio attraverso l'Asia nelle singole città, dove sosta, scrive lettere alle chiese. Nella prima tappa, a Smirne, dov'è vescovo Policarpo ( 155), scrive quattro lettere: rispettivamente alla chiesa di Efeso, a quella di Magnesia, di Tralli e di Roma, che egli scongiura di non privarlo del martirio. Nella seconda tappa, a Troade, scrive tre lettere: alla chiesa di Filadelfia, di Smirne e al vescovo Policarpo, cui affida il proprio gregge di Antiochia. Da Troade, condotto per mare a Neapolis in Macedonia, I. prosegue sulla via Egnazia, giungendo per la Macedonia e l'Illirico ad uno dei due porti di Durazzo e di Apollonia, da cui salpa per Brindisi; da qui per la via Appia raggiunge Roma, dove subisce il martirio verso il 107. Quanto alle lettere, delle tre recensioni trasmesseci dalla tradizione manoscritta, la recensio media è suffragata da sicure testimonianze: lo Zahn (1873), il Funk (1883) e il Lightfoót (1885-89), con l'Harnack, hanno dimostrato che questa recensione è il textus receptus autentico.

II. Dottrina teologica. Le lettere d'I. sono occasionali, non offrono una sistematica dottrina teologica, ma testimoniano la più antica tradizione, quella della chiesa di Antiochia, dove per la prima volta i fedeli sono chiamati cristiani (cf At 11,26). Vi sono attestati i più importanti dogmi: unità e trinità di Dio, divinità di Gesù Cristo (in chiave antidocetica), sua risurrezione, concezione verginale di Maria, effetti della redenzione, battesimo, Eucaristia, matrimonio (Polic. 5,2: unico esempio nei Padri apostolici), Chiesa mistica e chiese locali, gerarchia ecclesiastica a tre gradi (vescovo, presbiteri e diaconi). L'ecclesiologia di I. è di modello gerarchico-piramidale con a capo il vescovo, centro dottrinale, disciplinare e liturgico secondo la logica della partecipazione. " Il vescovo tiene il luogo di Dio, i presbiteri tengono il luogo del senato degli apostoli, i diaconi sono incaricati del servizio di Gesù Cristo " (Magn. 6,1). " Il Padre di Gesù Cristo è il vescovo universale: chi inganna il vescovo visibile, inganna quello invisibile " (Magn. 3,1-2).

III. La mistica d'I. (e dei Padri) si spiega unicamente in rapporto al mistero di Cristo, in senso paolino, ossia al carattere salvifico della croce di Cristo; solo così si dà una mistica cristiana. I migliori storici contemporanei delle religioni comparate attestano che il mistero paolino non si spiega mediante una contaminazione dei misteri pagani. Da parte sua Paolo afferma: " Io ritenni (...) di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso " (1 Cor 2,2). Ed ancora: " Tra i perfetti parliamo, sì, di sapienza, ma di una sapienza che non è di questo mondo, (...); parliamo di una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei secoli per la nostra gloria " (Ibid. 2,6-7). La sapienza, di cui parla Paolo, al di là di tutte le sapienze del mondo, è il disegno di Dio creatore di salvare l'umanità decaduta, riconciliandola con lui, mediante la croce di Cristo, che apre al trionfo finale: " Cristo in voi, speranza della gloria " (Col 1,27). Ma il disegno sapiente di Dio fu reso possibile dall'Incarnazione del Figlio suo, Dio-uomo. Ora, I. è l'unico tra i Padri apostolici ad usare il termine mysterion, anche se in tutti loro è principale la fede in Cristo morto, risorto e vivificatore del cristiano.5 In I. il tema è centrale e sta alla base di ogni sviluppo, specie della teologia del martirio e dell'Eucaristia (cf Lettera ai Romani). Il primo passo contenente il nostro termine è Magn. 9,1-2, dove I. parla dei giudei, che non osservano più il sabato, " ma vivono secondo la domenica, in cui è spuntata la nostra vita per mezzo di lui e della sua morte (...): lui, per mezzo del cui mistero (mysteríon) noi abbiamo ricevuto la fede ". Anche per I., come per Paolo, il senso ultimo del mistero salvifico della croce di Cristo è la nostra vita risorta con lui. Il secondo passo è Ef 19,1, primo esempio, in cui mysterion è applicato all'Incarnazione, includente, a sua volta, altri misteri: " Nascosti al principe di questo mondo furono la verginità di Maria e il suo parto, come pure la morte del Signore: tre misteri destinati a venire proclamati (mysteria krauges), maturati nel silenzio di Dio ". Pur tra misteri costituenti l'economia salvifica, l'orizzonte è sempre quello paolino della croce. Il silenzio di Dio, in I. come in Paolo, è riferito al disegno nascosto di salvezza, ma destinato ad essere rivelato a tutti, a differenza del "silenzio sacro" dell'ellenismo, caro a certi gnostici eretici, dal quale sarebbe emanata la Parola (logos). I. non parla di misteri pagani; notiamo che Giustino ( 165 ca.) è il primo scrittore cristiano a ricordare il mistero cristiano e insieme i misteri pagani; si dovrà arrivare ad Ireneo per trovare un incontro tra la terminologia del mistero cristiano e quella di altri misteri, non di quelli pagani, ma di quelli della gnosi eretica.6

IV. La mistica dell'unità teocentrica, cristocentrica, ecclesiale ed eucaristica. A I. è " affidato il compito dell'unità " (Fil 8,1): unità di Dio, di Cristo, della Chiesa cattolica (qualificativo usato per la prima volta nei Padri), dell'Eucaristia.

1. La contemplazione del mistero di Cristo si configura in I. anzitutto come una contemplazione mistica su Dio e il suo disegno salvifico e su Cristo. Contro i giudaizzanti, la contemplazione s'incentra sull'unità dell'economia divina (cf Ef 18,2 e 20,1), su Cristo rivelatore del Dio unico (cf Magn. 8,2). Dio invisibile si è reso conoscibile in Cristo (cf Polic. 3,2): " La conoscenza (gnosis) di Dio, è Gesù Cristo " (Ef 17,2). Ma il Cristo è uno col Padre. Gesù Cristo si è veramente incarnato (contro i doceti) (cf Trall. 1-2; Sm. 1,1-2). La mistica di I. non è una mistica metafisica, né vago misticismo. " Fondata sulla fede nella passione e nella risurrezione di Gesù Cristo, essa si radica in pieno realismo cristiano. Questo ruolo, assolutamente primo, dato al mistero del Cristo incarnato, morto e risorto separa una mistica autenticamente cristiana da un misticismo gnostico e platonico ".7 L'influsso di Paolo è qui decisivo (P. Meinhold).

Chiamato " dottore e mistico dell'unità ",8 egli stesso si autodefinisce " un uomo fatto per l'unità " (Fil. 8,1). Unità, in primo luogo, in Dio (cf Trall. 11,2; Fil. 8,1).

2. Ma l'unità di Dio rifluisce nell'unità di Cristo, anche se finalizzata a Dio: " (...) Prego perché vi sia in esse (nelle chiese) l'unità di carne e di spirito di Gesù Cristo, nostra vita per sempre, (l'unità) di fede e di amore, di cui nulla è preferibile, e, ciò che è più importante, (l'unità) di Gesù e del Padre, in modo che resistendo e scampando ad ogni assalto del principe di questo mondo, noi raggiungeremo Dio " (Magn. 1,1-2). La prima è l'" unità di carne e di spirito di Gesù Cristo ". Il binomio sintetico-antitetico sarx-pneuma, tipico in I., indica la sfera umana (sarx) e divina (pneuma) dell'Uomo-Dio. La preghiera del mistico I. è diretta a conseguire nelle sue comunità l'unità "cristica", in quanto è la stessa unità costitutiva della Persona umano-divina del Cristo stesso; l'unità teandrica di Cristo si fa archetipo dell'unità del cristiano e della comunità. Cristo, che è il risorto e il vivente, mantiene unite, in quanto sarx-pneuma, in sé queste due sfere. Il Cristo, "nostra vita per sempre", è l'archetipo esemplare, il paradigma dell'Uomo-perfetto, in quanto egli come mediatore (cf Magn. 7,2), realizza in sè l'unione dell'umano e del divino. L'unità di Cristo dev'essere imitata dal cristiano, che partecipa dell'unità teandrica di lui e, costituendosi in una unità quasi "ipostatica", diviene un altro Cristo. La seconda unità è quella di " fede e amore ", binomio sintetico, che indica la globalità della vita cristiana, che ha come archetipo assoluto " l'unità di fede e di amore " del Figlio fattosi uomo. La terza unità, quella fondamentale, è " l'unità di Gesù e del Padre ". Ogni unità su questa terra è finalizzata a diventare una cosa sola come il Cristo e il Padre, nel Cristo e nel Padre. L'espressione tykein Theou (congiungersi a Dio),9 con cui è sintetizzata la triplice unità, è usata nel passo citato al plurale, in riferimento ad ogni cristiano come membro della comunità: per il martire I., e per ogni cristiano che vive nella Chiesa, lo scopo è lo stesso: congiungersi a Cristo nella sua Unità col Padre.10

3. L'unione del cristiano a Cristo è realtà che si realizza nella Chiesa: " Il Capo (Cristo) non può essere generato separatamente senza le membra, dal momento che Dio ha promesso l'unità che è egli stesso " (Trall. 11,2). L'ecclesiologia d'I. è di tipo gerarchico-piramidale, al cui vertice è situato il vescovo: " Là dove appare il vescovo, ci dev'essere la comunità, come là dove c'è Cristo, c'è la Chiesa cattolica " (Sm. 8,1-2). Solo nella Chiesa il cristiano si congiunge a Dio (cf Magn. 6,1-2). " ... Una sola preghiera, una sola supplica, una sola mente, una sola speranza nell'amore, nella gioia senza macchia; (tutto) questo è Gesù Cristo ... Tutti accorrete insieme come ad un unico tempio di Dio, come ad un unico altare, ad un unico Gesù Cristo che, uscito dal Padre Uno, era con l'Unico ed è ritornato verso lui " (Magn. 7,1-2). Ma la Chiesa, intesa in I., per lo più, come comunità locale, viene costruita nella celebrazione eucaristica, tempo e luogo, in cui si attua l'unione dei fedeli a Cristo e tra di essi: " Preoccupatevi di partecipare ad una sola Eucaristia. Una, infatti, è la carne del Signore nostro Gesù Cristo e uno il calice in vista dell'unità del suo sangue, uno l'altare, [come uno è il vescovo insieme al presbiterio e ai diaconi, miei con-servi]. Se farete ciò, lo farete secondo Dio " (Fil. 4; cf Ef. 5,2-3). L'unione con Cristo deve, infine, essere concreta e visibile: " Bisogna non solo chiamarsi cristiani, ma esserlo " (Magn. 4). " Facciamo ... tutto pensando che egli abita in noi, affinché siamo templi suoi ed egli il nostro Dio in noi. Così è davvero, e ciò apparirà manifestamente ai nostri occhi se lo ameremo realmente " (Ef. 15,1-2). L'unione a Cristo deve diventare imitazione di lui, nell'amore anche ai nemici: " Nell'accondiscendenza troviamoci loro (dei nemici) fratelli; sforziamoci di essere imitatori del Signore; ... in ogni purezza e temperanza rimanete in Gesù Cristo, nella carne e nello spirito " (Ef. 10,3). I. prega, affinché il cristiano imiti Cristo e diventi un crocifisso per amore, testimone di quell'unità che dal Padre si comunica nello Spirito al Figlio Uomo-Dio e da lui alla comunità dei credenti.

V. Mistica del martirio. Per primo egli ci fornisce una mistica del martirio. Alle radici del martirio egli colloca la speranza cristiana che ha per oggetto non l'immortalità naturale, ma la risurrezione del corpo umano, garantita dalla risurrezione di quello di Cristo; in lui, realtà della passione e realtà della risurrezione procedono insieme (contro i doceti) (cf Sm. 3). Ora " l'importanza del martirio deriva dal fatto che esso ci offre una possibilità, mediante l'assimilazione al Cristo morto e risorto, di raggiungere e, in un certo senso, d'anticipare l'evento escatologico ".11 L'essenziale per lui è, infatti, " ritrovarsi in Gesù Cristo per la vita eterna " (Ef. 11,1). " Lasciate che io sia pasto delle belve, per mezzo delle quali mi è dato di raggiungere Dio! " (Rom. 4,2). E il desiderio struggente di raggiungere Dio e Cristo, il segreto della sua aspirazione al martirio: " Quanto è per me più glorioso morire per (verso: eis) Cristo Gesù, che regnare su tutta la terra... Io cerco colui che è morto per noi; io voglio colui che per noi è risorto ... L'acqua viva mormora dentro di me e mi dice: "Vieni al Padre!" " (Ibid. 6,1; 7,2).

Il cristiano, inoltre, è chiamato ad imitare Cristo fino al martirio: " Se noi non siamo disposti a morire per imitare la sua passione, la sua vita non è in noi " (Magn. 5,2): nel Martirio di Policarpo è detto che " i martiri (...) li veneriamo degnamente, come discepoli e imitatori del Signore " (17,3). A questo punto, speranza di " raggiungere Cristo " e imitazione di Cristo si fondono insieme. Tutto si orienta verso una presenza di Cristo in noi e di noi in lui, che il martirio deve realizzare: questo è lo scopo del martirio.12

In I. il tema del martirio s'intreccia col tema dell'Eucaristia, che è " farmaco d'immortalità, antidoto che preserva dalla morte e assicura per sempre la vita in Gesù Cristo " (Ef. 20,2). Ciò è reso possibile dal fatto che l'Eucaristia è partecipazione al Cristo risorto, garanzia che anche noi risorgeremo. La mistica del martirio rapportata all'Eucaristia veicola un significato assai ricco che, cioè, l'Eucaristia, nutrendoci del Cristo risorto, ci fa partecipare alla sua passione e, più profondamente, all'agape che la suscita e la nutre. " Nell'Eucaristia, egli ci ha dato il germe di quello che egli è, ha innestato in noi il processo che ve l'ha condotto; nel martirio, questo processo si dispiega e questo germe porta il suo frutto: soffrendo con lui, non solo noi risuscitiamo con lui, ma diventiamo in qualche maniera il Risorto ".13 Il sacrificio del martire (" Lasciate che io sia immolato a Dio, finché l'altare è pronto " [Rom. 2,2]), è finalizzato alla chiesa di Efeso: " Io mi offro in sacrificio per voi, Efesini, chiesa famosa attraverso i secoli " (Ef. 8,1; cf Trall. 13,3). In questi testi lo slancio mistico è diretto dalla volontà di diventare un tutt'uno con Cristo, morto e risorto: il tema dell'unità, il tormento d'I., finisce sempre per focalizzarsi in Cristo.

Note: 1 Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, 3,36; 2 Ibid., 3,22; 3 Id., Chron. ad annum Abr. 2085; 4 Crisostomo, Omelia su Ignazio: PG 50, 588; 5 L. Bouyer, Mysterion. Du mystère à la mystique, Paris 1986, 167-168; 6 Ibid., 170-171; 7 P-T. Camelot, Ignace d'Antioche [saint], Paris 1958, 1257; 8 Ibid., 20; 9 G. Bosio, La dottrina spirituale di s. Ignazio di Antiochia, in Sal 28 (1966), 524; 10 F. Bergamelli, L'unione a Cristo in Ignazio d'Antiochia, in S. Felici (ed.), Cristologia e catechesi patristica I, Roma 1980, 98; 11 L. Bouyer - L. Dattrino, La spiritualità dei Padri (II-V sec.), 3A Bologna 1984, 45; 12 P.-T. Camelot, Ignace d'Antiochie (saint), in DSAM VII2, 1263; 13 L. Bouyer - L. Dattrino, La spiritualità..., o.c., 52.

Bibl. F. Bergamelli, L'unione a Cristo in Ignazio d'Antiochia, in S. Felici (ed.), Cristologia e catechesi patristica I, Roma 1980, 73-105; Id., s.v., in G. Bosio et Al., Introduzione ai Padri della Chiesa. Secoli I e II, Torino 19932, 88-106; G. Bosio, La dottrina spirituale di sant'Ignazio di Antiochia, in Sal 28 (1966), 519-560; L. Bouyer - L. Dattrino, La spiritualità dei Padri (II-V secolo). Martirio-verginità-gnosi cristiana, 3A, Bologna 1984, 43-54; L. Bouyer, Mysterion. Du mystere à la mystique, Paris 1986, 167-169; P.-T. Camelot, Hellenisme et Spiritualité patristique, in DSAM VII1, 145-164; Id., s.v., in DSAM VII2, 1255-1266; Id., Ignace d'Antioche. Polycarpe de Smyrne. Lettres, Paris 1958; H. Paulsen, Studien zur Theologie des Ignatius von Antiochien, Göttingen 1978; Th. Preiss, La mystique de l'initiation du Christ et de l'unité de Église chez Ignace d'Antiochia, in Revue d'histoire et de philosophie religieuse, 18 (1938), 197-241; M. Viller - K. Rahner, Ascetica e mistica nella patristica. Un compendio della spiritualità cristiana antica, Brescia 1991, 37-40.

O. Pasquato

IGNAZIO DI LOYOLA (santo). (inizio)

I. Vita e opere. Nasce nel castello della Loyola nel 1491 e muore a Roma nel 1556. Viene educato prima nel castello dei genitori, poi nella casa del " Contador Mayor " dei Re cattolici ad Arevalo (Castiglia). Per alcuni anni serve il viceré di Navarra. Ferito nella difesa del castello di Pamplona, trascorre alcuni mesi lontano dalle armi, durante i quali legge la Vita Christi e il Flos Sanctorum che, suscitandogli il desiderio d'imitare le prodezze dei santi, ne avviano la conversione e l'avventura spirituale.

Comincia, così, una vita da povero pellegrino che lo conduce in Terra Santa. Al ritorno, inizia gli studi che gli permettono di essere ordinato sacerdote, insieme ad altri compagni che condividono la sua scelta di vita, nel 1537 a Venezia. Con questi fonda la Compagnia di Gesù, approvata da Paolo III ( 1549) nel 1540 con la Bolla Regimini.

Tra le sue opere ricordiamo gli Esercizi, frutto di prove straordinarie ed esperienze mistiche, nonché le Costituzioni. Inoltre, sono degne di nota l'Autobiografia e il Diario spirituale.

II. Esperienza mistica. La vita mistica di I., in senso stretto, è da ritrovarsi soprattutto nella sua Autobiografia e nel suo Diario spirituale. Tutta la sua personalità e la sua opera, particolarmente gli Esercizi spirituali e la Compagnia di Gesù con le sue Costituzioni, sarebbero incomprensibili nel loro senso più vero se non si tenesse conto della natura e delle qualità della mistica di I.

Le sue opere non sono frutto solo di studi o di sforzi umani, ma della sua esperienza spirituale personale intensissima.

1. Nell'Autobiografia infatti, fin dall'inizio della sua conversione, a ventotto anni, mentre legge la Vita Christi scritta da Ludolfo di Sassonia ( 1370) e il Flos Sancorum di Giacomo di Varazze ( 1298), comincia ad avere una luce particolare che lo apre al discernimento dei diversi spiriti che muovono l'anima. In questo momento, I. riceve una grazia speciale con una visione immaginativa della Vergine Santissima con il Bambino Gesù. Tale visione dura parecchio tempo e produce nella sua anima una consolazione intensissima, lasciandogli una grande nausea della vita passata e specialmente dei peccati della carne, così che " gli sembrava aver tolto dall'anima tutte le specie che prima aveva dipinto in essa " (Autobiografia n. 10). In virtù di questi effetti, pensa sia frutto di una visione soprannaturale; in seguito, mai più dà il minimo consenso alle cose della carne, come era capitato nella sua gioventù, in cui era stato un " uomo dato alle vanità del mondo " (Ibid. n. 1). E questo lo afferma quasi alla fine della sua vita, più di trent'anni dopo. In questa narrazione autobiografica si delineano quelle che dovevano essere alcune caratteristiche della sua vita mistica: mistica riflessiva, attenta al discernimento spirituale, orientata al servizio fedele di Dio (angelica per distinguerla da quella cherubica - più centrata sulla contemplazione della verità - e di quella serafica prevalentemente affettiva) nel compimento della volontà di Dio.

La sua esperienza spirituale raggiunge gradi straordinari e molto singolari durante i mesi trascorsi a Manresa come umile pellegrino, che alloggia e si alimenta di elemosina, dedito alla vita di penitenza e di orazione (sette ore al giorno), oltre alla partecipazione ad alcune ore canoniche nella chiesa di quella città, della confessione e Comunione il più frequentemente possibile. Arriva ad affermare che in quest'epoca Dio lo tratta " come un maestro di scuola tratta un bambino insegnandogli " (Ibid. n. 27) e in una considerazione imprevedibile afferma che le visioni e le illuminazioni che Dio gli dona sulla SS.ma Trinità, sulla presenza di Cristo nell'Eucaristia e su nostra Signora sono tali che molte volte pensa: " Se non avessi la Scrittura che ci insegna queste cose della fede, sarei pronto a morire per esse solo per ciò che ho visto " (Ibid. n. 29).

A Manresa riceve una grazia specialissima, la cosiddetta " illuminazione del Cardoner ". Accade sulle sponde del fiume Cardoner e consiste in una chiarezza e illuminazione dell'intelletto che lo fa penetrare nell'intimo delle cose spirituali, nel piano di Dio, in un modo talmente gratuito e in tale grado che gli sembra di svegliarsi ad un mondo del tutto nuovo " come se fosse un altro uomo e come se avesse un intelletto diverso da quello di prima " (Ibid. n. 30). Gli studiosi e gli intimi del santo riconoscono che, probabilmente, qui gli si discopre l'essenza del metodo degli Esercizi e, in questi, in particolare quello delle meditazioni del Re e delle bandiere. Inoltre, pare che qui gli siano stati donati il germe della vocazione e il carisma particolare nella Chiesa che lo condurrà, per mezzo del discernimento spirituale applicato alle circostanze storiche e alle grazie posteriormente ricevute, alla fondazione della Compagnia di Gesù. Molte altre volte ha la visione del Cristo che gli si rende presente in determinati momenti del suo pellegrinaggio in Terra Santa, a sua volta (cf Ibid. nn. 29, 41, 48, 52) accompagnato da sentimenti di grande consolazione e sforzo per continuare nel suo servizio e per prendere diverse determinazioni; ha anche visioni della SS.ma Vergine.

Cresce nel discernimento degli spiriti, durante i suoi studi (cf Ibid. nn. 54-55, 79, 82); però, diminuisce in questo periodo l'abbondanza delle grazie mistiche. Queste tornano con intensità particolare in Veneto, quando si prepara a celebrare la prima Messa e nei viaggi che seguono fino a raggiungere Roma, dove muore nel 1556. E durante il viaggio a Roma, nel 1537, che una nuova e specialissima grazia mistica lo conferma nel suo carisma di fondatore della Compagnia. Sente profondamente nella sua anima la grazia che il Padre vuole concedergli a Roma, e " stando un giorno in una chiesa facendo orazione sente un tale cambiamento nella sua anima e vede tanto chiaramente che Dio Padre lo pone con Cristo suo Figlio, che non può più dubitare del fatto che Dio Padre lo abbia messo con il suo Figlio " (n. 96). Di qui la convinzione ferma del nome della Compagnia di Gesù e di alcune altre sue caratteristiche.

La testimonianza principale della vita mistica di I. negli anni del suo generalato a Roma sono i due quaderni che si sono potuti conservare del suo Diario spirituale.

2. Nel Diario spirituale i suoi appunti manifestano una vita mistica particolarmente intensa nella celebrazione dell'Eucaristia e fanno constatare che da qui derivano le sue attività quotidiane. Secondo l'affermazione del maggiore studioso della mistica di I., P. de Guibert, si tratta di una vita mistica nel senso più stretto del termine.1 Un'anima condotta per i sentieri della contemplazione infusa, non nella stessa maniera, ma ad un grado simile a quello di s. Francesco d'Assisi o di s. Giovanni della Croce.

In essa spicca il carattere trinitario. Visioni e illuminazioni, accompagnate da un dono delle lacrime inarrestabile, lo fanno penetrare nelle profondità più insondabili della divinità, nell'essenza divina, nell'unità della natura e trinità delle Persone divine, nella circuminsessione e nelle processioni trinitarie, nelle Persone divine in particolare, soprattutto nella mediazione di Cristo, nell'azione dello Spirito Santo, ma anche nel ruolo di intercessione e di madre di Maria, insieme alla sua relazione con il corpo di Cristo nella Eucaristia. Ma la proiezione di queste grazie e l'orientamento che predomina nella persona mistica di I. sono quelli dell'attitudine di servizio apostolico, umile, amante e riverente, zelante servizio nel compimento di ogni manifestazione della volontà di Dio per collaborare alla sua opera di salvezza e di santificazione degli uomini, per la maggior gloria di Dio. Occorre notare la ripercussione in tutto il suo essere di queste grazie mistiche. Molte di queste si accompagnano ad una devozione crescente e ad un amore intenso, ad una gioia interna, ad una quiete e pacificazione, a mozioni interiori; in alcune occasioni riceve " locuzioni " interne ed esterne e anche una sorta di armonia musicale o gusti e sentimenti spirituali che a volte si possono descrivere solo con allusioni a colori o a sensazioni spirituali di tocchi o di altri sensi, intensità di fede speranza e carità, fiamme d'amore, visite, o illuminazioni. A volte, ci sono ripercussioni chiaramente corporee, forti e costanti, come le lacrime che minacciano di fargli perdere la vista. In altre occasioni sente oppressione al petto, interruzione della voce, drizzamento dei capelli, ecc.

I. non ci dà una dottrina particolare sulla vita e sui fenomeni mistici, ma insegna l'orazione e il discernimento. Si mostra particolarmente restio a parlare di ciò e predica in genere contro i fenomeni che accompagnano la vita mistica. Mira ad aiutare la persona a disporsi, con le virtù richieste, alla ricezione dei doni santissimi del Signore: con abnegazione e purezza di vita, umiltà e disponibilità. Apprezza ed insegna ad apprezzare questi doni sublimi e le grazie divine, in quanto possono disporre l'uomo a glorificare maggiormente il Signore ed essere uno strumento apostolico migliore e più efficiente a vantaggio del prossimo.

Grazie a questo stile di vita mistica e a questi atteggiamenti, I. dà origine ad una spiritualità dei contemplativi nell'azione: chiamati a cercare e a trovare Dio in tutte le cose, a servire il Signore unendo la propria volontà alla sua, più nel compimento della collaborazione richiesta da ciascuno in ogni momento, sia questa orazione che attività, che non nei deliqui dell'amore o nei rapimenti contemplativi.

Note: 1 J. de Guibert, La spiritualité de la Compagnie de Jésus, Roma 1953, 27.

Bibl. Opere: Monumenta Ignatiana. Series I ad IV, Madrid 1903-1918 (e Roma 1943-1945 = Monign); Autobiografia dettata al P.L. Gonzales da Camara: racconta la sua vita a partire dalla conversione fino al 1538; Esercizi spirituali, scritti in varie riprese e approvati da Paolo III, il 31 luglio 1548; Costituzioni della Compagnia di Gesù, tr. uff. it., Brescia 1969; Diario spirituale dal 2 febbraio 1544 al 27 febbraio 1545; Lettere (circa settemila) che trattano del governo dell'Ordine e della direzione spirituale. Queste e altre opere minori sono raccolte nel volume curato da M. Gioia, Gli scritti di Ignazio di Loyola, Torino 1977. Studi: Aa.Vv., s.v., in DSAM VII2, 1266-1318; Ch.-A. Bernard, L'illumination de l'intelligence. Un trait de l'expérience mystique ignatienne, in Greg 72 (1991), 223-246; R. Calassa, Il racconto del pellegrino. Autobiografia di s. Ignazio di Loyola, Milano 1966; C. de Dalmases, Il padre maestro Ignazio. La vita e l'opera di sant'Ignazio, Milano 1984; H.D. Egan, Ignatius Loyola the Mystic, Wilmington Del. 1985; Id., Ignazio di Loyola, in Id., I mistici e la mistica, Città del Vaticano 1995, 471-486; J.C. Futrell, The Mystical Vocabulary of Ignatius in the Diario, in Dossier " Constitutiones " A, Roma 1972, doc. VIII; F. Guerello - G. Rambaldi, Autobiografia e Diario spirituale, Firenze 1959; J. de Guibert, La spiritualité de la Compagnie de Jésus, Roma 1953; A. Haas, Los orígines del misticismo ignaciano en Loyola y Manresa, in Quaderni, CIS 13 (1982)2, 144-192; P. Juan-Tous, s.v., in WMy, 246-247; A. de la Mora, La devoción en el espíritu de san Ignacio, Roma 1982; Id., Mystique ignatienne, in RAM 19 (1938), 3-22 e 113-140; J. Nadal, Commentarii de Instituto S.I., Roma 1962= Mon. Nadal, vol. V: MHSI, 90; M. Ruiz Jurado, En torno a la gracia de acatamiento amoroso, in Manresa, 35 (1963), 145-154; P. Schiavone, Esercizi spirituali, Milano 1978; J. Stierli, Gott in allen Dingen finden Freiburg i.Br. 1981; C.A. Suquia, La Santa Misa en la espiritualidad de S. Ignacio, Vitoria 19892; M. Zechmeister, Mystik und Sendung. Ignàtius von Loyola erfährt Gott, Würzburg 1985.

M. Ruiz-Jurado

IGNORANZA. (inizio)

I. La nozione. " Dio è conosciuto tramite l'i. ": quest'affermazione, una tra le tante, di Dionigi l'Areopagita 1 avrebbe sconcertato un cristiano dei tempi apostolici. L'i. (agnoia), la non conoscenza di Dio, è infatti la caratteristica dei " pagani che non conoscono Dio " (1 Ts 4,5), i quali sono " accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio a causa dell'i. che è in loro " (Ef 4,18). I cristiani sono ammoniti: " Non conformatevi ai desideri di un tempo, quando eravate nell'i. " (1 Pt 1,14). Per essi, invece, Paolo prega perché " acquistino in tutta la sua ricchezza la piena intelligenza e giungano a penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Dio, cioè Cristo, nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza " (Col 2,2-3).

Pur tenendo conto del significato più esperienziale che il termine conoscenza (gnosis) ha nel linguaggio biblico, è indubitabile che la crescita nella conoscenza, oltre che nel NT, resti l'ideale e il coronamento della vita cristiana in tutta la tradizione patristica.

II. Nella dottrina dei Padri. Ma è proprio nella dottrina dei Padri, soprattutto orientali, che si sviluppa la dottrina della contemplazione di Dio nella tenebra, quindi il tema della contemplazione di Dio mediante l'" i. ".

E in Gregorio di Nissa, considerato da molti il fondatore della teologia mistica, che il tema della contemplazione nella tenebra fa la sua comparsa. Il modello di questa contemplazione è Mosè: " La manifestazione di Dio a Mosè avvenne dapprima per mezzo della luce, poi parlò con lui nella nube, infine, divenuto più perfetto, Mosè contemplò Dio nella tenebra. Il passaggio dall'oscurità alla luce è la prima separazione dalle idee false ed erronee su Dio. La considerazione più attenta delle cose nascoste, che conduce l'anima mediante le cose visibili alla realtà invisibile, è come una nube che rende oscuro tutto il sensibile e abitua l'anima alla contemplazione di ciò che è nascosto. Infine, l'anima che ha camminato per queste vie verso le cose superne, avendo lasciato le cose terrene per quanto è possibile alla natura umana, penetra nei santuari della conoscenza divina circondata da ogni parte dalla tenebra divina ".2

L'autore, però, che ha lasciato la dottrina più elaborata della totale i. come " conoscenza del principio superiore a tutte le cose conoscibili " (Ep. 1) è Dionigi l'Areopagita. Anch'egli si richiama alla figura di Mosè, il quale, distaccato dalle cose visibili, " entra nella nube della non conoscenza veramente mistica, nella quale egli chiude gli occhi a tutte le comprensioni gnostiche e raggiunge ciò che è totalmente intangibile ed invisibile... unito in modo migliore a colui che è inconoscibile, conoscendo al di là dell'intelligenza per il fatto di non conoscere niente ".3

L'influsso dell'Areopagita e della sua teologia apofatica è stato grandissimo, pure in Occidente (basta vedere quanto sia citato con venerazione da dottori come s. Bonaventura o s. Tommaso). Al di là delle specifiche speculazioni o costruzioni teologiche, l'affermazione che l'unione più alta con Dio avviene nella tenebra si fonda sul principio della sua inconoscibilità. E illuminante l'espressione di s. Agostino: " Se lo hai capito, vuol dire che non è Dio (Si cepisti, non est Deus). Se hai potuto comprendere, hai compreso qualcos'altro al posto di Dio ".4

III. Il significato. Certamente per conoscere Dio occorre iniziare a scoprirne le orme nel creato, dove " le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute " (Rm 1,20), come pure si ha bisogno di formarsene una qualche immagine e un concetto sempre più appropriato nello studio e nella vita di orazione. Dio, però, rimane sempre al di là delle nostre immagini e dei nostri concetti analogici, che, se da una parte ce lo rivelano, dall'altra ce ne nascondono il vero volto. E come per la fotografia di una persona: ce la rappresenta in maniera più o meno soddisfacente, ma non è la persona; e se noi dovessimo rimanere con gli occhi fissi sul ritratto, ci precluderemmo la strada all'incontro con la persona rappresentata. S. Giovanni della Croce insegna: " Coloro che immaginano Dio sotto figura di qualche cosa, o come un gran fuoco o splendore o qualsiasi altra forma e pensano che alcunché di tal genere sia simile a Dio, vanno assai lontano da lui. Certamente, tali considerazioni o maniere di meditare sono necessarie ai principianti per innamorare la loro anima e nutrirla per via dei sensi... Ma, quantunque le anime ordinariamente debbano passare per tali mezzi prima di arrivare al termine e alla stanza del riposo spirituale, tuttavia, ciò non vuol dire che debbano fermarvisi e dimorarvi sempre, perché altrimenti mai giungerebbero al termine, il quale è ben diverso dai mezzi remoti, e con questi non ha nulla a che vedere: allo stesso modo che i gradini di una scalinata non hanno a che vedere col termine o stanza della salita... Per la qual cosa, l'anima che vuole arrivare in questa vita all'unione di quel sommo bene e riposo, ha da passare per tutti i gradi di considerazioni, forme e notizie, ma anche farla finita con essi, perché non hanno alcuna somiglianza e proporzione col termine a cui incamminano, che è Dio ".5 La ragione, come sempre, è che " Dio, a cui l'intelletto s'incammina, eccede questa potenza, essendo incomprensibile e inaccessibile ad essa, perciò quando l'intelletto intende, non si va avvicinando a Dio, ma se ne allontana. Piuttosto, esso deve allontanarsi da se stesso e dalla sua intelligenza per avvicinarsi a Dio, camminando nella fede, ossia credendo e non intendendo. In questa maniera, l'intelletto giunge alla perfezione, poiché per fede, non per altro mezzo, si unisce a Dio; e l'anima si avvicina a Dio più non intendendo che intendendo ".6

Ci troviamo davanti a un dato comune della dottrina e dell'esperienza mistica, a un dato, quindi, che si trova presente in numerosi autori di varie epoche e di varie correnti di spiritualità.

Per la loro specifica connessione con il tema vanno ricordate almeno due opere. La prima, più speculativa, è il De docta ignorantia del card. Nicola Krebs da Cusa. Per il Cusano anche l'intelletto, con cui si raggiunge il più alto grado di conoscenza in questo mondo, rimane sconcertato di fronte all'Infinito in cui si trova la coincidentia oppositorum: riconoscere tale impotenza è la somma saggezza, è appunto una docta ignorantia. L'ultima parola per accostarsi alla verità è l'intuizione mistica.

L'altra opera da ricordare è quella di un anonimo autore inglese che tra il 1350 e il 1370 scrisse La nube della non-conoscenza (The Cloud of Unknowing), dove viene riproposta la dottrina che " solo l'amore può raggiungere Dio in questa vita, e non la conoscenza " (c. VIII).

E sostanzialmente questo il senso dell'i. nell'esperienza più alta di Dio in questo mondo. Come si esprime mirabilmente s. Bonaventura: " E questo un fatto mistico e straordinario che nessuno conosce se non chi lo riceve. Lo riceve solo chi lo desidera, non lo desidera se non colui che viene infiammato dal fuoco dello Spirito Santo che Cristo ha portato in terra... Se vuoi sapere come avvenga tutto ciò, interroga la grazia, non la scienza, il desiderio non l'intelletto, il sospiro della preghiera non la brama del leggere, lo sposo non il maestro, Dio non l'uomo, la caligine non la chiarezza, non la luce ma il fuoco che infiamma tutto l'essere e lo inabissa in Dio con la sua soavissima unzione e con gli affetti più ardenti ".7

Note: 1 De divinis nominibus, 7,3; 2 In Cant. hom., II, 3 Mystica Theologia 1,3; 4 Sermo 52,16; 5 Salita del Monte Carmelo II, 11,4; 6 Fiamma viva d'amore III, 45; 7 Itinerarium mentis in Deum 7,4.6.

Bibl. J. Daniélou, Platonisme et théologie mystique, Paris 1953; R. Garrigou-Lagrange, Le sens du mystère et le clair-obscur intellectuel, Paris 1934; B. Honings, s.v., in DES II, 1260-1261; V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, Bologna 1967; G. Moioli, Sapere teologico e sapere proprio del cristiano. Note per un capitolo di storia della letteratura spirituale e della teologia, in ScuCat 106 (1978), 569-596; J. Nicolas, Dieu connu comme inconnu, Paris 1966; F. van Steenberghen, Dieu caché. Comment savons-nous que Dieu existe?, Louvain-Paris 1966; C. Yannaràs, Ignoranza e conoscenza di Dio, Milano 1973.

U. Occhialini

ILDEGARDA DI BINGEN (santa). (inizio)

I. Vita e opere. I. nasce nel 1098 a Bermersheim. Entra nel romitorio di Jutta di Spannheim sul Disibodenberg nel 1106 e vi rimane fino al 1116 quando decide di entrare nell'Ordine delle benedettine, dove è eletta maestra delle novizie del convento nel 1136.

Al 1140 risale l'inizio della stesura dello Scivias. Sette anni dopo, le sue visioni hanno il riconoscimento ufficiale da parte del papa Eugenio III ( 1153). Nello stesso anno fonda il monastero di Rupertsberg. Tra gli anni 1158 e 1163 scrive il Liber vitae meritorum e il Liber divinorum operum. Nel 1165 fonda il monastero filiale di Eibingen. Muore il 17 settembre del 1179. A lei si attribuiscono altre due opere: Fisica e Ordo virtutum.

II. Esperienza mistica. I. giunge all'esperienza immediata di Dio attraverso visioni riguardanti l'opera della creazione e della redenzione e attraverso la partecipazione misteriosa alla vita di Dio e dell'universo in Cristo. La Parola si è fatta uomo, ragion per cui l'uomo può diventare partecipe della divinità attraverso il battesimo. Cristo è il centro della storia. Per questo motivo, i misteri della vita del Cristo e il mistero della Chiesa come Corpo mistico di Cristo costituiscono il fondamento della sua vita spirituale. I. oggettivizza le sue visioni, per cui in esse non si trova nulla di personale. Usa la lingua simbolica del sec. XII che, spesso, rende il contenuto delle sue visioni velato o incomprensibile, ma queste sono sempre in sintonia con gli scritti biblici. In ogni esperienza di Dio c'è unità tra la conoscenza di Dio nella Parola della Scrittura, nell'opera mirabile della creazione e la conoscenza espressa nella Parola stessa.

I. può essere considerata una maestra della mistica dei " sensi spirituali ", cioè di un'esperienza di Dio nella quale il mondo delle immagini, dei suoni, del canto e dei sentimenti viene interiorizzato elevandosi all'esperienza di Dio.

Bibl. Opere: Sanctae Hildegardis Opera, " Analecta Sacra ", Montecassino (FR) 1882; Epistolae s. Hildegardis secundum codicem Stuttgartensem, a cura di F. Haug, in Revue bénedectine, 43 (1931), 59-71; Hildegardis abbatissae opera omnia, in PL 197; Hildegardis Scivias, a cura di A. Führkötter, 2 voll., Turnhout 1978. Studi: O. D'Alessandro, Mistica e filosofia di Bingen, Padova 1966; H.D. Egan, Ildegarda di Bingen, in Id., I mistici e la mistica, Città del Vaticano 1995, 229-239; E. Ennen, Le donne nel Medioevo, Bari 1986; A. Führkötter - J. Sudbrack, Ildegarda di Bingen, in G. Ruhbach - J. Sudbrack (cura di), Grandi mistici I, Bologna 1987, 151-175; Giovanna della Croce, s.v., in DES II, 1261-1263; Ead., Ildegarda di Bingen e il mistero della Chiesa, in EphCarm 17 (1966), 158-173; Ead., I mistici del Nord, Roma 1981; E. Gronau, Hildegard. La biografia, Milano 1996; J. Lanczkowski, s.v., in WMy, 230-232; J.P. Müller, s.v., in DIP IV, 1632; R. Pernoud, Storia e visioni di s. Ildegarda, Casale Monferrato (AL) 1996; M. Schrader, s.v., in DSAM VII1, 505-521; R. Termolen, Hildegard von Bingen. Biographie, Augsburg 1990.

R. Termolen

ILLUMINISMO MISTICO. (inizio)

Premessa. La parola i. può considerarsi, e di fatto è così, in tre accezioni: un movimento filosofico, una tappa del cammino spirituale, una deviazione eretica di segno anche religioso. Dei tre occorre dire qualcosa distinguendoli per illuminare il panorama ideologico e informativo.

I. I. filosofico. Si usa questa espressione come categoria storiografica per significare lo stile di pensiero che si situa cronologicamente tra il Barocco e il Romanticismo e si caratterizza per il suo culto della ragione. Il sec. XVII è il suo epicentro o cronocentro: è di lì che si trae emblematicamente e criticamente l'appellativo di secolo dei lumi. L'associazione intelletto-luce è abituale nella filosofia greca e si basa sull'essenza e sulla dinamica propria della conoscenza umana, l'intelletto agisce come l'occhio per vedere gli oggetti o le cose tramite una luce illuminante per arrivare alla verità. Questa somiglianza operativa non esclude un certo pessimismo e già Aristotele ( 322 a.C.) paragonava l'intelletto umano (l'occhio dell'intelletto umano per parlare con precisione aristotelica) all'occhio della talpa, animale miope e che Kant ( 1804) portò all'estremo con il suo agnosticismo, celebrato nella Critica della Ragion pura, negazione di capacità metafisica rispetto alla conquista della verità. D'altra parte, la fede nella ragione, il culto alla stessa comportò in tanti casi un certo disprezzo della dogmatica cattolica e una certa euforia gnoseologica che contaminò gli ambienti della cultura europea di questo periodo. Se ne coniò un nuovo vocabolo per esprimere l'illuminismo filosofico: la valenza linguistica più forte è la tedesca Aufklärung, dalla quale, per le sue cause semantiche proprie, derivano illuminazione, illuminismo, ecc. in francese, spagnolo, latino, ecc. Come proprietà o caratteristiche dell'I. filosofico se ne sogliono indicare due: una, il suo razionalismo, cioè la sua mitica fiducia nella ragione come misura e come ambito dell'agire umano, posta tra la ragione cartesiana antecedente e la ragione romantica seguente; un'altra, la sua negazione o il suo rifiuto della religione cattolica. In linea generale E. Ancilli ha detto: " Alla metà del sec. XVIII assistiamo ad un pericoloso declino, quasi una frattura: infatti, nel Sette-Ottocento imperversarono dovunque, nelle nazioni europee, l'illuminismo, il razionalismo e il materialismo come negazioni del soprannaturale e dei valori dello spirito ".1

II. La " via illuminativa ". La parola i. ha, d'altra parte, lunga e ferma tradizione nella storia del pensiero cristiano. Ancora più di bellezza e verità. Infatti, illuminare (il fonema verbale e i suoi derivati) è una parola di uso frequente e di ricco contenuto biblico, soprattutto nel NT. Basterà ricordare qui il Vangelo di Giovanni o le lettere di Paolo. Si tratta soprattutto di un'illuminazione spirituale, rinfrancante o refrigerante, che deriva dalla Parola di Dio, dalla grazia soprannaturale, dalla fonte sacramentale. I battezzati - i neofiti - saranno chiamati con questo termine: illuminati. Nei santi Padri troviamo, con gioia e con sorpresa, numerose e luminose catechesi agli illuminati, per esempio, in s. Giovanni Crisostomo. La risonanza di questo vocabolo e della sua ideologia nella liturgia è melodiosa e sinfonica. Per questo motivo, nella tradizione cristiana, sui termini illuminatio, illuminati, ecc. è nata una feconda teologia della luce. La traiettoria evolutiva di questa teologia ha i suoi punti fermi o pietre miliari nei pensatori e soprattutto una concretezza in ciò che si indica con l'espressione via illuminativa.

Per quanto riguarda il processo evolutivo della teologia della luce, segnaliamo o ricordiamo i nomi più prestigiosi o famosi: Clemente d'Alessandria, Origene, Evagrio, Dionigi Areopagita, s. Agostino, s. Tommaso d'Aquino, s. Giovanni della Croce. Ad essi soprattutto si deve l'elaborazione della teoria, qualcosa di convenzionale, però molto luminoso, di via illuminativa come fase o tappa del cammino ripido - in salita - della vita cristiana. Ciascuno, con le sue analisi e spiegazioni, ha contribuito allo sviluppo di una teologia della luce, centrata sulle tre tappe del cammino ascetico-mistico: purificazione (katharsis), illuminazione (photismós), perfezione (teleiosis). Il primo a tentare una descrizione del cammino cristiano fu Clemente d'Alessandria, però il suo pensiero è poco diffuso, anche se ricco di intuizioni e di formulazioni molto valide; inoltre, egli non terminò l'esposizione della sua trilogia ideologica. Malgrado ciò, tracciò un cammino spirituale in tre tappe. Grande importanza attribuisce al battesimo in questo processo: " battezzati, dice, siamo illuminati; illuminati, siamo figli di Dio per adozione; adottati, raggiungiamo la perfezione, con questa l'immortalità ".2 L'illuminazione è, pertanto, una tappa centrale del cammino e consiste soprattutto in una gnosi o conoscenza di Dio. Le catechesi sulla liturgia battesimale, riportate dalla prima lettera di s. Pietro, come crede E. Boismard, e la riflessione teologica raggiungono il vertice nella sintesi di Dionigi Areopagita al quale si deve la suddivisione di base del cammino ascetico-mistico nelle tre tappe o vie già accennate. In Occidente si propagò questa esperienza tripartita, grazie ad un umile letterato, Ugo di Balma, che scrisse nella seconda metà del sec. XIII un'operetta Theologia mistica o De triplici via, che ricalcava Dionigi Areopagita e che fu falsamente attribuita a s. Bonaventura. L'attribuzione, però, rinforzò il prestigio di questo opuscolo e contribuì fortemente all'accettazione generalizzata delle tre tappe.

Contemporaneo di Ugo di Balma è s. Tommaso d'Aquino, che commentò Dionigi, quindi conobbe le tre vie che seguì nell'analisi che s. Agostino fa delle tre età spirituali analoghe alle età biologiche dell'uomo; s. Agostino fissa il suo sguardo sulla carità e di lì passa a spiegare una trilogia parallela a quella di Dionigi, anche se più in profondità o in interiorità: incipiens, proficiens, perfecta che, applicata all'uomo spirituale cristiano, permette di parlare delle tre età della sua vita.3 L'apporto, dunque, del Dottore angelico nella suddivisione del cammino o delle età si limita a riportare Dionigi (In ’De divinis nominibus' expositio) e s. Agostino.4 Invece, è originale e geniale spiegare lo svolgersi della vita mistica mediante i doni dello Spirito Santo: la teologia dei doni, così intimamente legata alla teologia della luce, è di genuino stampo tomista. E perché alla illuminazione si attiene e si riferisce che la sua dottrina sui doni intellettuali riassume o espande straordinari raggi luminosi. L'homo spiritualis ha bisogno dell'illuminazione interiore prodotta dai doni dell'intelletto, della scienza e della sapienza. A proposito del dono dell'intelletto serve la citazione del paragrafo: " Indiget ergo homo supernaturali lumine, ut ulterius penetret ad cognoscendum quaedam quae per lumen naturale cognoscere non valet; et illud lumen supernaturale homini datum vocatur donum intellectus ".5

Il culmine della "via illuminativa" si ritrova in s. Giovanni della Croce, che si riferisce a Dionigi e guarda alle cime del monte alle quali si arriva tramite un lungo cammino nella notte rallegrato da canti e illuminato da fiamme vive d'amore.

III. Le eresie mistiche. In genere, la parola i. si usa di preferenza per indicare le deviazioni o aberrazioni nel campo della spiritualità. In questo senso negativo ne parlano il DES (II, 1263-1267) e il DSAM (VII, 1367-1391). Perché è una deviazione mi è sembrato opportuno lasciare per questo ultimo scorcio il riferimento alle eresie mistiche. Talvolta, può risultare pretenziosa, talvolta ingiusta l'espressione eresie mistiche. Deve prendersi, dunque, in senso ampio, equivalente ad atteggiamenti o pratiche o idee che non arrivarono quasi mai ad eresie formali. Il grande rischio, però, della spiritualità cristiana è stato precisamente nel modo di interpretare e di incarnare - teoria e prassi - elementi fondamentali del suo messaggio. Il cristianesimo primitivo fu particolarmente sensibile alla sua novità, alla sua fede, alle sue esperienze. Il rischio delle deviazioni non ha tardato a convertirsi in un doloroso disatro, uno scacco eretico. E di esso danno testimonianza gli Acta Apostolorum, nel raccontare l'atteggiamento di Simon Mago (cf At 8-13); le invettive di Paolo contro i profeti di una falsa scienza (cf 1Tim 6,20) e contro la sapienza dei saggi (cf 1 Cor 1,17-19). La crisi della comunità di Corinto fu contemporanea alla crisi delle Chiese dell'Asia Minore, che s. Giovanni evangelista diagnosticò nei primi capitoli dell'Apocalisse e soprattutto nella prima lettera canonica. " L'analisi della lettera di san Giovanni, scrive D. Mollat, rivela l'esistenza di una crisi che colpiva gravemente le chiese alle quali essa è indirizzata ".6 Alcuni, lamenta l'apostolo, si sono allontanati dalla fede cristiana nei punti essenziali. Sono stati colpiti con dure parole: " falsi profeti ", " seduttori ", " anticristi ", ecc.

Secondo quanto hanno verificato gli studiosi, molti dei primi convertiti al Vangelo provenivano da gruppi contaminati dalle idee religiose illuministe che, a loro volta, contaminarono le comunità cristiane. Non rinunciarono e non si distaccarono del tutto degli elementi magici sincretisti, rigoristi, ecc. L'aspettativa escatologica immediata diede origine ad una simbiosi forte che ha la sua concretezza nello gnosticismo, nel dualismo manicheo e in un affanno generalizzato di esperienza pseudo-mistica che dà origine a innumerevoli sette all'interno del cristianesimo. La proliferazione di sette fanatiche e rigoriste, ogni volta più distinte e più distanti dal cristianesimo, fu un fenomeno tipico che s. Agostino descrisse e condannò commentando l'episodio dei venditori del tempio; ogni eretico, dice, ha il suo banco per vendere la sua mercanzia religiosa; l'uno in Cartagine, l'altro in Mauritania, l'altro in Numidia; tante sette e tanti falsi profeti e venditori che non si possono nominare tutti.7 La deviazione più insidiosa - sfida al cristianesimo autentico la chiama R.A. Knox - fu quella di Montano, antico sacerdote di Apollo e di Cibele e fondatore di una setta di tipo profetico; cioè Montano si presentò come un illuminato da una rivelazione interiore per diffondere una religione, nello spirito, antigerarchica e antiistituzionale, millenarista, apocalittica; è il prototipo e l'anticipo del messaggio di Giacchino da Fiore ( 1202). Le eresie cristologiche e le eresie mistiche pullulano nei primi secoli cristiani. Impossibile ricordarle tutte qui. Insieme alle velleità di Simon Mago e alle furibonde illusioni di Montano, occorre, comunque, ricordare lo gnosticismo diffuso con le sue molteplici forme; la gnosi significa conoscenza ed è soprattutto quasi illuminista e il messalianismo che fu anche di segno illuminista nel suo entusiasmo religioso e orante.

Dai primi secoli cristiani, si deve passare al Medioevo, tempo in cui nascono un " nuovo vangelo " - quello dello Spirito Santo - le attese della nuova età, insomma le più variopinte sette: bogomili, catari, pauperisti, ecc. Una terza fioritura di eresie mistiche la danno gli Alumbrados: illuminati spagnoli del sec. XVI. Da qui, in un certo senso nasce il quietismo, fenomeno di misticismo che ebbe radici in Italia e in Francia nel sec. XVII e il cui capo principale fu Miguel de Molinos con la sua scuola di contemplazione acquisita e il suo capolavoro Guida spirituale (e la sua finale condanna). Infine, per terminare dobbiamo alludere alla proliferazione di sette pseudomistiche e messianiche particolarmente intensa alla fine del sec. XX.

Note: 1 Cf Spiritualità cristiana, in DES II, 1793; 2 Paidagogos I, 6: PG 8,282; 3 Cf R. Garrigou-Lagrange, Le tre età della vita interiore, Roma 1984; 4 Tommaso d'Aquino, STh II-II, q. 24, a. 9; 5 Ibid., II-II, q. 8, a. 1; 6 Cf DSAM VIII, 240; 7 S. Agostino, In Joan, trac., X, 6: PG 35, 1470.

Bibl. L. Arnaldich, Influencias de Qumrân en la primitiva comunidad judeo-cristiana de Jerusalem, in Salm 7 (1960), 3-66; O. Capitani (ed.), Medioevo ereticale, Bologna 1977; R. Guarnieri, Il Movimento del libero spirito, in Archivio italiano per la storia della pietà, 4 (1965), 351-708; A. Huerga, Auge dei messianismi nel nostro tempo, Leumann (TO) 1985; R.A. Knox, Illuminati e carismatici, Bologna 1970; F. Martin, Desviaciones carismáticas a lo largo de la historia de la Iglesia, in Diálogo ecuménico, 12 (1977), 73-88; E. Pacho, Illuminisme et Illuminés, in DSAM VII2, 1367-1392; Id., s.v., in DES II, 1263-1267; G. Volpe, Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana, Firenze 1961.

A. Huerga

ILLUSIONI. (inizio)

I. La nozione. La psicologia insegna a riconoscere con maggiore consapevolezza i meccanismi di difesa che negano o falsificano la realtà interna o esterna di una persona, inducendola a costruire sull'illusione e non sulla verità. Tuttavia, a livello di introspezione o di discernimento, anche nel passato sono state ben evidenziate le i. con cui le anime s'ingannano o vengono ingannate.

Il NT denuncia più volte casi di coscienza erronea, illusoria (cf Gv 5,39; 1 Cor 3,18; Gal 6,3; Gc 1,26), però le parole che più hanno messo in guardia i maestri spirituali sono quelle di 2 Cor 11,14: " Anche satana si maschera da angelo di luce ".

Le i. sono considerate dagli antichi monaci come il pericolo più insidioso. Il grande Antonio avverte: " Quando si presentano certe visioni, si fanno vivi l'agitazione e il rumore esterno e le immagini fallaci del mondo e le minacce della morte... sappiate che gli esseri maligni sono arrivati ".1 E Cassiano: " L'astuto nemico non può in nessun modo circuire il giovane inesperto e ignorante né ingannare con alcuna frode colui che vede appoggiarsi non sul suo discernimento, ma su quello degli anziani ".2

Con fine intuito Louis Lallemant dice che il cuore " ama le i. di cui si pasce e per colmo di sventura rifugge assolutamente dal conoscersi, dallo studiarsi; si effonde invece esteriormente su tutte le vie che gli si offrono, per non essere obbligato a rientrare in se stesso, perché non riuscirebbe a sopportare la vista dei suoi disordini né i rimproveri della coscienza ".3

II. I. e mistica. Le i. diventano particolarmente insidiose quando s'insinuano negli stadi più alti della vita spirituale, sia che si tratti di tentazioni dei veri mistici sia che si manifestino come indici di pseudo-misticismo. Lo stesso Lallemant ne dà i segni: " Parlare continuamente di grazie straordinarie, di visioni, di rivelazioni, non aver che questo nell'anima, curarsi poco di conoscere e di dominare i moti del proprio cuore; mancar di semplicità e di candore coi superiori e direttori di spirito; non voler occuparsi nell'orazione che della divinità e non mai dell'umanità di Nostro Signore, avere una condotta e nutrire dei sentimenti contrari alla dottrina ed alle pratiche della santa Chiesa sono tutti contrassegni di un'anima illusa ".4

Negli autori mistici si trovano precise conferme della possibilità delle i. e consigli pratici per smascherarle e vincerle.

Note: 1 S. Atanasio, Vita di Antonio, 36,5; 2 Cassiano, De inst. 4, 9; 3 L. Lallemant, Doctrine spirituelle, 3,2,1; 4 Ibid. 4,6,5.

Bibl. A. Derville, s.v., in DSAM VII2, 1392-1401; F.W. Faber, Conferenze spirituali, Torino 1922; T. Spidlík, La spiritualità dell'Oriente cristiano, Cinisello Balsamo (MI) 1994.

U. Occhialini

IMITAZIONE DI CRISTO. (inizio)

Premessa. In via preliminare si deve tenere presente che l'obiettivo rappresentato dall'i. è già inscritto nel dinamismo della sequela. Infatti, siccome l'andare dietro a Cristo comporta e lo stare con lui e il vivere in lui, grazie a lui e per lui, succede che la sequela genera quell'adesione amorosa e quell'appartenenza definitiva che inducono i discepoli a voler essere fedeli al loro Signore e Maestro in tutto, quindi a voler condividere tutto di lui, a lasciarsi istruire, guidare e formare da lui, a guardare a lui come modello e norma di comportamento.

In verità, la " vita in Cristo ", suscitata e sostenuta dallo Spirito Santo, grazie alla quale i cristiani vivono sia da figli e figlie del Padre disposti a farne la volontà, sia da fratelli e sorelle impegnati nel servizio verso gli altri secondo lo spirito dell'amore evangelico, implica la decisione di fare proprie le condizioni che il Signore Gesù pone a quanti accettano di diventare suoi discepoli. Anzi, dal momento che la " vita in Cristo " è caratterizzata dall'esperienza che il Cristo vive nei suoi discepoli (cf Gal 2,20) e ne dilata il cuore rendendolo sempre più capace di accoglierlo e di amarlo, succede che è lo stesso Signore a stimolare e ravvivare il desiderio di mettere in pratica il suo insegnamento, di diventare partecipi di lui, e, da ultimo, di volersi conformare a lui. Pertanto, per impostare in modo rigoroso la riflessione sull'i., bisogna partire dal presupposto che si ha a che fare con un'esigenza derivante dalla comunione amorosa e sponsale che la Chiesa vive con il suo Signore sotto l'azione santificante e la guida dello Spirito Santo.

I. Per arrivare a cogliere la ragione di fondo che giustifica l'i. come componente essenziale dell'esperienza spirituale cristiana, ci si deve rifare necessariamente all'antropologia teologica letta in chiave cristologica e cristocentrica e, precisamente, al principio che il mistero dell'uomo va visto ed interpretato alla luce del mistero di Cristo (cf GS 22). Questo principio è giustificato, in ultima analisi, dalla dottrina relativa alla funzione che Gesù Cristo svolge come unico e definitivo Salvatore del mondo. Secondo la fede della Chiesa, infatti, l'essere umano trova il senso pieno della propria esistenza, raggiunge il compimento della propria sublime vocazione racchiusa nella sua dignità inalienabile di " immagine di Dio ", solo grazie a Cristo, per mezzo di Cristo e in Cristo. Come ricorda il Concilio Vaticano II: " Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo; da lui veniamo, per lui viviamo, a lui siamo diretti " (LG 3).

Ora, all'interno di questo ampio orizzonte di senso rappresentato dal rapporto tra cristologia ed antropologia si ritrova la dottrina, elaborata in epoca patristica, con la quale si afferma che l'essere umano è stato creato ad immagine della vera immagine di Dio che è il Signore Gesù Cristo (cf 2 Cor 4,4; Col 1,15) ed è stato predestinato a diventare conforme a lui. Di conseguenza, Gesù Cristo ne è il prototipo e il modello. Questo insegnamento, che rappresenta lo sviluppo in chiave cristocentrica della tesi che l'uomo è stato creato da Dio a sua immagine e somiglianza, si radica, in fin dei conti, nella verità della mediazione esercitata da Cristo. Questa mediazione è eterna, assoluta, insuperabile: egli, infatti, è sia il mediatore escatologico, come il mediatore protologico della salvezza. Tutto è stato creato " per mezzo di lui ", " in vista di lui " e " in lui " (cf Gv 1,3.10; 1 Cor 8,6; Col 1,16-17; Ef 2,10). In lui il Padre " ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi... " (Ef 1,4-5). " Quelli che Dio da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo " (Rm 8,29).

II. Certamente, il rapporto tra il Cristo e il credente ripensato secondo lo schema " immagine e somiglianza " inizia a compiersi con la rinascita battesimale vista, ovviamente, nel contesto dell'iniziazione cristiana. Divenuto nuova creatura in Cristo, figlio adottivo di Dio, tempio dello Spirito Santo, e incorporato nella Chiesa, il battezzato è chiamato a camminare " in una vita nuova " (Rm 6,4). Di questa vita nuova il Cristo non solo è l'autore in qualità di Figlio unigenito di Dio e Salvatore del mondo, non solo è la fonte perenne in qualità di Crocifisso risorto e Signore al quale spetta il primato su tutta la realtà creata, ma ne rappresenta anche il modello insuperabile: egli, infatti, è " il primogenito di una moltitudine di fratelli " (Rm 8,29), " il capo del corpo, cioè della Chiesa, il principio, il primogenito di coloro che risuscitano dai morti " (Col 1,18). Rivestitosi di Cristo (Gal 3,27) ed avendo ricevuto il dono dello Spirito Santo, il battezzato è così chiamato a " camminare secondo lo Spirito " (Gal 5,25), ad assecondare lo Spirito in tutto e per tutto, lasciandosi santificare da lui, cioè lasciandosi trasformare gradualmente ad immagine di Cristo (cf 2 Cor 3,18) per diventare, giorno dopo giorno, sempre più simile a Cristo. Per diventare, quindi, sempre di più, nel mondo e per il mondo, segno visibile, testimone credibile e collaboratore fedele del Cristo.

Da quanto è stato detto sin qui si possono trarre tre conclusioni. La riflessione sull'i. chiama in causa, innanzitutto, tutto il dinamismo e lo sviluppo inerenti all'azione salvifica, santificante e trasformante che il Padre realizza per mezzo del Figlio suo Gesù Cristo nello Spirito Santo. In secondo luogo, e di conseguenza, l'i. va intesa sempre e solo come una " grazia " concessa da Dio, come un dono procurato dallo Spirito, il quale fa nascere ed abitare il Cristo nell'interiorità dei credenti e li sostiene nella comunione amorosa con il loro Signore e Maestro. Infine, l'imitazione va pensata sempre entro il contesto e secondo l'ottica della partecipazione al Cristo, alla sua morte e risurrezione, al suo rapporto d'amore con il Padre e con gli uomini, alla sua missione salvifica.

III. In prospettiva escatologica. Richiamate le tre conclusioni suddette, è bene precisare che il dinamismo e lo sviluppo in oggetto vanno visti sempre in prospettiva escatologica, secondo la regola del " già e non ancora ". Siccome la salvezza sarà pienamente compiuta solo nel giorno della parusia del Cristo, che comporterà la risurrezione dei morti, il giudizio universale e il rinnovamento definitivo dell'intera creazione, va preso atto che solo allora la partecipazione al mistero pasquale di Cristo avrà sviluppato tutta la sua efficacia vivificante. Infatti, nel giorno della sua parusia il Signore Gesù " trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose " (Fil 3,21). Nel frattempo, ogni discepolo è impegnato a " conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti " (Ef 3,10-11). È impegnato a " seguire le orme " del Maestro (cf 1 Pt 2,21), a cercare di comportarsi come lui si è comportato (cf 1 Gv 2,6) assimilandone gli atteggiamenti, le disposizioni interiori di fondo, secondo la regola dettata da Paolo: " Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù " (Fil 2,5).

Di conseguenza, l'i. è tutt'altro che un'impresa finalizzata a ricopiare un modello che si ha di fronte o a ripetere materialmente i gesti, le parole e i comportamenti che formano il tessuto della storia vissuta da Gesù. Come è stato già segnalato più sopra, va compresa tenendo conto che è lo Spirito Santo a modellare e a plasmare i cristiani per renderli sempre più simili al Cristo. Perciò, ogni discepolo è chiamato a lasciarsi guidare dallo Spirito Santo: prima ad accogliere, ad interiorizzare e poi a condividere quel singolare modo di intendere e di vivere il rapporto verso il Padre e verso gli uomini che Gesù ha messo in atto durante il corso della sua vicenda terrena, e che va identificato con l'amore oblativo, del tutto libero e gratuito, che ha raggiunto il culmine nel dono della vita fatto sulla croce. Certamente, abbiamo a che fare con quel " sentimento " fondamentale nel quale si ritrovano tutti gli altri " sentimenti " reperibili nella tradizione evangelica e neotestamentaria. Volendoli indicare, si può fare riferimento alle componenti della sua straordinaria sensibilità e della sua affettività, all'obbedienza verso il Padre, al servizio disinteressato attuato a favore degli uomini, alla povertà, alla mitezza e all'umiltà.

IV. Da ultimo, è quanto mai opportuno tenere presente che la lectio divina applicata ai racconti evangelici svolge un ruolo di primo piano nel dinamismo spirituale inerente all'i. Infatti, dalla lettura attenta ed amorosa della storia di Gesù, che alimenta la meditazione e conduce alla preghiera, si arriva infine alla contemplazione che, rendendo attivi i sensi spirituali, permette di crescere nella conoscenza e nell'amore, di conoscere sempre meglio l'amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza (cf Ef 3,19; 4,13), di scoprire che, in fin dei conti, è l'amore ad essere fonte di conoscenza ed a giustificare il desiderio di diventare conformi al Signore Gesù.

Bibl. Aa.Vv., s.v., in DSAM VII2, 1536-1601; V. Battaglia, Cristologia e contemplazione. Orientamenti generali, Bologna 1997; L. Borriello, La sequela e l'imitazione nella vita spirituale, in Asprenas, 25 (1978), 137-154; G. Bouwman, L'imitazione di Cristo nella Bibbia, Bari 1968; A. Heitman, Imitatio Dei. Die ethische Nachahmung Gottes nach der Väterlehre der zwei ersten Jahrhunderte, Roma 19403; J. Tinsley, The Imitation of God in Christ. An Essay on the Biblical Basis of Christian Spirituality, London 1960; G. Turbessi, Il significato neotestamentario di " sequela " e di " imitazione ", in Ben 19 (1972), 163-225 (bibl. 177-178).

V. Battaglia

IMMAGINE. (inizio)

Premessa. L'i. non è la realtà, quindi esprime un concetto ambivalente. Essa può disorientare, ma può anche aiutare a concentrarsi e dare effetti benefici. S. Antonio abate sottolinea come il via vai disordinato delle immagini offuschi la purezza del cuore umano. D'altronde, l'i. sacra ha la sua importanza nel cristianesimo, specialmente in quello orientale, che la considera alla pari della Bibbia e della tradizione. Si può definire l'i. come un semplice mezzo d'informazione, anche se essa riveste, per il suo carattere simbolico, una dimensione trascendente. In effetti, ci presenta un personaggio o un avvenimento: richiama colui che raffigura e diviene, pertanto, un legame tra colui che è rappresentato e lo spettatore.

I. L'uso dell'i. nella storia. Nel periodo pre-cristiano, Israele era l'unico popolo che praticava una religione senza immagini, a motivo della proibizione del Pentateuco (cf Es 20,3-4). Al contrario, per i greci l'i. aveva un carattere misterioso e persino magico, ed essi giungevano ad adorare anche il ritratto del sovrano. I romani, loro imitatori, svilupparono una tradizione interessante nel senso che identificavano il ritratto dell'imperatore con la sua persona come una presenza dello stesso imperatore. Fin dalle origini, la Chiesa primitiva entrò in contatto con la cultura romana, subendone l'influsso circa l'i. Tuttavia, attribuiva all'i. un significato più profondo cercando di evocare la vita interiore dell'uomo. Poi, dopo una lenta preparazione di quattro secoli, con la vittoria del cristianesimo, la Chiesa autorizzò le immagini cultuali e permise di venerare coloro che rappresentavano. In certe epoche non mancarono opposizioni, ma, fino all'VIII secolo, queste furono limitate e non ebbero conseguenze per la Chiesa. L'aspra lotta iconoclasta, iniziata nel 726 e condotta con estremo entusiasmo per oltre un secolo, si concluse nell'843 con un decreto solenne conforme a quello del VII Concilio Ecumenico Niceno II, ove furono definiti come dottrina di fede la legittimità e il culto delle immagini.

II. Nella vita spirituale. L'iconologia considera l'oggetto d'arte come espressione di cultura globale che, per svilupparsi, ha bisogno di diversi apporti, inclusi quelli della mistica. Questa, secondo una definizione del card. de Bérulle, è " una scienza non di memoria, ma dello spirito, non di studio ma di preghiera ". La preghiera, quindi, è un elemento indispensabile della mistica. Dal canto suo, l'i. sacra conferisce un orientamento spirituale alla vita cristiana e alla preghiera. Certo la meditazione e la contemplazione trovano nell'i. un supporto importante perché fissano lo spirito su di essa, lo rinviano e lo concentrano sulla realtà simboleggiata. L'i. sacra può permettere anche una comunione orante, non sostanziale ma mistica, con il divino. Come simbolo, l'i. (in greco eikon) implica la riunione di due metà: simbolo e simbolizzato. Nel nostro caso le due metà sono l'uomo e Dio, e la loro comunione o riunione viene operata dall'i. nella preghiera. Perciò, Gregorio di Nissa chiama l'i.-icona: " La testimonianza visibile e tangibile del principio umano creato raggiunto dall'essere divino imperituro ". Poi, l'orante può sperimentare alquanto, fin da questa vita, ossia vedere misticamente nel cuore la virtù della divina presenza e gustare la dolcezza della gloria celeste. L'uomo può meglio disporsi ad ottenere o ad avanzare nell'unione mistica solo attraverso l'umiltà. La preghiera degli umili penetra i cieli e va fino al trono di Dio (cf Sir 35,21). Giustamente, dunque, il suddetto Bérulle continua a dire che la mistica è una " scienza non di contesa, ma di umiltà ". L'i. dei modelli di questa "virtù", specialmente del Cristo e della Madonna, aiutano il cristiano ad esercitarsi nell'umiltà quando contempla l'annichilimento del Cristo, Uomo-Dio, e l'abbassamento di Maria, Madre-serva del Signore. La riflessione, poi, sull'autore dell'i. aiuta l'orante perché rispecchia l'umiltà dell'artista. In effetti, nel caso particolare dell'icona, la personalità dell'autore deve scomparire davanti al personaggio rappresentato. Questi non può firmare la sua opera e deve sottomettere la sua libertà creatrice, come la sua ispirazione, ai canoni stabiliti dai Concili. I mistici sottolineano spesso che le loro parole devono toccare il cuore ed imprimersi nell'anima del lettore per sottometterla all'operazione e all'amore divino. L'i. sacra svolge questa funzione, soprattutto quella pittorica. Mediante l'associazione dei colori, essa fa appello ai nostri sensi, parla al cuore e cerca di far vibrare in noi un sentimento mistico al di là della realtà del soggetto. La preoccupazione principale dell'arte sacra bizantina e russa, prima del suo declino (sec. XVII) era quella di trasferire la meditazione dei fedeli in un mondo spirituale. Per gli orientali la funzione dell'i. sacra consiste nel mostrare il mondo della gloria di Dio, nel trasformare questo mondo in visione. E così dev'essere per tutta la Chiesa di Cristo, perché, secondo il Vaticano II, il compito dell'i. è quello di " indirizzare religiosamente le menti degli uomini a Dio " (SC 122).

Bibl. J. Beaude, La mistica, Roma 1992; W. Düring, s.v., in DTB, 661-663; P. Evdokimov, Teologia della bellezza, Roma 1990; M.T. Machejek, s.v., in DES II, 1270-1271; P. Mariotti, s.v., in NDS, 751-761; P. Miquel, s.v., in DSAM VII, 1503-1519; H. Nouwen, Behold the Beauty of the Lord-Praying with Icons, Notre Dame 1987; M. Quenot, L'icona, finestra sull'Assoluto, Roma 1991; H. e M. Schmidt, Il linguaggio delle immagini, Roma 1988; E. Sendler, L'icona immagine dell'invisibile, Roma 1992.

V. Borg Gusman

IMMAGINE INTERIORE. (inizio)

I. Nozione. L'i. di cui trattiamo rientra nella serie, numerosa e varia, dei fenomeni carismatici. Si tratta di forme e colori che appaiono interiormente, per dono di Dio, il cui significato è profetico, cioè costituisce un messaggio, l'annuncio per una persona o per un'assemblea disposta all'ascolto di Dio.

II. Secondo alcuni teologi. S. Tommaso inserisce questo fenomeno nel carisma della profezia: " Dio presenta le immagini sensibili alla mente del profeta talora esteriormente mediante i sensi: fu così che Daniele vide le parole scritte sulla parete (5,17). Talora, invece, lo fa mediante immagini fantastiche, o impresse direttamente da lui, senza passare attraverso i sensi, come se nell'immaginazione di un cieco nato venissero impresse le immagini dei colori; oppure lo fa servendosi di immagini ricevute dai sensi, come nel caso di Geremia, il quale "vide una caldaia bollente che si affacciava da settentrione (1, 13)" ".1

Per s. Tommaso la profezia attraverso l'i. è espressa da chi l'interpreta, sia che si tratti della persona stessa che ha avuto l'i., sia di un'altra persona a cui ne è data soltanto l'interpretazione. Questo perché, secondo l'Aquinate, la profezia è carisma dato alla facoltà umana della conoscenza.

S. Agostino, che lo stesso Tommaso cita, dice a questo proposito: " Profeta è soprattutto colui che eccelle nell'una e nell'altra funzione: nel vedere in spirito immagini di cose corporali piene di significato e nell'interpretarle con la vivacità della mente ".2

III. Nella tradizione cristiana l'i. si distingue dalla " visione " termine usato nella tradizione cristiana per indicare qualcosa che si percepisce con il senso della vista. Bernardette Soubirous ( 1879), per esempio, ha avuto una " visione " perché ha visto la Vergine Santa fuori di sé. Questo tipo di visione " esterna " è chiamata anche " apparizione ".

Nell'ambito della profezia, " a differenza della semplice parola, l'i. si conosce su un piano globale. Essa lascia vasto campo a chi la percepisce... L'i. oltrepassa la parola e fa pensare più di quanto non dice e la persona che la dona non sarà in grado di mostrare con parole umane tutta la ricchezza che percepisce interiormente ".3 D. de Laforrest descrive la propria esperienza in merito e quella, in generale, delle attuali assemblee di preghiera del Rinnovamento carismatico nelle quali il fenomeno è frequente.

Nella tradizione cristiana, e oggi nell'esperienza dei gruppi del Rinnovamento, a proposito delle i., si rileva la costante preoccupazione del richiamo al prudente ed autorevole discernimento per distinguere ciò che è autentico da ciò che può essere semplice manifestazione di fantasia. Lo stesso A. così conclude l'articolo citato: " Nel mondo di oggi la Chiesa occidentale parla di questo carisma non perché sia una novità... ma perché, proprio per i tempi in cui viviamo, il Padre, ricco di misericordia, suscita dei nuovi profeti che sceglie come e dove vuole al fine di consolare il suo popolo. Il carisma delle i. non è una nuova scoperta, ma l'accoglienza fiduciosa di un dono che viene dal Padre. Per fare questo Dio usa la sensibilità umana di ciascuno di noi ".

Note: 1 Tommaso d'Aquino, STh II-II, q. 173, a. 2; 2 Id., 12, Super Gen. ad litt [c. 9], STh II-II, q. 173, a. 2; 3 Les images intérieures, in Il est vivant, gen.-feb. 1992.

Bibl. Vedi Carisma di fede.

M. Tiraboschi

IMMOLAZIONE. (inizio)

I. Il concetto correntemente ha diversi significati: con esso s'intende il momento culminante, cruento, del rito sacrificale; l'offerta totale che Gesù fece di sé al Padre nel momento della morte cruenta inflittagli da altri e da lui intesa e accolta come disposizione misteriosa, divina, per la salvezza dell'umanità; l'atto e l'atteggiamento con i quali il credente, specialmente in situazioni difficili, in Cristo e con Cristo si offre senza riserve al Padre per l'avvento del suo regno, che è salvezza per lui e i suoi fratelli.

Ma quali sono le ragioni teologiche che rendono significativa e proponibile una sana spiritualità oblativa?

II. Dato biblico. Sullo sfondo dell'offerta dei sacrifici cruenti immolati nell'AT, specialmente di quelli dell'Agnello pasquale e dell'alleanza, il NT, in numerosi casi, presenta l'intero cammino storico di Gesù coronato con la morte cruenta di croce come offerta sacrificale (prosphorà e thysìa) sfociata nella sua i. per la gloria del Padre e la salvezza dei fratelli (cf ad es. Ef 5,2; Mt 26,26-28 par.; Eb 9-10; Ap 5,6). Inserendosi in lui, i credenti sono chiamati ad offrire la loro esistenza concreta quale vittima (thysìa) viva (cf Rm 12,1), profumata e gradita a Dio (cf Fil 2,17; 4,18); a farne un sacrificio di lode (thysìa) a lui (cf Eb 13,15) che incontra la sua compiacenza (cf ibid., 13,16); a offrire sacrifici (thysìai) a Dio nello Spirito (cf 2 Pt 2,5). Questi passi mostrano come tutta l'esistenza cristiana, nella sua stessa materialità e quotidianità, debba essere concepita come un'offerta radicale e totale e, in questo senso, un'i. a Dio per la sua gloria e l'avvento del suo regno tra gli uomini, realizzazione della salvezza.

III. La tradizione cristiana e il Magistero. La tradizione cristiana, pur se tra varie tentazioni e parziali ricadute ritualistiche, ha mantenuto vivo il senso biblico profondo dell'i. esistentiva di Gesù e dei cristiani, specialmente nella scuola francese di spiritualità (Bérulle, Olier, Eudes). Il Magistero insegna che Cristo offrì a Dio un sacrificio, donandosi a lui come vittima sacrificale (cf DS 261; 1083; 1740; 1743; 1753; 3678; 3847). Pio XI afferma che nell'Eucaristia all'i. incruenta di Cristo " si deve aggiungere l'i. dei ministri e anche dei semplici fedeli " (MR 21). Il Vaticano II ripropone in modo luminoso la visione biblica (cf LG 34).

IV. Per un'attualizzazione. Dalle fonti della fede ci viene indicata la direttrice lungo la quale oggi in particolare deve muoversi una spiritualità cristiana oblativa. A somiglianza dell'i. di Gesù Cristo, e in essa, quella dei credenti è essenzialmente: dono sincero e totale di sé al Padre nello Spirito in tutte le circostanze della vita; consacrazione radicale ed integrale di tutto il proprio essere alla gloria di Dio e servizio incondizionato per la venuta del regno nella storia; consegna d'amore senza riserve all'amore preveniente di Dio in Cristo sino al sacrificio, sacramentalmente vissuta nella celebrazione dell'Eucaristia e nel servizio quotidiano ai fratelli, specialmente ai più piccoli. L'i. costituisce la sostanza della spiritualità cristiana, come dimostra anche la vita dei mistici di ogni tempo. Molti di loro hanno vissuto l'esperienza di mistica-oblativa; ne hanno trovato la radice, il modello e il compimento nell'oblatività dell'amore divino trinitario rivelato e partecipato all'umanità da Gesù Cristo, sommo Sacerdote, con la sua nascita, vita, morte e donazione eterna al Padre nello Spirito.

Bibl. Aa.Vv., Gesù Cristo, mistero e presenza, Roma 1971; Aa.Vv., Spiritualità oblativa riparatrice, Bologna 1989; J. de Guibert - R. Daeschler, Abnegation, in DSAM I, 67-110; G. Manzoni, Spiritualità oblativa, in Aa.Vv., La spiritualità del Cuore di Cristo, Bologna 1990, 165-183; R. Moretti, s.v., in DES II, 1271-1274.

G. Iammarrone

IMPERFEZIONE. (inizio)

I. Il concetto di i. può essere considerato in modi diversi. Il concetto generale potrebbe essere questo: concetto negativo, relativo e contrapposto al concetto di perfezione che può assumere valenze diverse a seconda degli aspetti di realtà cui si applica.

a. In senso metafisico: l'i. riguarda tutto quanto è in qualche modo finito e in divenire e si contrappone all'essere infinito assolutamente immobile, quindi, perfezione assoluta in quanto possiede tutto se stesso in un unico atto. Un essere si dice imperfetto perché non è l'essere, ma ha l'essere e in maniera limitata; un essere in divenire si dice imperfetto perché non avendo realizzato tutte le possibilità, in cui consisterebbe la sua perfezione, manca di qualcosa cui tende di continuo; e non si possiede totalmente e simultaneamente, ma in una successione di atti che si dispiegano nel tempo.

b. In senso estetico riguarda tutto quanto non è compiutamente realizzato secondo gli intenti dell'artista oppure secondo l'ideale di bellezza che l'opera dovrebbe incarnare in sé.

c. In senso morale-spirituale: è un difetto di ulteriore perfezione essenziale ad ogni atto umano; è la manifestazione della i. ontologica che la creatura porta in sé e dalla quale mai potrà completamente liberarsi: è la sua stessa essenza.

II. Senso-portata-implicazioni. Qualunque sia l'accezione o il significato che si voglia dare all'i., è ovvio che essa segna ed indica limiti, confini, difetti... costituzionali dell'essere e della creatura e, in questo senso, va pienamente e consapevolmente accettata, compresa e condivisa pena indebite colpevolizzazioni o arbitrari perfezionismi. E questo il punto nodale del concetto e del contenuto dell'i. Ed è su questo punto che va anche compreso e attuato l'imperativo evangelico della perfezione: come spinta critica a riformulare continuamente l'origine delle proprie scelte.

Bisogna, quindi, saper attentamente distinguere tra " l'io attuale ": quali caratteristiche, doti, sentimenti.... possiede attualmente una persona; e " l'io ideale ": ciò che essa ancora non è, ma intende diventare o è chiamata progettualmente a diventare, il mondo dei valori, degli ideali e a volte delle illusioni. " Io attuale " e " io ideale " insieme costituiscono l'identità, l'io totale della persona; l'insieme di ciò che è e di ciò che desidera diventare. Se quest'uomo fa riferimento a Cristo, è ovvio che nella formulazione del suo progetto deve trovare spazio il fatto che Cristo è morto e risorto per lui perché peccatore, non solo come acquisizione teorica, ma come elemento e valore che danno forma a tutto il mondo degli ideali.

E l'io totale, la persona - nella sua autentica identità e realtà imperfetta - che intuisce e progetta un valore e cerca di realizzarlo: è, quindi, un io che si trascende: si riferisce a qualcosa non ancora raggiunto, che egli non ha creato, ma che trova al di là e al di sopra. Si tratta di uno stato di divenire, di una perfezione a cui tendere di continuo e gradualmente. L'io ideale - la perfezione - rappresenta un'identità da conquistare.

Credere a Dio equivale ad accondiscendere a una dipendenza esistenziale la più radicale, una "i. costituzionale" che riguarda l'esistenza umana nelle sue radici e che coinvolge il suo futuro ultimo. " Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo " (2 Cor 12,9). I.: limite, ma anche punto di forza per una vita morale-spirituale armonica e serena, nonché come tensione verso la pienezza della perfezione divina.

Bibl. P. Barsi, Note storico-dottrinali sull'imperfezione morale, Roma 1961; L. Cortesi, L'obbligo del bene vitalmente proporzionato al soggetto, in RivAM 6 (1961), 87-114; C.V. Truhlar, Imperfezione positiva e carità, in Ibid., 204-213; B. Zomparelli, s.v., in DSAM VII, 1620-1630; Id., s.v., in DES II, 1276-1280; Id., Il problema dell'imperfezione morale e l'incontro personale con Dio, Roma 1970.

B. Zomparelli

INABITAZIONE. (inizio)

I. Importanza dell'argomento. 1. Con il sacramento del battesimo la Trinità prende dimora nell'intimo del cristiano, ragion per cui da questo momento in avanti si può parlare di un " noi mistico " che accomuna l'uomo alla vita intratrinitaria. Anche il servizio del prossimo da questo momento non avviene mai senza la spinta di un più intenso rapporto con Dio, non un Dio assente, lontano e fuori di noi, ma presente, dentro di noi e inabitante.

Man mano che l'anima si purifica,1 automaticamente si fa sempre più sensibile e si unisce, via via, sempre di più a quel delicato, ma potente influsso dello Spirito inabitante che, per dirla con Giovanni della Croce, " è fiamma di amor viva, che consuma, ma non fa male ".2 In altre parole, la presenza dello Spirito Santo si fa, progressivamente, sempre più intensa e profonda: i tre classici passaggi dalla vita purgativa a quella illuminativa e unitiva, si consumano " dentro ", nello Spirito e con lo Spirito. " ...Le tre divine Persone - afferma esplicitamente Giovanni della Croce - sono quelle che operano nell'anima quell'unione divina ".3

2. Non deve stupire, quindi, che i più grandi maestri dell'amore ritengano l'i. dello Spirito Santo la verità basilare della loro dottrina mistica. Così, ad esempio, Teresa d'Avila, spiegando le parole del Padre nostro " ...che sei nei cieli... ", almeno per cinque volte insiste sull'importanza di sapere che Dio non è lontano, ma dentro di noi. " Credete che importi poco, dice alle sue monache, sapere... dove si debba cercare il nostro adorabilissimo Padre? Per anime soggette a distrazioni, importa assai, secondo me, non solo credere che Dio è presente in noi, ma bisogna anche far in modo di conoscerlo per via di esperienza, essendo questo un mezzo eccellente per raccogliere lo spirito ".4 " E, dunque, molto importante comprendere che Dio abita in noi e che noi dobbiamo tenergli compagnia in noi stessi ": 5 " Tutto il danno deriva dal non comprendere che Dio ci è presente. Lo crediamo molto lontano... "; 6 " ... Credetemi, amiche mie, persuaderci di tale verità è di capitale importanza... ".7 Identico è il pensiero di Giovanni della Croce: nella prima strofa del Cantico insegna all'anima a cercare Dio e dice: " E da notarsi che il Verbo Figlio di Dio, insieme con lo Spirito Santo, è essenzialmente presente, ma nascosto nell'intimo essere dell'anima... Che vuoi di più... e che cerchi di più fuori di te, quando dentro di te hai le tue ricchezze... la tua abbondanza e il tuo regno?... Giacché lo hai tanto vicino, qui amalo, qui desideralo, qui adoralo... ".8 L'i. risulta essere, così, il nucleo ideale attorno a cui gira tutto il sistema dottrinale sangiovannista: " Chi potrà esprimere - esclama il Dottore mistico - ciò che lo Spirito Santo fa capire alle anime in cui dimora?... "; 9 " ...Non c'è da meravigliarsi che Dio faccia grazie tanto eccellenti... Egli infatti disse che in colui che lo avrebbe amato, sarebbero venuti il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo e avrebbero fatto dimora in lui... ".10

Anche per Francesco di Sales i gradi dell'amore corrispondono ai gradi di unione con Dio presente nell'anima.11 Il Vaticano II sancisce questo classico tema di teologia biblica suggerendo, nella formazione al sacerdozio, una formula squisitamente trinitaria: " ...Gli alunni imparino a vivere in intima comunione e familiarità col Padre, per mezzo del suo Figlio Gesù Cristo, nello Spirito Santo " (OT 8a).

Si direbbe che oggi più che mai la dottrina sull'i. sia particolarmente importante, se è vero che il mondo moderno è più che mai tentato di fare l'esperienza di Agostino: " Ho mandato i miei sensi fuori di me, o Dio, a cercarti, ma non ti hanno trovato, perché ti cercavano malamente. Vedo infatti, o Luce dell'anima mia e mio Dio, che malamente io ti cercavo, perché fuori io ti cercavo, mentre tu sei dentro... ".12

II. L'i. in s. Paolo e in s. Giovanni. La teologia paolina mette in particolare risalto l'attività dello Spirito Santo chiamato dall'Apostolo " Spirito di Cristo " (cf Rm 8,8-9) e " Spirito del Figlio " (cf Gal 4,6).

Lo Spirito Santo abita in noi come dispensatore della carità infusa per aiutarci a conservare il buon deposito della fede (cf 2 Tm 1,14); come in un tempio di assoluto dominio, che non può essere violato senza eccitare la collera di Dio (cf 1 Cor 6,19; 3,16), al quale perciò si deve dare gloria nel nostro corpo (cf 1 Cor 6,20; 1 Ts 4,1-8); come conprincipio di vita, unità, moto (cf Rm 8,14; Gal 5, 25); come autore della nostra rigenerazione battesimale (cf 1 Cor 6,11; 12,13; Tt 3,5); come causa della futura risurrezione (cf Rm 8,11); infine, come pegno, anzi, primizia (caparra) della gloria che ci è stata promessa (cf Ef 1,14, 2 Cor 5,5). E lo Spirito Santo che si imprime nel battezzato-cresimato come sigillo-incisione-unzione (cf 2 Cor 1,21-22; 3,1-3; Ef 1,13); che testifica che siamo diventati figli di Dio e che permette di sperimentarlo (cf Rm 8, 16; Gal 4,6); che fa desiderare lo scioglimento dell'anima dal corpo e la glorificazione finale dei figli di Dio (cf Rm 8,23). E lo Spirito, infine, che ispira e dirige la preghiera del cristiano perché sia secondo Dio (cf Rm 8,26).

La contemplazione di Giovanni è più circolare, meno veemente e meno varia, più intima e più mistica. Sono classiche le espressioni dell'ultima Cena, dove Cristo promette lo Spirito, il quale sarebbe venuto per inabitare (cf Gv 14,16-17), fortificare (cf Lc 24,49; 21,14-19; At 1,8), illuminare (cf Gv 14,26; 16,13), ispirare (cf Mt 10,19-20; Mc 13,11; Lc 12,11).

Di Giovanni sono i passi più esplicitamente trinitari: " Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui " (Gv 14,23). Un altro magnifico passo, tanto caro ad Elisabetta della Trinità, è quello del prologo della prima Lettera di Giovanni: " ...Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto... noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta " (1,1-4). Nella medesima Lettera ritorna frequentemete il motivo della reciproca i.: " Se rimane in voi quel che avete udito da principio, anche voi rimarrete nel Figlio e nel Padre " (2,24); " Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato " (3, 24); " Chiunque riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli è in Dio... Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui " (4, 15-16); " In quel giorno (quando riceverete lo Spirito), voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi " (Gv 14, 20). Anche il passo relativo al discorso del pane della vita ha un tono squisitamente trinitario: chi si comunica deve assumere, progressivamente, i " costumi, cosiddetti, trinitari ": " Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me, vivrà per me " (6,57). Questo movimento " circolare-trinitario " fatto nel battezzato-cresimato dalle virtù teologali è molto evidente nella preghiera sacerdotale: " Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola... Io in loro e tu in me perché siano perfetti nell'unità... " (17,21-23).

III. Motivi per cui la Trinità inabita nell'anima. 1. Per essere principio di vita trinitaria. La vita cristiana è per sua natura trinitaria: la fede-speranza-carità, o come è anche chiamata, la grazia delle virtù e dei doni, è comunicazione della natura divina all'uomo, come insegnano la Bibbia (cf 2 Pt 1,4) e la teologia.

" La fede-speranza-carità - afferma Tommaso - modifica ed eleva l'anima ad una certa maniera divina di essere, affinché sia idonea ad emettere operazioni divine ".13

La teologia insegna che la fede e la carità sono una partecipazione intima e divina della conoscenza e dell'amore che Dio ha di se stesso: in virtù della fede e della carità, il battezzato " ...diventa partecipe del Figlio e dell'Amore che procede dal Padre e dal Figlio... "; 14 " ...Il Verbo di sapienza - continua l'Aquinate - con il quale conosciamo Dio, rappresenta veramente il Figlio: similmente l'amore con il quale amiamo Dio, rappresenta propriamente lo Spirito Santo... ".15 " La carità infusa dallo Spirito è un'amicizia dell'uomo con Dio che si fonda sulla comunicazione dell'eterna beatitudine ".16

Sicché grazie alla fede e alla carità l'anima partecipa alla conoscenza che Dio ha di se stesso nel Verbo e alla fruizione che ne procede nello Spirito Santo: ciò costituisce l'imitazione e la riproduzione, nel tempo, delle operazioni trinitarie.

Avviene che nell'uomo, vero figlio di Dio generato dal Padre per opera dello Spirito a somiglianza del Figlio naturale (cf Rm 8,29; Tt 3,5), si attui una corrente d' amore propriamente simile a quella ineffabile che intercorre tra il Padre e il Figlio, che è lo Spirito Santo. Nel nucleo della vita trinitaria, il Figlio si dà al Padre e il Padre al Figlio: da questa reciproca corrente d'amore procede lo Spirito Santo. Nel figlio adottivo avviene qualcosa di simile. Lo Spirito, che inabita l'anima, gli fa salire dal cuore un misterioso gemito d'amore, che gli fa gridare: Abbà, Padre! Il che è ripetere, per imitazione e per grazia, quello stesso mutuo scambio d'amore, che il Figlio fa per natura, nel Padre e il Padre nel Figlio.

Questa povera parola umana, al dire di Agostino, " inizia e finisce ",17 perciò è assolutamente impotente ed inadatta ad esprimere realtà così alte e intime: né l'intelligenza le crederebbe possibili se non avessero, come fondamento, la rivelazione, la teologia e l'esperienza dei santi. L'Apostolo Pietro ricorda: " (Cristo) vi ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina " (2 Pt 1,4). Ancora più chiaro è il passo di Paolo ai Galati: " Che voi siate figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! " (4,6; cf Rm 8,16).

Oltre ai passi citati, Tommaso continua affermando: " Si parla della missione d'una persona divina in quanto la relazione propria della divina persona viene riprodotta nell'anima, la quale ne riceve una certa somiglianza... Come lo Spirito Santo procede invisibilmente nell'anima mediante il dono dell'amore, così il Verbo per mezzo del dono della sapienza... E ricevendo questi doni si realizza in noi la somiglianza a ciò che è proprio delle divine Persone perciò secondo quel modo di essere... si dice che le divine Persone sono in noi per il fatto che veniamo ad assomigliare ad esse in un modo nuovo ".18

Per quanto riguarda l'esperienza dei santi: " Non v'è ragione di ritenere per incredibile - afferma Giovanni della Croce, in una delle sue pagine più altamente mistiche - che l'anima possa una cosa tanto sublime, che cioè, per via di partecipazione, spiri in Dio come Dio spira in essa. In verità, posto che Dio le faccia grazia di unirla alla Trinità rendendola deiforme e dio per partecipazione, che incredibile cosa è che ella operi il suo atto d'intelligenza, di conoscenza e d'amore o, per meglio dire, l'abbia operato nella Trinità, unitamente con essa e come la Trinità stessa! ".19

2. Per essere oggetto di fruizione d'amore.

" ... Chi potrà mai descrivere - esclama Giovanni della Croce - ciò che lo Spirito Santo fa intendere alle anime in cui dimora? Chi potrà esprimere quello che fa loro sentire e desiderare? ".20 Dopo quanto abbiamo detto sulla " fè ilustradisima ", che illumina l'intelligenza,21 sull'unzione soavissima dello Spirito Santo, che bagna la volontà, non è da stupire se si aggiunge che le tre divine Persone vi si rispecchiano, vi si compiacciono e, diremmo quasi, vi si danno come " preda " reciproca, per dirla con una parola cara ad Elisabetta della Trinità, e come oggetto di fruizione e d'amore sperimentale.

Tommaso lo dice espressamente e a più riprese: " Per il dono della fede-speranza-carità, la creatura ragionevole viene elevata non solo fino ad usare liberamente del dono creato, ma anche a fruire della stessa Persona divina... ".22 Una Persona divina si può possedere perfettamente o imperfettamente: perfettamente si possiede per mezzo della fede-speranza-carità, o, piuttosto " ...per una certa esperienza intima secondo cui ci uniamo ad un essere di cui si gode: in quanto che le divine Persone, per mezzo d'una certa impronta di se stesse, lasciano nelle nostre anime certi doni di cui formalmente godiamo: cioè l'amore e la sapienza.. ".23

" Questa impronta, commenta il grande teologo mistico Giovanni di S. Tommaso ( 1644), è una segreta operazione delle divine Persone in virtù della quale ci si manifestano con una certa conoscenza sperimentale e con un certo tocco di se stesse, che ci danno modo di conoscere e di sentire che la nostra anima vive di una vita superiore ed agisce in un modo superiore: cioè quasi secundum mores Trinitatis, secondo i gusti e i modi di provvedere della Trinità... ".24 E importante ripetere che simili esperienze rientrano nel traguardo normale della vita cristiana, perché, come risulta chiaro dai passi citati, non è che il pieno e normale dispiegamento della vita teologale: non è che la fede diventata " viva " per il dono di intelletto, la speranza diventata " forte " per il dono di scienza e la carità diventata " ardente " per il dono di sapienza. Tommaso, in sintesi suprema, direbbe: non è che la " gratia virtutum et donorum " o, in altri termini la fede-intelletto, la speranza-scienza, la carità-sapienza.

IV. Riflessioni e applicazioni conclusive. Per la fede, la speranza e la carità, il battezzato è strutturato trinitariamente, pertanto deve agire trinitariamente calando nella vita quotidiana l'immagine trinitaria.

La Trinità non è, dunque, un mistero lontano che si perde nella evanescenza, ma vicino e palpitante che va vissuto nella quotidianità.

Il mistero della Trinità inabitante esige alcune condizioni imprescindibili, che si riducono a queste tre parole sinonime: ordine, purificazione e raccoglimento.

" Quanto maggiore è la purezza - sentenzia Giovanni della Croce - tanto più Dio si comunica in abbondanza... e con maggior frequenza ".25 E Tommaso aveva già sottolineato: " Il controllo del desiderio disordinato è necessario perché l'uomo possa applicarsi e unirsi a Dio: quanto più la mente dell'uomo si unisce con il desiderio disordinato a ciò che le è inferiore tanto più si debilita e si distrugge. Quindi è necessario si astragga dalle cose della terra e controlli i desideri disordinati, affinché possa più liberamente unirsi a Dio ".26

Nella celebre Elevazione alla Trinità Elisabetta Catez esprime quasi istintivamente un grande desiderio di distacco e di silenzio: " O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente, per fissarmi in Te immobile e quieta, come se l'anima mia fosse già nella Trinità. Nulla possa turbare la mia pace né farmi uscire da Te, o mio Immutabile ".

L'i. è il mistero del raccoglimento, del distacco e della purificazione. Il motivo è più che chiaro: la voce dello Spirito " non è un vento impetuoso e gagliardo da spezzare i monti e spaccare le rocce... ", non è un fuoco divoratore né un terremoto, ma " un mormorio di un vento leggero " (cf 1 Re 19,11-13); ora, due cose contrarie, direbbe Giovanni della Croce, non possono coesistere, contemporaneamente, nel medesimo soggetto: 27 l'influsso dello Spirito, che è intimo-spirituale-delicato, esige quindi dall'anima pari intimità-spiritualizzazione-delicatezza, affinché " si uniscano notizia con notizia e amore con amore "; 28 " ...è necessario che l'anima esca da tutte le cose secondo l'affetto della volontà, raccogliendosi al massimo grado dentro se stessa, come se tutto il mondo non esistesse ",29 perché si possa realizzare quanto espresso dall'Aquinate: " Come la processione delle Persone è la ragione dell'origine delle creature dal primo principio, così essa dev'essere la ragione del nostro ritorno al fine, poiché come per il Figlio e per lo Spirito Santo siamo stati creati, così saremo riuniti al fine ultimo ".30

Note: 1 Cf l'immagine sangiovannea della vetrata che si fa, via via, sempre più tersa: Salita del Monte Carmelo II, 5,6-8; 2 Cf Cantico spirituale 39; Fiamma viva d'amore I; 3 Ibid. I, 1; 4 Cammino di perfezione 28,3; 5 Ibid.; 6 Ibid. 29,5; 7 Ibid. 29,3; 8 Cantico..., I, 6-8; 9 Ibid., Proemio, 1; 10 Fiamma..., Proemio, 1; 11 Cf Teotimo, X, 4-5; 12 Cf Confessioni, X, 1-30; 13 Sent. II, d. 24; 14 I, 38,1; 15 Contra Gent. IV, 1; 16 STh II-II, q. 24, a. 2; q. 5 ad 3; q. 26, a. 2; 17 Confessioni, IX, 10; 18 Sent. I, d. 15, 4,1; 19 Cantico..., 39,4-8; 20 Ibid., Proemio, 1; 21 Cf Fiamma..., III, 80; 22 Sent. I, 43, 3 ad 1; 23 Sent. I, d. 14, 2 ad 1; 24 In I, 43, disp. 17,3, nn. 13-17; 25 Fiamma..., I, 9; 26 Cf STh II-II, q. 81, a. 4; 27 Cf Salita..., I, 4,1; 28 Fiamma..., III, 34; 29 Cf Cantico..., I, 6-9; 30 Sent. I, d. 14, q. 2, a. 2.

Bibl. Aa.Vv., Trinidad y vida mística, Salamanca 1982; Ch.-A. Bernard, L'esperienza spirituale della Trinità, in La Mistica II, 295-322; V. Carbone, La inabitazione dello Spirito Santo nelle anime dei giusti secondo la dottrina di s. Agostino, Roma 1961; A. Dagnino, La vita cristiana, Cinisello Balsamo (MI) 1988, 124-157; A. D'Onofrio, Dio in noi. Presenza di Dio e inabitazione della SS.ma Trinità nell'anima, Roma 1982; B. Forte, Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, Roma 1985; R. Moretti, s.v., in DES II, 1280-1296; Id., L'inabitazione trinitaria, in La Mistica II, 113-138; Id., La Trinità vertice della teologia e dell'esperienza mistica, in Divinitas, 30 (1986)3, 219-239; R. Moretti - G.-M. Bertrand, s.v., in DSAM VII2, 1735-1767; A. Pedrini, Spirito Santo e inabitazione di Dio in noi, in Rivista del Clero Italiano, 56 (1975), 706-714; J. Sudbrack, s.v., in WMy, 501-502; G. Tavard, La vision de la Trinité, Paris-Montréal 1989.

A. Dagnino

INANIZIONE. (inizio)

I. La nozione. Termine lessicalmente derivato dal latino inanire ossia vuotare, è usato piuttosto dal linguaggio medico, significando lo stato di denutrizione per mancanza di cibo. Negli scritti di alcuni mistici designa un'operazione divina nell'animo di chi si è rimesso del tutto al volere di Dio, perché egli amorosamente la svuoti di ogni residuo di peccato e di ogni imperfezione che possa compromettere la sua presenza d'amore e di gloria.

La i. può trovare identità e stretta analogia con altri termini degli scrittori mistici: annichilimento, distacco, disimpegno, nudità, fame, negazione, rinuncia, aridità, solitudine, tenebre interiori. Ciò che prevale nel concetto di i. è l'operazione di Dio nella persona. Poiché ogni persona ha un suo mondo interiore, singolarmente caratterizzato, lo Spirito Santo ha, di certo, particolari attenzioni per l'anima che si abbandona liberamente alla sua azione. C'è però una modalità d'intervento che viene tratteggiata con tempi e modi costanti.

II. Nell'esperienza mistica. La persona, che tende alla perfezione della carità, deve anzitutto promuovere un' ascesi di mortificazione su tutto ciò che risulta dilettevole alla propria sensualità e affettività, tanto in riferimento alle realtà naturali quanto a quelle soprannaturali che non sono direttamente Dio-Trinità e i suoi attributi. Motivo unico di questa ascesi è l'amore a Dio in Gesù Cristo. Con il progressivo esercizio delle virtù teologali, che invadono sempre più la vita della persona, l'i. si va operando con la sostituzione dei valori umani propri delle facoltà superiori con quelli divini. Difatti, quanto più sul piano intellettivo vengono meno le certezze razionali, su quello affettivo e volitivo le tendenze ai beni terreni, su quello mnemonico i ricordi piacevoli naturali, tanto più si allarga lo spazio ad accogliere l'invasione dello Spirito Santo. La sua presenza può rendersi operante in progressione, a mano a mano, che aumenta l'i., radicando l'anima nell'umiltà, pazienza e sacrificio, oppure, dopo una sofferta i. più o meno lunga, colmando di luce e d'amore, sicché l'anima è certa dell'amore di Dio e della sua infinita amabile provvidenza.

Bibl. Cf rimandi nel testo.

G.G. Pesenti

INCARNAZIONE. (inizio)

I. Tratti essenziali dell'I. All'inizio della seconda settimana degli esercizi spirituali, impostando la meditazione del mistero dell'I., s. Ignazio di Loyola invita l'esercitante a contemplare " le tre divine Persone [che] osservano tutta la superficie sferica del globo affollata di uomini e vedono che tutti sono incamminati all'inferno, e allora decidono da tutta l'eternità che la seconda Persona si faccia uomo per salvare il genere umano. Venuta la pienezza dei tempi inviano l'angelo Gabriele a Nostra Signora ". Guidando poi l'esercitante a entrare nel vivo della contemplazione del mistero, il mistico Ignazio sollecita l'esercitante ad usare tutte le sue facoltà interiori per ascoltare ciò che le tre divine Persone dicono: " Facciamo la redenzione dell'uomo ", e ciò che esse operano, ossia " l'I. santissima ". Il colloquio finale della stessa meditazione viene poi incentrato nel chiedere la grazia di " seguire e imitare nostro Signore ", il Verbo eterno incarnato.1

Già in questa formulazione della mistica ignaziana vengono colti ed evidenziati almeno cinque tratti essenziali dell'I., verità cristiana originaria e fondamentale: 1. l'I. è un atto libero ed eterno di tutta la Trinità, perciò essa è un'azione eminentemente trinitaria in quanto vi sono coinvolti pienamente il Padre (Colui che manda il Figlio nel mondo), il Figlio (l'Inviato) e lo Spirito Santo (l'Amore o forza di Dio che opera il concepimento verginale del Verbo eterno nel seno di Maria di Nazaret) (cf Lc 1,26-38). 2. Il soggetto che s'incarna, cioè diventa uomo, è la seconda Persona della Trinità di Dio, la quale è il Verbo, la Parola, il Figlio eterno dell'eterno Padre; egli diventa uomo restando Dio, fa propria la condizione umana, segnata dal peccato e dalla morte, senza perdere minimamente il suo stato divino e la sua comunione eterna con il Padre e con lo Spirito Santo (cf Fil 2,6-8). 3. Il farsi uomo del Verbo eterno si attua concretamente nella storia, entro il tempo cosmico, costituisce anzi l'eschaton del tempo o il rivelarsi della pienezza del tempo della salvezza: " Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli " (Gal 4,4-5, cf Rm 8,15-l7). 4. Per divenire realmente uomo e uomo concreto, storico, mortale, il Creatore sovrano e onnipotente ha voluto la collaborazione diretta e personale di una creatura, la Vergine Maria, che è diventata così la " Madre di Dio " (Theotokos). 5. Lo scopo, infine, del divenire uomo da parte del Figlio eterno di Dio è uno solo: la redenzione di tutti gli uomini. Perciò l'I. va vista già nella prospettiva della croce redentrice.

Questi stessi elementi distintivi della verità cristiana sull'I. del Verbo sono compendiati ed espressi nella grande " somma teologica " o " distillazione di misteri " (P. Claudel), costituita dal simbolo della fede fissato già dagli antichi Concili di Nicea (325) e Costantinopoli (381); in esso la fede della Chiesa confessa che il Figlio unigenito di Dio, " consustanziale al Padre ", " per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato (incarnatus est) nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo (et homo factus est) ". L'I. è anzitutto la discesa di Dio (descensus Dei) in mezzo agli uomini, e non primariamente l'ascesa dell'uomo verso il divino (come è proprio del mondo della gnosi o del mito); tale " discesa " ha costituito per Dio un'umiliazione più grande di quella della morte in croce: è stata la grande kenosi, il nascondimento o svuotamento che il Figlio preesistente ha fatto di sé, privandosi della sua condizione di gloria eterna (doxa), per assumere la condizione umile e povera del " servo " obbediente alla volontà del Padre " fino alla morte e alla morte di croce " (Fil 2,6-8). Ma proprio questa discesa o umiliazione di Dio è il fondamento dell'elevazione dell'uomo al rango di figlio adottivo di Dio, della sua liberazione e redenzione. Questa verità originariamente trinitaria e cristologica dell'I. è stata scolpita nelle sue implicanze antropologiche dalla nota affermazione del Concilio Vaticano II: " In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo " (GS 22). Il movimento dell'I. o " umanizzazione di Dio " culmina nella piena umanizzazione dell'uomo, anzi nella sua " divinizzazione ", secondo la nota formula degli antichi Padri greci.

II. Il termine e il concetto cristiani d'I. non provengono affatto dal mondo pagano, greco e romano; essi non hanno nulla in comune neppure con gli awatâra dell'induismo o con i miti del mondo delle religioni dove si parla di dei che discendono tra gli uomini. Il termine I. deriva in primo luogo dal Vangelo di s. Giovanni, il quale, al centro del suo prologo, ha l'insuperabile affermazione: " E il Verbo divenne carne (kai ho Logos sarx egheneto) e venne ad abitare in mezzo a noi " (Gv 1,14). " Lo specifico elemento giovanneo consiste nella nettezza dell'antitesi e nella profondità della sintesi di Logos e sarx ".2 Il Logos di Dio, che " fin dal principio ", ossia da sempre " era presso Dio " ed era Dio egli stesso (cf Gv 1,1-2), ora è diventato qualcosa di diverso da sé: sarx, uomo vero e concreto, essere finito e mortale. " Tutto l'uomo viene significato con carne " (caro), aveva già rilevato s. Tommaso d'Aquino.3

Il Verbo eterno, facendosi uomo, ha fatto proprio il nostro tempo fuggente; anche la nostra morte è diventata la morte dello stesso Dio immortale: " Colui che è in se stesso immutabile [Dio], lui stesso può essere mutabile in un altro ", ossia nella natura umana che ha creato ed ha assunto come propria.4

Al termine delle grandi dispute trinitarie e cristologiche, che hanno infiammato i primi secoli del cristianesimo, il Concilio di Calcedonia (451) ha fissato - con terminologia più precisa - il contenuto (quid) o " risultato " dell'I. del Verbo, confessando solennemente che l'uno e medesimo Gesù Cristo, Figlio Unigenito, è una sola " ipostasis " o persona in " due nature ", unite (unione ipostatica) " senza confusione, senza mescolanza, senza divisione, senza separazione "; perciò Gesù Cristo è " vero Dio e vero uomo " pur in " un'unica Persona e sostanza ".5 Ma il Concilio di Calcedonia non si è interrogato sul " come " sia possibile tale unione. A questa domanda ha cercato di rispondere la successiva riflessione teologica, anche se la vera risposta resta avvolta nel mistero di Dio. Indicazioni più feconde sono venute, invece, circa la possibilità della stessa I. del Verbo: la possibilità estrema del " divenire " (egheneto) di Dio, la sua genesis nel tempo e nella storia, risiede " nella genesis intratrinitaria, nella generativa autodedizione del Padre al Figlio e di entrambi nello Spirito, dedizione che lo muove a continuare il suo proprio assoluto movimento in libertà nella sua creazione ".6 Analoga la riflessione di K. Rahner che afferma: " L'autoespressione immanente di Dio nella sua pienezza eterna è la condizione della sua autoespressione al di fuori di sé, ad extra, e questa rivela identicamente proprio quella. (...) Quando dunque il Logos diventa uomo, questa sua umanità non è qualcosa che già preesiste, bensì qualcosa che diviene e sorge nella sua essenza ed esistenza se e nella misura in cui il Logos si estrinseca. Questo uomo è esattamente, in quanto uomo, l'autoespressione di Dio nell'autoextrinsecazione di questa, perché Dio esprime proprio sé allorché si extrinseca, manifesta se stesso come amore ".7

III. L'I. via alla conoscenza di Dio Trinità. La caro (uomo) assunta dal Verbo è perciò " esegesi ", traduzione diretta o espressione (ex-pressio, ausdruck) adeguata e personale del Dio eterno, invisibile ed inesprimibile. Ciò è quanto afferma ancora s. Giovanni al termine del Prologo: " Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato (exeghesato) " (Gv 1,18). " Con il diventare carne, commentava acutamente s. Girolamo, la Parola non cessa di essere la Parola, ma esercita in pieno la sua funzione di Parola ".8 A seguito dell'I. la Persona divina e trinitaria del Logos eterno si è manifestata visibilmente nel velo della " carne ", ossia negli atti, nelle parole e nella vita di Gesù di Nazaret e tutta l'umanità assunta dal Verbo è al servizio della sua rivelazione. Perciò Gesù Cristo, " icona " visibile di Dio (2 Cor 4,4) e " del Dio invisibile " (Col 1,15) ha potuto dire di sé: " Chi vede me vede colui che [il Padre] mi ha mandato " (Gv 12,45), " Chi ha visto me ha visto il Padre " (Gv 14,9). La " gloria divina ", propria del Dio Uno e Trino, il Padre l'ha fatta rifulgere " sul volto di Cristo ", sul volto dell'uomo Gesù (cf 2 Cor 4,6). Il Logos o Figlio eterno del Padre è " irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza ", e in quanto Verbum caro factum egli è la Parola definitiva ed esaustiva di Dio agli uomini (cf Eb 1,1-4).

Per tutto questo, l'evento (factum) dell'I. del Verbo è per se stesso, oltre che atto di tutta la Trinità, anche manifestazione immediata del mistero del Dio Uno e Tripersonale (Padre, Figlio e Spirito Santo). Ne consegue che lo stesso evento del Verbo fatto carne, pur rappresentando " per il pensiero il paradosso più incomprensibile " (S. Kierkegaard) e costituendo " un paradosso, uno scandalo " (R. Bultmann), resta il centro della testimonianza cristiana: è l'assoluto punto di partenza della stessa teologia ed è quindi la " sede " insopprimibile della fede della Chiesa. Infatti, mentre la filosofia e tutte le teologie extra-bibliche al centro di tutto pongono lo " spirito ", in forza del quale l'uomo si distingue dagli altri esseri, il cristianesimo pone al centro del suo evento e della sua confessione di fede l'affermazione giovannea: " E il Verbo si è fatto carne " (Gv 1,14).

Tale fatto è " inammissibile per i pagani, quanto per gli ebrei e i musulmani. Per essi, né la Parola (profetica) è Dio stesso, né Dio può divenire ciò che non era. Per il cristiano, invece, viene affermato con energia: la Parola era "presso Dio" ed essa stessa era "Dio" ed è "divenuta" qualcosa, e per l'esattezza non semplicemente "uomo" (il che è certo sottinteso, perché "carne" nell'AT sta a indicare l'uomo concreto, temporaneo e caduco), bensì caro, sarx, carne, il che mette al centro la fragilità, la caducità e soprattutto la mortalità dell'uomo. Il fatto che nell'affermazione sta al centro il corpo - caro cardo salutis (la carne è la via maestra della salvezza) - è il nucleo centrale di verità della "cristologia del Logos-sarx" del cristianesimo primitivo fin dalla dottrina erronea di Apollinare ( 390), è però anche l'affermazione centrale dell'intera teologia antignostica, che resta sempre attuale contro tutte le manie di spiritualizzazione dell'evento di Cristo, continuamente insorgenti ".9

Per questo motivo, l'intera teologia cristiana e la fede della Chiesa stanno o cadono con l'accettazione nell'intelligenza della fede di questo factum storico e metastorico: la venuta nella carne del Figlio di Dio (cf 1 Gv 4,2-3). L'I. è la porta o via della rivelazione del mistero supremo di Dio, unico e comunione delle Tre Persone uguali e distinte, ed essa è, nello stesso tempo, il cardine insopprimibile della redenzione dell'uomo operata nella passione e morte di croce. Infatti, come unanimemente affermano sia le fonti neotestamentarie, sia la riflessione teologica dei Padri dell'Oriente e dell'Occidente (contro un diffuso " mito " contrario), tutto il dinamismo dell'I. è proiettato alla redenzione attraverso la morte in croce del Figlio di Dio. " Chi dice I. dice per ciò stesso croce ".10 L'I., quindi, non ha altra finalità che la croce, la redenzione dell'uomo, la sua elevazione (" divinizzazione ") a figlio adottivo di Dio nel Figlio amato e incarnato del Padre, Gesù Cristo, " perché l'uomo diventi figlio di Dio ".11

Note: 1 S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, nn. 102-109; 2 A. Grillmeyer, Gesù il Cristo nella fede della Chiesa, I, t. I: Dall'età apostolica al Concilio di Calcedonia (451), Brescia 1982, 177; 3 STh III, q. 5, a. 1; 4 K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, Alba (CN) 1977, 287ss.; 5 DS 301-302; 6 H.U. von Balthasar, Teologica, II: Verità di Dio, Milano 1990, 248; 7 K. Rahner, Corso..., o.c., 291ss.; 8 Adv. Iovin. 2,29: PL 23, 326; 9 H.U. von Balthasar, Epilog, Einsiedeln-Trier 1987, 77ss.; 10 Id., Gloria, VII: Nuovo Patto, Milano 1990, 194; 11 Ireneo di Lione, Adversus haereses IV, 207: PG 7, 1037.

Bibl. E. Amann, Le grandi controversie cristologiche, in Aa.Vv. Enciclopedia cristologica, Alba (CN) 1960, 406-430; P. Bourgy, Teologia e spiritualità dell'Incarnazione, Vicenza 1964; K. Rahner, Incarnazione, in Id., Sacramentum mundi IV, Brescia 1975, 482-500; F. Ruiz, s.v., in DES II, 1297-1300; A. Solignac, s.v., in DSAM VII2, 1639-1640; P. Vigue, Il problema teologico dell'Incarnazione, in Aa.Vv., Enciclopedia cristologica, Alba (CN) 1960, 431-449.

G. Marchesi

INCARNAZIONISMO. (inizio)

Premessa. L'i. è la tendenza all'approfondimento delle conseguenze del mistero dell'Incarnazione nella vita concreta del cristiano e a un atteggiamento più comprensivo e accogliente dei valori della creazione e delle realtà terrene.

I. Incarnazione e suo significato trinitario e antropologico. Il termine i. deriva da incarnazione, mistero fondamentale del cristianesimo, la cui formulazione esplicita risale al Prologo del quarto Vangelo: " E il Verbo si fece carne " (Gv 1,14). Il termine " carne " (sárx) - molto vicino a quello ebraico bâsâr - indica l'essere umano nella sua debolezza, fragilità e transitorietà di creatura, che Dio non solo non ha disdegnato, ma ha elevato divenendo lui stesso " carne ". Il Verbo, quindi, che " era presso Dio " e che " era Dio " (cf Gv 1,1), si fa vero uomo, diventa creatura spazio-temporale, visibile e palpabile (cf 1 Gv 1,1; Gv 17,3-5.24). In Giovanni la fede nell'Incarnazione è criterio sia di ortodossia, contro i doceti (negatori della realtà dell'umanità di Cristo), sia di autentica comunione con Dio: " Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio " (1 Gv 4,2; cf 2 Gv 7). Anche le lettere paoline fanno uso di questa terminologia. Il Figlio di Dio, infatti, è " nato dalla stirpe di Davide secondo la carne " (Rm 1,3); dagli Israeliti " proviene Cristo secondo la carne " (Rm 9,5); anzi il grande mistero della pietà è il fatto che Cristo " si manifestò nella carne " (1 Tm 3,16). Pertanto, " è in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità " (Col 2,9). Questo farsi uomo del Figlio di Dio, questa sua venuta nel mondo (cf Gv 3,13.31; 6,62) implica un vero e proprio processo di abbassamento e di umiliazione fino all'annientamento della morte: Gesù Cristo, " pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso (...); apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce " (Fil 2,6-8; cf 1 Pt 3,18). Il Figlio di Dio si fece veramente " in tutto simile ai fratelli " (Eb 2,17), " provato in ogni cosa, come noi, escluso il peccato " (Eb 4,15). Il mistero dell'Incarnazione corrisponde al mistero della " venuta del regno ", di cui parlano i Vangeli sinottici (cf ad es. Mc 4,11), e che si realizza nella persona di Gesù Cristo (cf Mt 16,28; Mc 9,1; Mt l9,29; Lc 22,29; Mt 21,9; Mc 11,9-10). S. Paolo considera l'Incarnazione il mistero per eccellenza, il " mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi " (Col 1,26; cf anche Ef 1,9; 3,3-5; 6,19), i quali, radicati e fondati nella carità, possono finalmente comprendere " quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità " (Ef 3,18) del disegno di salvezza e di amore di Dio in Cristo: " Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli " (Gal 4,4). In tal modo, il Padre " ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra " (Ef 1,9-10). Si tratta del mistero delle " imperscrutabili ricchezze di Cristo " (Ef 3,8), maturato nel seno stesso della comunione trinitaria. Nel Verbo incarnato continua a risplendere la " gloria " divina (dóxa), quel kebôd JHWH, che è lo splendore della grandezza, della potenza e della " trascendenza " di Dio (cf ad es. Es 14,18; 16,7; Is 60,1; Sal 3,4; 19,2; 24,7; 26,8), l'" irradiazione " della gloria del Padre (Eb 1,3). La manifestazione completa di questa gloria divina sul volto del Figlio (cf 2 Cor 4,6) si ha alla risurrezione (cf At 3,13.15; 1 Pt 1,21), quando Gesù Cristo appare come " il Signore della gloria " (1 Cor 2,8). L'Incarnazione redentrice non solo è la manifestazione, ma anche l'offerta ai credenti di questa " gloria ", cioè di questa vita divina. Nella sua preghiera al Padre, Gesù afferma: " E la gloria che tu hai dato a me io l'ho data a loro, perché siano come noi una cosa sola " (Gv 17,22; cf 2 Cor 3,18; Ef 1,18; 3,16; Col 1,11). Da questa pienezza di gloria i credenti ricevono " grazia su grazia " (Gv 1,16). Il ricco e articolato dato biblico fu approfondito e precisato nella teologia patristica dell'Incarnazione (sárkôsis, " incarnazione "; enanthrôpêsis, " umanizzazione "; ensômátôsis " incorporazione "; oikonomía, " economia " e i corrispondenti termini latini, tra i quali i più usati furono incarnatio, incorporatio, inhumanatio, assumptio) che ne sottolineò con forza il motivo soteriologico e antropologico, espresso con chiarezza già nel Simbolo di Nicea: " Egli per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso e si è incarnato, si è fatto uomo ". L'i. rivela non solo il mistero della vita intratrinitaria di Dio, ma anche il mistero della partecipazione dell'uomo e del cosmo alla gloria divina e il mistero della Chiesa, come prolungamento nella storia della venuta del regno (cf Mt 13,38; 16,18-19; 21,43; 22,1-14; Eb 12,28).

Gesù Cristo è, quindi, il luogo personale d'incontro e di dialogo tra la divinità e l'umanità, tra la trascendenza e l'immanenza, tra l'eterno e la storia, tra l'assoluto e il relativo. Il Figlio di Dio diventa uomo perché l'uomo possa riprendere la sua dignità di figlio di Dio. La fecondità ad extra di Dio ha la sua manifestazione libera e gratuita non solo nella creazione, ma anche nella redenzione e nella missione del Figlio, che estende all'umanità intera e al cosmo la partecipazione alla vita divina. L'Incarnazione è " come il fiore d'una radice che ha la sua origine nel processo trinitario, come lo sviluppo di un germe insito in esso, come lo straripare di una corrente copiosissima, fluttuante nella produzione trinitaria ".1 Con l'Incarnazione la natura umana fu assunta dalla Persona divina del Verbo (la cosiddetta unione ipostatica), partecipando così alla comunione con Dio prima su questa terra e poi, con la risurrezione di Gesù, nella vita eterna.

II. Incarnazione e suo significato per la vita cristiana. Mediante la dottrina dell'Incarnazione il cristianesimo ha sottolineato la dignità eminente della natura umana, la sua collaborazione attiva alla salvezza, la sua partecipazione alla vita divina trinitaria, l'efficacia del suo impegno nella trasformazione del mondo e nel miglioramento della storia. Nel cristianesimo è stata costante l'attenzione ai valori umani e terreni del mondo creato, visti non in contrapposizione ma in armonia con i valori spirituali. Anche l'impegno ascetico e spirituale ha avuto un continuo riscontro nel sociale, mediante la valorizzazione del lavoro, dell'apostolato, dell'assistenza, della solidarietà. Esempi luminosi di ciò sono la spiritualità benedettina dell'ora et labora, l'amore universale al creato di s. Francesco d'Assisi, il fervore apostolico di s. Ignazio di Loyola, l'umanesimo devoto di s. Francesco di Sales, la carità laboriosa di s. Giovanni Bosco. Tuttavia, è nel sec. XX che si è maggiormente chiarito il valore dell'Incarnazione per la vita e l'esperienza della Chiesa: " La Chiesa (...) per essere in grado di offrire a tutti i misteri della salvezza e la vita che Dio ha portato all'uomo, deve cercare di inserirsi in tutti questi raggruppamenti con lo stesso metodo, con cui Cristo stesso, attraverso la sua Incarnazione, si legò a quel certo ambiente socio-culturale degli uomini, in mezzo ai quali visse " (AG 10). L'esigenza dell'inculturazione, la presenza cristiana nel politico, la riscoperta teologica del corpo, l'" amore per la materia " (Teilhard de Chardin), lo sviluppo della dottrina sociale della Chiesa, il sorgere e l'affermarsi della vita consacrata negli Istituti secolari sono tutti elementi che hanno contribuito alla concreta rifrazione del Vangelo nella vita sociale e culturale di oggi e al sorgere di nuove forme di spiritualità e di santità nella Chiesa. Per il cristiano le realtà mondane continuano ad essere non impedimenti ma tramiti efficaci e insostituibili all'unione con Dio. Si afferma così una spiritualità d'incarnazione per cui anche la famiglia, il lavoro, l'apostolato diventano luoghi di santificazione e di esperienza mistica (si veda l'esperienza di santità del medico napoletano Giuseppe Moscati) e sorgente di impegno per la liberazione, la giustizia, la solidarietà, l'accoglienza del diverso, il servizio all'emarginato. E quanto s. Francesco di Sales chiamava l'" estasi della vita e dell'azione ",2 che, coronando l'estasi dell'intelletto e dell'affetto, si esprime nella carità ardente e dinamica che spinge al servizio e all'azione. Per il santo vescovo di Ginevra, mentre ci sono santi che non hanno mai avuto estasi di contemplazione, " non c'è mai stato santo che non abbia avuto l'estasi o il rapimento della vita e dell'azione ".3

Note: 1 J.M. Scheeben, I misteri del cristianesimo, Brescia 1953, 267; 2 Teotimo, VII, 6; 3 Ibid., VII, 7.

Bibl. P. Bourgy, Teologia e spiritualità dell'incarnazione, Vicenza l964; M. Midali, Spiritualità apostolica. Personali e vitali riferimenti fondanti, Roma 1994.

A. Amato

INCENDIO D'AMORE. (inizio)

I. Descrizione del fenomeno. Si tratta di un fuoco spirituale che arde con violenza per Dio, che consuma e trasforma. Tale violenza d'amore si può manifestare esternamente anche come fuoco che riscalda e brucia materialmente la carne e le vesti vicine al cuore, non spiegabile da un punto di vista naturale, perché l'organismo umano non può sopportare una temperatura superiore ai 43o C. Come il fuoco trasforma tutto ciò che si trova nel suo raggio d'azione, così l'amore divino trasforma in Dio la creatura che si sottomette a lui. In questo modo l'anima si purifica per essere ricettacolo di colui che è purezza infinita ed essere così partecipe dei suoi abbracci.

II. Nell'esperienza mistica. Queste manifestazioni d'amore possono essere soprattutto di tre gradi: calore interiore: un fuoco divino invade il cuore, al punto da dilatarlo straordinariamente per poi diffondersi per tutto l'organismo; ardori intensissimi: sono ardori emozionali, per cui l'anima, avvicinandosi sempre più all'ardore amoroso di Dio, manifesta un'accelerazione del sangue con conseguente incremento di calore. Anche in tal caso la temperatura corporea supera di molti gradi quella normale senza che si abbia alcun danno; ustione materiale: è l'i. in senso stretto, per cui il fuoco dell'amore arriva a provocare incandescenza e bruciatura materiale. Quando il fenomeno è autentico, come nel caso di s. Brigida, di s. Paolo della Croce o di s. Gemma Galgani c'è l'intervento soprannaturale di Dio, il cui intenso amore trasforma in sé la persona che si sottomette a lui.

Bibl. Francesco di Sales, La Filocalia, IV, Torino 1987, 230; I. Rodríguez, s.v., in DES I, 122; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 1089-1092.

S. Giungato

INCOMBUSTIBILITA. (inizio)

I. Nozione. Si tratta di uno straordinario fenomeno per cui il corpo di una persona o di qualche oggetto materiale connesso a persone non brucia né subisce danno alcuno quando lo si pone in contatto con fiamme o con oggetti incandescenti.

Ci sono esempi di i. nella vita di numerosi santi come, ad esempio, in quella di s. Policarpo ( 155), di s. Francesco di Paola ( 1507), di s. Domenico ( 1221) e di s. Caterina da Siena.

II. Spiegazione del fenomeno. Come per altri straordinari fenomeni fisici le cause dell'i. sono di tre tipi, ossia: naturale, preternaturale e soprannaturale. La possibilità di stabilire, nei casi di i., se si tratti di una piuttosto che di un'altra delle cause elencate, è estremamente difficile.

Quando questo fenomeno si verifica nella vita di un santo, l'i. viene generalmente riconosciuta come un miracoloso intervento del potere divino, ma ci sono anche casi in cui essa si verifica durante sedute spiritiche, oppure durante riti religiosi pagani celebrati in varie parti del mondo. Alcuni scienziati hanno perfino suggerito l'ipotesi che, per qualche sconosciuta ragione, alcuni individui non siano soggetti ad ustioni quando entrano in contatto con fiamme o con oggetti incandescenti.

Si sono verificati numerosi casi in cui degli individui, durante una seduta spiritica, sono stati in grado di sostenere dei carboni ardenti nelle loro mani o di collocarli sulla testa di altri senza alcun danno. Ciò è anche, e allo stesso modo, ampiamente conosciuto in alcune religioni pagane orientali, dove alcuni individui hanno potuto camminare sopra un sentiero di carboni ardenti rimanendone illesi.

Bibl. O. Leroy, Les hommes salamandres, Paris 1931; I. Rodríguez, s.v., in DES II, 1300; H. Thurston, Fenomeni fisici del misticismo, Roma 1956.

J. Aumann

INDIFFERENZA. (inizio)

I. Il termine i. è polivalente, ma non ambiguo. Lungo il corso dei secoli, infatti, è stato usato per indicare atteggiamenti spirituali molto differenti tra loro, legati tuttavia da un denominatore comune, identificabile nell'" assenza di passioni ". Ciò che discrimina sono il senso, l'origine e il fine di questa " assenza ". In modo sintetico e globale, potremmo dire che l'i. si presenta ora come peccatomalattia, ora come virtù o impegno ascetico, ora come dono mistico per eccellenza. Nella società contemporanea, fortemente contrassegnata dal relativismo-scetticismo culturale e pratico, l'i. si presenta innanzitutto e soprattutto come peccatomalattia spirituale. Molto significativo, in proposito, è il fatto che nell'attuale Catechismo della Chiesa Cattolica l'i. sia sempre presentata sotto questo aspetto (cf nn. 29; 1634; 2093-2094; 2128). E definita come " torpore della coscienza morale " (n. 2128); è l'atteggiamento di chi è " incurante della carità divina o rifiuta di prenderla in considerazione; ne misconosce l'iniziativa e ne nega la forza " (n. 2094). Indifferente, in ultima analisi, è o rischia di diventarlo chi non rispetta il primo comandamento, cioè chi non ama Dio al di sopra di tutto e tutte le creature in lui e per lui. Si è indifferenti perché mancano o sono in difetto la volontà, il desiderio, l'amore che spingono ad aderire con tutto il proprio essere ad una realtà per la quale si sente che vale la pena di offrire la vita. Si è indifferenti perché nulla veramente avvince, essendosi confusa l'originaria chiarezza tra bene e male, o ancor più tra il Bene e i beni. Anche quando non è, o non è ancora peccato, l'i. costituisce pur sempre una malattia spirituale, propria dell'uomo che misconosce di essere dotato di intelligenza e volontà, quindi di capacità decisionale. In tal senso, Heidegger in Essere e tempo ha dato una lucida descrizione fenomenologica dell'uomo indifferente: non vive per qualcunoqualcosa, ma rimane nell'inautenticità, nell'anonimato, nell'impersonale, a livello del " si dice, si fa, come tutti fanno e dicono ". L'i. diventa così demotivazione, disimpegno e infine schiavitù.

L'uomo prigioniero delle consuetudini, della moda, e ultimamente degli istinti, ha bisogno di riscoprire un'altra i., faticosa e ardua, quella che fu introdotta nella spiritualità occidentale con s. Ignazio di Loyola1 e s. Francesco di Sales, ma che sotto altri nomi era già ben nota e praticata fin dall'antichità. Si tratta della " lotta contro le passioni ", e più precisamente di un' ascesi costante, per educare la volontà ad aderire non a ciò che piace, verso cui è istintivamente attratta, ma a ciò che è bene e conforme alla volontà di Dio. Si rinnega continualmente la " volontà propria ", ci si astiene dallo scegliere qualsiasi cosa finché non si è certi di scegliere secondo lo Spirito e non secondo la carne. In questo senso, l'i. non è un fine, ma solo un mezzo, un passaggio, un cammino verso il cambiamento fondamentale di orientamento dall'io chiuso su di sé a Dio.

L'i. viene, perciò, ad essere una dinamica della conversione. Se condotta in modo autentico, e non volontaristico, la lotta contro le passioni non sfocia nell'impassibilità, ma nella purificazione del cuore; rende il cuore capace di amare in modo ordinato. L'uomo, che si è sforzato di entrare nella volontà di Dio, scopre che essa è volontà buona, sempre operante per il bene; perciò se ne innamora.

II. Sul piano mistico. Ecco, allora, nascere una nuova forma di i., che non riguarda più la volontà ma le cose, non il soggetto, ma l'oggetto. Lo spirito diventa sensibile alla differenza esistente tra il Creatore e le creature. Con s. Agostino comincia a gridare: " Per te, o Signore, ci hai fatto e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te ".2 Si verifica quanto, nella parabola evangelica, è detto del mercante che trova la perla preziosa (cf Mt 13,44-46): di fronte ad essa, tutte le altre ricchezze gli diventano indifferenti. Siamo ormai al livello mistico. Tutta la Sacra Scrittura e la spiritualità cristiana sono percorse da questo struggente " desiderio di Dio ", che diventa i. verso ogni altra realtà. Basti per tutte una citazione di s. Paolo: " Quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo " (Fil 3,7-8).

Note: 1 S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, part. nn. 16; 157; 169; 319; 351; 2 S. Agostino, Confessioni, I, 1.

Bibl. Aa.Vv. L'indifferenza religiosa, a cura del Segretariato per i non credenti, Roma 1978; G. Botterau - A. Rayez, s.v., in DSAM VII2, 1688-1708; M. de Certeau, Mai senza l'altro. Viaggio nella differenza, Magnano (BI) 1993; I. Hausherr, Solitudine e vita contemplativa secondo l'esicasmo, Brescia 1978; B. Honings, s.v., in DES II, 1300-1301; G. Morra, La cultura cattolica e il nichilismo contemporaneo, Milano 1979; E. Niermann, Indifferenza, in Sacramentum mundi (cura di K. Rahner), IV, Brescia 1975, 511-513.

Benedettine dell'isola San Giulio (NO)

INEDIA. (inizio)

I. Nozione. L'i. equivale ad una " totale e prolungata mancanza di alimentazione ".

Il fenomeno viene preso in considerazione solo se la persona conserva integre le forze fisiche, psichiche, morali, spirituali insieme all'attività ordinaria della propria condizione di vita.

Qui, pertanto, non si tiene conto dell'anoressia né di quelle sobrietà che, pur riducendo di molto la richiesta di cibo, non lo escludono del tutto.

Dalla scienza e dall'esperienza sappiamo che nessuno sopravvive a un digiuno assoluto che si protragga oltre tre mesi. L'i., perciò, non trova alcuna spiegazione naturale soddisfacente. Infatti, ogni attività assorbe energia che, se non viene reintegrata mediante adeguata nutrizione, produce deperimento organico, esaurimento psichico e morte.

II. Nella vita spirituale. Il fenomeno dell'i. si verifica soltanto in persone di elevata vita spirituale e si accompagna, quasi sempre, all'assenza di sonno. Ne segue che l'i. sembrerebbe effetto di quella singolare intensa partecipazione alla vita divina che costituisce la pienezza della vita cristiana e umana che corrisponde al matrimonio spirituale. Nei " perfetti ", " la parte sensitiva e inferiore è ormai così riformata, purificata e resa conforme allo spirito che non solo non pone più ostacoli a ricevere i beni spirituali, ma (...) già ne partecipa nella misura in cui è capace ".1 Notiamo che in questo mondo, l'amore di Dio produce anche nei " perfetti " una certa consunzione 2 che prelude la fine della vita.

Tale ipotesi è più attendibile di quelle scientifiche, se non altro perché abbiamo esempi verificati dall'esperienza,3 esempi che la scienza, da parte sua, non è ancora in grado di offrire.

Note: 1 Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 40, 1; Teresa d'Avila, Vita, 29,13; 2 Giovanni della Croce, Cantico..., 39,14; 3 A. Royo Marín, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 1105: la b. Angela da Foligno visse dieci anni senza prendere alimento, s. Caterina da Siena otto anni, la b. Elisabetta de Reute oltre quindici anni, s. Lidvina di Schiedman vent'otto anni, s. Nicola de Flüe vent'anni, la b. Caterina da Racconigi dieci anni, Rosa Maria Andreani vent'otto anni, Domenica Lazzari e Luisa Lateau quattordici anni.

Bibl. J. Aumann, Teologia spirituale, Roma 1991, 511; I. Rodríguez, s.v., in DES II, 1308-1309; A. Royo Marín, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 1105-1107.

C. Zorzin

INEFFABILITÀ. (inizio)

I. Significato. I mistici frequentemente affermano che il totalmente Altro è ineffabile, che ciò che hanno esperito durante l'estasi è indicibile, che le loro visioni sono inesprimibili. Alcuni dei più grandi studiosi del misticismo, da William James a Walter T. Stace, hanno indicato proprio nell'i. uno dei segni caratteristici dell'esperienza mistica. " Il più ovvio dei segni - ha scritto W. James - per cui io classifico come mistico uno stato mentale è un segno negativo. Colui che lo prova afferma immediatamente che questo stato non potrebbe trovare alcuna espressione, che non se ne può manifestare a parole il contenuto. Ne consegue che la sua qualità dev'essere direttamente sperimentata; non può essere comunicata né trasferita ad altri ".

In questi ultimi decenni, la tesi dell'i. è stata analizzata sia da un punto di vista logico, sia da un punto di vista epistemologico, sia, infine, da un punto di vista linguistico. Le conclusioni alle quali alcuni studiosi sono giunti consistono nel rifiutare la tesi dell'i. in quanto essa, per dirla con Keith E. Yandell, è " solo confusione e non senso ". Altri, come Peter C. Appleby, hanno cercato di mostrare che tale tesi è " falsa, anche se c'è più di un granello di verità nelle considerazioni addotte in favore della sua accettazione ". Altri ancora, come Michael Durrant, si sono chiesti se l'elemento centrale dell'esperienza religiosa sia inesprimibile di fatto o di principio, dichiarando poi di propendere per la prima delle due ipotesi.

Per Renford Bambrough, infine, il tema dell'i., che è una forma di scetticismo a livello linguistico, cela non poche trappole. Il rischio, egli afferma, è quello di descrivere " come una impossibilità ciò che è solo una difficoltà, come una barriera ciò che è solo una frontiera ".

Tra coloro che hanno espresso una valutazione più positiva dell'i. possiamo ricordare N. Smart, L. Hatab, P. Moore e J. Kellenberger. Alcuni di questi autori, soprattutto Moore, ma anche Kellenberger, si sono impegnati in analisi attente al fine di tracciare una fenomenologia dell'ineffabile, altri (Moore e Hatab) hanno finito con il ridimensionare il ruolo che l'i. giocherebbe effettivamente nelle produzioni verbali dei mistici.

Ninian Smart ha sostenuto che espressioni come ineffabile, indescrivibile, inesprimibile, indicibile, indefinibile e così via, che compaiono frequentemente nelle opere dei mistici non devono essere prese come se " escludessero completamente la descrivibilità ". Esse posseggono una buona dose di ambiguità, infatti " dire che Dio è incomprensibile può voler significare non che è totalmente incomprensibile, bensì che non è totalmente comprensibile ".

Per Lawrence J. Hatab nessuna forma di misticismo è, a rigor di termini, ineffabile. Se i mistici parlano di i. (ma " ineffabile " - egli afferma - non significa " non linguistico ") o di indescrivibilità vogliono solo ricordarci che la loro è un'esperienza straordinaria e che, quindi, il linguaggio ordinario è inappropriato e inadeguato per parlare di ciò che essi hanno esperito. La sola esperienza ineffabile è, a suo avviso, quella che costringe il mistico a scegliere il silenzio.

II. Nell'esperienza mistica. A conclusioni simili a quelle di Lawrence J. Hatab è giunto anche Peter Moore. A suo avviso, sui sentieri della mistica non ci si trova mai di fronte ad una i. radicale, assoluta, poiché vi sono sempre elementi dell'esperienza mistica che possono essere comunicati, quindi, si tratta in ultima analisi di una i., per così dire, debole. Un altro interessante contributo è stato fornito da J. Kellenberger, che ha cercato di delineare una tipologia degli oggetti che possono, di volta in volta, essere o non essere etichettati come ineffabili. " In primo luogo, ciò che viene presentato come ineffabile può essere Dio, la Divinità e Brahma, ecc. In secondo luogo, come per s. Giovanni della Croce, l'oggetto mistico può essere una "saggezza intima" o, come nell'Upanishad, una conoscenza suprema. In tal caso, l'oggetto mistico è una verità. In terzo luogo, l'oggetto mistico può essere l'io come nella tradizione indù o l'anima come per Meister Eckhart. E, infine, l'oggetto mistico può essere la stessa esperienza mistica ".

Bibl. M. Baldini, Il linguaggio dei mistici, Brescia 19902, 137-148; G. Marchesi, Parola e silenzio dinanzi al mistero di Dio, in CivCat 132 (1981)3, 372-387; R. Moretti, s.v., in DES II, 1309-1311.

M. Baldini

INFANZIA SPIRITUALE. (inizio)

I. Il termine. L'i. attinge tutta la sua legittimità e la sua ragion d'essere nella nostra filiazione adottiva in cui poggia le sue radici profonde e feconde. Noi siamo " filii in Filio ", figli e figlie nel Figlio Gesù. Dio è nostro " Abbà, Padre " (Rm 8,15; Gal 4,6), che " rivela ai piccoli ciò che ha nascosto ai sapienti e agli intelligenti " (Mt 11,25).

L'espressione i. che si ritrova già in Adamo de Perseigne ( 1221), o in Giuliana di Norwich, è soprattutto resa celebre, fino a penetrare nei discorsi pontifici, dall'insegnamento di Teresa di Lisieux, benché la santa stessa non abbia mai usato questa formula: è stata la sua priora, madre Agnese di Gesù, che, riassumendo la sua dottrina, gliela attribuisce, avendola scoperta, per esempio, negli scritti di Mons. Gay.1 Noi ci limitiamo qui all'insegnamento di s. Teresa che riguarda la sua " piccola via ", sinonimo di " infanzia spirituale ".

La " piccola via " è per Teresa il risultato di una lunga ricerca. Desiderosa di diventare " una grande santa " e di " amare Gesù più che non sia stato mai amato ", Teresa pone a lungo l'accento sulla generosità dei propri sforzi. Inizialmente, l'esperienza della sua debolezza, non fa che incitarla ad amare di più, in maniera più pura, con maggiore umiltà. Constatando la sua impotenza, per così dire, irrimediabile dinanzi all'ideale della santità (" un granello di sabbia " ai piedi di una " montagna ") e presentendo che Dio diventa sempre più amabile a misura che lo si ama, a vent'anni ella comincia ad attendere il compimento della sua santità da " Gesù solo ": " E Gesù solo che fa tutto ed io non faccio nulla ". S'incontra, allora, per la prima volta nei suoi scritti la parola " abbandono " (Lettera 142). In realtà, solo un anno più tardi ella scopre la sua " piccola via molto diritta, molto breve, tutta nuova " (autunno 1894, cf Ms C 3vo-3ro). Ella è dapprima colpita dall'espressione biblica " Chi è piccolo venga a me " (cf Prv 9,4). " Piccolo " (è il suo problema!), Teresa è toccata dall'invito di " venire ", termine che considera collegato con tutti gli inviti di Gesù a " venire " a lui (per esempio, Mt 11,28; Gv 6,35; 7,37 e soprattutto Mt 19,14: " Lasciate che i bambini vengano a me ").

Proseguendo le sue ricerche, ella leggerà (per la prima volta!) Is 66,12-13: " I suoi bimbi saranno portati in braccio, sulle ginocchia saranno accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò ". Molto sensibile all'amore di una madre (ella ha presto perduto la sua), Teresa coglie come l'amore di Dio sia maternamente comunicativo nei riguardi di colui che si affida a lui con una confidenza filiale, confidenza di figlio adulto, ma che conserva la semplicità e la spontaneità del fanciullo. Se Teresa del B.G. favorisce l'immagine del fanciullo e il paragonarsi a lui, lo fa essenzialmente alla luce della misericordia di Dio: dopo la sua scoperta, la parola " misericordia ", fino allora assente, per così dire, nel suo vocabolario, vi abbonderà; diventerà il tema centrale della sua autobiografia, immergerà Teresa sempre più in una luce abbagliante, la spingerà a pronunciare la sua " offerta all'Amore misericordioso ", in cui ella esprime tutta la sua speranza che la " santità " del Signore sarà deposta nelle sue " mani vuote ", fino a " consumarla incessantemente ", facendola " vivere in un atto di Amore perfetto ".

E intorno all'asse misericordiafiducia che ruotano ormai la sua attesa e la sua spiritualità dell'amore perfetto: " Gesù si compiace di mostrarmi l'unica via che conduce a questa fornace divina, questa via è l'abbandono del fanciullo che si addormenta senza timore tra le braccia del Padre ", ella scrive allegando i testi biblici fondanti della sua " piccola via " (Ms B 1ro). Ella aggiunge l'indomani: " Ciò che piace (al buon Dio nella mia piccola anima) è vedermi amare la mia piccolezza e la mia povertà, è la speranza cieca che ho nella sua misericordia... Comprendete che per amare Gesù, essere sua vittima d'amore, più si è deboli, senza desideri, né virtù, più si è adatti alle operazioni di questo Amore consumante e trasformante... E la fiducia, e nient'altro che questa, che deve condurci all'Amore " (Lettera 197 del 17 settembre 1896).

A partire da questi principi di teologia spirituale, Teresa elaborerà immagini e parabole, esempi e consigli, atteggiamenti pratici dinanzi alla sua debolezza e al suo peccato. Uno spirito di i. colora il suo abbandono filiale nella prova e la sua generosità nelle " piccole cose " della vita quotidiana ove ella si difende da ogni ricerca di ciò che è " eclatante ". Affidandosi all'azione di Dio, che ella sperimenta in sé, applica la sua " piccola via " così bene sia sul terreno della carità fraterna (Ms C 12vo) che su quello della preghiera (Ms C 36ro), sul terreno dell'apostolato (Ms C 22vo) come su quello della sua debolezza e del peccato (Ms C 36ro e Ultimi Colloqui 11.7.6.).

Non solo la " piccola via " di Teresa è " tutta nuova " paragonata alla sua epoca, ove un approccio giansenista di un Dio severo paralizza lo slancio della vita spirituale e mistica, ma il realismo della fede, con la quale Teresa opta per le piccole cose della vita quotidiana come campo d'azione preferito a molti, contribuisce a fare di lei un dottore molto ascoltato della " piccola via dell'i. ": ella ne ha vissuto tutta la profondità mistica raggiungendo il cuore della teologia paolina sulla fede-fiducia nella grazia dello Spirito, simpatizzando così, a sua insaputa, con i migliori accenti di Lutero ( 1546). La " piccola via " di Teresa è al centro del cristianesimo poiché poggia tutta la sua sostanza nel Cuore del Salvatore.

Note: 1 Mons. Gay, De la vie et des vertus chrétiennes considérées dans l'état religieux, III, Paris-Poitiers 1888, 180.

Bibl. M.F. Berrouard - François de S. Marie - Ch.-A. Bernard, s.v., in DSAM IV, 682-714; C. De Meester, Dinamica della fiducia, Cinisello Balsamo (MI) 1997; C. Gennaro, s.v., in DES II, 1312-1313; S. Piat, S. Thérèse de Lisieux à la decouverte de la voie d'enfance, Paris 1964.

C. De Meester

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