MICHELE DEI SANTI - MISTICA ISLAMICA - DIZIONARIO DI MISTICA

Vai ai contenuti

Menu principale:

MICHELE DEI SANTI - MISTICA ISLAMICA

M

CERCA NELLA PAGINA

Il termine cercato viene evidenziato in giallo in tutta la pagina
 jQuery: cercare ed evidenziare parole nel testo


  ................. MICHELE DEI SANTI, TRIN

M

________________________________________________

MICHELE DEI SANTI (santo). (inizio)

I. Vita e opere. Settimo di otto figli, Michele Argemir nasce a Vic (provincia di Barcellona) il 29 settembre 1591. Orfano fin da bambino, si sente attratto dalla persona di Gesù e vuole emulare i Padri del deserto nelle loro pratiche religiose e penitenziali. Ben due volte, a otto e undici anni, tenta di fuggire verso il vicino monte Montseny per dedicarsi alla vita eremitica.

Veste l'abito trinitario calzato a Barcellona e professa posteriormente, all'età di sedici anni, a Zaragoza. Desideroso di maggiore povertà, penitenza e raccoglimento, appena saputo dell'avvenuta riforma trinitaria promossa da s. Giovanni Battista della Concezione, chiede di aderirivi e professa come trinitario scalzo ad Alcalá de Henares il 29 gennaio 1609 col nome di Michele dei Santi. Dal mese di aprile al mese di ottobre di quello stesso anno vive nel convento di La Solana (Ciudad Real) dove conosce il santo riformatore. Qui comincia a sperimentare quei fenomeni straordinari che in seguito saranno così frequenti in lui: digiuni prolungati, estasi, rapimenti, grida, sbalzi incontenibili, ecc. Nello stesso periodo attraversa le notti dello spirito.

A Siviglia, dove trascorre gli anni 1609-1611, raggiunge il culmine della sua trasformazione spirituale, sigillata col fenomeno dello scambio di cuori.1

Segue gli studi filosofici all'Università di Baeza e quelli teologici a Salamanca e Baeza. E proprio qui a Baeza che, dopo essere stato ordinato sacerdote a Faro, in Portogallo, svolge, per la durata di sette anni (1615-1622), un fecondo apostolato con l'esempio, la direzione spirituale e la predicazione. I frutti della sua azione sono sorprendenti. Calunniato da due confratelli davanti al superiore provinciale, è costretto a passare quattro o cinque settimane nel carcere conventuale. Si moltiplicano le estasi: durante la Messa, mentre confessa, mentre predica o sente predicare. Secondo le sue stesse dichiarazioni, nel cuore dell'estasi, Dio gli comunica una conoscenza altissima di sé, e addirittura contempla la gloria divina del cielo.2

Dalla metà dell'anno 1622 fino alla sua morte, avvenuta il 10 aprile 1625, è ministro conventuale di Valladolid. Mentre muore, con lo sguardo fisso sul crocifisso che afferra tra le mani, pronuncia queste parole: " Credo in Dio, spero in Dio, amo Dio; pietà, Signore, per i miei peccati ".

Ha lasciato diversi scritti tra cui un gioiello mistico, Breve tratado de la bienaventurada tranquilidad del alma,3 di chiaro sapore autobiografico,4 scritto per obbedienza verso il 1610 a Siviglia. Consta di soli dieci capitoletti. Lo stato della tranquillità dell'anima è l'esperienza dell'unione trasformante, frutto della purificazione e della contemplazione. In fondo, si tratta della spiegazione teologica dello scambio mistico di cuori avvenuta fra il Santo e il Cristo (totale cristificazione di M.).5

Compose altresì un poema in diciannove ottave reali sull'anima nella via unitiva. In queste rime il nostro poeta mistico analizza teologicamente l'esperienza dell'unione trasformante da lui vissuta. Esamina il fondo stesso di quanto descritto nel Breve tratado.

Purtroppo, l'epistolario del santo a noi noto si riduce a quattro lettere, di cui una, indirizzata ad un superiore, non è altro che una sintesi del Breve tratado. Infine, gli vengono attribuite dodici brevi massime in latino sul modo di vincere la tentazione. Nessuno di tali scritti ci è noto nella sua redazione autografa originale.

II. Pensiero mistico. M. concentra la sua attenzione sulla piena trasformazione spirituale dell'uomo in Cristo. La fonte primaria è la sua propria esperienza, analizzata con una chiarezza di concetti degna di un maestro di spiritualità.

Nel cantico mistico traccia la via unitiva dell'anima, chiamata alla perfetta trasformazione nello Spirito: la notte dei sensi; l'unione estatica; la notte o purificazione dello spirito; l'unione trasformante. La grazia degli sponsali spirituali con Cristo, a cui dedica le prime sette strofe, la si riceve dopo il passaggio attraverso le notti e il nulla dei sensi (" spoglia di terra ", " priva di luce in notte oscura ", " senz'occhi ", " senza quiete ", " senza bastone e appoggio ", " senz'essere ") e dello spirito (" sprofondarsi nel centro del suo niente ", " in diletta ferita resta annichilita "). Poi (strofe 8-12) parla del significato profondo della ferita d'amore. La luce divina della contemplazione inoltra l'anima nella luce della gloria. Infine (strofe 12-19) canta l'indicibile esperienza dell'anima perfettamente trasformata. Questa vive l'unione perfetta con le divine Persone nel più profondo di sé, " in libertà d'amore, fuor di servigio a bassa creatura; e dell'essenza gode del Creatore la chiarezza, snudata, in notte oscura ". " In Dio come accidente si trasforma ". " Vive in carne come in cielo assisa ". Il nostro poeta mistico termina esclamando: " Nulla sa esprimer più penna o intelletto ", parole con cui lascia intendere perché è così breve questo cantico, che ci fa intravvedere appena il suo mondo interiore.

Con uno stile chiaro e didattico, M., nel suo Breve tratado segue un piano logico. Dopo aver esposto la natura della beata tranquillità, tratteggia il cammino che ivi conduce, il quale comprende " cinque condizioni " o passaggi successivi: 1. Distacco da tutte le creature, dai sensi, dalle passioni, dai sentimenti; 2. Privazione di qualsiasi sorta di desideri e gusti; 3. Disprezzo da parte degli uomini; 4. Grande aridità nella parte sensibile e in quella spirituale; 5. Insensibilità verso tutte le realtà temporali. Poi, offre chiarimenti sulla trasformazione della volontà e sulla vera innocenza.

La beata tranquillità dell'anima è come una risurrezione anticipata dopo la morte mistica. Ora, per l'autore, la tranquillità non presuppone l'annientamento della sensibilità, bensì la sua trasformazione: la sensibilità sottomessa alla ragione e la ragione sottomessa al suo Creatore. Si tratta di una sottomissione ascetica e mistica che non si ottiene senza i doni dello Spirito Santo. Chi vive questa esperienza, " potrà affermare sicuramente con l'Apostolo: Vivo ego, iam non ego, sed vivít in me Christus (Gal 2,20); e anche: Conversatio mea in caelis est (Fil 3,20) " (Breve tratado, IV). Una nota essenziale e indispensabile di tale stato - sottolineata a più riprese - è che tali anime " non vogliono se non ciò che Dio vuole ch'esse vogliano ". Si tratta di un volere distinto da quello dei beati, per quanto " voler ciò che Dio vuole è fondato in una perfettissima carità, ma il volere ciò che Dio vuole che vogliamo si basa su tre cose, vale a dire, sulla fede, sulla speranza e sulla carità " (Ibid., VI).

Dalla cima della divinizzazione dell'anima M. osserva tutto l'itinerario previo fatto di ascesi, mortificazione, notti passive ed attive dello spirito, dono radicale di sé. " Sono davvero pochissimi - scrive - a raggiungere questo stato, e ciò perché si richiede grandissima abnegazione, rassegnazione, mortificazione e annichilimento; né può essere altrimenti, poiché bisogna sostenere grandissime croci per giungere al possesso di quanto si è detto " (Ibid., VIII).

Ancora non è stata fatta nessuna indagine sulle fonti letterarie del nostro mistico. Nel Breve tratado si scorgono senza fatica qualche influsso della Scala Paradisi di Giovanni Climaco ed una coincidenza sostanziale con la dottrina dell'apatheia dei primi scrittori cristiani. M. fa una volta il nome di s. Teresa di Gesù, ma non adopera la simbologia teresiana circa il matrimonio spirituale per spiegare lo stato di perfetta trasformazione interiore. D'altra parte, non mancano in lui elementi comuni con Giovanni della Croce, anche se non lo nomina affatto. La prima edizione delle opere del Dottore mistico, risalente all'anno 1618, è posteriore alla redazione del Breve tratado. Ciò nonostante, M., a Baeza possedeva una copia del manoscritto sanjuanista del Cantico spirituale.

Per quanto riguarda le purificazioni dell'anima, la ferita d'amore e l'unione perfetta, il nostro autore manifesta un pensiero simile a quello del suo padre riformatore, s. Giovanni Battista della Concezione, nella sua Llaga de amor.

Note: 1 Lo stesso Michele confidò tale grazia al suo confessore, P. Francisco de la Madre de Dios, a detta di quest'ultimo nel Processo informativo di Madrid, f. 19v; 2 " E in rapimenti ed estasi e visioni riporta del suo Dio gratuiti doni " scrive nella quinta strofa del suo cantico El alma en la via unitiva; 3 Il titolo completo, che si legge nel manoscritto più antico (copia dell'originale eseguita dal trinitario Fr. Diego del SS.mo Sacramento tre anni dopo la morte del santo: Madrid, Biblioteca Naciónal), è il seguente: Breve tratado de la bienaventurada tranquilidad a que un alma puede llegar en esta vida; 4 Si scorge facilmente che " lo stato di tranquillità, descritto dal santo, è una vera, esatta e compiuta fotografia della sua anima ": Antonino de la Asunción, Opúsculos de s. Miguel de los Santos..., Roma 1915, 32, nota l. L'autore, nelle sue note al trattatello, apporta diverse testimonianze dei processi, i quali dimostrano una tale affermazione. Anche i biografi concordano al riguardo; 5 Felix de la Virgen, Trueque de corazones entre Jesús y san Miguel de los Santos, in El santo Trisagio, 40 (1950), 154-157.

Bibl. G. Antignani, Il trattatello di S. Michele dei Santi sulla tranquillità dell'anima, in RivAM 47 (1978), 264-272; J.M. Arbizu, Tranquilidad, inocencia y sencillez del alma en el seno de la divinidad, en san Miguel de los Santos, in Trinitarium, 3 (1994), 123-149; A.M. Claret, Sermón del beato Miguel de los Santos, in Id., Selectos panegiricos, VIII, Barcelona 1861, 194-205; Giovanni del S. Cuore, s.v., in BS IX, 449-450; J. Gros I Raguer, Vida de Sant Miquel dels Sants, Barcelona 1936; Jesús de la Virgen del Carmen, A propósito de " El alma en la vía unitiva " de san Miguel de los Santos, in El Santo Trisagio, 124 (1956), 173-178; Id., Interpretación de la vida de San Miguel dels Sants, in Estudios Trinitarios, 2 (1964), 73-92; J.A. López Casuso, s.v., in DSAM X, 1192-1193; Nicola dell'Assunta, s.v., in EC VIII, 958; A. Rodríguez Borrego, Movido por el espíritu de Dios. Vida de S. Miguel de los Santos, Madrid 1991.

J. Pujana

MICHELE DI SANT'AGOSTINO. (inizio)

I. Cenni biografici. Jan van Balaer, così si chiama prima di diventare religioso carmelitano, nasce a Bruxelles il 15 aprile 1621 e professa nel convento di Malines il 14 ottobre 1640. Ordinato sacerdote il 10 giugno 1645 ricopre numerose cariche: professore di filosofia e teologia, maestro dei novizi e dei professi, priore per due volte di Malines, priore anche di Bruxelles e provinciale della provincia dei Paesi Bassi nel 1656, incarico per il quale sarà eletto altre due volte nel 1667 e nel 1677. Promuove con grande zelo l'introduzione e il rafforzamento nella stessa della riforma di Touraine. Questa, come si sa, accentua con grande forza la tendenza contemplativa dell'Ordine, di cui egli stesso è uno dei migliori rappresentanti, senza rinunciare per questo ad un fervoroso apostolato, che coniuga con tale tendenza in perfetto equilibrio fino alla sua morte, avvenuta il 2 febbraio 1682. Gode, nel suo tempo, di una grande autorità in materia di spiritualità ed è, senza dubbio, una delle personalità più rilevanti della vita religiosa del suo paese.

II. Insegnamento mistico. Nonostante le molteplici attività, ha tempo per scrivere opere di spiritualità, nella propria lingua e in latino, la maggior parte delle quali raccolte nelle sue Institutionum mysticarum libri quatuor quibus anima ad apicem perfectionis, et ad praxim mysticae unionis deducitur (3 voll., Ambares 1671). Per lui, il fine della vita spirituale è la conformità a Dio o la vita divino-umana, cioè l'unione, attraverso la conoscenza e l'amore, con Dio che dimora nel più profondo centro dell'anima; fine che si può raggiungere solo in, per e con il Cristo.

Per descrivere la struttura della stessa si serve della terminologia dei grandi mistici della sua terra Ruusbroec e Herp e di quella del principale autore della riforma di Touraine, Giovanni di San Sansone. La sua dottrina si caratterizza, però, per un grande senso pratico e in essa si rivela il senso devozionale che impregna tutta la sua vita.

Ma il maggior contributo di M. alla mistica è la stupenda vita mariana che sviluppa nel suo trattato De vita mariae-forme et mariana in Maria et propter Mariam, che si basa soprattutto sull'esperienza della sua diretta, la terziaria carmelitana Maria Petyt ( 1677). Vita conforme alla volontà di Maria, cioè una vita in, per e con Maria, che raggiunge la sua perfezione quando l'anima si lascia formare e animare dallo spirito di Maria, fino a trasformarsi in essa in modo che Maria viva ed operi in essa. M. la presenta come " un modo nuovo di vivere in Dio ", che è necessario sperimentare per conoscerlo, perché la vita mariana non è un ostacolo per l'unione con Dio, anzi la facilita: Maria serve da mezzo per unire più fortemente l'anima a Dio.

Bibl. S. Axters, La spiritualité des Pays-Bas, Louvain-Paris 1962, 19-22; C. Catena, La consacrazione a Maria in S. Luigi Grignion de Montfort e nel V. P. Michele di S. Agostino, in Analecta O. Carm., 16 (1951), 3-43; A. Deblaere, s.v., in DSAM X, 1187-1191; Id., Maria Petyt, écrivain et mystique flamande (1623-1677), in Carm 26 (1979), 9-16; V. Hoppenbrouwers, Michael van de H. Augustinus, in Carmel, 2 (1949-1950), 155-173; Id., Devotio mariana in Ordine Fratrum B.M.V. de Monte Carmelo, Roma 1960, in particolare, pp. 210-224; C. Janssen, s.v., in DES II, 1597-1598; Id., Het leven van P. Michael a St. Augustino, in Jonge Carmel, (1944-1945), 1-62; O. Steggink, Presentación a: Miguel de San Agustin y María de Santa Teresa, La vida de unión con María, Madrid 1957; Timotheus a Praesentatione, Vita Ven. P. Michaelis a S. Augustino, in Introductio ad vitam internam di quest'ultimo, Roma 1926, VII-XL.

P.M. Garrido

MISTAGOGIA. (inizio)

I. Il termine è greco, composto dal nome mystes (mistero) che forse deriva dal verbo myo (chiudere le labbra, essere chiuso) e dal verbo ago (condurre). Etimologicamente significa l'azione d'introdurre una persona nella conoscenza di una verità occulta e nel rito significativo di questa. Chi introduceva, generalmente un sacerdote, era detto mistagogo; la persona iniziata era chiamata miste.

II. Nell'antichità. I culti greco-romani, nei quali era presente la m. erano vari: quello orfico, quello di Mitra, quello dionisiaco, quello eleusino di Demetra e Core, ecc. Erano forme religiose pagane di natura soteriologica. Quelle più antiche si riferivano, nei loro riti, alle forze generatrici della natura, specialmente a primavera. Quelle più recenti avevano riti che significavano un trasferimento delle forze della natura alla persona iniziata.

La m. comportava generalmente, oltre gli attori principali, il mistagogo, il miste e la divinità, una preliminare abluzione del corpo, segno, a volte, di una purificazione morale; includeva, inoltre, la persuasione che il miste entrasse in un gruppo religioso particolare, diverso da quello in cui era vissuto fino ad allora; esigeva l'esoterismo, ossia il patto interiore, il segreto nel quale si costituivano l'iniziazione al culto e l'appartenenza ad esso, nonché l'indottrinamento e il ritualismo che portavano il miste all'unione (quasi identificazione) con la divinità alla quale si offriva il culto e, infine, la proibizione di comunicare ad estranei le verità e le pratiche rituali affidate agli iniziati.

La m. non è assente nemmeno dalle religioni che, per contenuto di dottrina, si rifanno a una rivelazione soprannaturale. Esse propongono misteri, cioè verità incomprensibili alla ragione umana, che poi vengono, in qualche modo, espresse nel culto pubblico. Anzi si può affermare che quanto più una religione propone misteri di ordine sovrumano, con risvolti liturgici, tanto più gli adepti necessitano di m. perché il loro impatto con verità ineffabili, prima che comprensibili, possa essere dolce e graduale.

III. Nella religiosità ebraica il mistero era presente sia come disegno segreto di Dio, che vuol salvare Israele, sia come complesso di verità salvifiche rivelate agli umili. I rabbini insistevano molto sul concetto esoterico di mistero per enfatizzare la predilezione di JHWH per il popolo eletto. Sacerdoti, rabbini, responsabili di sinagoga iniziavano in particolare i circoncisi, trasmettendo e spiegando la Thorà o legge divina, e introducendoli al culto del tempio e dei riti sacrificali. Nella setta ebraica degli Esseni, a Qumram, il mistero messianico e quelli connessi ebbero un grande rilievo. Erano stati rivelati ai profeti, quindi agli israeliti, perché conoscessero e proclamassero la potenza e la sapienza di Dio. Venivano interpretati in seno alla comunità essenica dal maestro di giustizia al fine di orientare gli adepti al mistero messianico escatologico.

IV. Nel cristianesimo la m. acquista nuova importanza. Gesù stesso introduce i discepoli nel mistero del regno di Dio con simboli e parabole ricche di arcano. Egli è insieme mistero e mistagogo dei suoi seguaci (cf Mt 11,25-27). Singolarità del mistero cristiano è la esoterica essenza di fede e di rivelazione soprannaturale proposta alla coscienza d'ogni persona, e insieme una realtà esterna di adepti che pregano e celebrano riti sacri, restando separati dai non cristiani, in particolare quando spezzano il pane eucaristico (cf At 2,46; 5,13). Negli scritti di Paolo emerge il concetto di un grande mistero di dimensione soteriologica cosmica: Dio, fin dall'eternità ha, nella sua sapienza, preordinato la salvezza degli uomini (cf Rm 16,26) con un segreto piano operativo. Tutto ciò era rimasto nascosto a tutti (cf 1 Cor 2,8) e fu rivelato quando a Dio piacque, realizzandolo con modalità superiori ad ogni previsione umana. Di fatto, l'evento dell'Incarnazione, la preferenza di Cristo per i poveri e i peccatori, la follia della croce, la risurrezione di Gesù, la temporanea e parziale defezione d'Israele, la chiamata dei pagani nel nuovo popolo di Dio sono chiaramente fatti imprevedibili. La rivelazione del mistero cristiano è fatta in maniera mistagogica ai discepoli (cf Mc 4,11), mentre agli altri è offerta in modo enigmatico. Il mistero della chiamata dei pagani alla Chiesa è rivelato a Paolo che ne diviene il mistagogo per eccellenza. La rivelazione del mistero globale della salvezzza comprende la conoscenza e l'inizio della fruizione dei beni salvifici, già presenti in Cristo. Sono beni soteriologici ed escatologici, offerti da Dio a tutti, per conseguire la liberazione da satana, dal peccato, dalla morte eterna, per vivere la pace e la gioia di Gesù con amore a Dio e ai fratelli, ed entrare nella vita gloriosa di Dio, accanto a Cristo che siede alla destra del Padre.

V. Nella Chiesa primitiva ci fu l'esplosione pentecostale che lanciò pubblicamente sulle genti ebraiche e pagane il mistero cristiano, come un evento irresistibile, irrinunciabile, di salvezza per tutti. Il kerigma, annunciato con risolutezza (parresia), si dimostrò ben presto bisognoso di espressioni liturgiche, dato anche il forte simbolismo dei sacramenti del battesimo e dell'Eucaristia e dell'imposizione delle mani; riti comandati da Cristo per entrare nel regno di Dio ed avere la vita divina, in eterno. Nell'immersione battesimale, simbolo della morte e sepoltura di Cristo, è significata la morte del vecchio uomo peccatore, e nell'emersione, segno della risurrezione di Gesù, il battezzato è l'uomo nuovo di santità. La pregnanza misteriosa del battesimo conteneva altri valori: filiazione divina, configurazione a Cristo, dedicazione allo Spirito Santo, incorporazione alla Chiesa, missione evangelizzatrice, destino di risurrezione alla vita eterna. Parimenti, nell'Eucaristia i valori sono delicati e occulti: essa è nutrimento di grazia salvifica per ogni commensale; instaura l'unità con Cristo e dei fedeli tra loro; fa memoria della vita, passione, morte, risurrezione di Gesù; è caparra di eterna glorificazione in Dio. Nel rito della imposizione delle mani c'è il misterioso segno della discesa dello Spirito Santo, ipostasi divina, della elargizione dei suoi carismi, della carità, della testimonianza coraggiosa della fede, per conseguire così un favorevole giudizio del Cristo, giudice di tutti gli uomini. Analogamente, negli altri sacramenti e sacramentali sono presenti misteriosi valori. Pertanto, l'iniziazione seria, prolungata, scandita nel tempo del catecumenato e dei neofiti diviene indispensabile.

I Padri della Chiesa furono saggi iniziatori ai misteri cristiani che, durante i primi tre secoli, furono tenuti segreti, perché il paganesimo non profanasse riti e simboli, con i quali venivano espressi. Durante il catecumenato, la m. cristiana ebbe modo di affermarsi perché gli adulti provenienti dal paganesimo capissero e accettassero i valori mistici della salvezza di Cristo Uomo-Dio. Era una iniziazione che nel sec. IV veniva fatta in due tempi: il primo destinato a una lunga e seria istruzione circa le verità della fede; il secondo, più intenso e illuminante durante la quaresima e nella settimana santa, offriva la spiegazione dei riti sacramentali. Ottimi mistagogi furono: Cirillo di Gerusalemme, Teodoro di Mopsuestia ( 427), Ambrogio di Milano. L'istituto del catecumenato si attenuò nel sec. V, quando invalse l'uso di battezzare i bambini. Nei secoli seguenti fino al XVI si attenuò anche la catechesi, sicché l'iniziazione alla fede cristiana rimase approssimativa nel popolo e piuttosto riservata alle persone raccolte in associazioni pie o negli istituti monastici. Nel secolo del Concilio di Trento s'incominciò ad offrire alla massa dei fedeli un'informazione piena ed organica dei misteri cristiani mediante il catechismo tridentino. Seguiranno altri catechismi, tra cui quello di Pio V ( 1572). Per avere un'azione di autentica m. bisognerà attendere tempi più recenti, in cui si è promosso l'accordo tra la conoscenza teologica dei misteri cristiani e la pratica liturgica che questi misteri simboleggia e attua. Mantenendo la prassi del battesimo dei bambini, la m. negli anni della fanciullezza, dell'adolescenza e della giovinezza è la strada più diritta per una piena maturazione della fede-vita dei cristiani.

Più o meno blande forme di m. si stanno realizzando attraverso l'istituzione di catecumenati, raccomandati anche dal Concilio Vaticano II (cf SC 64; SG 14; AA 14). Una interessante esperienza è quella promossa nelle comunità neocatecumenali iniziata da Kiko Argüello.

BVI. Un aspetto particolare assume la m. nella esperienza mistica. La persona, innestata come tralcio alla vite-Cristo, può avere un divenire in crescendo di grazia salvifica. Cooperando con lo Spirito Santo può aumentare la sua luce di conoscenza delle verità soprannaturali, la sapienza dell'amore teandrico in queste evidenziato, la testimonianza apostolica. I doni dello Spirito Santo rendono feconda l'anima di frutti salvifici. Egli è il vero mistagogo dell'anima che coraggiosamente intraprende il cammino dietro a Cristo, sotto l'azione dello Spirito, per amare Dio sopra ogni cosa e i fratelli più di se stessa. Però, salvo casi eccezionali, nei primi tempi dell'esperienza di distacco dagli affetti alle cose terrene, dell'esercizio d' orazione contemplativa, di perfetto compimento del volere divino, la persona viene guidata dal padre spirituale che verifica l'autenticità del percorso, addita le migliori modalità di rapporto con Dio, riconosce momenti e passaggi della progressiva unione con Dio. S. Giovanni della Croce, cui fa eco s. Teresa d'Avila,1 esige che codesti padri o direttori o maestri spirituali o confessori posseggano scienza, discrezione, maturità, esperienza 2 dei più segreti meandri della vita mistica. In particolare rileva che il mistagogo, con tatto e pazienza, inizi la persona alla purificazione, all'orazione contemplativa, all'unione nuziale e alla trasformazione amorosa in Dio. Tutta la m. deve rilevare " le grazie tanto eccellenti e straordinarie " che Dio elargisce all'anima nell'esperienza d'unione d'amore. L'anima arriva a conoscere, in modo saporoso ed essenziale, che Dio nel suo essere è infinitamente tutte le cose, per cui le conosce nella luce della divinità e in pari tempo s'innamora di Dio, con forza e delicatezza divina e s'immerge " nei profondi abissi di Dio ".3

Note: 1 Cf Vita 23,6-18; Cammino di perfezione 3,5; 2 Fiamma viva d'amore III, 29-31; 3 Ibid. IV, 17.

Bibl. P. Adnès, Formation, in DSAM V, 696-699; É. Bertaud, Guides spirituels, in DSAM VI, 1154-1169; L. Borriello, Note sulla mistagogia o dell'introduzione all'esperienza di Dio, in EphCarm 32 (1981), 35-89; J. Castellano Cervera, Mistagogia spirituale e spiritualità, in Aa.Vv., La spiritualità. Ispirazione-ricerca-formazione, Roma 1984, 29-42; F. Ruiz Salvador, Mistica e mistagogia, in Aa.Vv., Vita cristiana ed esperienza mistica, Roma 1982, 277-296; B. Schreiber, La mistagogia, in La Mistica II, 363-384.

G.G. Pesenti

MISTERO PASQUALE. (inizio)

Premessa. L'esperienza mistica è, nella sua essenza, l'esperienza interiore e personale, dinamica e trasformante del m. Ciò vuol dire che il cristiano può raggiungere la piena maturità umana e spirituale solo se vive in sé il mistero di morte e risurrezione del Cristo. Si può perciò affermare che esso è il nucleo da cui si sviluppa tutta l'esperienza della vita cristiana. Attraverso il m. della sua morte e risurrezione, Cristo comunica al mondo la sua vita divina, affinché gli uomini, morti al peccato e configurati con lui, " non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro " (2 Cor 5,15).

I. Il " mistero ". L'espressione " m. " non si trova nella Scrittura. Lo stesso termine " mistero " (in greco mystêrion) è relativamente raro nel NT. Esso compare soprattutto nelle lettere paoline e deuteropaoline, dove si parla del " mistero " (Rm 16,25), del " mistero di Dio " (Col 2,2), del " mistero di Cristo " (Col 4,3; Ef 3,4), del " mistero della pietà " (1 Tm 3,16) o del " mistero del vangelo " (Ef 6,19): locuzioni che hanno significati affini. La dottrina paolina si può riassumere dicendo che " mistero " è la volontà salvifica divina con il suo mirabile disegno di salvezza, le cui linee si raccolgono e si centrano tutte in Cristo. Questo disegno, nascosto in Dio fin dall'eternità, è stato pienamente manifestato in Cristo, che ne ha consegnato l'annuncio ufficiale agli apostoli. Il " mistero " si manifesta come una " economia " (in greco oikonomia) o disposizione temporale della salvezza, e si parla anche delle tappe successive attraverso le quali si realizza il piano divino: la venuta in terra del Figlio di Dio, il tempo della Chiesa, la consumazione finale. Il mistero non è, quindi, un evento del passato del quale si potrebbe al massimo prendere conoscenza, bensì un dinamismo nel quale sono coinvolti quanti ne sono investiti (cf Col 2,2; Ef 1,17ss.; 3,18ss.). In Col 1,27 il contenuto del mistero viene espresso con la formula " Cristo in voi ", consiste cioè nell'inabitazione del Cristo crocifisso e glorificato " in voi ", ossia nei gentili. In Ef 3,4ss. il mistero è l'ammissione dei gentili all'eredità, al corpo della Chiesa, alla promessa in Cristo. In Cristo, quindi, tutto si ricapitola e si assomma (cf Ef 1,9.10).

II. L'espressione " mistero della pasqua " s'incontra per prima volta, e con notevole frequenza, nelle omelie Sulla pasqua di Melitone di Sardi ( prima del 190) e Sulla santa pasqua dell'Anonimo Quartodecimano, documenti della metà del sec. II. Tutto il contenuto teologico che Paolo aveva riassunto nella categoria " mistero di Cristo " viene racchiuso ora nel " mistero della pasqua ": " Dovete comprendere come nuovo e antico, eterno e temporaneo, perituro e imperituro, mortale e immortale sia il mistero della pasqua ".1 Va aggiunto, però, che le antiche omelie pasquali vanno oltre: il mistero della pasqua o pasquale non solo ricapitola l'intera economia salvifica compiuta in Cristo, ma ne esprime la partecipazione che di essa fa la Chiesa attraverso i riti sacramentali. La storia della salvezza, concretizzatasi nel mistero di Cristo, trova il suo compimento, la sua realizzazione e il suo centro nella Pasqua non solo come momento storico ma anche come avvenimento rituale-memoriale di quell'avvenimento storico. La riflessione dei Padri ed i testi della liturgia riprendono questa dottrina. Così, ad esempio, nel Messale Romano, l'espressione " mistero (=sacramento) pasquale " indica tanto l'economia salvifica compiutasi nella morte-risurrezione di Cristo, quanto la celebrazione annuale della pasqua e i sacramenti del battesimo e dell'Eucaristia, centro di tutta la liturgia cristiana, mediante i quali tale economia si attualizza nella Chiesa.

Perno e centro di tutto il piano creativo e salvifico del Padre è il Cristo morto e risorto. Parlare, quindi, del m. equivale, perciò, a parlare del mistero di Cristo quale compimento del disegno divino di salvezza dell'uomo. Dal Medioevo in poi non si parla più di m. e la teologia moderna da Trento in avanti ignora questa terminologia. Il primo a riprenderla è O. Casel che la riscopre nell'antica tradizione e riporta nella teologia. In seguito, la troviamo nei documenti del Vaticano II.

III. Il m. nella vita del credente. Gesù, nel m. della sua morte e risurrezione, ha portato a compimento l'opera della salvezza affidatagli dal Padre: la redenzione umana e la perfetta glorificazione di Dio (cf SC 5). Il prefazio della veglia pasquale dice: " E lui che morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vita ". Il m. è, quindi, il fondamento della salvezza dell'umanità, che dà accesso ad una nuova vita. Come già in Cristo glorificato, anche in ogni credente, all'inizio della sua nuova esistenza, c'è l'azione dello Spirito: " Per lui il Padre ridà la vita agli uomini, morti per il peccato, finché un giorno risusciterà in Cristo i loro corpi mortali (cf Rm 8,10-11) " (LG 4).

Il Vaticano II è consapevole della centralità del m. nella vita del cristiano e pone questa dottrina come fondamento e chiave interpretativa della liturgia cristiana intesa come azione memoriale dell'evento salvifico o m. e come esperienza vitale dello stesso (cf SC 2, 5, 6, 61, 104, 109; CD 15; OT 8; GS 14, 22): La liturgia della Chiesa annunzia e celebra il m. per mezzo del quale Cristo ha compiuto l'opera della salvezza, affinché i fedeli ne vivano e ne rendano testimonianza nel mondo. La stessa dottrina esprime il Catechismo della Chiesa Cattolica: " Nella liturgia della Chiesa Cristo significa e realizza principalmente il suo m. " (CCC 1085; cf 1067, 1068, 1076). Il culto cristiano è il culto che Cristo ha iniziato nella sua vita mortale, ha portato al suo stadio definitivo con la morte-risurrezione e prolunga nella Chiesa quale suo capo celeste.

" La liturgia spinge i fedeli, nutriti dei "sacramenti pasquali" a vivere "in perfetta unione" e domanda che "esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede" " (SC 10). I fedeli sono quindi chiamati a realizzare nella vita quotidiana la morte e risurrezione di Cristo, compiuta in essi sacramentalmente, rinunziando ogni giorno alla vetustà del peccato per vivere in novità e libertà di vita (cf Rm 6,3-11). Possiamo affermare che l'esistenza cristiana consiste nel realizzare nella vita il mistero celebrato nei sacramenti: " ...Conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti " (Fil 3,10-11). Tale speranza si fa certezza nella comunione mistica d'amore con le tre divine Persone.

Note: 1 Melitone di Sardi, Sulla pasqua, 2, ed. a cura di R. Cantalamessa 1972, 25.

Bibl. G. Borkamm, Mysterion, in GLNT VII, 645-715; P. Massi, Il mistero pasquale nella storia della salvezza, Roma 1968; Id., Il mistero pasquale nella vita della Chiesa. Saggi di teologia ecclesiale e liturgica, Roma 1968; B. Neunheuser, Il mistero pasquale " Culmen et fons " dell'anno liturgico, in RL 62 (1975), 151-174; A. Nocent, s.v., in Aa.Vv, Dizionario del Concilio Ecumenico Vaticano II, Roma 1969, 1449-1457; I. Sanna, s.v., in NDS, 971-984; H.J. Sieben - W. Loeser, Mysteres de la vie du Christ, in DSAM X, 1874-1886; A. Solignac, Mystere, in Ibid., 1861-1874; P. Sorci, s.v., in NDL, 823-842.

M. Augé

MISTICA (cenni storici). (inizio)

Premessa. " Tu dici che vedrai Dio e la sua luce: stolto, mai lo vedrai se non lo vedi già ora ".1 I mistici sono coloro che attestano che Dio è visibile già ora nella fede o nella visione.

Vedere Dio è accorgersi che lui c'è e che, come per Agostino, è inutile cercarlo fuori di sé, perché egli è intimo all'uomo più di quanto questi non lo sia a se stesso. Per questo motivo, la storia della mistica, cioè di quell'esperienza che si svolge sul piano soprannaturale nelle profondità misteriose dell'incontro uomo-Dio, non può essere che il tentativo di cogliere l'esperienza che l'uomo, lungo il corso dei secoli, ha fatto di questa presenza misteriosa eppure lampante, segreta, ma pure irraggiante luce luminosa. In particolare, significa annotare come i mistici abbiano avuto la capacità, nella loro apertura al divino, gratuita, ma pure ardentemente e nostalgicamente attesa, di vivere e di raccontare quelle meraviglie di Dio che i suoi figli possono godere perché ontologicamente aperti al divino e, se vogliono, capaci di aprirsi " geneticamente " (C. Tresmontant) all'intimità più profonda con il Dio che li ha creati e che " vuole trovare la sua gioia nel contemplarsi in essi " (Elisabetta della Trinità).

" Mistici ce ne furono in tutti i tempi e luoghi e sempre e ovunque ve ne saranno, perché il pensare o il creare misticamente è un bisogno insopprimibile della vita come il pensare filosofico o il creare poetico ".2 Questo perché l'uomo è fatto a immagine di Dio, perciò " se la ragione di ogni uomo può, in teoria, giungere a una certa conoscenza dell'esistenza di Dio, pur se non senza rischi di una mescolanza di concezioni erronee, è forse lecito pensare che in ogni uomo il fondo dell'anima sia capace, in certe circostanze privilegiate, di provare qualcosa della presenza divina, anche se la ragione non ha prima svolto il suo ruolo, anche se non sa riconoscere la realtà che si è fatta sentire ".3

Provenendo da un unico Creatore, infatti, la natura umana, nel suo fondo, è dovunque la stessa, fatta ad immagine di Dio e tesa al raggiungimento della somiglianza con lui. L'immagine, per i cristiani, è il dono ricevuto con l'essere stesso; la somiglianza si realizza, sotto l'influsso dello Spirito Santo, in dipendenza dell'Incarnazione redentrice e mediante l'imitazione di Cristo, Capo del Corpo mistico, che è la Chiesa.4

Poiché la storia di quest'ultima si svolge e si realizza nell'unione mistica con Dio, a questo aspetto si deve rifare ogni discorso storico sulla mistica.

I. Agli albori: la mistica precristiana come apertura al trascendente. L'esperienza religiosa ha coinvolto l'uomo fin dai tempi più remoti, assumendo caratteristiche tipiche e definite. Se ne citano qui alcune a mo' di esemplificazione.

1. Brahamanesimo - Già intorno al 2000 a.C., in India, si ritrovano credenze, riti, miti che danno vita alla letteratura vedica. Tale religiosità vedica primitiva è fondata su pratiche ascetiche tese ad ottenere la liberazione che si attua attraverso molti cammini tra cui quello della grazia e dell'amore. Nella ricerca della salvezza, l'anima non è sola: Dio è pronto ad aiutarla e la grazia è più di un soccorso: è uno stato divino di luce e di pace.

Tale esperienza si svilupperà nei secoli successivi fino a giungere nel sec. VII d.C. a espressioni di alta religiosità come in una poesia del Tamil: Tu sei per me, o Signore, padre e madre... Tu sei per me l'amato... Tu mi doni vita e gioia... o Perla, o Ricchezza, tu sei il mio Tutto! 5

2. Il Buddismo nasce, ancora in Oriente, alla fine del sec. VI a.C. e si pone il problema della vita dopo la morte. Elabora la dottrina di una successione delle esistenze che si deve interrompere per avere la felicità. a. Alcuni ritengono che la catena delle esistenze si rompa con la comprensione perfetta del Sé universale cui partecipa il sé personale; b. altri pensano che il meccanismo sia di natura materiale e si possa rompere solo con una valida disciplina e con tecniche di liberazione. Alla fine, la liberazione dalle passioni ottiene di entrare nel nirvana, una specie di nulla luminoso. Nell'ambito di questa esperienza religiosa sorge, negli anni immediatamente precedenti l'era cristiana, un movimento riformatore chiamato Mahayana, che sostiene che la salvezza è raggiungibile da tutti e non solo dal monaco, perciò coinvolge anche i laici. Si attende il futuro Budda, un eroe che sacrifica la sua felicità futura ritardandola fino a che tutti gli esseri siano condotti alla salvezza. Questa credenza si svilupperà nei secoli successivi.

3. Taoismo (sec. VI a.C.). Questo movimento ha due termini per indicare l'anima: huen e p'o. Il primo indica l'anima superiore, il secondo l'inferiore, quella vegetativa; l'anima superiore sale al cielo dopo la morte e quella inferiore scende nella tomba legata al corpo. All'origine di tutto c'è un'unica energia vitale, tao, che si manifesta con due modalità complementari, due energie: una viene dalla terra e l'altra dal cielo. A ciò si aggiunge una categoria fondamentale per la descrizione dei mondi: cinque elementi che nell'uomo corrispondono alle cinque viscere, il cui equilibrio non è solo fonte di salute fisica, ma anche di salvezza morale. La santità è lo stato di equilibrio della persona in cui l'anima fa la sua comparsa nel cuore pacificato. L'anima pura non è separata dal principio supremo. Il santo è vuoto di ogni impurità ed è pieno del soffio vitale che coincide con il principio della vita, perciò la sua persona irraggia benefici. Questa purificazione sfocia nell'estasi che procura una gioia celeste.

4. Sciamanesimo. Con questo termine si indicano tutti quei movimenti, anche antichissimi, che, in tutto il mondo, raggruppano coloro che si sentono vicini alle forze della natura. Singoli individui, particolarmente dotati, fanno da intermediari tra il mondo dell'uomo normale e l'altro mondo fatto di spiriti, di forze misteriose e di magia attraverso vari riti, che spesso conducono alla trance, attraverso poteri inspiegabili dalla scienza. Tutto ciò per realizzare o restaurare la relazione io-Altro.

5. L'Occidente deriva la sua esperienza mistica soprattutto dal mondo greco. La filosofia di Anassimandro ( 546 a.C.), infatti, può essere considerata la prima forma di mistica poiché risolve il principio di tutte le cose nell'ápeiron (infinito) e sostiene l'unificazione di tutti gli esseri (cose). Comunque, è Platone il primo a parlare di un mondo iperuraneo sulla scia delle dottrine esoteriche tanto degli orfici, che nel 600 a.C. avevano diffuso l'idea che il corpo fosse una prigione, che dei pitagorici. Questi ultimi avevano elaborato una specie di mistica del numero che prefigurava la kabbala dell'ebraismo.

II. L'AT. Il termine ’mistico' non compare nella Bibbia, ma tutti i libri dell'AT manifestano con chiarezza il senso dell'infinita trascendenza di JHWH e della sua presenza nella storia del popolo, presenza che non può essere contemplata dall'uomo (cf Gn 3,8). Nessuno vede JHWH senza morirne (cf Es 33,20). Ciò vale per il semplice fedele, ma anche per Mosè che, quando scopre la presenza di Dio nel roveto ardente, volge lo sguardo altrove (cf Es 3,5-6). JHWH stesso gli dice che non potrà vedere la sua faccia e restare vivo (cf Es 33,20). Questa affermazione è ripetuta per il popolo (cf Es 19,18-22; 20,18-21) che teme l'incontro diretto con Dio (cf Es 20,19). Ma Mosè, Elia e i grandi profeti godono una certa intimità personale con JHWH: Abramo parla e sta con lui (cf Gn 12,1-7; 13,14; 18,1); Mosè stesso conversa " faccia a faccia " con JHWH (cf Es 33,11); Elia sta alla presenza del Dio vivo e attende il suo passaggio (cf 1 Re 17,1; 19,9-14). Queste esperienze indicano che tra Dio e l'uomo possono esserci tipici rapporti d'amore (cf Is 6,3; Ez 1,4-8; Sal 42-43.63.73.139) che trovano il loro compimento nell'Incarnazione del Figlio di Dio, il Cristo.

III. L'antichità cristiana fino al Medioevo. Nel NT Gesù ha con il Padre un costante atteggiamento d'intimità. Dialoga con lui sia nella solitudine che nel tempio. Non lo teme come i fedeli dell'AT. E con lui sia sul Tabor (cf Lc 9,28-29), che nell'orto degli ulivi e sulla croce. Diventa, perciò, per il cristiano il paradigma dell'intimità con il Padre. Ma egli è anche " immagine del Dio invisibile " (Col 1,15; 2,9), " splendore della gloria e figura della sostanza " del Padre (Eb 1,3). Per questo motivo, egli è l'unica via di accesso al Padre (cf Gv 14,2; Ef 2,18) e colui nel quale si contemplerà il volto divino (cf 2 Cor 4,6).

Per questo motivo, Cristo, la sua umanità, i misteri della sua morte e risurrezione saranno il fondamento della mistica cristiana e Giovanni, inviterà a tendere all'unione con Cristo, a " rimanere in " (6,56; 15,4-16) perché l'essenza della vita eterna è " che conoscano te, Padre, e colui che hai mandato " (17,3).

Paolo, per lo stesso motivo, farà consistere l'identità del cristiano nel " non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me " (Gal 2,20).

La patristica svilupperà la dottrina della divinizzazione 6 confrontandosi con il misticismo ellenistico-orientale. Nei secc. II-III, infatti, il pensiero cristiano incontra la filosofia neoplatonica che, pur essendo una filosofia semireligiosa piuttosto confusa, coinvolge coloro che ricercano il misterioso e l'occulto. Essa, insegnando la natura illusoria di tutte le cose temporali e l'esistenza di un Dio assoluto, l'Uno incondizionato, che può essere conosciuto nell'estasi e nella contemplazione, stimola gli " istinti mistici " dell'uomo. I mistici naturali, pertanto, vi trovano un mezzo idoneo per esprimere le loro intuizioni del reale, mentre i Padri vi trovano un fondamento naturale per la mistica. Infatti, i Padri del deserto con gli Apoftegmi,7 rafforzano, in maniera determinante, l'idea che la mistica sia un fatto naturale, il compimento normale della vita di grazia. Basilio Magno, nelle sue Regole più ampie, afferma che l'amore di Dio non è un atto imposto all'uomo dall'esterno, ma sorge spontaneo dal cuore come altri beni rispondenti alla nostra natura. L'amore di Dio non deriva da una disciplina esterna, ma si trova nella stessa costituzione naturale dell'uomo, come un germe e una forza della natura stessa. E Agostino asserisce: " Ami la terra? Sarai terra. Ami Dio? Che dirò, sarai Dio? Non oso dirlo da me, ascoltiamo la Scrittura: ’Ho detto, siete dei e figli dell'altissimo, tutti' (Sal 81,6) ".8 E Clemente Alessandrino il primo ad usare il verbo theopoiein (deificare) " Cristo deifica l'uomo mediante una dottrina celeste ".9

La mistica cristiana, comunque, non è originariamente esoterica, ma estatica ed ha come fondamento Cristo crocifisso e risorto. Inoltre, essa assume, fin dagli inizi, una connotazione ecclesiale espressa soprattutto nel monachesimo.10

E Dionigi Areopagita (che scrive fra il 425 e il 525) a fondere il mondo ideale del misticismo neoplatonico con la dottrina della Chiesa, utilizzando il metodo negativo, cioè la conoscenza non di ciò che Dio è, ma di ciò che Dio non è.11 L'ascesa di Mosè sul Monte Sinai diventa paradigma di ogni unione mistica.12

Poiché egli tenta di descrivere lo sviluppo della coscienza mistica e la natura dell'unione con Dio che si consegue nell'estasi, i mistici posteriori, ritrovandosi in lui, adottano il suo linguaggio, che verrà assunto, poi, dalla teologia mistica. Il suo trattato sulla via negativa, Teologia mistica, diventa fondante della mistica posteriore occidentale, a cominciare da Scoto Eriugena, che è il primo a diffonderne la conoscenza sistematica in Occidente. La vita contemplativa dell'alto Medioevo viene, però, dominata soprattutto da Gregorio Magno, la cui sensibilità, tesa maggiormente alla praticità, controbilancia il forte neoplatonismo di Dionigi Areopagita. Questo rimane, invece, dominante nella spiritualità della Chiesa orientale, la quale continua a nutrirsi della dottrina dei grandi mistici della prima età cristiana, come Gregorio di Nissa, Evagrio Pontico, continuata da Massimo il Confessore, da Simeone il Nuovo Teologo, da Nicola Cabasilas ( 1369) e da altri.

Intanto nasce l'Islam, notevolmente influenzato dal neoplatonismo, nonché dal misticismo indiano e cristiano. I sufi sono dapprima degli isolati, poi diventano capiscuole e sufismo indica, genericamente, tutto il movimento mistico all'interno del mondo islamico. Il sufi si paragona a un pellegrino che, per gradi, arriva ad unirsi a Dio, a dissolversi nel divino e a sperimentare che ogni entità è pervasa dall'amore di Dio.

IV. L'epoca nuova. Gli anni intorno al 1000 13 vedono in Occidente Anselmo d'Aosta, che annunzia la verità piantata da Dio stesso nell'uomo, reso chiaramente consapevole di tale esperienza mistica e Bernardo di Clairveaux, che coglie il divino in un impeto d'amore come evidenziano le sue opere De diligendo Deo e i Sermoni sul Cantico dei Cantici, il cui influsso si estende alla mistica tedesca. Ildegarda di Bingen ne assorbe lo spirito, anche se poi si avvia più in una direzione visionaria che estatica, esercitando notevole influenza su tutti gli autori medievali. Degni di nota sono anche le mistiche di Helfta (Gertrude, Matilde, ecc.).

Il concetto e l'espressione fruitio divina, fruitio Dei, che esprimono il contatto con il divino, la pienezza di vita e la liberazione dai limiti individuali sono accolti da Ugo e da Riccardo di S. Vittore e dalla loro scuola. Nasce, immediatamente dopo, il movimento delle beghine e dei begardi che esprime una mistica laica e itinerante, spostando l'accento sempre più sulla contemplazione dei misteri della vita di Cristo.

Domenico ( 1221) e Francesco d'Assisi segnano una nuova svolta nella mistica cristiana: non si tende solo alla contemplazione del Cristo, ma ad una sua imitazione. Soprattutto Francesco è il simbolo di tale svolta: la salvezza consiste nell'unione con Dio non più appannaggio di iniziati, ma resa possibile a tutti in Gesù Cristo fatto uomo.

Sulla scia di Francesco, Bonaventura da Bagnoregio definisce la mistica cognitio Dei experimentalis.

La mistica della presenza di Dio si coglie anche nel mondo intero e Alberto Magno e Tommaso d'Aquino si preoccupano di sgombrare il campo da equivoci che potrebbero condurre a forme di panteismo e di quietismo.

Il secolo successivo vede il nascere dell'antimisticismo: si allontana la riflessione della fede dalla Scrittura e dall'affettività a vantaggio dello studio dialettico. Si assiste al distacco tra teologia scolastica speculativa e maestri di vita spirituale.14 Un tentativo per sanare tale rottura viene fatto dalla mistica speculativa tedesca, il cui massimo rappresentante, Meister Eckhart, spinge la relazione tra Dio e l'uomo fino all'identità. L'anima è un'intima scintilla già unita a Dio nell'eterno principio del mondo, è l'organo della contemplazione intuitiva, ma perché si possa comprendere completamente Dio, devono cadere tutti gli involucri. Quando il mistico ha compiuto, con tutte le forze, lo svuotamento dell'io, ossia quando ha raggiunto l'abbandono totale, nel senso di liberazione da ogni pensiero terreno, allora Dio può invaderlo con tutta la pienezza del suo essere.

Accanto a lui, Susone cerca di superare i limiti della speculazione con un'intensificazione dei sentimenti. Il suo cuore si volge all'eterna Sapienza con una grande gioia amorosa, con espressioni che ricordano i canti dell'amore cavalleresco. Tra Eckhart e Susone sta Giovanni Taulero. La sua mistica è etico-volontaristica; per lui non ha molta importanza la mors mystica, l'annientamento totale dell'uomo nella compiuta visione o nell'amore come assoluta beatitudine già in questa vita. Egli non crede che volontà suprema di Dio possa essere quella di distruggere l'uomo attraverso la rivelazione della sua potenza e grandezza.

Anche Ruusbroec è sulla linea della mistica dell'essere: l'uomo, grazie alla potenza del Cristo, gode della pienezza dell'unione con Dio e la partecipa a tutta la creazione. Ma il suo discepolo Groote, sotto l'influsso della scolastica accentua l'orientamento pratico-ascetico. E, comunque, Gersone a teorizzare la distinzione tra teologia mistica pratica e teologia mistica speculativa. Si aprono due strade parallele, pur con tentativi di intersecazione più o meno riusciti lungo i secoli successivi.

Il sec. XIV vede anche la fioritura della mistica inglese grazie a Rolle, Hilton, Kempe e La nube della non-conoscenza. Essa vive come conseguenza della influenza cistercense di Aelredo di Rievaulx ( 1167) ed è bernardiana fino allo scisma del 1534 in seguito al quale si assiste al progredire della mistica di tradizione cattolica e a quella di tradizione anglicana (cf anglicanesimo).

Nel sec. XV, l'Umanesimo, esaltando la persona, la invita a guardare il mondo come la casa di Dio popolata di santi e di bellezze. L'umanità di Cristo diviene paradigma mistico mentre il senso dell'assenza di Dio dal mondo diviene contrappunto alla consapevolezza interiore della presenza amorosa di Dio. E in questo modo che gli opposti cominciano a coincidere, almeno a qualche grado (Cusano).

La sintesi medievale non soddisfa più e i movimenti spirituali centrati sul Vangelo tendono ad allontanarsi dalla matrice culturale precedente incarnandosi, in principio lentamente e poi più radicalmente, in culture più ampie, fino a costruirne delle proprie. Prendono vigore le scuole legate agli Ordini religiosi e non di rado si assiste a dispute tra membri anche delle stesse scuole sul " divario " tra teologia e mistica. Citiamo per tutte quella tra Melchior Cano ( 1560), fautore della vita ascetica attiva, e B. Carranza ( 1576) e Luigi di Granada che insegnano una spiritualità affettiva.

In questo periodo compare il misticismo spiritualistico, di cui si deve considerare rappresentante tipico Sebastian Frank ( 1502). Egli " vede... la Parola interiore o Dio presente nel cuore di ogni uomo per illuminarlo con il suo Verbo mentre con il suo Spirito inclina la sua volontà ".15 Da lui è influenzato Valentin Weigel ( 1588) che, come lui, parla della " parola interiore " come principio autoritario d'ogni religione.

Ma l'età moderna vede anche i due grandi mistici spagnoli Teresa di Gesù e Giovanni della Croce che costituiscono il punto più alto della codificazione dell'esperienza mistica cui si rifaranno tutti i teologi posteriori. Questi vivono pienamente il clima del Concilio di Trento (1545-1563), che lega la mistica all'attività missionaria, fuori e dentro i conventi. La mistica diventa una mistica dell'azione che sarà vissuta nella riforma carmelitana 16 e troverà la sua espressione più alta proprio in una santa carmelitana proclamata patrona delle missioni alcuni secoli dopo: Teresa di Lisieux. Sulla stessa scia, ma fuori dal convento, troviamo Ignazio di Loyola, la cui esperienza parte dalla convinzione che lo spirito di Gesù è al di dentro di ogni individuo e di tutte le cose. Tale percezione mistica del mondo crea stretti legami tra la preghiera contemplativa e l'azione, spingendo l'apostolo a vedere tutte le attività in rapporto alla loro fonte divina, e a trovarla in tutte le cose. Tra le donne, Maria dell'Incarnazione è l'esempio più tipico di mistica dell'azione.

Intanto le tendenze mistiche cominciano a volgersi verso la filosofia della natura e sono comuni anche a Paracelso ( 1541), Giordano Bruno ( 1600) e T. Campanella ( 1639) che inseriscono la monade nel sistema cosmico originario, sostenendo che essa può trasfigurarsi nell'infinito, grazie all'infinito amore: attraverso il contatto con il divino gli esseri diventano simili a Dio.

Intanto, in Francia continua l'influsso di Francesco di Sales che, accettando pienamente la dottrina di Teresa d'Avila e di Giovanni della Croce, tenta di presentare tutti gli aspetti di un amore di Dio da vivere in tutti gli stati di vita. La mistica laicale, già presente nel mondo protestante ma che in campo cattolico è stata trascurata durante tutto il Medioevo, essendo stati i laici tenuti lontano dalla mistica riservata ai conventi, inizia i suoi timidi passi, mentre la mistica dell'azione si ritrova nelle comunità fondate da Vincenzo de' Paoli e Louise de Marillac ( 1660) come imitazione delle azioni di Cristo. Per Pierre de Bérulle, invece, le opere di Gesù sulla terra sono irripetibili e solo in seguito, egli sosterrà che esse sono tali nella loro particolarità storica, mentre come disposizioni sono eternamente presenti nella vita della Trinità, quindi possibili a tutti i credenti di tutte le epoche. Contemplandole, il discepolo può essere progressivamente elevato verso l'unione mistica e, una volta trasformato, il mistico può impegnarsi in opere di riforme, particolarmente al di dentro della Chiesa.

A lui si rifanno J.-J. Olier, J. Eudes, e più tardi L. Grignion de Montfort che riporta il servizio ecclesiale nel contesto della missione trinitaria.

Bérulle riscopre Dionigi Areopagita e influenza altri movimenti, il più rigido dei quali diventa il giansenismo. C. Jansen ( 1638) interpreta s. Agostino nel senso di una predestinazione e di un severo ascetismo per rimanere in grazia. Il suo messaggio viene vissuto nel convento di Port-Royal e accolto da B. Pascal, che accentua il carattere del Dio nascosto, ma conoscibile in Gesù Cristo. Egli con la sua mistica cristocentrica tenta l'unificazione tra scienza e fede, intelletto e amore, quasi come tappa tra quanto già tentato da Cusano e ciò che tenterà Newman. Il sec. XVII vede la diffusione del quietismo. I quietisti accolgono le idee di Molinos, il cui insegnamento limita l'ascetismo allo sforzo di stabilire un silenzio interiore necessario per l'abbandono completo. Il disinteresse per le opere esterne viene interpretato come abbandono della fede cattolica, per cui egli è condannato da Innocenzo X ( 1655). Questa condanna suscita soprattutto in Italia una diffusa avversione per la mistica, mentre si accende in Francia una disputa intorno all'esperienza di M.me Jeanne-Marie Guyon. Accogliendo la sua dottrina, Fénelon, insegna l'abbandono totale amoroso in una via di fede pura e nuda, ma si scontra con Bossuet. Fénelon è condannato con il Breve Cum alias emanato da Innocenzo XII ( 1700) e la vittoria di Bossuet relega la mistica, non solo in Francia, ad un fatto marginale.

Con Scaramelli, che nelle sue due opere Direttorio ascetico e Direttorio mistico teorizza la divisione teologica tra via comune e via straordinaria con prodigi e fenomeni vari, la rottura è evidente.

V. L'epoca moderna. Nel sec. XVIII la nuova visione illuministica dell'autonomia dell'uomo e dell'umano secolarizza la cultura anche religiosa; l'impegno mistico diminuisce: abbiamo solo poche figure: M. Maddalena Martinengo ( 1737), Veronica Giuliani e la terziaria francescana Maria Francesca delle Cinque Piaghe ( 1791). Parallelamente si affermano correnti esoteriche. Nel 1723 le Costituzioni d'Anderson costituiscono il primo elemento essenziale della spiritualità massonica sconfessata con la Bolla del 1738 In eminenti di Clemente XII ( 1740). Ma la mistica massonica, che " è una mistica di tipo messianico, cioè una mistica del progresso ",17 ha ribadito il suo obiettivo di " ricerca della Verità " 18 nella dichiarazione di Ginevra dell'ottobre 1921.

Nel corso del sec. XVIII, oltre al mistico e visionario svedese E. Swedenborg ( 1719) è da ricordare il pastore protestante P. Poiret ( 1719), infaticabile traduttore di mistici più o meno autentici, propagatore di mistici cattolici in ambiente protestanti della Germania. Difatti, ponendosi nella linea della mistica narrativa, accoglie in sé, rivivendolo, il patrimonio mistico sia del passato sia dei tempi più recenti, in atteggiamento di comprensione per ogni indirizzo mistico o misticheggiante, facendo conoscere anche ai protestanti i mistici cattolici. Accanto a lui G. Arnold ( 1714) tenta di recuperare idee mistiche nella poesia, nella storiografia e nella teologia. La sua opera è tesa a riprendere le irrazionali esperienze religiose e a recuperare l'antitesi tra la pluralità e l'unità mistica come tendenza prereligiosa all'unità.

Sul finire del sec. XVIII, contro l'illuminismo s'impone una nuova ricerca di Dio e con il ritorno al Medioevo dei romantici, prima tedeschi e poi del resto dell'Europa, nasce un nuovo interesse per l'elemento spirituale presente nell'uomo. L'antroposofia (1861) indica una via di conoscenza che conduce all'elemento spirituale presente nell'universo: attraverso la meditazione, l'uomo può comprendere l'universo al di là dei sensi. Molti i romantici da ricordare: Fr. Schlegel, F. Baader, Ch. Brentano, F. Hardenberg, Novalis; in Inghilterra V. Blake o i poeti M. Maeterlinck, P. Claudel, C. Morgenstern, R.M. Rilke.

La mistica (certamente non di accezione cattolica) si colloca nel campo delle emozioni intense, eccezionali, per cui la reazione di K. Barth e di E. Brunner.

La mistica cattolica presenta un nuovo slancio. Trionfa la veggente del culto al Sacro Cuore di Gesù (M.M. Alacoque), si rinnova la devozione a Maria, rifiorisce la letteratura mistica cristiana. Dio è percepito sempre molto vicino, anzi inabitante nell'anima secondo l'esperienza di Elisabetta della Trinità.19

Con la laica Gemma Galgani e con suor Consolata Ferrero che associa la terribile vocazione riparatrice al desiderio di una missione redentrice universale rifiorisce la mistica della passione, che tanta parte aveva avuto nel tardo Medioevo e che era continuata nei secoli successivi.20 Occorre ricordare, infine, Lucia Mangano che riporta nella mistica il tema patristico: la visione beatifica è possibile all'uomo su questa terra. La mistica, inoltre, non è legata al mondo monastico o clericale, diventa anche laicale e, in questa accezione, troverà la massima espressione in S. Weil.

Agli inizi del '900 bisogna ricordare anche l'opera di P. Teilhard de Chardin, che enuncia la sua grande visione di un universo che si sviluppa e si muove verso un centro personalizzato di consapevolezza, il " punto omega ", identificato con il Cristo cosmico della tradizione paolina. Nel potere dell'amore si trova la possibilità di unificare e personalizzare il mondo. Questa unità, comunque, non è sperimentata come conoscenza, come sapere, bensì solo come mistero. Anche l'opera Confessioni estatiche di M. Buber interpreta la mistica come processo di unificazione dell'io con se stesso, come unità illimitata tra io-Altro e mondo. Questa interpretazione viene, però, superata da Buber nell'opera Io e Tu. Il principio dialogico, nella quale egli accoglie una visione dialogica dell'esperienza mistica in una dimensione dinamica della relazione io-tu. Il '900, così, inizia a parlare di una mistica dialogica.

Il '900 vede il sorgere del New-Age che afferma la necessità di un'esperienza verso l'interno di sé. Questa dottrina viene sistematizzata da Ken Wilber, colui che indica le tappe del cammino che conduce il mistico al fondo della sua anima dove si ritrova l'anima dell'umanità intera, divina e trascendente, tesa all'immortalità.

Dalla fine della Seconda Guerra mondiale assistiamo ad alcuni fenomeni che hanno la loro ripercussione sulla vita religiosa: il movimento delle donne, quello ambientalista, la consapevolezza della fame di massa nell'emisfero del Sud, la liberazione dell'Europa orientale.

Intanto il Concilio Vaticano II accentua le immagini bibliche della Chiesa come Popolo di Dio e Corpo di Cristo e la liturgia postconciliare insiste su una vita spirituale più comunitaria, sul Cristo-Eucaristia come fulcro dell'unione con Dio. La valorizzazione delle altre tradizioni religiose porta ad un incremento del dialogo ecumenico.

Nel tardo degli anni Sessanta, il nascere del Rinnovamento Carismatico favorisce esperienze intense di preghiera e attenzione a fenomeni straordinari, doni dello Spirito.

Tra le figure più rappresentative del '900 si ricorda, poi, T. Merton, nella cui esperienza si è ritrovata tanta parte del mondo contemporaneo. Egli, infatti, sembra aver incarnato le ansie spirituali dell'uomo combattuto tra vita di preghiera e vita di azione, tra attenzione alla natura e uso della tecnologia, tra dialogo con altre tradizioni religiose e autenticità di vita cristiana, tra contemplazione e impegno attivo per la giustizia. Inoltre, egli ha cercato di combinare gli aspetti mistici e profetici della tradizione cristiana (da Origene a Eckhart a Giovanni della Croce) in un atteggiamento spirituale in cui le opere della giustizia scaturiscano da una profonda vita interiore.

Lo stesso sforzo si ritrova in M. Dêlbrel e soprattutto in Dorothy Day, che meglio rappresenta l'ideale cristiano dell'amore in azione, dell'unità tra vita interiore e servizio agli altri.

Le nuove esperienze mistiche hanno trovato in alcuni teologi la loro sistematizzazione. Tra i più importanti occorre ricordare K. Rahner per il quale tutti gli esseri umani, in tutte le loro azioni, sono positivamente orientati al mistero di Dio. Recuperando gli insegnamenti dei Padri greci, egli insiste sul concetto che la grazia non è solo una realtà per conseguire la felicità futura, ma è piuttosto la comunicazione gratuita di sé da parte di Dio che divinizza l'uomo in tutti gli aspetti del suo essere. Tutta la storia umana e tutte le dimensioni dell'esistenza umana sono circondate da questa grazia, perciò tutte le cose potenzialmente rivelano il mistero di Dio e ogni sforzo umano autentico può avvicinare a Dio e contribuire alla diffusione del suo regno. La Chiesa, attraverso la Scrittura, la liturgia, l'insegnamento, aiuta i credenti a prendere coscienza della loro esperienza di grazia.

Contemporaneamente, B. Lonergan elabora un metodo sistematico che, partendo dalla conversione personale, stimola la crescita spirituale fino all'unione con Dio, cui si giunge attraverso un processo informato e guidato dall'amore di Dio e dallo Spirito che opera nell'intimo dell'uomo. Per questo motivo, i cattolici possono guardare con simpatia agli psicologi e agli strumenti propri della scienza psicologica: per esempio, a quanto affermato da W. James sull'esperienza religiosa; da E. Erikson sulla formazione dell'identità; da A. Maslow sull'attualizzazione di sé; e da C. Jung sul processo di individuazione. Gli psicologi, infatti, possono contribuire a riconoscere la patologia religiosa e a comprendere i meccanismi di sviluppo della fede sui quali si innesta la grazia.

La teologia mistica del '900 ha, poi, ricevuto un notevole contributo anche da A. Stolz, R. Garrigou-Lagrange, H. Urs von Balthasar, H. de Lubac.

Soprattutto in America Latina, intanto, G. Gutiérrez e gli altri teologi della liberazione, come L. Boff e J. Sobrino, rileggono le Scritture dal punto di vista delle persone oppresse, ritrovando nell'Esodo il desiderio non solo dell'uomo di vivere in Dio solo, ma di Dio di liberare la sua gente e di darle anche quella libertà sociale, politica ed economica che costituisce uno degli obiettivi della mistica dell'azione.

Nella linea dell'attenzione verso il mondo femminile, Rosemary Radford Ruether nell'opera Sesso e Dialogo di Dio (1983), ha costruito una teologia sistematica dalla prospettiva delle donne, tendendo ad una valutazione positiva del corpo umano, come " spazio di salvezza " (Porcile Santiso) e luogo di comunione con Dio.

Da tutte queste esperienze e dottrine contemporanee si è invitati a superare una sottile dicotomia tra il sacro ed il profano in favore di una spiritualità di incarnazione sulla scia dell'Incarnazione mistica più compiuta: quella del Cristo redentore.

Il '900, infine, ha visto il nascere della mistica comparata che il Concilio ha incoraggiato con le parole: " Dai tempi più antichi fino ad oggi, si trova presso i vari popoli una certa sensibilità a quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana ed anzi è talvolta un riconoscimento della Divinità suprema o anche del Padre. Sensibilità e conoscenza che compenetrano la loro vita di un profondo senso religioso " (NAE 2). Ricuperare tale sensibilità è stato, pertanto, il compito primario proprio della cosiddetta " mistica comparata", che ha avuto un primo momento di successo con le conferenze tenute da R. Otto nel 1924 all'Oberlin College nell'Ohio, poi raccolte nel libro Mistica orientale, mistica occidentale. Qui si propone un confronto tra Eckhart e il maestro tibetano Sankara (artefice della rinascita del bramanesimo nell'India del sec. VIII d.C.). Le conclusioni introducono al dibattito successivo sulla unità o molteplicità della mistica.

Intanto H. Le Saux faceva l'esperienza viva del contatto con la mistica orientale.

Ancora nella prima metà del '900, Robert C. Zaehner (Mysticim Sacred and Profan) ha tratteggiato una distinzione tra religioni profetiche, il cui paradigma è l'ebraismo antico (ma che includono, oltre al cristianesimo, anche zoroastrismo e islam), e altre religioni, il cui paradigma è l'esperienza indiana, considerata come un monismo sostanziale. Per lui esistono tre forme di mistica: quella teistica, quella monistica e quella dell'" uno-nel-tutto ". A lui si oppone dapprima il filosofo William T. Stace (inizio anni Sessanta), che distingue una mistica al di là del tempo, dello spazio e delle relazioni da una mistica meno elevata. Poi N.(Ninian) Smart per il quale, fenomenologicamente, il misticismo è lo stesso dappertutto; tuttavia esiste una diversità dovuta allo stile di vita e alle modalità di autointerpretazione dei mistici: la verità interpretativa dipende in larga misura da fattori estrinseci all'esperienza mistica in se stessa.

Tra gli anni Quaranta e Cinquanta, la scuola francese di " mistica comparata " d'ispirazione tomistica con il filosofo J. Maritain, l'islamologo L. Gardet e l'indologo O. Lacombe, delimita una " mistica soprannaturale ", ovviamente cristiana, con l'ammissione di pochi esponenti del ta, sawwuf (il sufismo islamico) e forse del maestro visnuita o Ramanuja.

Intanto la mistica francescana prende dimensioni interconfessionali (Basilea Schlink).

L'interesse per l'esperienza mistica, al di fuori dell'ambito cristiano, cresce, assumendo forme diversificate (vedi la cosiddetta mistica Hippy, per fare un esempio), mentre la mistica cristiana riflette sempre più su se stessa ed offre elementi di ulteriore consapevolezza. Restano, comunque, aperte varie questioni: si può parlare di mistica autentica fuori dal cristianesimo? Come la psiche influenza l'esperienza mistica? Questa è solo dono o può dipendere da un metodo? Esistono gradi nell'esperienza mistica? Può essere sanato il " divorzio " tra teologia e mistica? Come la mistica può o meno favorire l'ecumenismo e fino a che punto (cf NAE 1-2)?

Conclusione. Il Vaticano II insegna: " L'aspetto più sublime della dignità umana consiste nella sua vocazione alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio" (GS 19). L'aspirazione mistica è, perciò, inerente alla natura umana e molto spesso, nel corso dei secoli, l'esperienza mistica dimostra la possibilità e la capacità, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, per ogni figlio di Dio, di vivere la sua avventura umana nella autenticità e nel desiderio del volto di Dio. La Lumen Gentium ricorda l'universale chiamata alla santità che trova in Maria, in colei nella quale la visione si è fatta carne, il suo prototipo più autentico per una mistica nel quotidiano. In conclusione si può tornare a Bernardo di Clairveaux che, nel Commento al cantico dei Cantici, aveva paragonato l'esperienza di unione con Dio al " bacio dello Sposo ", questo bacio che è l'effusione dello Spirito Santo. Lo Spirito viene quando vuole, ma l'anima tende a lui: è attiva nel suo desiderio e passiva nella sua attesa. Maranatà resta, comunque, l'anelito di tutti i tempi fino alla fine dei tempi.

Note: 1 A. Silesio, Il pellegrino cherubico, VI, 115; 2 A. Levasti, Introduzione a Aa.Vv., Mistici del Duecento e del Trecento, Milano 1935, 17; 3 Aa.Vv., La mistica e le mistiche, Cinisello Balsamo (MI) 1996, 35; 4 Cf Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo II, 5,3; 5 Cf Aa.Vv., La mistica..., o.c., 604; 6 S. Ireneo, Adversus haereses III, 19,1: SC 211,374. Cirillo di Alessandria, Thesaurus 33: PG 75,569 CD; 7 L. Mortara (cura di), Vita e detti dei Padri del deserto, Roma 1975; 8 In ep. Io tr. 2,11; sullo stesso tema cf Serm. 166,4; In ps. 118,d.16,1; Serm. 166,4; 9 In Io. 32,17; 10 Fu un'esperienza abbracciata in una forma eremitica in cui ben presto i monaci diventarono maestri, quindi punto di riferimento comunitario. Dopo il Concilio di Calcedonia (451), che vietò i monaci vaganti, si costituirono comunità stabili. In Occidente, Atanasio, in esilio a Treviri, fece conoscere il monachesimo. Ne abbiamo espressioni a Milano, comunità fondata da s. Ambrogio (397); a Ligugé (361) e a Marmoutin (373) fondati da Martino di Tours..., ma con Benedetto da Norcia ne abbiamo la codificazione. Poi troviamo Bonifacio e i suoi compagni (672 ca.); Cluny (910); i camaldolesi (1012); Chartreux (1084); Citeaux con Roberto di Molesmes (1111), Bernardo (1115), i carmelitani (1156) sul Monte Carmelo prima di trasformarsi in Ordine mendicante in Europa nel 1238... Nel sec. XIII nascono gli Ordini mendicanti fino al Concilio Lateranense del 1215 che vieta la formazione di altri Ordini. Nel 1256 nascono gli agostiniani. Tutti i successivi devono avere l'approvazione del Papa (1500 gesuiti e chierici regolari). I trappisti nascono nel 1644. Nel '900 nascono forme di monachesimo anche nell'ambito protestante. Poi ha inizio l'esperienza di Taizé. In tutte queste espressioni del monachesimo ritroviamo esperienze di mistica soprattutto sponsale come quella di Bernardo, ma si può dire che nel suo ambito tutte le connotazioni e specificazioni mistiche siano state rivissute: da quella mariana, anch'essa bernardiana fino alla ecumenica di Taizé (cf per questa parte M. Augé - E. Santos - L. Borriello, Storia della vita religiosa, Brescia 1988); 11 Ger. cel. III, 2; Ger. eccl. I, 3; XX, 1; 12 Teologia mistica 1,2; 13 Per la mistica dell'Oriente dopo lo scisma vedi voce l'Oriente cristiano; 14 F. Vandenbroucke, Le divorce entre théologie et mystique, in NRTh 82 (1950), 372-389; 15 H. de Lubac, Mistica e mistero cristiano, Milano 1979, 98; 16 cf F.R. Wilhélem, Dio nell'azione. La mistica apostolica secondo Teresa d'Avila, Città del Vaticano 1997; 17 Aa.Vv., Enciclopédie des mistiques, II, Paris 1977, 450; 18 Ibid., 451; 19 Già nel sec. XVII la clarissa italiana Giovanna della Croce, dopo un lungo cammino di purificazione aveva sperimentato grandi visioni che culminarono nella viva consapevolezza della inabitazione della Trinità nell'anima raccolte nella Vita, nel suo Commento al Cantico dei Cantici e negli otto volumi delle sue Contemplazioni. Tale consapevolezza fu esperita poi dalla francese M.A. Geuser che, non potendo entrare nel Carmelo dopo la conversione per motivi di salute, ne visse lo spirito. Ebbe il dono di un'attenzione continua all'inabitazione delle tre Persone divine come è annotato nel suo Diario; 20 Come in Elisabetta Achler; Agnese di Gesù; A. Baker; Beatrice di Ornacieux; Cristina di Stommeln; Elisabetta d'Oye; Margherita di Faenza; M. Maddalena de' Pazzi; T. Newman; S. Quinzani; Rita da Cascia.

Bibl. Aa.Vv., La mistica e le mistiche, Cinisello Balsamo (MI) 1996; J. Beaude, La mistica, Cinisello Balsamo (MI) 1992; J.M. van Cangh, La mistica, Bologna 1992; E. Conze, Breve storia del buddismo, Milano 1985; M.M. Davy (cura di), Encyclopédie des mystiques, 4 voll., Paris 1977; U. Gamba, Mistici di tutti i tempi, Padova 1995; L. Gardet - O. Lacombe, L'esperienza del sé. Studio di mistica comparata, Milano 1988; H. Graef, The Story of Mysticism, New York 1965; H.D. Egan, I mistici e la mistica, Città del Vaticano 1995; W. Johnston, L'occhio interiore, Roma 1987; A. Levasti, I grandi mistici, Firenze 1993; V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, Bologna 1967; R. Otto, Mistica orientale, mistica occidentale, Casale Monferrato (AL) 1985; G. Pozzi - C. Leonardi (cura di), Scrittrici mistiche italiane, Genova 1988; K. Ruh, Storia della mistica occidentale, I, Milano 1995; S. Siddhesvarananda, Pensiero indiano e mistica carmelitana, Roma 1977; T. Spidlík, La spiritualità dell'Oriente cristiano, Cinisello Balsamo (MI) 1995; J. Sudbrack, La nuova religiosità, Brescia 1988; Id., Mistica, Casale Monferrato (AL) 1992; W. Tritsch, Introduzione alla mistica, Città del Vaticano 1995; C. Valenziano (cura di), Spiritualità cristiana orientale, Milano 1986; M. Viller - K. Rahner, Ascetica e mistica nella patristica, Brescia 1991.

M.R. Del Genio

MISTICA ANGLICANA. (inizio)

Premessa. Fin dai suoi inizi, la spiritualità anglicana è stata caratterizzata da tre elementi: profondo approccio personale alla Bibbia, propensione verso il culto liturgico e ritorno alla Chiesa primitiva.

L'amore per la Bibbia 1 derivò alla Chiesa anglicana in parte dall'influenza protestante, ma anche dall'impegno di Th. Cromwell ( 1540), primo ministro di Enrico VIII ( 1547), che promosse la stampa della Bibbia in inglese e sottolineò la necessità per ogni parrocchia di possederne una copia perché la leggessero anche i laici.

Questo si verificò anche per il Book of Common Prayer (1549-1552) di Th. Cramner ( 1556) che, scritto in un inglese incomparabile, divenne un'espressione del culto liturgico anglicano. L'adattamento e la traduzione dei due uffici monastici delle Lodi e dei Vespri mattutini e serali plasmarono la liturgia per i secoli successivi, ispirando un grande amore per i salmi, dando alla liturgia anglicana dignità e stile unitario.2

Anche il terzo aspetto, ossia il rispetto per i Padri della Chiesa e per la Chiesa primitiva nella sua originale purezza, ancora non macchiata da errori, fu ereditato dalla Chiesa anglicana. Sebbene Enrico VIII avesse voluto la rottura con Roma, egli mantenne la teologia cattolica e il rispetto per il suo passato cattolico che è rimasto nella Chiesa anglicana nel corso dei secoli.

I. I secoli XVI e XVII. Uno dei primi e più grandi teologi inglesi protestanti fu R. Hooker ( 1600), uomo di cultura ed erudizione, la cui grande opera The Laws of Ecclesiastical Polity (1593) è stata paragonata per ampiezza alla Summa di s. Tommaso. Hooker cercò di collegare Scrittura, tradizione e ragione per ricreare la primitiva purezza della Chiesa. In un complesso opuscolo teologico, Hooker sostenne che il cristiano nel suo profondo essere doveva abbandonarsi alla grazia divina; tale abbandono doveva compiersi all'interno della Chiesa, la quale è essa stessa mezzo di comunicazione della grazia.

Il sec. XVII, pur tra i suoi radicali cambiamenti politici e le guerre civili fratricide (1642-1648) fu segnato da una grande fioritura di opere devozionali. The Practice of Piety (1610) di Lewis Bayly ( 1631) ebbe un grande successo per due secoli ed esercitò una grande influenza su John Bunyan ( 1688), autore del Pilgrim's Progress. Lancelot Andrews ( 1626), celebre per la sua grande erudizione, redasse una raccolta di preghiere, Preces Privatae (1648), le quali furono pubblicate ventidue anni dopo la sua morte. Queste preghiere personali, molto profonde, rivelano la sua sincera pietà ed aiutano i lettori nella loro vita di preghiera. Le due opere di Jeremy Taylor ( 1667) Holy Living e Holy Dying (1650-1651), furono redatte poco dopo l'esecuzione di Carlo I ( 1649); non come una semplice reazione agli eccessi puritani, ma come un'opera di pietà personale che dura nel tempo. Taylor aveva una grande coscienza dei suoi peccati, ma la utilizzò come stimolo per abbandonarsi completamente nelle braccia di Dio amore. Come egli stesso afferma, la teologia " è piuttosto una vita divina che una divina conoscenza ". I libri di Taylor ebbero una vasta influenza su due diverse successive figure: John Wesley ( 1791) e John Keble ( 1866).

La poesia religiosa ha sempre avuto una parte significativa nella spiritualità anglicana, soprattutto quando musicata poteva essere usata nella liturgia. Il grande poeta metafisico anglicano è John Donne ( 1631). Egli è spinto dalla sua profonda esperienza di peccato e morte a confidare in Dio solo; la sua fede si basa sulla morte redentrice del Cristo. Egli si serve della poesia come mezzo per esprimere l'esperienza di Dio, come avevano fatto Giovanni della Croce e molti altri mistici cattolici. Ma la successiva poesia anglicana divenne più umana e concreta. Tra i primi poeti ricordiamo: George Herbert ( 1633), Thomas Traherne ( 1674), Henry Vaughan ( 1695) e Richard Crashaw ( 1649). Quest'ultimo, tuttavia, esiliato nel continente durante il governo dei puritani, si convertì alla fede cattolica e morì a Loreto.

Un diverso approccio alla spiritualità si rileva nel gruppo conosciuto come i " Platonici di Cambridge ", i cui principali esponenti furono Benjamin Whichcote ( 1685) e Henry More ( 1687). Nonostante le vicissitudini della guerra civile, essi focalizzarono la loro attenzione su una dimensione interiore: " la vita nascosta con Cristo in Dio ". Il loro testo preferito era il versetto dei Proverbi: " Lo spirito dell'uomo è una fiaccola del Signore " (20,27), a cui essi aggiunsero " accesa da Dio e che ci illumina dinanzi a Dio ".

II. I secc. XVIII e XIX. Alla fine del sec. XVII, il movimento evangelico fece la sua comparsa nella Chiesa anglicana. Il punto di partenza per gli evangelici è il bisogno di una conversione personale insieme alla convinzione di essere chiamati a vivere come testimoni del Cristo. Radicato in un entroterra culturale protestante, esso sottolinea la centralità delle Scritture e l'aiuto al prossimo. All'interno della Chiesa anglicana, il movimento evangelico fu ispirato da Charles Simeon ( 1836), il grande predicatore, e da William Wilberforce ( 1833), il riformatore sociale. Lo sforzo volto ad alleviare le sofferenze dei poveri e ad abolire la schiavitù nacque da una personale fede in Cristo e da una profonda costante fede nella sua grazia salvifica. Il fondamento della loro spiritualità fu descritto da Simeon: prima " la Bibbia, poi il Prayer Book e subordinati ad essi tutti gli altri libri ".

III. I primi anni del sec. XIX videro nascere il movimento anglo-cattolico, il quale cercava di contrapporsi al semplicistico approccio evangelico e di ricuperare il suo passato cattolico. John Keble fu l'iniziale ispiratore del movimento conosciuto come Movimento di Oxford (Oxford Movement). Il suo The Christian Year (1827), una raccolta di poesie e il suo famoso sermone del 1833 testimoniano il desiderio di restaurare la tradizione cattolica. J.H. Newman fu uno dei primi partecipanti, ma la sua conversione alla fede cattolica fece sì che altri continuassero l'opera nella Chiesa anglicana, principalmente Pusey, il grande " doctor mysticus " del movimento.

Occorrerà attendere la fine del sec. XX per assistere a una rinascita della m., il cui pioniere fu W.R. Inge, mistico e decano della cattedrale di Saint-Paul. Le sue opere e quelle di Evelyn Underhill, mistica, direttrice di anime e storica della mistica, anglicana praticante dal 1921, risvegliarono un interesse teorico per la mistica e la speranza di un compimento concreto della " via mistica ".

Una rivalutazione della tradizione liturgica cattolica portò alla rifondazione dell'Eucaristia come atto centrale del culto e, parimenti, alla rinascita dell'interesse per la Chiesa primitiva che condusse ad un rinnovato studio degli scritti patristici.

L'anglo-cattolicesimo ebbe una grande influenza. Un primo notevole effetto fu la fondazione di Ordini religiosi anglicani. Nicholas Ferrar ( 1637) agli inizi del sec. XVII organizzò la sua famiglia ed i suoi amici in una comunità semi-religiosa a Little Gidding. In questa comunità si recitava l'ufficio quotidiano e ci si dedicava alla preghiera e ad atti di carità. Purtroppo, la comunità fu dispersa dai Puritani nel 1646, ma ne rimase la memoria.

Nel sec. XIX, si formarono varie comunità religiose, molte delle quali sono sopravvissute fino ai nostri giorni. Esse portarono nell'anglicanesimo l'ispirazione di s. Benedetto e di s. Francesco, incoraggiando l'interesse per la preghiera contemplativa. Tutto ciò, a sua volta, portò ad un nuovo studio della mistica inglese del sec. XIV, specialmente della Nube della non-conoscenza e di Giuliana di Norwich, ma anche di mistici cattolici posteriori, come Teresa D'Avila.

Inoltre, il movimento evangelico si sviluppò sotto l'influenza del Rinnovamento carismatico e sull'accento posto da quest'ultimo su un'esperienza di conversione personale, nonché su un'esperienza dei doni dello Spirito Santo. Tutto ciò ha condotto con maggiore entusiasmo il culto liturgico verso una fruttuosa rinascita della musica religiosa.

In tempi recenti, la Chiesa anglicana si mostra aperta alle influenze mistiche che vengono non solo dal mondo contemporaneo cattolico e, in genere, dal movimento ecumenico, ma anche alle esperienze mistiche di altre religioni, come il buddismo, l'induismo, ecc.

In conclusione, nell'ambito della m. la " visione di Dio è... meta ultima della vita cristiana... E un fine che consiste nel "vedere" Dio, amarlo e lodarlo e riposare in lui. Noi crediamo che ogni cristiano riceva in questo suo viaggio verso Dio una grazia sufficiente a sostenerlo e a guidarlo lungo il suo cammino... ".3

Note: 1 " L'anglicanesimo poggia fermamente sulla Bibbia. Si richiama alla Bibbia per "leggere" o "provare" tutti gli argomenti di dottrina necessari per la salvezza (Articolo VI dei 39 Articoli della Chiesa d'Inghilterra). Si reputa un autentico sviluppo del Vangelo ed una particolare concretizzazione storica di esso ", H.R. Smythe, La mistica e il misticismo nella Chiesa anglicana, in Aa.Vv., Mistica e misticismo oggi, Roma 1979, 163; 2 " Da questo fondamento biblico della dottrina anglicana e da un culto pubblico centrato sul Book of Common Prayer (1662) è derivata una consapevolezza della rivelazione divina unita ad un senso della storia quale "locus" di questa rivelazione e una certa strutturazione delle idee o gerarchia di verità religiose che riposa chiaramente sul fondamento trinitario di tutta la fede e sull'insegnamento cristiano ", Ibid., 163-164; 3 Ibid., 68.

Bibl. F.E. Baher, John Wesley and the Church of England, London 1970; L. Bouyer, Spiritualità protestante e anglicana, Bologna 1972, 71ss.; L. Dupré - E. Saliers (cura di), Christian Spirituality III: Post-Reformation and Modern, London 1989; S.H. Evans, Anglican Spirituality, in Aa.Vv., A Dictionary of Christian Spirituality, London 1983, 13-16; Giovanna della Croce, s.v., in DES I, 132-138; F.P. Harton, s.v., in DSAM I, 660-670; H. Jager, La mistica protestante e anglicana, in Aa.Vv., La mistica e le mistiche, Cinisello Balsamo (MI) 1996, 203-299; H.R. Smythe, La mistica e il misticismo nella Chiesa anglicana, in Aa.Vv., Mistica e misticismo oggi, Roma 1979, 163-169; P. Staples, The Church of England 1961-1980, Utrecht 1981; C.J. Stranhs, Anglican Devotion, London 1961; V. Vinay, s.v., in DIP I, 642-653 (con bibl.); Id., s.v., in Enciclopedia delle religioni, I, Firenze 1970, 358ss.; J.W.C. Wand, La Chiesa anglicana, Milano 1967; F. Wöhrer, Anglikanische Kirche, in WMy, 20-24.

R. Copsey

MISTICA DELLA LUCE. (inizio)

I. Nella religiosità. Nessun campo dell'esperienza esercita nell'ambito della religiosità di tutti i popoli un ruolo così importante come la luce e i fenomeni ad essa connessi (sole, fuoco, splendore, illuminazione, ecc.). Le possibili variazioni vanno dalle manifestazioni più ovvie e generali della divinità come sole fino alla più sublime spiritualità della luce intellettuale; dalla concezione realistica alla pura allegoria e alla contrapposizione di una luce in fieri (illuminazione) ad una luce sostanziale che è di per sé Dio. La fondamentale rappresentazione consiste, infatti, semplicemente nella illuminazione dell'oscurità della non-conoscenza (non-esperienza) attraverso la luce che si mostra (sperimentata). La rappresentazione di Dio come luce, dunque, l'esperienza di Dio come illuminazione e visione è normale nell'AT (per esempio Es 24,16ss.; Sal 36,10; Ab 3,3ss.) ed è presente ugualmente nel NT e non soltanto negli scritti giovannei (cf Gv 8ss., 2 Cor 3,13ss.). Nella professione di fede (" Luce da Luce ") si trova documentata già per il primo cristianesimo un'analoga corrispondenza. Ma è soprattutto il battesimo ad assumere i connotati di sacramento della illuminazione.

II. La teologia mistica risulta influenzata da due diverse correnti della tradizione. Dionigi Areopagita interpreta da un punto di vista ontologico la perfetta struttura dell'universo come un flusso di luce derivante da Dio che si estende sui diversi livelli della creazione in ordine gerarchico. Il ritorno a Dio consiste in uno splendore sempre più luminoso, in un' esperienza mistica sempre più profonda che investe la vita intera dell'uomo. Dio in sé altro non è che una oscurità estremamente luminosa che supera ogni livello di conoscenza. La tradizione agostiniana è, invece, basata sulla conoscenza teoretica: la luce di Dio illumina l'" occhio interiore " per il raggiungimento della fede e della visione mistica. Essa si ritrova soprattutto nella Chiesa occidentale fino agli Illuministi, i quali interpretano la condizione mistica come raggiungimento della luce della ragione. La Chiesa orientale è, invece, profondamente radicata nella tradizione dionisiana. Secondo Gregorio Palamas, l'esperienza mistica (per esempio la preghiera di Gesù) s'immerge nella luce sostanziale (da intendersi non solo come metafora) di Dio. Questa, in quanto " energia " s'identifica con Dio e diviene visibile nella trasfigurazione sul volto di Gesù. Nella sua identità con Dio, è contemporaneamente differenziata dalla ousia divina, cioè dalla vita interiore di Dio che soltanto lui può conoscere. Sulla base di questa m. di carattere teologico si possono valutare i vari fenomeni della mistica concreta, collegati con la luce. Esperienze più volte riportate relative al lampo, al chiarore, all'irradiazione (ad esempio l'" aura" di un uomo, intesa in senso esoterico) sono manifestazioni che accompagnano la mistica propriamente intesa. La " realtà " di questi fenomeni dev'essere compresa in base alla vista psichica (proiezione), e non a quella fisica vera e propria.

La causalità, essenzialmente psicologica, di tali esperienze dimostra che la vita della fede cristiana, intensa nella sua totalità, è fortemente caratterizzata non solo dalla parola e dall'ascolto, ma anche dalla visione. Si individua così un punto di contatto importante per il dialogo tra le varie religioni, soprattutto quelle orientali, fondate in modo particolare sull'esperienza mistica e sul ruolo essenziale dell'elemento luminoso (come illuminazione).

Bibl. Aa.Vv., Lumiére, in DSAM IX, 1142-1183; U. Baatz, s.v., in WMy, 322; A. Blasucci, Lumineux (Phénoménes), in DSAM IX, 1184-1188; Matilde di Magdeburgo, La luce fluente della divinità, Firenze 1991.

J. Sudbrack

MISTICA DELL'ESSENZA. (inizio)

Premessa. L'aggettivo " sopraessenziale " per indicare determinate esperienze mistiche deriva dal neoplatonismo cristiano e viene usato occasionalmente nella mistica tedesca, fino a che diviene di uso comune con Ruusbroec e i successivi continuatori della sua opera. Nel " periodo aureo " della mistica francese, questo termine (o un suo equivalente), svolge un ruolo importante soprattutto nelle controversie relative alla Regula perfectionis di Benedetto di Canfield.

Nell'interpretazione odierna, il significato dell'espressione dev'essere chiarito a tre livelli successivi, ma le caratteristiche teologiche ed esperienziali vanno valutate per ogni singolo autore.

I. Concentrazione dell'esperienza sul piano personale. Tutte le impressioni sensoriali ed anche le percezioni spirituali debbono cadere finché l'uomo " prova esperienza " ancora nel proprio " essere " e non più con questa o quella facoltà percettiva. La profondità esistenziale della persona così raggiunta (il " fondo " dell'anima) può essere così " essenziale " che la stessa parola " esperienza " ha ancora in sé un'eccessiva connotazione emozionale per poter cogliere questo intimo raggiungimento del sé, della persona.

II. Concentrazione sull'" essere " (natura) di Dio. A questo livello si oltrepassano tutte le proprietà concettualmente comprensibili o comunque definibili di Dio.

L'" esperienza " afferra il concetto di Dio sulla sua " pura " essenza, nel suo " fondamento ": " abbandonare Dio per amor di Dio " (Eckhart). A questo punto si pone la questione se non si debba superare anche l'" amore " (che include la dualità) come attributo divino, per arrivare all'" essere " (che è soltanto unità) o perfino al " nulla " di Dio (che non possiede alcuna proprietà esprimibile). La tensione verso Dio non dovrebbe forse essere abbandonata, in quanto atto precedente all'essere?

III. Confluenza del " fondamento " divino e di quello umano. Quando tutte le " qualità specifiche " vengono meno, viene meno anche la " differenziazione ". E ciò vale sia dal punto di vista del pensiero che da quello dell'esperienza e dell'essere: " C'è qualcosa nell'anima che non è creato né creabile... e ciò è la ragione " (Eckhart). Di qui l'accusa di quietismo radicale e di panteismo occulto. Ruusbroec disinnesca il pericolo insito nella mistica dell'essere, cioè quello di venire intesa in modo eretico, dando particolare risalto all'amore.

La ricerca accurata su Eckhart ha dimostrato come anche le sue affermazioni più radicali debbano essere intese in senso cristiano, cioè né quietistico né panteistico.

A causa delle difficoltà terminologiche, l'indagine odierna evita sempre più il termine " mistica dell'essere ", operando invece una distinzione fra la mistica " intellettiva " e quella " affettiva " (o dell'amore).

Tuttavia, il potenziale di esperienza che si coglie con le parole " mistica dell'essere ", nonostante il pericolo immanente di una errata interpretazione in senso panteistico o immanentistico, conduce a valutare la corrispondente mistica cristiana anche sotto il punto di vista dell'essere. Proprio qui va visto un punto di partenza per arrivare a un dialogo con le tradizioni mistiche dell'Oriente. In Eckhart o Benedetto di Canfield si nota, tuttavia, la legittimità cristiana delle corrispondenti " esperienze dell'unità ". Quello che a molti appare un habitus di linguaggio e cultura piuttosto estraneo, può costituire un importante collegamento con la mistica non cristiana, ma rende anche manifesta la ricchezza della tradizione della mistica cristiana.

Bibl. J. Alaerts, La terminologie " essentielle " dans l'Oeuvre de Jan van Ruusbroec 1293-1381, Lille 1973; A. Deblaere, Essentiel, in DSAM IV, 1346-1366; B. Fraling, s.v., in WMy, 519-520; G. Moioli, Mistica cristiana, in NDS, 985-1001.

J. Sudbrack

MISTICA EBRAICA. (inizio)

I. La m. quale dottrina esoterica dell'ebraismo, nei suoi rapporti con il divino, ha i suoi primi fondamenti nei testi stessi della Bibbia ebraica comunemente definita Antico Testamento.

L'arazionalità della realtà essenziale di Dio nell'ebraismo è indubbiamente comune ad altre esperienze religiose. Tale processo di arazionalità del divino non nasce semplicemente da un'incapacità conoscitiva dell'uomo, quindi da un sentimento di impotenza di fronte all'inaccessibile numinoso, ma da un'obbiettiva incapacità di accertare e penetrare il mistero del Divino.

Ciò nondimeno nell'uomo-ebreo, creato " ad immagine di Dio ", quindi potenzialmente predisposto al contatto con la divinità, non esiste un dramma di inconoscibilità originaria che lo porta ad un'estrema rinuncia. Al contrario, dalla stessa rivelazione sinaitica proviene un invito imperioso ad orientare i propri pensieri e le proprie azioni verso Dio (" Siate santi, perché Io, il Signore, Dio vostro, sono santo " Lv 19,2). La Torà, nella tradizione giudaica, è il primo medium attraverso il quale Dio si è manifestato all'uomo facendogli conoscere la sua volontà per cui, pur incapace di affermare l'essenza della Divinità, l'uomo tenta le strade più confacenti per attingere alla Realtà suprema. Se per un verso la spinta mistica sollecita l'ebreo verso la pienezza e l'unificazione con l'Essere supremo, tale ricerca sperimentale del divino avviene come una naturale evoluzione e conquista all'interno della sua stessa realtà religiosa che promuove i suoi sforzi verso una meta da raggiungere, cioè la stessa Kedushà (=sacralità) di cui la Divinità è espressione sostanziale.

Per tale motivo si può riconoscere alla m. uno slancio " positivo " che non nasce dal nichilismo, dall'angoscia di un vuoto cosmico, ma piuttosto da un desiderio di comunicazione esistenziale con il Divino. Ovviamente tale processo drammatico, inteso a ricostituire la primigenia scissione dell'unità, dev'essere percorso mediante un'azione integrativa dell'uomo nel cosmo mediante un atto sacro che, sia M. Buber che G. Sholem - grandi interpreti del misticismo ebraico - tendono a rappresentare nella forma di un matrimonio mistico. Ed ambedue questi pensatori sono concordi nel definire la m. in generale e la Kabalà in particolare come " la gnosi del giudaismo ", osservando per altro che si tratta dell'unica forma di gnosi antidualistica.

La m. naturalmente ha assunto aspetti diversi a seconda delle circostanze storiche in cui si è presentata. Certamente, il misticismo ebraico ha ricevuto influenze esterne, tuttavia lo spirito del suo esoterismo è originale ed attraversa tutta la storia ebraica. Tale esoterismo, peraltro, è rimasto legato al popolo ebraico e lo ha accompagnato in tempi felici come in quelli sventurati della sua lunga esistenza nazionale.

II. Processo storico. Per un'esigenza di schematizzazione cronologica segnaleremo il processo storico dell'esoterismo ebraico in tre fondamentali momenti: I. Il periodo più antico segnato dall'esoterismo biblico e dall'elaborazione della Tradizione orale condensata nella Mishnà e nel Talmud. II. Il periodo della formazione vera e propria del momento mistico definito Kabalà. III. Il periodo moderno con la formazione del Chassidismo.

Queste tre tappe del processo storico della m. si alimentano di tutti i fattori religiosi propri dell'ebraismo e propongono una tecnica di rigenerazione dell'uomo indispensabile alla ricostituzione dell'unità originaria frantumata dalla prima prevaricazione compiuta dall'Adam ha-kadmon, cioè l'antico uomo.

1. Primo periodo. Per quanto concerne l'esoterismo mistico presente nella Bibbia basti ricordare la teofania profetica di Isaia al quale la Divinità appare sul trono divino, un trono di fuoco circondato da angeli che si librano intorno con le loro ali: la Divinità e gli angeli che scendono in terra a parlare con gli uomini (cf Gn 7,21-22; Es 3), senza peraltro sottolineare l'ipostasi divina sotto forma di Rúach 'Elohím (=Spirito divino) (cf Gn 1) oppure di uomini che salgono vivi in cielo e di morti che risuscitano e animali che parlano come delle creature umane.

Il libro di Daniele è, inoltre, tutto attraversato da un'aura di mistero in cui sembra concentrarsi l'esoterismo biblico. E questi, come altri autori, si rende conto che l'esoterismo teologico non può essere spiegato a tutti ma solo a dei privilegiati. Si può dire che il libro di Daniele costituisca il ponte di collegamento tra lo spirito esoterico biblico e quello dell'Apocalisse ebraica in cui l'esoterismo subisce un ulteriore approfondimento. Non è da escludere l'ipotesi che certi libri siano rimasti fuori del Canone ebraico perché probabilmente tra i sistematori del Canone stesso prevalse la corrente più razionalista. Sappiamo, comunque, che l'influenza dell'esoterismo di taluni libri continuò ad esercitarsi attivamente penetrando nel cristianesimo, nella letteratura aggadica e più tardi nella Kabalà. L'esoterismo ebraico ebbe un approfondimento teorico e speculativo oltre che un'applicazione pratica, ad esempio presso gli Esseni, come doveva averlo avuto presso gli antichi Ebrei.

Sappiamo dei sacrifici, dello spruzzare il sangue e l'acqua sul corpo per purificare l'anima dell'uomo dai suoi peccati, tuttavia tali esperienze religiose erano riservate ai Cohanim (=i sacerdoti). Presso gli Ebrei invece divennero esperienza quotidiana di una comunità ebraica che fece degli atti quotidiani l'espressione pratica del suo attaccamento a Dio mediante la purezza fisica. L'esoterismo ebraico non fu limitato all'Apocalisse giudaica e nella sola terra d'Israele, esso si diffuse anche fra gli ebrei della diaspora. E come nella Bibbia anche nell'Apocalisse (cf Ezrà IV) vi fu una forte riserva nel rivelare i segreti divini soltanto a pochi eletti. Gli autori del Talmud (cf T. Chaghigà 146, Mishnà di Chaghigà II, I. T. Chaghigà 13a) misero in guardia dal trasmettere i segreti della Torà a chi " non fosse dotato di cinque qualità, a chi non fosse principe di cinquanta persone, che fosse un uomo di riguardo, consigliere dotto ed intelligente, aperto alle segrete cose ". L'esoterismo ebraico conquistò gradatamente larghe cerchie popolari sicché le prime testimonianze letterarie della m. vennero in circolazione grazie a quella che può essere definita la letteratura delle Hechaloth (=i santuari) e della Merkavà, cioè il Carro divino. Lo studioso che ha maggiormente individuato storicamente gli inizi dell'antica m. fu G. Sholem, il cui contributo è stato determinante nel dimostrare che molti passi della letteratura rabbinica si possono spiegare mediante un'analisi comparativa con certi concetti rappresentati dai testi dell'antica m. Pertanto, secondo Sholem, la letteratura delle Hechaloth, dal punto vista cronologico, è da classificare comparativamente con i classici della letteratura rabbinica, cioè il Talmud e la Mishnà.

Qual è il contenuto di questa antica letteratura mistica delle Hechaloth? Sono dei trattatelli, quasi due dozzine, che si interessano di cosmogonia e cosmologia, cioè della creazione del mondo, di angelologia e della visione del " Carro celeste " avuta e descritta da Ezechiele nel primo capitolo del suo libro. Tra i testi più antichi vi sono le Hechaloth (=Palazzi o grandi case), ma nello specifico libretto il termine indica i " Templi celesti " o Santuari. E questa una letteratura giudaica che non ha riscontro presso altre religioni ed ha origine dalle cerchie mistiche denominate Ioredé ha-Merkavà (=coloro che discendono nel Carro). Tale cerchia è esistita dal sec. II fino all'inizio del sec. VII. Essa si è interessata della dettagliata descrizione di un'esperienza mistica spirituale nei mondi superiori. Lo ioréd (= colui che discende nel Carro) ha lo stesso valore espressivo di colui che affronta il mare, cioè che salpa per ignoti lidi. Colui che discende nel Carro si stacca dalla sua attuale esistenza per iniziare un'esperienza che è come un lungo viaggio nelle stanze del Cielo o nei Santuari celesti. Egli intraprende un viaggio che, dopo un certo tempo, lo porterà ad una completa immersione mistica nella Divinità. Ampli squarci di tale letteratura appaiono come un viatico per colui che affronta una strada complessa e complicata. Che cosa deve portare con sé e quando deve intraprendere la strada il mistico, quali sono i pericoli che lo insidiano, come si deve comportare quando li incontrerà, quale parola d'ordine dovrà usare e quali panorami gli si riveleranno lungo la strada? Alla fine del suo viaggio giungerà all'ultimo Santuario, il settimo, e là si concluderà il viaggio. Abbiamo qui un'espressione linguistico-letteraria dell'esperienza mistica e chi non è un mistico non può comprenderla pienamente. Il lettore potrà affrontare i testi, capire più o meno la descrizione degli eventi, comprendere le associazioni delle parole, però non potrà rivelare l'esperienza spirituale che è dietro alle parole scritte. Solo chi ha saputo elevarsi al di sopra e al di là delle parole per conseguire l'essenza mistica che esse esigono rappresentare, solo costui comprenderà il pieno significato di tale viaggio verso l'Alto.

Nel Talmud di Chaghigà 14b. si racconta che quattro grandi Maestri dell'ebraismo rabbinici entrarono nel Pardés, cioè si dedicarono allo studio dei misteri mistici e si dice che " Ben Azai se ne interessò ma morì. Ben Zomà, che pur si diede a tali studi, "fu colpito" (cioè perse la fede) ed un terzo Elisha' Ben Abuià (Maestro di Rabbì Meir) divenne un miscredente, sicché negò i fondamenti dell'ebraismo ". Solo Rabbì Akivà entrò nel Pardés e ne uscì indenne. Sembra che coloro che si imbarcarono nella Merkavà fossero assai vicini a coloro dai quali è derivata la letteratura rabbinica, per cui è possibile che taluni mistici fossero alcuni noti Maestri.

Gli angeli presenti nelle Hechaloth hanno la funzione di custodire i Santuari e di introdurre i meritevoli nella Merkavà, cioè il carro divino, affinché possano contemplarne i misteri. Tra gli angeli ministri della corte divina si distingue il Metatròn, angelo che avrebbe guidato gli ebrei nel deserto, denominato Yaho'el, espressione che contiene implicito il Nome ineffabile di Dio (cf Es 23,21): " Perché il mio Nome è in lui ".

La tesi essenziale che si può ricavare da tali libretti, non tutti di facile comprensione, è la seguente: soltanto le persone che riescono a conseguire la massima purezza fisica e spirituale possono contemplare i segreti di Dio. Un altro tema implicito nella letteratura delle Hechaloth e della Merkavà (=il Carro divino) è derivato da una fondamentale ispirazione. Il linguaggio di questi testi è un ebraico commisto ad aramaico, arricchito di espressioni greche ed alquanto enigmatico.

Un altro breve trattato mistico è il cosiddetto Alfabeto di R. Akivà, in cui è esposto un importante misticismo alfabetico e numerico che tenta di scoprire i misteri celati in ogni parola e in ogni lettera della Scrittura.

Inoltre, il Shi'ur Komà (=le misure della statura divina) pretendeva di definire le dimensioni fisiche della Divinità, un'operetta attribuita a R. Jshma'él, interpretata allegoricamente e considerata per lo più destinata ad istruire le menti semplici onde guidarle dalla superstizione all'autentica devozione religiosa. Il Shi'ur Komà è, quindi, una mistica rappresentazione antropomorfica della Divinità come fu contemplata dal profeta Ezechiele (cf Ez 1,26).

Accanto a questi documenti mistici relativi alle Hechaloth e alla Merkavà ebbe una notevole importanza nell'antica m. il breve Sefer Jetzirà (classificato cronologicamente tra il II e il VI secolo). E un trattatello che contiene un sunto della cosmogonia ebraica in cui sembra che l'autore abbia voluto coordinare le sue idee, riguardo al tema, con le teorie talmudiche relative alla Dottrina della creazione; in esso sono esposti alcuni stadi del processo creativo quale fu concepito dalla Kabalà.

Le nozioni che trasmette il Sefer Jetzirà sono importanti in quanto aiutano a comprendere le Sidré Bereshit (cioè le sei direzioni dello spazio), la cui conservazione negli " ordini stabiliti " è derivata dal fatto che il Nome di Dio li suggella.

Il Sefer Jetzirà assumerà grande importanza nella Kabalà, ove i suoi seguaci lo considerarono una specie di vademecum della loro dottrina esoterica.

Questi testi mistici si diffondono successivamente nelle province del Reno e della Provenza, ove le idee guadagnano sempre maggior adepti nelle sfere del Chassidismo tedesco. Il misticismo tedesco si esprimeva soprattutto mediante la preghiera e la meditazione. Le principali teorie di questa corrente germanica riguardano il mistero dell'unità di Dio che non può essere compresa dalla mente umana, per cui tutte le espressioni antropomorfiche che lo riguardano si riferiscono alla " Gloria " (Kavód) creata dal fuoco divino. L'aspirazione dei seguaci di questa corrente mistica era quella di godere di tale " visione " della presenza divina, grazie ad una particolare condotta di vita vissuta in Chassidút (=pietismo), caratterizzata da atti di devozione, da preghiere, da considerazioni e contemplazione della santità e dell'umiltà. La vita del Chassíd doveva mirare al puro amore verso Dio, senza alcun utilitario compenso e motivato quale adempimento della divina volontà. Grazie a delle grandi personalità rabbiniche quali Abraham ben Jzh.ak, caposcuola di Narbona, e per merito del figlio di Avraam ben David, più noto come Isacco il Cieco, si costituirono i più antichi gruppi della Kabalà provenzale che esercitarono una grande influenza sull'ebraismo spagnolo. Un altro testo antico mistico che contribuì notevolmente alla formazione della Kabalà è il Sefer Habahir (=il Libro della chiarezza), un documento cui venne attribuito un valore mistico analogo ai Midrashim aggadici e agli scritti del Ma'asé Bereshit e del Ma'asé ha-Merkavà. Nel XIII secolo, il Sefer ha-Bahir fu considerato il libro canonico cui i cabalisti spagnoli si riferivano. Con la pubblicazione e la diffusione dello Zóhar (=il libro dello Splendore), il classico della kabalà medievale, questa, come movimento mistico sistematico dell'ebraismo diviene l'insegnamento di quella realtà celeste che è la Merkavà e che il pensiero filosofico identificò con la metafisica e l'ontologia divina.

II. Secondo periodo. In che cosa consisteva dal punto di vista mistico la Kabalà e in particolare quella corrente esoterica che diede alla Kabalà stessa il suo contributo più notevole: lo Zohar? Si tratta di un commento ebraico al Pentateuco il cui autore era R. Moshé de Leon; questi aveva accolto dei materiali mistici assai antichi che, talvolta, si presentano come una congerie dottrinale niente affatto sistematica e spesso addirittura in contraddizione con i temi che presenta.

Per riassumere sinteticamente i contenuti mistici della Kabalà, va ricordato che questo pensiero teosofico prende le mosse dall'inconoscibilità della natura divina per tentare di penetrare nella sfera teofanica intesa soprattutto come emanazione ideale di mondi che rappresentano gli elementi costitutivi del cosmo. La Kabalà, pertanto, secondo il significato della parola, " tradizione ", non rappresenta semplicemente un patrimonio culturale che si sovrappone alla testimonianza della Torà rivelata sul Sinai, essa è quasi una continuazione del messaggio biblico che ha proposto all'uomo un modulo divino per vivere eticamente sulla terra. E essa stessa un messaggio che tende a unificare, con la collaborazione dell'uomo, la corrispondenza esistente tra i due mondi: quello celeste e quello terreno.

Secondo la Kabalà, Dio è nell'En-sof (=il senza fine, l'infinito assoluto), quale condizione di " non-essere " rispetto alla realtà cosmica. Il mondo era potenzialmente in Dio, ma essendo il mondo finito, quindi imperfetto, esso non può derivare direttamente da lui, l'En-sof, ma per emanazione, cioè mediante le Sefirot che rappresentano il medium di cui Dio si serve per irradiare il proprio potere creativo. La Divinità si è servita di queste Sefirot (=canali di luce) che si trasformano negli elementi costitutivi del cosmo. Secondo la Kabalà, le Sefirot si dividono in tre gruppi: il primo gruppo rappresenta una triade che costituisce l'universo come manifestazione del pensiero divino. Il secondo gruppo viene rappresentato da una triade di Sefirot che esercitano un potere etico immanente nel mondo. Il terzo gruppo è rappresentato dalla triade dell'universo materiale, in cui si realizzano gli aspetti fisici e dinamici dell'universo. L'ultima Sefirà, la decima, che indica la presenza di Dio nel mondo, conferisce e completa l'armonia di tutte le altre sefirot che formano un tutto unico partecipando ognuna delle qualità dell'altra. Il principio generale che regola l'azione di una sefirà nell'altra e in questo mondo è così espresso nello Zohar: " Un'attività stimola dal basso una corrispondente attività in Alto: vieni a vedere: una nebbia si leva dalla terra e allora si forma una nube ed una si unisce all'altra per formare un tutto " (Zohar a Gn 2,6).

Quando si manifestò nel mondo l'unione tra Dio (En-Sof) e la Shechinà (=la presenza immanente della Divinità nel mondo umano), l'unione era completa ed armonica. Ma, a causa del peccato, l'uomo rappresentato da Adamo, si allontanò da Dio sua fonte primordiale. La frattura morale verificatasi portò alla comparsa del male nell'universo, per cui all'ordine armonico della creazione subentrò il disordine. Perciò, la Shechinà, turbata dal disordine morale, vaga in esilio, impossibilitata a recare benessere e benedizione al mondo. Scopo finale dell'umanità è quello di restaurare l'unità originaria frantumata dalla prevaricazione. E solo l'uomo può farsi collaboratore di Dio per riallacciare il fluire dell'Amore divino nell'universo umano. Il processo di reintegrazione dell'unità, definito Yichùd (=unificazione), è un processo continuo cui ogni individuo può dare il suo contributo mediante la comunione con Dio e il perfezionamento etico.

L'elezione di Israele è un compito collettivo assegnato al popolo ebraico per spianare la strada dell'umanità nella riconquista universale dell'unificazione etica. La Shechinà è in esilio come lo stesso popolo di Israele. Essa non ha abbandonato il popolo ebraico e lo cura infondendogli speranza e certezza nella futura redenzione segnata dall'avvento messianico. Quando ciò avverrà, la Shechinà riavrà la sua intensità primitiva e si riunirà all'En-sof. Allora l'universo sarà completo in alto e in basso, sicché il mondo sarà unito da uno stesso legame, e " in quel giorno il Signore sarà uno e uno sarà il suo Nome " (cf Zc 14,9), riconfermando lo stimolo etico dell'ebraismo. L'ideale kabalistico spinge l'individuo a valorizzare l'uomo in sé onde conseguire la pienezza della sua personalità pur rimanendo unito a Dio e ai propri simili. La carica positiva della Kedushà (=la sacralità) viene annullata e sollecitata dai vari atti religiosi che promuovono nel soggetto un rapporto di autentica unione mistica. La Kabalà conobbe momenti di approfondimento ed evoluzione del pensiero mistico grazie alla forte personalità di alcuni maestri kabalisti. Tra questi merita di essere ricordato Isacco Luria detto Arì (Il leone), il quale rielaborò le dottrine dello Zohar arrivando a risultati ed intuizioni sorprendenti. L'essenza centrale del suo pensiero è la teoria dello Zimtsúm (=contrazione) che propone una spiegazione dell'autolimitazione di Dio infinito per creare il mondo fenomenico.

La dottrina kabalistica si diffuse nei centri della Palestina quali Tiberiade, Hebron, Gerusalemme, trasferendosi anche nelle grandi comunità della diaspora europea, in Italia, Germania, Olanda fin verso l'Europa orientale.

III. Il terzo momento della m. trova il suo esito più ampio e felice nel moderno Chassidismo.

Il Chassidismo si presenta con una originale caratteristica, sia per l'azione che esso esercita esclusivamente sulla società ebraica, sia per essere legato al simbolismo attinto alla tradizione mistica dell'ebraismo. Pertanto, il Chassidismo si può definire un contributo interiore nato dalla coscienza sociale ebraica. Gli eventi che produssero la formazione e l'ascesa di questo movimento furono il Sabbatianesimo e la Kabalà inglobati dal neo-chassidismo, ciò nondimeno, nonostante tali fondamentali ispirazioni, il Chassidismo presenta importanti innovazioni. Esso si ispira alla Kabalà e questa è, a sua volta, ispirata dagli ideali profetici dell'ebraismo presentando un forte orientamento messianico. Del resto, come si è visto, la Kabalà avverte tutta la creazione pervasa da un intimo conflitto che la spinge alla ricerca della redenzione dal male. Il Chassidismo, quale espressione mistica dell'ebraismo, si configura come un contributo originale per la comprensione del problema etico. La realtà dell'uomo e i suoi problemi sono innanzitutto problemi di ordine morale dalla cui soluzione dipende quella che, con sfumature e connotazioni dottrinarie diverse presso le religioni e i sistemi filosofici, viene definita " la redenzione dell'uomo ". Alla soluzione del conflitto in cui sono dialetticamente presenti i concetti di bene e di male, il Chassidismo ha offerto una sua proposta etica di tutto rispetto e degna di attenzione.

E prescritto nella Torà: " Non aggiungete e non diminuite nulla rispetto a ciò che io vi comando ". Il Chassidismo osservò scrupolosamente tale precetto. Infatti, esso non modificò nulla della letteralità dei precetti religiosi ebraici, tuttavia aggiunse un quid, apparentemente non percettibile, ad ogni regola e ad ogni prescrizione (mitzvà). Fu quel quid che infuse nell'osservanza religiosa ebraica una nuova vita etica, una dolcezza che conferì un significato particolare alle prescrizioni della Torà e alle sue norme religiose. Il Chassidismo diede un sapore, una motivazione nuova ad ogni atto che l'ebreo era chiamato a compiere. Fu questa moltiplicazione dei significati delle prescrizioni religiose (mitzvot) che innovò la modalità di esecuzione degli atti, della precettistica, facendola uscire dalla sua routine quotidiana per conferirle un profumo nuovo, un'atmosfera esecutiva che veniva alimentata dalla presenza vivificante dell'animo umano. Al principio del dovere fu sostituito il principio del volere, cioè del trasporto spontaneo e generoso di colui che una certa mitzvà non solo l'adempiva, ma la ricreava con il fervore e il trasporto di un'anima viva e coinvolta. Indubbiamente, anche i Maestri della Torà avevano condizionato l'adempimento del dovere religioso con il principio della kavanà (=l'intenzione). Il Chassidismo, richiamandosi alla necessità vitale dell'intenzione, diede a questo atteggiamento di volontà il senso della missione. Il fondatore del movimento chassidico il Ba'al Shem Tov (uno pseudonimo il cui significato è il " Padrone del buon nome " di Dio) diceva: " Ognuno viene al mondo per adempiere ad una missione e per apportare un miglioramento ". Con questo senso della missione l'individuo va nel mondo da un posto all'altro sia nella propria città che in un'altra città. E si dice che Ba'al Shem Tov così commentasse il verso dei salmi (37,23): " I passi dell'uomo procedono dal Signore ed egli desidera andare nella Sua strada ". " Ciò si riferisce a quelle persone che vanno in terre lontane con la loro mercanzia o cose simili; esse si allontanano nel loro vagare senza pensare più al Santo Benedetto. Essi ritengono che il loro spostarsi verso luoghi lontani serva per far danaro. Ma non è così. Talvolta una persona ha del pane che lo aspetta in terre lontane, per cui egli deve mangiare quel pane soltanto in quel luogo e a quella certa ora o bere acqua da quella certa fonte e il Signore, sia egli benedetto, lo spinge ad andare e a partire per quel posto per cui egli ritiene che quel viaggio ha luogo per sua libera volontà ed egli non sa che invece è stato decretato dal Santo Benedetto ". Il senso che si ricava da questo insegnamento chassidico è il seguente: come insegna la tradizione ebraica, il Creatore è Provvidenza che guida tutti gli uomini. Il Besht (Ba'al Shem Tov) ne fa un principio dinamico vivo che si inserisce nel cuore di ogni persona per convincerla che ogni suo passo nella vita è guidato da Dio, per cui tutti gli esseri creati agiscono in funzione del loro Creatore e, anche se un individuo si mette in viaggio per guadagnarsi il pane, egli, così facendo, inavvertitamente si muove per migliorare una situazione. Ogni cosa é connessa con un'altra. Tutte le cose hanno un'anima. La vitalità stessa scorre nel cuore della creazione come un fiume impetuoso dal momento che tutto ciò che è stato creato è come il cuore dell'universo, la creazione costituisce il centro e non vi è essere vivente che non faccia parte del cuore della creazione divina. Il cuore, infatti, è con il sangue la fonte della vita. Accanto al principio della " Intenzione " (kavanà), quindi, i Chassidim pongono il principio essenziale della " vitalità " degli atti o dell'interiorità per cui il Besht osservava: " Il principio fondamentale della Torà è quello di occuparsi dello studio e della preghiera per aderire all'interiorità spirituale, e la spiritualità della luce dell'Infinito è implicita nella lettera della Torà e della preghiera ". Questo per dire che la Torà, con i suoi precetti, rappresenta delle cose spirituali che elevano e purificano l'anima. Il Besht facendo dell'intenzione, della vitalità e dell'interiorità spirituale un principio essenziale, produce una rivoluzione etica nel mondo spirituale dell'ebreo provocando in lui un mutamento nel suo comportamento. Infatti, se il principio essenziale dello studio e della preghiera rappresenta un modo per servire Dio, allora si deve considerare che il valore di un tempo fisso stabilito per la preghiera può costituire un problema di mancata osservanza del principio stesso se essa preghiera non viene elevata nel momento stabilito, di qui il contrasto tra i Chassidim e i Mitnaghedim cioè i loro oppositori rappresentanti del rabbinismo dell'epoca. Sorge peraltro un problema nel caso che l'orante, nell'ora stabilita, non avverta l'interiore trasporto alla preghiera. Come si risolve il contrasto che sorge tra " l'intenzione " di pregare e la prevaricazione del tempo stabilito dai Maestri per l'assolvimento del proprio dovere religioso? D'altra parte, i Maestri stessi dell'ebraismo hanno affermato: Rahamanà Libà ba'é (=il Signore richiede il cuore); forse il principio della preghiera è fondato sul movimento delle labbra e non sui moti del cuore? Comunque, i Chassidim, sia pure in conflitto tra loro, preferivano la preghiera detta con intenzione interiore alla preghiera recitata entro il tempo giusto. Infatti, essi rispondevano che l'intenzione di pregare costituisce ugualmente una preghiera in cui la volontà si unisce all'esecuzione, cioè la meditazione sulla preghiera costituisce la preghiera stessa. Del resto, il Besht sosteneva che l'uomo si trova dove sta pensando. Chi pensa alla preghiera, quindi, è come se pregasse. Questo modo di sentire non veniva considerato dai Chassidim come un'offesa o una diminuzione del valore della norma relativa alla preghiera a tempo fisso. Del resto anche i Maestri avevano insegnato che " il Santo Benedetto considera la buona intenzione come l'atto stesso ". Non così, però, pensavano i Mitnaghedim, mentre i Chassidim ritenevano che la cosa essenziale fosse la stabilità fissa nel cuore e non " il tempo stabilito " per la recita della preghiera. Come la preghiera si applica al culto del cuore così, per quanto riguarda lo studio della Torà, avevano insegnato i Maestri. " L'uomo studi sempre nel luogo in cui desidera studiare ". I Chassidim attingono alle fonti del classicismo ebraico dai salmi 1,2: " Il suo desiderio è la legge del Signore e nel suo insegnamento medita giorno e notte ", cioè: è dovere meditare la Torà, ma è necessario suscitare l'interesse, il desiderio dello studio. Pertanto, nel Chassidismo l'attrazione allo studio costituisce un principio essenziale. " O amico dell'anima mia, Padre misericordioso, attira il tuo servo alla tua volontà ". Il Besht insegnava a servire il Signore con il culto del cuore, insegnava ad amare il Creatore di un amore illimitato e a comprendere le intenzioni della Torà in modo autentico. " L'uomo deve avere piena fiducia nel Creatore che può quello che egli vuole; egli distrugge i mondi in un attimo e li crea in un momento e in lui sono radicati tutti i beni e le norme (cattive) che sono nel mondo, perché in ogni cosa si esercitano la Sua influenza e la Sua vitalità e soltanto a lui io tendo e in lui ho fiducia ". " Una persona che legge la Torà con grande amore ed entusiasmo scorge la luce che è in essa; il Signore Dio benedetto non è pedante e puntiglioso con lui, anche se questi non capisce le motivazioni e non dice le cose come si deve. La cosa può essere paragonata al comportamento di un piccino che è amato assai dal padre e al quale il piccolo chiede qualcosa; anche se questi balbetta, il padre trae godimento nel sentirlo ". " L'uomo che prega, con la sua preghiera e il suo studio, esercita un'influenza su tutti i mondi, perfino gli angeli si nutrono della sua preghiera perché l'uomo è una scala posta a terra la cui cima giunge al cielo ed ogni suo movimento provoca impressione in alto " (cf M. Buber, Racconti, 243). A Dio non si giunge con i digiuni e le privazioni, bensì mediante la gioia e l'entusiasmo: " Lo servirò con gioia perché non lo faccio per bisogno, ma per soddisfazione di fronte a lui ".

Il Chassidismo eredita la concezione kabalista luriana secondo la quale grazie allo Tzimtzúm, cioè alla contrazione di Dio dal mondo (= un'autolimitazione dell'En-sof) Dio fece posto al mondo fenomenico. Nel buio del caos, Dio proiettò la Sua luce, l'Essere si frantumò nel divenire, cioè i " Vasi " che esprimevano le multiformi manifestazioni della creazione, non riuscendo a sopportare la potenza di luce dell'En-Sof si ruppero per cui la luce si irradiò non in modo uniforme nell'universo. Pertanto, nel creato vi sono zone di luce e zone di oscurità. Le zone buie sono una specie di male negativo. Essendo stata infranta la divina armonia, la Shechinà (la presenza immanente di Dio) è andata in esilio. La luce divina attraversa qua e là il buio per cui nel mondo vi sono zone di male e zone di bene (oscurità e luce) mescolate insieme. Pertanto, non c'è male che non contenga del bene, come non esiste bene che sia totalmente esente dal male. Il male morale, che dipende dall'uomo, può essere vinto dalla forza di volontà umana. L'uomo ha il compito di operare il Tiqún (= la redenzione). Il male è universale, occorre quindi che gli uomini facciano uno sforzo comune per vincere e creare dei mondi nuovi. Ogni individuo deve unirsi alla collettività per conseguire insieme ad essa la redenzione della vita universale, cioè per affrettare la redenzione messianica. L'idea del rinnovamento universale porta ad un motivo dominante nel Chassidismo, l'immanenza di Dio (la Shechinà in esilio nel mondo attende che ogni uomo la ritrovi). Questa immanenza divina va perseguita per conseguire l'unione con il Divino. Tale unione con il Divino va conquistata attraverso la gioia e l'entusiasmo, di qui il ballo e il canto. Colui che può aiutare a trovare l'unione con Dio mediante la gioia e l'entusiasmo è lo Zadiq, cioè il Rebbe che costituisce la personificazione stessa della Torà, colui che fa da tramite con la rivelazione divina presente nel mondo. Lo Zadiq è la figura carismatica che accompagna gli ebrei alla scoperta dei mondi superiori, in quanto egli conosce la strada giusta da percorrere e può, quindi, con il suo insegnamento provocare il risveglio, il Tiqún (=la correzione). Gli elementi a disposizione dello Zadiq per guidare l'ebreo al Tiqún sono: l'Umiltà, la Preghiera e il Racconto. La Torà " è rivestita di racconti e di storie perché non la si può trasmettere così come è ". Lo Zadíq, come fa la Torà, riveste il suo insegnamento di argomenti di fantasia, presenta delle storie che possono trarre in inganno coloro che vogliono impedire il Tiqún (= il risveglio), ma in effetti lo Zadíq, con il racconto, riesce a trasmettere i contenuti mistici che collegano l'ascoltatore ed ogni cosa a Dio e che lo porta alla teshuvà (=alla conversione morale), che costituisce la strada maestra per arrivare al Tiqún. " Lo stile narrativo degli aneddoti chassidici è estremamente semplice e i miracoli in esso descritti sono ingenui voli di una fantasia ironica gentile e dimessa ". Va tenuto presente che, come nel racconto chassidico, nell'aneddoto si trasmette l'eredità del patrimonio talmudico, il midrash, il racconto popolare che educava le masse facendo loro avvertire, mediante i voli della fantasia, le profonde verità etiche della Torà. Grazie a questo modo popolare di trasmettere l'insegnamento, il Chassidisimo riusciva a toccare profondamente l'animo dell'ascoltatore e a trasmettergli la fiducia nell'azione dell'uomo, dandogli sicurezza nello sviluppo delle proprie capacità. In un mondo oscurato dal caos sociale, lo Zadíq chassidico diviene così " l'anima del popolo ". Come è stato giustamente scritto, lo Zadíq " non è affatto un persuasore dittatoriale, ma un vero e proprio Socrate dell'ebraismo ", questo perché il Chassidismo predica che Dio si realizza attraverso l'uomo ed Egli esiste quanto più esiste l'uomo (A. J. Heshel, Dio alla ricerca dell'uomo). La figura dello Zadíq nel Chassidismo assolve a diverse funzioni: egli è in continuo conflitto con il cattivo istinto e questa sua lotta interiore costituisce addirittura un servizio, un atto di amore, di gioia, un momento di studio e di preghiera. Questa lotta interiore è l'adempimento di una mitzvà (= precetto). Diceva Nachman di Breslavia: " Il mondo dice che non si dovrebbe cercare la grandezza, ma io dico che voi dovete cercare soltanto la grandezza... quando cercate un Rebbe " (la parola è la deformazione di Rabbi-Maestro che erano i rabbini-capo di un gruppo chassidico). " Tutto ciò che vedete nel mondo, tutto quello che esiste, serve di prova per dare all'uomo la libertà di scelta ".

Abbiamo già accennato alla gioia come sistema spirituale del Chassidismo; infatti, questo movimento mistico nutrì e nutre un atteggiamento profondamente negativo verso la tristezza considerata come un espediente del " cattivo istinto " per danneggiare l'uomo. Perché mai la tristezza è considerata in maniera così negativa dal Chassidismo? Perché si sosteneva che la tristezza sottrae all'uomo la sua forza vitale, le sue energie spirituali, impedendogli l'entusiasmo dinamico proprio della religiosità. " L'uomo depresso si rinchiude in se stesso e non viene sollecitato e scosso a procedere sul sentiero che porta al culto divino. L'uomo depresso, rinchiuso in se stesso, perde la sua forza vitale e non si accende di entusiasmo spirituale " (Nachman di Breslavia). L'uomo deve sempre agire per il suo Creatore, quindi deve fare in modo di arrecare soddisfazione e piacere al Santo Benedetto. L'uomo deve agire vivendo la sua religiosità in modo attivo e diretta al fine di far piacere a Dio, poiché questo è il fine divino riguardo all'uomo, cioè che viva vivacemente la vitalità divina. La gioia, quindi, costituisce l'ingresso, l'approccio più consono per avvicinarsi a Dio, l'approccio all'En-Sof (= all'Infinito), che è nell'Ente. Ovviamente la gioia non è quella degli sciocchi e dei sensuali, ma l'entusiasmo dinamico che desta il fondamento divino che è nell'uomo. Questa concezione della gioia, come processo volto al culto divino, rappresenta il focus del pensiero chassidico. Va ricordato che il concetto di gioia, così inteso, ha dei precedenti nell'insegnamento rabbinico (T.B. Shabat 30b). Si racconta che Rabbà prima di iniziare lo studio narrava delle cose scherzose e Rashì dice che il cuore dei Maestri si apriva allo studio della Torà a causa della gioia che era in loro. I Maestri ritenevano che soltanto la gioia consentisse di avvertire quell'elevazione e quell'attaccamento necessari per lo studio. Fintanto che il cuore dell'uomo è insensibile e il suo spirito è pesante, non può risplendere (accendersi) in lui la luce divina. Questa gioia è la gioia di mitzvà. Tra i diversi espedienti a disposizione del Chassidismo per arrivare al cuore dei propri seguaci ed entusiasmarli, c'erano la musica, il canto e la melodia. Grazie alla musica, i Rebbeim riuscivano a scuotere le fibre intime dei loro ascoltatori. Grazie alla melodia, essi tendevano non ad assopire o a distrarre gli interessi dei loro discepoli, ma a purificare i loro cuori. Dobbiamo ricordare che anche questo sistema di coinvolgimento è presente in molti testi classici dell'ebraismo, primo fra tutti la Bibbia, il Canto di Mosè e di Debora, il canto del Re Salmista (Sal 103,35) sono stati ripresi dal Talmud. Si racconta che appesa al capezzale del re David c'era un'arpa e quando a mezzanotte il vento soffiava, facendo vibrare le corde dello strumento, il re cantore si destava e componeva le sue celebri melodie in onore dell'Eterno. I canti e le melodie composti dai Maestri del Chassidismo divennero celebri fra gli ebrei dell'Europa orientale. Il R. Nachman di Breslavia diceva ai suoi ascoltatori: " Guardate voi come pregate? E possibile servire Dio solo con le parole? Venite, vi insegnerò un modo nuovo di pregare non attraverso le parole, ma mediante il canto. Noi cantiamo ed Egli, il Santo Benedetto in alto, capirà il nostro canto. Il principale mezzo di comunione con l'Uno, sia egli Benedetto, può attuarsi da questo basso mondo mediante la melodia e la musica... ". R. Pinechas di Koretz soleva dire: " Padrone del mondo, se fossi un musicista non ti consentirei di vivere in alto, ma ti costringerei a venire in basso qui con noi ". Il canto e la melodia entrarono a far parte integrante dell'insegnamento chassidico tanto che in ogni corte dei Rebbe vi erano musicisti e cori pronti a registrare ogni nuovo tono e a diffonderlo tra i loro aderenti per rendere più recettiva e vitale la loro fede e il loro entusiasmo per la vita. Nell'insegnamento lubavitch - un moderno movimento chassidico - si sostiene che la voce stimola la kavanà: " La lingua, diceva R. Sheneur Zalman, può essere paragonata alla penna del cuore, il canto alla penna dell'anima ". R. Hillel di Paretz diceva: " Chi non ha un senso musicale non può avvertire il valore del Chassidismo ". Il Chassidismo ha avuto ed ha ancora un grande successo nel mondo ebraico di ieri e di oggi. Va, comunque, detto che il Chassidismo non ha modificato sostanzialmente le forme tradizionali mediante le quali si è espresso l'ebraismo, cioè non ha modificato né la Torà né il modo di vivere e praticare l'ebraismo mediante le mitzvot (=norme della vita ebraica). Il Chassidismo fu ed è un movimento mistico che tentò di trasferire un modo di sentire il rapporto con la divinità non come un fenomeno elitario, cioè proprio di alcuni individui, ma come un processo umano coinvolgente, collettivo. Ai singoli ebrei dispersi nei villaggi ucraini recò il conforto e la gioia di far parte di una comunità umana aperta cui veniva insegnato che tutto è divino, che Dio è vicino a coloro che lo cercano e, pertanto, ogni ebreo che voleva poteva essere un Chassíd.

Bibl. S. Bahout - G. Limentani (cura di), Nachman di Breslav: La Principessa smarrita, Milano 1981; R. Bonfil, La cultura, gli ebraisti e il ruolo della Kabalà, in Aa.Vv., Gli ebrei in Italia nell'epoca del Rinascimento, Firenze 1990, 127-154; M. Buber, La leggenda del Ba'al Shem, Firenze 1925; Id., I racconti dei chassidim, Milano 1962; J. Dan, The Hasidic Tale (in ebr.), Gerusalemme 1975; Id., The Ancient Mysticism (in ebr.), Tel Aviv 1989; Id., Kabalà cristiana e ricerca sulla Kabalà (in ebr.), in Haärets, Gerusalemme del 28.2.1997; A. Di Nola, Cabalà e mistica giudaica, Roma 1984; Y. Eliach, Non ricordare... non dimenticare, Roma 1992; M. Idel, La Torà nella letteratura delle Hechalot e nella Cabalà, in Aa.Vv., Studi sul pensiero ebraico, I, Gerusalemme 5741-1981 (in ebr.); Id., Henoch è il Metatron, in Aa.Vv. L'antica mistica ebraica. Studi sul pensiero ebraico, VI, 151-170 (in ebr.), Gerusalemme 5747-1987; Id., L'esperienza mistica in Abraham Abulafi, Milano 1992; Id., Zohar: la Bibbia e la sua esegesi, in S.J. Sierra (cura di), La lettura ebraica delle Scritture, Bologna 1995, 245-260; Y. Jacobson, The Hasidic Thought (in ebr.), Tel Aviv 1985; A. Ravenna (cura di), Cabala ebraica: I Sette Santuari, Roma 1990; A. Safran, La Cabalà, Roma 1981; Id., Saggezza della Cabalà, Milano 1990; A. Shinan, The World of the Aggadic Literature (in ebr.), Tel Aviv 1987; G. Sholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Milano 1965; Id., Le origini della Kabalà, Bologna 1973; Id., La Cabalà e il suo simbolismo,Torino 1980; S.J. Sierra, Ebraica (spiritualità), in NDS, 431-440; E. Urbach, Le tradizioni della dottrina esoterica nel periodo dei Tannaim, in Aa.Vv. Studio sulla Cabalà e la storia delle religioni, in onore di G. Sholem (in ebr.), Gerusalemme 5728-1968.

S.J. Sierra

MISTICA GRECO-ELLENISTICA. (inizio)

Premessa. Le radici storiche della semantica del fenomeno mistico. Ad apertura del Saggio sul misticismo greco (Roma 1979), D. Sabbatucci, nel notare come un interprete delle tradizioni religiose dell'antica Grecia come E. Rohde ha potuto affermare che " i misteri (di Eleusi) non additavano la via che conduceva al misticismo ",1 sottolinea opportunamente la grave aporia che tale giudizio fa insorgere. Lo studioso, infatti, percepisce che un'affermazione siffatta presuppone, quanto al termine mistico, una netta soluzione di continuità storicosemantica. " Non potrebbe, infatti, non apparire strano, perciò tale da aver bisogno di una spiegazione - egli conclude - il fatto che il fenomeno eleusino, il quale ha dato alla cultura occidentale il termine "mistico", non abbia avuto, almeno in nuce, un reale fondamento mistico ".2

Poiché il termine, e il relativo contenuto concettuale, presuppone naturalmente un particolare fenomeno storico ovvero una serie omogenea di fenomeni di cui esso intende esprimere e definire il carattere distintivo, si tratta di vedere quali fatti religiosi, all'interno della tradizione greca, rientrino nella sfera semantica pertinente a quel termine e ad altri ad esso strettamente connessi.

D. Sabbatucci, pur consapevole della difficoltà pregiudiziale di una definizione generale del " misticismo ", capace di abbracciare una serie assai numerosa e varia di esperienze nei più diversi ambiti religiosi, ha ritenuto necessario premettere all'analisi dei fatti " mistici " greci una tale definizione. Lo studioso riconosce tipico " dell'esperienza mistica " " il concetto di salvezza assoluta ",3 mentre " il bisogno di un assoluto in un fatto mistico è in realtà un a posteriori che ricopre il primario bisogno di rompere le relazioni con un certo ordine di cose... L'interiorizzazione è ugualmente un'immagine a posteriori che ricorda, e in maniera inadeguata, la scelta mistica, ossia la deliberata rinuncia all'ordine vigente ". Si conclude sull'opportunità di " limitare ogni misticismo, sia come atteggiamento, sia come comportamento, sia pure come dottrina, al momento della ricerca non di un assoluto ma... di uno "scioglimento" da un determinato "mondo", e a considerare le vie che sono usate a questo scopo come offerte proprio e soltanto da quel mondo ".4

Sebbene ogni tentativo di circoscrivere un minimum capace di definire il più ampio spettro di fenomeni sia sempre soggetto al rischio di un certo riduzionismo ovvero tenda a privilegiare un aspetto, per quanto importante, dei fenomeni in oggetto a scapito di altri egualmente rilevanti, la definizione proposta dal Sabbatucci, senza dubbio, puntualizza un aspetto importante della fenomenologia del " mistico " e si rivela utile quale strumento di indagine in un campo estremamente complesso come quello in esame. Tuttavia, abbiamo ora insistito sulla posizione dello studioso non per privilegiarla su altre, che in sede fenomenologica potrebbero offrire ulteriori elementi altrettanto proficui alla ricerca, ma perché essa costituisce premessa e fondamento ad un'analisi dei fatti religiosi greci, definibili appunto " mistici " in relazione al parametro così individuato. Tali sono, nella prospettiva del Sabbatucci, sia i misteri di Eleusi e dei grandi dei di Samotracia, sia l'orfismo in quanto tradizione che reinterpreta certi elementi del dionisismo in funzione " antimondana ".

In questa sede intendiamo, peraltro, seguire un diverso itinerario e, prescindendo da definizioni previe, cercare di circoscrivere aspetti e contenuti di quei fenomeni religiosi greci che rientrano nella sfera semantica del " mistico " per individuarne la specificità e l'interna articolazione. " E ciò al fine - come abbiamo avuto modo di notare in altra sede - di verificare se sussistano precise motivazioni storico-religiose della circostanza, già per sé significativa e non riducibile al piano puramente terminologico, dell'utilizzazione dell'aggettivo mystikós, pertinente appunto alla sfera dei mysteria, per esprimere un tipo di esperienza religiosa di natura specialissima, quale è quella definita mistica secondo il vocabolario rispettivo delle moderne lingue occidentali".5

I. I mysteria greci: origine e caratteri del linguaggio mistico. I documenti più antichi che registrano il termine " mysteria " risultano pertinenti in larga parte al culto celebrato in onore della coppia divina costituita da Demetra e Kore-Persefone, rispettivamente madre e figlia, celebrato nella cittadina attica di Eleusi, presso Atene. Quest'ultima, a partire da una certa epoca (sec. VI a.C.), esercitò la propria sovrintendenza sui locali " misteri ", divenendo così essi uno dei più importanti culti ufficiali ateniesi.

L'area semantica relativa a tale culto comprende anche l'aggettivo " mystikos ", il sostantivo " mystes " e il verbo " myeo ", accomunati dalla radice " my ", che già in antico fu messa in rapporto con il verbo " myo " " chiudo ", usato anche in senso assoluto come equivalente a " chiudere la bocca " o " chiudere gli occhi ". In tale etimologia, che i moderni glottologi accettano come sostanzialmente corretta, fu individuato il fondamento stesso della speciale qualità dei riti relativi. Un antico lessicografo, infatti, dichiara che i misteri furono così " chiamati per il fatto che coloro che ascoltavano dovevano chiudere la bocca e non spiegare ad alcuno quelle cose " (Suida s.v.).

Il verbo myeo esprime l'azione sacra che ha come oggetto il fedele e che lo costituisce, al termine di un iter rituale segreto, nella condizione di mystes ovvero ho myoumenos, ossia " iniziato ", essendo tale azione espressa dal termine myesis, " iniziazione ". Quest'ultimo termine e il verbo connesso (" iniziare ") traducono nelle moderne lingue occidentali i termini latini initium e initiare con cui appunto furono resi i corrispondenti etimi greci. Incerto è il significato della terminazione (- terion) del sostantivo mysterion che, solitamente nella forma plurale (mysteria), designa un complesso cultuale a carattere esoterico e iniziatico, quale appunto quello di Eleusi e altri analoghi complessi rituali greci. Tra questi, in particolare, si può ricordare il culto dei Grandi Dei nell'isola di Samotracia, egualmente designato da Erodoto (Hist. VIII, 65) come mysteria e caratterizzato dall'esoterismo e dalla prassi rituale iniziatica.

Il più antico documento relativo ai misteri eleusini, ossia l'inno a Demetra pseudo-omerico databile intorno al 600 a.C., illustra altre dimensioni costitutive del fenomeno misterico e offre materia alla definizione di una tipologia i cui aspetti ed elementi essenziali sono riscontrabili in altri contesti sia greci sia pertinenti alle tradizioni religiose vicino-orientali. Esso, infatti, conferma la specifica qualità esoterica dei riti, affermando che non è dato " trasgredirli né penetrarli né divulgarli ", poiché il sacro rispetto per le due dee " trattiene la voce " (Inno vv. 476-479). L'esperienza religiosa del fedele che partecipa al culto eleusino si definisce per questa via come esperienza fortemente personalistica, sia perché frutto di una scelta individuale, non imposta dall'appartenenza ad una comunità cittadina, come nel caso di tutti gli altri culti ufficiali della polis, sia perché impegna l'individuo all'osservanza di un segreto inerente alla sacralità medesima del culto e allo speciale rapporto in esso instaurato con le personalità divine che ne sono l'oggetto.

Il testo in questione e numerosi indizi contenuti nel resto della nostra documentazione, estremamente reticente da parte pagana, polemica e dissacratrice da parte cristiana, di fatto rivelano le profonde connessioni del culto misterico eleusino con una drammatica vicenda divina, quella appunto che vede protagoniste le due dee (rapimento di Kore, lutto e ricerca da parte della madre, felice soluzione con il ritorno, sia pure periodico, della figlia). E ciò nel senso che l'iniziato, nel corso dell'esperienza cultuale, rievoca - in forme peraltro a noi in gran parte sconosciute - quella vicenda, con i suoi pathe, la sua profonda passionale drammaticità di tipo umano.

Ancora, lo stesso Inno indica che l'obiettivo del culto è l'ottenimento da parte del fedele di un rapporto di familiarità con la grande dea della cerealicoltura, Demetra, e con la sovrana degli inferi, Persefone, che ne sono le titolari a garanzia di un benessere per la vita presente e quella futura. Egli, infatti, è proclamato " felice e fortunato " (olbios), perché le due dee lo " amano con animo propizio " e inviano ricchezza al suo focolare; in pari tempo, quando discenderà nell'oscura tenebra, otterrà una " buona parte ", di cui non partecipano i non iniziati. Altre fonti definiscono come " un vivere " (Sofocle fr. 753 Nauck) questa condizione ultramondana ovvero come un'eterna e beata ripetizione del culto in un'atmosfera di luminosità (Aristofane, Rane 154-163; 311-459). La " felicità " dell'iniziato si configura talora come una " conoscenza " non peraltro intellettuale e discorsiva bensì esistenziale, in quanto riguarda i fondamenti stessi della condizione umana: " La fine della vita e il suo inizio dato da Zeus " (Pindaro fr. 137 Schroeder).

Tale beatitudine, pur proiettata in prospettiva escatologica, investe peraltro tutta l'esperienza vitale dell'individuo che, in virtù della partecipazione ai misteri, consegue quelle " buone speranze " che illuminano la sua intera esistenza permettendogli di guardare alla morte con serenità, nella certezza della " buona parte " che gli è garantita (Isocrate, Paneg. 28).

A definire l'esperienza misterica intervengono ancora almeno due elementi costitutivi, il primo dei quali è rappresentato dalla componenete catartica, soprattutto pertinenete all'iter rituale, scandito da astensioni alimentari e cerimonie di purificazione varie, ma non disgiunto da valenze religiose ed etiche, sviluppate nel corso di un lungo processo storico e forse anche per influsso orfico, ma già attive nell'Atene del sec. V a.C. se Aristofane può insistere sulla qualità di " pii " propria degli iniziati eleusini.

Il secondo essenziale elemento che dà ragione di quel processo di trasposizione della terminologia e della simbologia misterica ad esperienze conoscitive e spirituali che si definiranno " mistiche " in senso più ampio, quale ha inizio con Platone e si prolunga in tutta la tradizione platonica per trasferirsi, con modalità e accezioni peculiari, in ambito cristiano contribuendo a definire il linguaggio stesso " della mistica " nelle sue diverse espressioni storiche, è costituito infine dal carattere tipicamente " visivo " dell'esperienza misterica, definita in radice dall'immediatezza e dalla dimensione partecipativa, " patetica ", della sua realizzazione.

Il fondamentale dato del " vedere " come qualificante il ruolo dell'iniziato emerge già dall'Inno pseudo-omerico quando proclama " beato colui che ha visto " i sacri riti e dalla stessa definizione dell'ultimo, supremo atto dell'iter misterico come epopteia (" visione "), essendo il mista del secondo grado appunto epoptes " colui che ha visto ". Tale elemento è illustrato in un passo aristotelico della perduta opera Sulla filosofia. Qui il filosofo ateniese affermava " che coloro che sono iniziati non devono apprendere qualche cosa, bensì provare delle emozioni ed essere posti in certe disposizioni, evidentemente dopo essere divenuti capaci di riceverle " (fr. 15 Rose).

L'opposizione del mathein, proprio del processo logico-discorsivo dell'apprendimento razionale, al pathein misterico che circoscrive il carattere sperimentale e immediato del processo iniziatico, si qualifica ulteriormente nel seguito del discorso aristotelico quando definisce " del tipo dei misteri " l'illuminazione improvvisa dell'intelletto che permette di raggiungere le verità più alte, così come si verificava nel corso dell'iniziazione eleusina, nella quale " l'iniziato riceveva delle impressioni dalle visioni, non un insegnamento " (J. Croissant 1932, pp. 137-146).

In conclusione, dal complesso delle fonti i mysteria eleusini emergono quale struttura mitico-rituale omogenea, alla quale si accede attraverso una myesis finalizzata a rendere quanti liberamente scelgono di compiere tale esperienza religiosa epitedeioi, ossia atti a ricevere i typoi, " le impressioni " prodotte dall'azione misterica. Questa è primariamente caratterizzata dal momento sperimentale, visivo, in un alterno moto di timore e di gioia, di tenebra e di luce in sintonia con una " patetica " vicenda divina rievocata ritualmente, e culmina, in un contesto di luminosità, nel momento risolutivo della contemplazione " epoptica ". Essa è esoterica, riservata ai soli iniziati, definendosi come un arrheton in senso duplice, in quanto " non dev'essere detta " ed è " indicibile ", ossia non può essere comunicata a quanti non ne hanno fatto l'esperienza diretta.

Instaurazione di un intimo rapporto di familiarità con le personalità divine oggetto del culto, acquisizione di una " conoscenza " esistenziale che illumina di sé tutto intero l'arco dell'esistenza e permette di guardare senza timore alla morte sono, infine, i " benefici " elargiti all'iniziato dall'esperienza " mistica " vissuta all'interno della prassi rituale esoterica dei mysteria eleusini.

Non è possibile in questa sede illustrare in dettaglio tutti i fenomeni che, all'interno del mondo greco e nelle culture vicino-orientali, possono essere situati nella medesima categoria tipologica dei mysteria ovvero presentano più o meno qualificate analogie con essa. Diciamo soltanto che precise connotazioni " mistiche ", nel senso di aspetti ed elementi specifici dell'esperienza religiosa realizzata nel quadro del culto misterico eleusino assunto qui a parametro dell'area semantica e dei relativi contenuti religiosi coperti dal termine in questione, sono individuabili in complessi cultuali greci, quali il dionisismo, che non presentano, almeno nelle loro più antiche manifestazioni, la struttura esoterica e iniziatica, ma tuttavia realizzano, nelle forme della mania, il divino invasamento ritualmente procurato, e dell'enthousiasmòs un rapporto di interferenza tra piano divino e piano umano analogo a quello che si attua nei misteri. Anche complessi mitico-rituali di origine orientale, come quello delle divinità anatoliche Cibele e Attis, degli egiziani Osiride e Iside nelle loro forme originarie, che contemplano una drammatica vicenda di presena-assenza, di morte e restaurazione in una condizione più stabile e garantita, la quale è rievocata dai fedeli in cerimonie pubbliche con alternanza di manifestazioni luttuose e gioiose presentano degli aspetti più o meno fortemente analoghi a quelli greci definiti mysteria sotto il profilo della vivida esperienza religiosa di partecipazione ad una " passione " divina vissuta dai fedeli. Anche questi complessi religiosi, verosimilmente per influsso del tipo dei misteri greci, in età tardo-ellenistica assunsero la forma esoterico-iniziatica che caratterizza questi ultimi e, insieme con nuove " creazioni " misteriche quale il mitraismo di età imperiale romana, dalle radici iraniche (U. Bianchi 1979; U.Bianchi - M.J. Vermaseren 1982), esprimono e coagulano attorno a sé le istanze religiose di quanti, nell'ambito delle culture tradizionali del mondo ellenistico-romano nei primi secoli d.C., ricercano un rapporto diretto e una " simpatetica " comunicabilità con il livello divino all'interno di una prassi cultuale riservata ai gruppi specializzati.

In tal senso è paradigmatica l'esperienza dell'eroe delle Metamorfosi di Apuleio ( 180 ca.), nella sua totale dedizione alla dea Iside conseguente all'esperienza misterica, allusivamente evocata come accesso alla soglia della morte, di " viaggio " visionario di respiro cosmico, di contatto diretto con le divinità infere e celesti (Met. XI).

II. Il linguaggio " mistico e la filosofia: metafora e struttura di un'esperienza religiosa. La notevole popolarità dei fenomeni misterici nella Grecia classica e nell'oikoumene mediterranea in età ellenistica e imperiale romana si riflette nell'uso assai frequente di linguaggio e figure mutuati dalla sfera semantica e concettuale di tali fenomeni nelle più diverse espressioni letterarie. Al di là di un uso puramente metaforico della terminologia misterica, tuttavia, è significativo individuare una specifica tradizione al cui interno l'utilizzazione della semantica " mistica " si coniuga all'assunzione di schemi concettuali e di contenuti religiosi tipici dell'esperienza ad essa soggiacente. Ne risulta la possibilità di percepire una certa continuità, quanto a struttura e contenuti, tra il fenomeno cultuale dei mysteria e l'istanza spirituale e religiosa tesa all'instaurazione di un contatto diretto e di una piena comunicabilità dell'uomo con il livello trascendente sia esso inteso sotto il profilo prevalentemente intellettuale della conoscenza sia piuttosto ricercato al fine di un rapporto religioso, " unitivo " con la divinità.

In altri termini, si vuole vedere se, oltre ad un patrimonio lessicale specifico, i fenomeni religiosi greci omologabili nella categoria " mistico-misterica ", abbiano fornito allo stesso mondo greco e, per suo tramite, all'intera oikoumene ellenistica tardo-antica una serie di strutture concettuali a cui ancorare e mediante le quali esprimere un'esperienza religiosa peculiare, quella appunto " mistica ", la quale peraltro ha contenuti e qualità suoi propri, certo non riducibili a quei fenomeni nella loro tipica dimensione cultuale né tantomeno da essi " derivati ". In questa problematica risulta coinvolta la stessa tradizione cristiana, notoriamente nutrita dall'esperienza filosofica greca, sicché si pone la questione di valutare il significato e il peso storico delle analogie, nel linguaggio e negli schemi concettuali, non certo nei contenuti, fra la tradizione cultuale greca dei fenomeni misterici, mediata dal linguaggio e dall'esperienza intellettuale e religiosa di certi ambienti filosofici, e le più antiche espressioni della " mistica " cristiana soprattutto nella forma attestata da Dionigi Areopagita.

Il problema è complesso e delicato. Basti solo avervi accennato per sottolineare l'interesse storico-religioso di un'adeguata attenzione al fenomeno " mistico " greco-ellenistico in tutte le sue diverse espressioni.

Come è noto, Platone è il primo autore che decisamente assume l'esperienza misterica, quale per un ateniese era sostanzialmente quella eleusina, come modulo privilegiato di rappresentazione del fine supremo dell'uomo, ossia la conoscenza della realtà trascendente del mondo intellegibile (E. Des Places 1981). In particolare, due testi decisivi del Fedro (248b-250c) e del Convito (209e-210a) mostrano la trasposizione del linguaggio e della simbologia dei misteri ad esprimere un evento intellettuale e religioso di rilevanza " mistica " assai forte. Nel primo caso si attua una convergenza profonda tra l'esperienza cultuale dei mysteria e quella intellettuale dell'immediata percezione dell'intelligibile, qui definito nella sua dimensione del bello. Si tratta della " contemplazione " di tale suprema realtà goduta dalle anime nella loro condizione pre-mondana. Essa è interamente calata nei moduli dell'esperienza misterica, sicché sotto il profilo semantico e strutturale non può essere avulsa da tali moduli, essendo tutto il quadro articolato sul tema della visione, in un contesto di luminosità. Appunto da siffatta visione scaturisce la perfetta beatitudine delle anime nell'iperuranio, nell'attuazione di un contatto diretto con l'oggetto della visione medesima.

Nel Convito esperienza misterica e modalità della conoscenza del bello sono profondamente omologate nelle loro modalità e nei loro risultati: dopo un processo graduale di approccio alla realtà trascendente, che riflette la tipica gradualità del processo iniziatico, quella realtà diventa accessibile all'uomo solo attraverso il salto qualitativo realizzato dalla repentina e diretta rivelazione del sommo principio, espressa nelle forme di un'illuminazione " epoptica ".

Infine nell'Epinomis (968c-d), sia essa opera di Platone o più verosimilmente del suo discepolo Filippo di Opunte, la terminologia e gli schemi simbolici misterici sono utilizzati per esprimere quella particolare esperienza " mistica " di respiro cosmico che caratterizzerà tanta parte della spiritualità ellenistica. Si tratta della contemplazione beatificante dell'ordine cosmico espresso nei regolari movimenti dei corpi astrali che nutre di sé ampi settori della religiosità tardo-antica e che realizza quella forma di " misticismo cosmico " così acutamente analizzato dal Festugière.

III. Da Plotino a Proclo ( 485): aspetti della mistica neoplatonica. Una forte dimensione religiosa caratterizza il vasto e denso orizzonte intellettuale costruito da Plotino su un terreno di tradizione platonica. Di essa è stata nettamente definita la componenete " mistica ", peculiarmente qualificata dai suoi fondamenti logico-razionali e dal suo obiettivo in senso " unitivo ". L'anima intelligente, allontanandosi dalla molteplicità in cui è caduta a causa della primordiale frattura dell'unità originaria, muove - in un graduale processo conoscitivo e catartico insieme - verso l'Uno, il primo principio di tutta la realtà. Questo obiettivo, assai difficile da perseguire, sbocca in un'estasi implicante il contatto " da solo a solo " con l'Uno, una contemplazione di questo principio sovra-razionale possibile quando l'anima medesima sia divenuta " tutta intelligenza ". L'unione dell'anima all'Uno, in un movimento unitivo-intuitivo, è peraltro un evento eccezionale che lo stesso Plotino avrebbe sperimentato, secondo la testimonianza di Porfirio ( 305 ca.), soltanto quattro volte. Si noterà che tale esperienza eccezionale e beatificante è espressa in termini tipicamente misterici allorché Plotino, per definire l'indicibilità dell'unione mistica realizzata nella contemplazione, la equipara all'obbligo del silenzio imposto nei misteri: " In verità, è perché il divino non può rivelarsi che si rifiuta di mostrarlo a chi non abbia avuto la felicità di vederlo lui stesso " (Enn. VI, 9, 11). Ne risulta che il peculiare arrheton dei misteri è assunto a figura dell'incomunicabilità dell'esperienza unitiva con il divino, mantenendo peraltro tutto il suo senso forte di evento indicibile, di cui non può essere messo a parte chi non lo abbia sperimentato nel concreto nell'iter " mistico ".

Com'è noto, la tradizione neoplatonica, mentre per un verso persiste nella via di una " mistica " perseguita attraverso lo sforzo di elevazione intellettuale, insieme conoscitiva e catartica, per l'altro si apre, in misura diversa secondo i casi, ad esperienze religiose di tipo " operativo " che intendono realizzare la comunione dell'uomo con i livelli divini, fino al più alto, mediante la manipolazione di sostanze materiali, sulla base della nozione di " simpatia " sussistente tra i diversi gradi dell'essere. Queste tecniche operative sono riconducibili all'arte teurgica che conosce diverse applicazioni nel mondo tardo-antico, dalle più fortemente utilitaristiche di stampo francamente magico a quelle che si vogliono più specificatamente religiose e orientate verso l'elevazione graduale agli stessi intelligibili. Così un Porfirio potè accettare tali tecniche, almeno in un periodo pre-plotiniano della sua esperienza culturale e religiosa ovvero, dopo i lunghi anni di contatto con il maestro, considerarle come momento propedeutico alla vera purificazione ed elevazione dell'intelletto umano verso l'Uno, in quanto adatte a " purificare " l'anima inferiore, irrazionale.

Giamblico ( 330), senza rinunziare ai metodi dell'indagine razionale nel processo salvifico che concerne l'anima intelligente, privilegiò fortemente le istanze religiose, sia in rapporto alle speculazioni teologiche sia nella pratica dell'arte teurgica. Nel trattato sui misteri ovvero Lettera ad Abammone, di cui ormai gli si riconosce la paternità, Giamblico indica nella teurgia, quale conoscenza e realizzazione delle pratiche rituali che permettono il contatto con le varie realtà divine, il terreno stesso in cui si compie il processo di " assimilazione a Dio " già definito da Platone come supremo obbiettivo dell'uomo. L'" unione teurgica ", ottenuta attraverso il compimento di " azioni ineffabili " e la manipolazione delle sostanze materiali cui si riconosce valore di " simboli " della realtà divina, ancorché " muti ", si configurano nel " divino " Giamblico come il supremo obiettivo dell'esperienza mistica di elevazione e contatto con il divino. (De myst. II, 11, 96).

Anche Proclo individua nell'arte ieratica la forma suprema di realizzazione dell'unione mistica. Spirito profondamente religioso, il terzo scolarca della rinata scuola platonica di Atene, realizza un'osmosi profonda tra l'esercizio dialettico del pensiero razionale e lo slancio mistico, coniugando l'ideale platonico dell'ascesa dell'intelletto verso l'unione contemplativa con la divinità e la pratica teurgica. Questa è ritenuta strumento efficace di purificazione del " corpo pneumatico " assunto dall'anima nella sua discesa nella materia cosmica e corporea, abituandola al contatto con gli dei e al raggiungimento di una condizione di immaterialità. Proclo manifesta grande devozione verso gli dei tradizionali dei diversi politeismi, ritenuti peraltro espressioni diverse dell'unica essenza divina che ha origine e fondamento nell'Uno ineffabile e inconoscibile. A questo primo principio l'uomo deve aderire con una fede " unitiva " che trascende la pura ragione, ma che ammette la pratica teurgica, in quanto la manipolazione degli elementi materiali si fonda sulla nozione della " simpatia " universale e delle " serie divine ", ossia di linee omogenee di corrispondenze e di rapporti tra elementi diversi ma solidali tra di loro.

Il processo di elevazione dell'intelletto verso l'Uno è scandito dai tre momenti della purificazione, dell'illuminazione e dell'unione, e contempla il passaggio dalla conoscenza razionale all'esperienza di un'illuminazione dell'anima da parte dell'intelletto divino. Questo evento è ancora una volta espresso evocando l'esperienza misterica nel suo tipico carattere visivo, epopteia, che proprio per il suo carattere immediato e " sperimentale " si rivela capace di rappresentare l'indicibilità dell'esperienza mistica. Questa in Proclo si realizza allorché il " fiore dell'intelletto ", l'apice estremo dell'anima, ottiene " l'unificazione ", ossia realizza il contatto con l'Uno permettendo all'uomo di diventare entheos, interamente posseduto dal divino.

Si confermano, in tal modo, l'efficacia e l'incidenza nel lungo e complesso percorso della " mistica " greco-ellenistica del linguaggio e delle strutture fondamentali dell'esperienza religiosa che fin da epoca arcaica i Greci realizzarono all'interno di quei particolari complessi mitico-rituali che sono i mysteria. Tale esperienza naturalmente ha caratteri e contenuti specifici, diversi rispetto alle tante espressioni che segnano quel percorso, ma non è privo di rilevanza storica che essa abbia potuto fornire gli strumenti semantici e alcune delle forme espressive caratteristici, travasati poi e in varia misura trasformati all'interno della nuova e specialissima tradizione mistica cristiana.

Note: 1 Psyche, vol. I, Bari 1914, 296; 2 Saggio sul misticismo greco, 11; 3 Ibid., 21; 4 Ibid., 38; 5 G. Sfameni Gasparro, Dai misteri alla mistica: semantica di una parola, in La Mistica I, 73.

Bibl. R. Arnou, Le desir de Dieu dans la philosophie de Plotin, Paris 1921; U. Bianchi (ed.), Mysteria Mithrae, Leiden-Roma 1980; U. Bianchi - M.I. Vermaseren (edd.), La soteriologia dei culti orientali nell'Impero romano, Leiden 1982; P. Boyancé, Théurgie et telestique neoplatoniciennes, in Revue de l'histoire des religions, 147 (1955), 189-209; W. Burkert, Ancient Mystery Cults, Cambridge Mass. 1987; J. Croissant, Aristote et les mystères, Paris 1932; A.J. Festugière, La révélation d'Hermés Trismégiste I-IV, Paris 1942-1954; Id., Hermétisme et mystique païenne, Paris 1967; Id., Contemplation philosophique et art théurgique chez Proclus, in Aa.Vv., Studi di storia religiosa della tarda antichità, Messina 1968, 7-18; G.E. Mylonas, Eleusis and the Eleusinian Mysteries, Princeton 1961; A.D. Nock, Early Gentile Cristianity and its Hellenistic Background, New York-Evanston-London 1964; É. des Places, Platonismo e tradizione cristiana, Milano 1976; Id., Etudes platoniciennes 1929-1979, Leiden 1981; D. Sabbatucci, Saggio sul misticismo greco, Roma 19792; G. Sfameni Gasparro, Dai misteri alla mistica: Semantica di una parola, in La Mistica I, 73-113; Ead., Soteriology and Mystic Aspects in the Cult of Cybele and Attis, Leiden 1985; Ead., Misteri e culti mistici di Demetra, Roma 1986; J. Trouillard, La purification plotinienne, Paris 1955; Id., La mystagogie de Proclôs, Paris 1982; N. Turchi, Fontes historiae mysteriorum hellenistici, Roma 1930.

G. Sfameni Gasparro

MISTICA INDIANA. (inizio)

I. Con il termine mistica, tipico della tradizione greco-occidentale, noi traduciamo, in riferimento alle religioni indiane, una complessità di esperienze diverse, a partire dalla " dottrina segreta " delle Upanishad fino allo yoga con le sue varie ramificazioni nelle diverse scuole filosofiche, o nei vari sistemi (darsana). Il termine mistica può, comunque, essere inteso come suprema realizzazione spirituale, senza con ciò livellare le diverse esperienze supponendole identiche per intensità e qualità.

II. Classificazioni e tipologie. La stessa tradizione indiana propone diverse tipologie per classificare la propria mistica. Lo storico della filosofia indiana S. N. Dasgupta proponeva una suddivisione in misticismo sacrificale (o vedico), mistica delle Upanishad, mistica dello yoga, mistica devozionale (bhakti) e misticismo devozionale popolare. Tale classifica si riferisce, evidentemente, ai mezzi per raggiungere la realizzazione suprema dello spirito.

Un'altra classificazione, che si riferisce all'oggetto di esperienza mistica è quella, ormai classica di mistica del Sé (Atman), mistica dell'Assoluto e mistica dell'amore di Dio. Tali ripartizioni si riferiscono all'auto-percezione dello spirito (Atman o Purusha) o alla presenza di Dio in noi, sia egli concepito in modo personale o impersonale.

Si possono, inoltre, proporre anche tipologie che tengano conto dei punti di partenza del cammino spirituale che può passare attraverso i segni, ossia attraverso una sacramentalità cosmica o liturgica, e, per mezzo di essa, giungere ad una intensità di unione con Dio (qualunque sia il nome con cui Egli venga designato) tale da ottenere l'immediatezza dell'esperienza suprema. Diversa invece è la via speculativa che parte da una ricerca intellettuale, anche razionale, filosofica, e perviene poi ad una esperienza mistica (anubha) che supera la stessa discorsività del pensiero. Chiameremo più specificamente apofatica quella mistica, o meglio, quella via che, inizialmente e programmaticamente, prescinde dalla considerazione di contenuti metafisici e, superando la logica, si affida esclusivamente alla meditazione, come è il caso di alcune scuole dello Yoga, sia esso buddhista, indù, jainista, oppure tantrico, anche se il Tantrismo ha un carattere ritualistico ed esoterico tale da non poter essere facilmente ricondotto a tipologie generalizzabili.

E lecito, inoltre, parlare di una mistica " spontanea ", ossia non preceduta né da una iniziazione (tramite un maestro o una scuola religiosa) né tramite un metodo specifico di meditazione o l'apprendimento di una dottrina determinata. E una mistica che si può realizzare anche per " folgorazione " o per una sorta di " elezione ". Basti pensare a ciò che si legge in un celebre passo upanishadico che dice: " L'Atman non può essere raggiunto né dallo studio del Veda, né dall'intelletto, né dal molto apprendere; ma è raggiunto da colui che egli stesso sceglie: a costui l'Atman rivela la propria natura " (Katha-upanishad I, 2,23. Cf Mundaka-upanishad II, 2,3.1). In queste parole è stato ravvisato l'intervento di una grazia divina, grazia che non è sconosciuta anche ad altre correnti della religiosità indiana, da quelle devozionali a quelle di tipo tantrico (in queste ultime, tuttavia, la grazia divina " discende " in particolari circostanze di tipo rituale).

III. Manifestazioni straordinarie. La mancanza di un magistero unitario e di una dottrina omogenea dell'Induismo (ma lo stesso si può dire del Buddismo o di altre dottrine eterodosse dell'India) ha reso difficile fissare criteri oggettivi per stabilire ciò che è autentico e ciò che non lo è. Va comunque detto, anzitutto, che le manifestazioni straordinarie che possono avvenire in uno yogin, ad esempio, che abbia conseguito certi poteri (siddha) non sono criterio sufficiente per stabilire il grado di realizzazione spirituale del medesimo. Anche la trasmissione dell'insegnamento religioso da maestro a discepolo avviene direttamente, all'interno di ciascuna scuola, o anche al di fuori delle scuole tradizionali, senza appello ad alcuna autorità superiore. Non è facile, dunque, distinguere il buono dal cattivo maestro, o il santo dal mistificatore. Il vero maestro lo si conosce anzitutto dal suo comportamento, vale a dire dal suo distacco, dal suo autodominio, dalla sua umiltà, ovvero dalla sua assenza di ostentazione, dalla sua pace, dalla sua ascesi.

La qualità delle dottrine professate non può essere criterio universale per distinguere, sul piano spirituale, ciò che è autentico da ciò che non lo è. La validità di una dottrina religiosa è stabilita in base alla efficacia e ai frutti che essa dà. Così ogni maestro è conosciuto, come l'albero buono, dai suoi frutti. Ovunque siano pace, non violenza, amore, compassione, gioia, ivi si riconosce la presenza dello spirito, o la presenza di Dio, o la luce di una illuminazione. Vi sono tratti comuni, sul piano etico, tali da poter giudicare ciò che è buono e ciò che è cattivo. All'interno di ogni scuola è tradizione, poi, attenersi anche alla ortodossia delle formulazioni dottrinali che caratterizzano la scuola medesima.

L'odierna prassi indiana conferisce a ciascuna religione e a ciascuna scuola di spiritualità un valore relativo, anche se tutte poi convergono verso un'unica meta suprema.

La Bhagavad-g_t_, che è uno dei più noti testi dell'Induismo, propone le tre classiche vie di realizzazione spirituale: karma-yoga, jñ_na-yoga e bhakti-yoga, a seconda che si privilegi l'azione, la conoscenza o la devozione. Alcuni dei grandi rappresentanti dei suddetti tre tipi di mistica nel nostro tempo sono, rispettivamente, il Mah_tma Gandhi, che amava definirsi un karmayogin, Ramana Maharshi e Sri Aurobindo (morti entrambi nel 1950) che possono essere classificati come jñ_na-yogin e Ananda-mayi Ma, mistica bengalese (morta nel 1982) grande maestra della bhakti intesa come amore fervente a Dio, realizzato in completa dedizione e nello spirito di preghiera espressa anche in canti (bhajana) e manifestazioni corali di gioia.

IV. Il linguaggio. E importante, inoltre, cercare una valutazione del linguaggio dei mistici indiani. Alcuni di loro se ne stanno silenziosi e vivono o come eremiti o come monaci itineranti senza perciò essere maestri spirituali e senza manifestare - se non con la loro irradiante presenza, a chi ha occasione di incontrarli - la loro esperienza mistica. Altri, invece, hanno discepoli che li sollecitano a parlare. E se alcuni di essi hanno un pensiero e un linguaggio abbastanza chiari per farsi comprendere, a volte può accadere il contrario, per carenza di categorie espressive, e vi può essere allora un discepolo, più colto del maestro, a farsi interprete della sua esperienza, magari alterandola, anche se in tutta buona fede. Gli esempi potrebbero essere numerosi, ma basti pensare ad un Vivekananda nei confronti del mistico bengalese del secolo scorso: Ramakrishna.

V. Comparazione mistica indiana e cristiana. I tentativi occidentali per confrontare la mistica indiana con quella cristiana, introducendo, ad esempio, i criteri di mistica naturale e mistica soprannaturale si sono rivelati inidonei e insufficienti giacché non è difficile intuire che, se di vera mistica si tratta, non si può parlare di sola natura o di tecniche puramente umane. Il confine tra l'umano e il divino non può essere stabilito né da osservazione esterna, né in base ad analisi del linguaggio dei mistici e della loro rispondenza a determinate dottrine stabilite come ortodosse. Analogamente è impossibile stabilire se vi sia un tipo di mistica superiore ad un'altra, come ha fatto H. Bergson a favore della mistica " dinamica " considerata più completa, tipica del cristianesimo. In realtà, troviamo anche in India esempi di mistica dinamica, se si pensa non solo al Mah_tma Gandhi, ma anche ai suoi prosecutori, come Vinoba Bhave (morto nel 1983) ed altri ancora, esempi di pura dedizione a Dio e al prossimo.

In riferimento al mondo indiano non si possono usare criteri di valutazione tratti dalla sfera dogmatica di altre religioni. Né si devono contrapporre religioni monoteistiche e non monoteistiche, anzitutto perché l'Induismo, nel suo auto-comprendersi odierno si considera religione monoteistica, pur accettando, in spirito di tolleranza anche il valore mistico di altre religioni nate in India e non teistiche quali il Buddismo e il Jainismo.

Il discorso relativo a ciò che metafisicamente si può classificare come monismo, panteismo, teismo, et similia non concerne la mistica qua talis, cioè in quanto realizzazione suprema. I reiterati tentativi occidentali di sottovalutare o ridurre la mistica indiana confrontandola con quella cristiana, ebraica od anche musulmana tradiscono pregiudizi e inadeguata conoscenza del vasto e ricco mondo dell'Induismo nella sua storia plurimillenaria.

Va ricordato, inoltre, che ogni tipo di mistica suppone sempre un'etica e un certo tipo di ascesi, anche se certe norme possono variare da una scuola all'altra. Nell'India odierna si riscontra, comunque, una convergenza di valori. E in ciò si può constatare la tendenza a condannare eventuali abusi, a smascherare i " falsi profeti " e a denunciare i pericoli là dove si riscontra che certe tecniche o certi riti (specie quelli tantrici) possono costituire un danno per l'individuo e per la società.

Le vie regie per la realizzazione suprema restano sempre quelle del compimento del proprio dovere, la preghiera, la meditazione, l'amore del prossimo, il rispetto della vita, il distacco dal proprio egoismo, la tolleranza e la non violenza: insegnamenti che valgono per tutti e aprono anche la via al dialogo interreligioso del nostro tempo.

Bibl. Aa.Vv., Il Mahatma Gandhi, teoria e prassi di un educatore, Milano 1994; D. Acharuparambil, Spiritualità e mistica indú. Introduzione all'Induismo, Roma 1982; Id., L'induismo, in La Mistica II, 527-568; S. Basu, Modern Indian Mysticism. A Comparative and Critical Study, 3 voll., Varanasi 1974; M. Burgi Kyriazi, Ramana Maharshi, ou l'expérience de l'être, Paris 1975; C. Conio, Mistica indiana. Problemi interpretativi e prospettive ecumeniche, in Aa.Vv. Mistica e misticismo oggi, Roma 1979, 151-162; Ead., Induismo, in NDS, 762-771; E. Cornélis, Principali aspetti della mistica indiana, in J.-M. van Cangh (cura di), La mistica, Bologna 1991, 109-119; S.N. Dasgupta, Hindu Mysticism, Delhi 1976 (ristampa del 1926); M. Dhavamony, Tipology of Hindu Mysticism, in Studia Missionalia, 26 (1977), 237-285; J. Dupuis, Gesù Cristo incontro alle religioni, Assisi (PG) 1989; B. Griffiths, Ritorno al Centro, Brescia 1990; H. Le Saux, Tradizione indù, mistero trinitario, Bologna 1989; E. Masutti, Mistica induista e mistica cristiana. L'uno e il molteplice, Roma 1994; G. Milanetti, Il divino amante: la pratica spirituale indiana della via d'amore, Roma 1976; J. Monchanin, Mistica dell'India, mistero cristiano, Genova 1992; R. Otto, Mistica orientale e mistica occidentale: interpretazione e confronto, Casale Monferrato (AL) 1985; C.B. Papali, Induismo, in DES II, 1301-1308; F. Staal, Introduzione allo studio del misticismo orientale e occidentale, Roma 1976.

C. Conio

MISTICA ISLAMICA. (inizio)

Premesse. Nell'Islam esistono due principi fondamentali: l'unicità di Dio, Creatore dell'universo, e la missione profetica di Mohammad. Ogni musulmano professa la propria fede in questi due principi. Quanto al non musulmano, con la semplice accettazione dei medesimi, egli è accolto nell'Islam. Il riconoscimento della missione di Mohammad comporta naturalmente quello della missione di tutti i profeti che lo hanno preceduto, da Adamo a Noè, ad Abramo, a Mosè, a Gesù e a tutti gli altri inviati, il nome di molti dei quali è citato nei testi sacri. Dal punto di vista dell'Islam si tratta di individui eccelsi, eletti da Dio perché comunicassero il suo messaggio agli uomini. Essi godono, quindi, del massimo rispetto e della più profonda venerazione.

Nella concezione islamica alcuni di questi profeti recarono un Libro Sacro, nel senso che misero a disposizione dei propri seguaci un complesso codificato di precetti e di insegnamenti divini. Così la Torà è il libro di Mosè e degli altri profeti israeliti; il Vangelo è il libro di Gesù; il Corano è il libro di Mohammad. Secondo l'Islam, il Corano è testuale Parola divina e non espressione umana di concetti ispirati da Dio. Da questo punto di vista, quindi, la concezione islamica del Corano si differenzia da quella dei seguaci di altre religioni monoteistiche riguardo ai loro testi sacri. Il Corano, nel complesso, è più assimilabile alla persona di Gesù, il Logos, così come è concepito dai cristiani, che non al Vangelo, il quale nella concezione islamica si avvicina più ai testi di tradizione profetica che non al Corano. Tali testi contengono, infatti, notizie su detti enunciati dai profeti o su fatti da essi compiuti per ispirazione divina, proprio come avviene nel Vangelo riguardo a Gesù.

Con queste premesse si possono comprendere il valore e l'importanza che il Corano ha avuto nella formazione dell'ideologia islamica nella sua interezza e completezza. A prescindere dal valore spirituale, questo Libro Sacro, eterno e prezioso pegno divino, illustra in generale la concezione teologica, antropologica, ontologica dell'Islam. Esso, inoltre, contiene quei principi teorici e quelle regole pratiche che sono alla base della fede e del comportamento di un musulmano.

I. Cos'è l'Islam. Islam letteralmente, significa sottomissione. Anche la scelta di tale parola rivela l'essenza di questa religione, nel senso che il messaggio ultimo di essa è l'invito rivolto all'uomo a uniformarsi alla volontà divina, a essere in armonia con il Creatore dell'universo e con il creato, che è stato posto in essere grazie alla volontà, alla giustizia, al potere, alla saggezza e alla misericordia di Dio.

Queste peculiarità hanno conferito all'Islam un carattere profondamente mistico, favorendo, già dal suo sorgere e poi nel periodo dell'espansione, il manifestarsi tra i musulmani di tendenze gnostiche.

Inoltre, il Corano, così come molti altri testi islamici, contiene espressioni profonde e incisive su Dio, l'essenza e gli attributi divini, la natura e il fine dell'esistente nella sua relazione con Dio, l'uomo e le sue caratteristiche, le ragioni della creazione, i rapporti tra Dio, l'esistente e l'uomo.

II. La m. affonda le sue radici proprio nella meditazione teologica. Senza dubbio essa, nel processo di sviluppo soprattutto dalla fine del II secolo dell'Egira in poi, ha subito l'influsso gnostico e filosofico di altre culture. Ciò nonostante, principalmente grazie alla ricchezza spirituale caratteristica dell'Islam, ha potuto sempre conservare il proprio aspetto originario.

Nella mistica islamica si possono individuare due aspetti, uno teorico e un altro pratico. Il primo analizza l'esistente e affronta argomenti quali quello della divinità, dell'universo e dell'uomo. Esso, dunque, per quanto riguarda l'oggetto della speculazione, non si discosta dalla filosofia islamica. La differenza consiste nel fatto che mentre le argomentazioni filosofiche si basano solo su principi ed elementi razionali, quelle del mistico sono il risultato di scoperte ed esperienze interiori percepite nel profondo del suo essere. La differenza risiede, quindi, nelle modalità dell'approccio, perché sia il filosofo sia il mistico, nell'edificazione del proprio sistema, si servono entrambi di una metodologia razionale. Tuttavia, proprio il diverso approccio, cui si è accennato sopra, comporta una profonda differenza nelle due concezioni ontologiche. Così, per esempio, nel sistema filosofico sia Dio che il creato sono dotati di un'esistenza reale, pur essendo Dio l'Essere necessario, sussistente di per sé, e il creato un essere contingente, la cui esistenza proviene dall'Essere necessario. Dal punto di vista del mistico, invece, l'esistenza del creato, pur essendo originata da Dio, non è concepita come giustapposta alla divinità, in quanto l'esistenza di Dio abbraccia tutte le cose, nel senso che ogni essere è manifestazione della sua esistenza e della sua volontà. Di conseguenza, l'esistenza reale, anzi l'unica esistenza reale è quella di Dio, mentre le creature dell'esistenza hanno la parvenza e non l'essenza. E, quindi, nostro errore considerarle dotate di esistenza reale, in quanto si tratta solo di apparenza e non di essenza.

L'altro aspetto, quello pratico, tratta dei rapporti e dei doveri dell'uomo nei confronti di se stesso, di Dio e dell'universo. Esso ha come scopo finale quello di guidare l'individuo verso ciò che nella parte teorica è definito Principio e Fonte dell'esistente, da cui anche l'uomo trae esistenza e alla cui unione per sua natura aspira.

E importante sottolineare che non si tratta solo dell'enunciazione di determinati insegnamenti morali, bensì di condurre passo passo l'uomo alla desiderata unione. Nella concezione mistica, l'uomo, per sua natura, è un essere buono e luminoso, che si è allontanato dalla Fonte di Luce, cadendo nei lacci terreni. Egli anela incessantemente ad elevarsi verso il mondo superiore e a ritornare alla propria origine. La natura e i suoi fenomeni, però, lo imprigionano, mostrandogli l'esistente in modo non conforme al vero.

L'uomo deve, quindi, acquistare una vista acuta e penetrante, così da scorgere la realtà delle cose avvicinandosi alla Fonte dell'esistente e annullandosi in essa. A tanto si dedica la mistica nella parte pratica. Essa dice all'uomo come agire, come percorrere le varie stazioni della perfezione spirituale, quali maestri e quali metodi seguire, come tradurre in atto le proprie capacità potenziali. In questo modo, l'uomo potrà entrare in empatia con ciò che è oggetto del suo desiderio, avvicinarsi alla Divinità, raggiungendo cioè la stazione dell'unione.

Bibl. 'Ali Hassan 'Abdel-Kader, The Life, Personality and Writings of al-Junayd, London 1962; C. Anawati e L. Gardet, Mystique musulmane; aspects et tendances, expériences et techniques, Paris 1961; H. Corbin, L'imagination créatrice dans le soufisme d'Ibn Arabi, Paris 1958; Hujwiri, The Kashf al-Mahjub, Leiden 1911; Ibn 'Arabi, La sagesse des prophètes, Paris 1955; Jami, Lawa'ih. A Treatise on Sufism., London 1914; L. Massignon, La passion d'al-Hallaj, Paris 1922; Rumi, Mathnawi, London 1925-1940; Ruzbehan Baqli Shirazi, Le Jasmin des Fidèles d'Amour (Kitab 'Abhar al-'Ashiqin), Paris 1958; M. Smith, Rabi'a the Mystic and her Fellow-saints in Islam, Cambridge 1928; Sulami, Kitab Tabaqat al-sufiyya, Leiden 1960.

M. Masjed Jame'i

Home | A | B | C | D | E | F | G - H | I - K | L | M | N - O | P | Q - R | S | T - U | V - W - Z | Esci | Mappa generale del sito
Torna ai contenuti | Torna al menu