Termine fondamentale d’ogni metafisica, è allo stesso tempo un termine assai flessibile che può variare da un minimo di comprensione, quando si limita a significare la presenza o posizione di una cosa, fino a una comprensione sconfinata che abbraccia tutte le perfezioni e tutti i modi di essere.
La metafisica di S. Tommaso è essenzialmente metafisica dell’essere (vedi: METAFISICA) non metafisica delle Idee (Platone), delle forme e delle sostanze (Aristotele), dell’Uno (Plotino), della Verità (Agostino), del Bene (Pseudo Dionigi) ecc. Ma la metafisica dell’essere di S. Tommaso non è una semplice riedizione della metafisica di Parmenide, il grande filosofo dell’essere, e questo perché il concetto che l’Aquinate ha dell’essere è toto coelo diverso da quello del filosofo di Elea. Questi ha dell’essere un concetto univoco e monistico (che esclude il divenire e la partecipazione). Invece S. Tommaso ha un concetto analogico e pluralistico, che riconosce la creazione e la partecipazione.
S. Tommaso non ha mai svolto un discorso sistematico ed esauriente intorno alla sua concezione dell’Essere, ma non è difficile ricostruire in modo articolato i punti fondamentali della sua dottrina. E' quanto ci proponiamo di fare in questa voce.
1. L’USO DEL TERMINE IN S. TOMMASO
1. L’USO DEL TERMINE IN S. TOMMASO
S. Tommaso osserva, come aveva già fatto Aristotele molto prima di lui, che il termine essere è plurisemantico: "Il termine “essere” ha vari significati. In primo luogo si chiama essere l’essenza stessa della cosa. In secondo luogo il termine “essere” si adopera per esprimere l’atto dell’essenza (actus essentiae); così come “vivere”, che è l’essere proprio del viventi. si adopera per esprimere l’atto dell’anima (non l’atto secondo, che è un’operazione, ma l’atto primo). In terzo luogo esso esprime la verità della sintesi proposizionale; per cui l’essere (in questo contesto) si chiama copula. Questo tipo di essere ha per sede l’intelletto componente e dividente, però si fonda sull’essere della cosa, ossia sull’atto del1’essenza" (I Sent., d. 33, q. 1, a. 1, ad 1). In altre classificazioni del significato del termine “esse”, S. Tommaso lascia cadere il primo esse, essentia e conserva gli altri due: esse, actus essentiae (o actus entis) che è l’essere in senso ontologico, e esse, actus judicii che ha per sede l’intelletto componente e dividente, e corrisponde pertanto al senso logico (cfr. III Sent., d. 6, q. 2, a. 2; C. G., I, c. 12; De Ent. et Ess., 3, nn. 18-19; I, q. 3, a. 4, ad 2). Di fatto l’Aquinate, quanto meno nelle opere giovanili, usa il termine "essere" (esse) oltre che come sinonimo di essentia anche come sinonimo di ens , ente (vedi: ENTE).
Ma nello stesso esse inteso come actus entis o actus essentiae (che è la seconda delle tre accezioni del termine ricordate nel Commento alle Sentenze) S. Tommaso pone una distinzione che nella sua metafisica gioca un ruolo capitale:è la distinzione tra esse commune o esse universale e esse absolutum o esse divinum. Nel primo senso designa un minimo di realtà, quel minimo indispensabile a tutte le cose per uscire dalle tenebre del nulla e appartenere all’ordine degli enti. Nel secondo senso esprime l’intensità massima di realtà, intensità tale per cui ogni perfezione vi è racchiusa. Ecco alcuni testi in cui l’Angelico propone questa distinzione fondamentale. L’occasione gli viene quasi sempre offerta da chi gli obietta che non è corretto definire Dio come essere e quindi identificare la sua essenza con l’essere S. Tommaso replica che ci sono due concetti di essere: l’essere comune che e il concetto più astratto di tutti, che è indifferente a tutte le aggiunte, ma è suscettibile di qualsiasi aggiunta, e l’essere specialissimo che già include tutte le determinazioni e pertanto esclude qualsiasi aggiunta. Ora è nel secondo senso che si definisce Dio come essere e si identifica in lui l’essenza con l’essere ((L'espressione “qualche cosa cui non si può aggiungere niente” si può intendere in due maniere. Prima maniera: qualche cosa che (positivamente) di sua natura importi l’esclusione di aggiunte (o determinazioni).. Seconda maniera: qualche cosa che non riceva aggiunte o determinazioni, perché di suo non le include (né le esclude) (..). Essere senza aggiunte nella prima maniera è proprio dell’essere divino: invece essere senza aggiunte nella seconda maniera è proprio dell’essere comune (primo igitur modo, esse sine additione, est esse divinum; secundo modo, esse sine additione, est esse commune)" (I, q. 3, a. 4, ad. 1; questo testo riprende quasi alla lettera I Sent., I, d. 8, q. 4, a. 1). Mentre l’esse commune è un’astrazione, la massima di tutte le astrazioni, che riguarda quel minimo di realtà che è comune a tutte le cose, l’esse divinum invece, detto anche esse ipsum, è concretissimo e individualissimo, in quanto abbraccia tutte le determinazioni: "Ciò che è comune a molte cose non è nulla fuori di esse se non per astrazione (..). Quindi se Dio fosse l’essere comune (esse commune), egli non avrebbe alcuna esistenza reale, ma soltanto nell’intelletto (che lo pensa). Ora, abbiamo visto in precedenza (c. 13) che Dio è una realtà che non esiste solo nella nostra mente, ma nella natura delle cose; perciò non può essere l’essere comune di tutte le cose (non est igitur Deus ipsum esse commune omnnium)" (C. G., I, c. 26, n. 241). Per contro, l’essere divino è determinato (divinum esse est determinatum) (I Sent., I, d. 8, q. 4. a. 1); "Dio è qualche cosa di determinato in sé stesso, altrimenti non si potrebbero escludere da lui le condizioni degli altri enti" (I Sent.,d. 24,q. 1,a. 1,ad 3). "Il nome di Dio "colui che è” (Qui est) designa l’essere assoluto (esse absolutum)... e significa una specie di pelago infinito della sostanza, come se fosse senza confini" (I Sent., d. 8, q. 1, a. 1, ad 4).
2. DIVISIONE
2. DIVISIONE
Già studiando l’uso del termine ~esse>> abbiamo registrato alcune importanti divisioni di questo concetto, in particolare la divisione tra essere logico ed essere reale, e Ia divisione tra essere comune ed essere assoluto (divino). Ma S. T. occasionalmente menziona molte altre divisioni, che coincidono quasi sempre con le divisioni dell’ente: la divisione tra essere sostanziale e accidentale: ~Est autem in re duplex esse considerare: scilicet esse quod est ipsius secundutn Se, quod est esse primum et substantiale; et esse quod est secundum et accidenta1e~ (IL Sent., d. 40, q. 1, a. 4, sol.); divisione in essere per essenza ed essere per partecipazione: ~Cum ergo omnia quae sunt, participent esse et sint per participationem entia, necesse est esse aliquid in cacumine omnium rerum quod sit ipsum esse per suam essentiam> (in Joan., Prol., n. 5), La divisione in essere assoluto (simpliciter) ed essere relativo (secundum quid) (I, q. 5, a. 1, ad 1; q. 45, a. 5 ecc.); la divisione in essere in atto ed essere in potenza (C. G., I, c. 13; I, q. 2, a. 3; I, q. 29, a. 2, ad 2 ecc.); la divisione in essere infinito e finito (I Sent., d. 8, q. 5, a. 1; C. G., IL, c. 21 ecc.); la divisione in essere di natura (esse naturae) e essere di grazia (esse gratiae): KC’è un doppio essere: l’essere di natura (esse naturae) e l’essere di grazia (esse gratiae). La prima creazione è avvenuta quando le creature sono state prodotte ex nihilo da Dio nel loro esse naturae. La creatura era allora nuova ma è stata invecchiata dal peccato (..). E' stata perciò necessaria una nuova creazione per la quale le creature sarebbero state prodotte nel loro esse gratiae, e anche questa e una creazione ex nihilo" (in Ep. II ad Cor., 5, 17, lect. 4). Ci fermiamo qui, anche se S. Tommaso formula molte altre divisioni, che sono però di minore importanza.
3. ANALOGIA
3. ANALOGIA
S. Tommaso dice esplicitamente che quella dell’essere è una realtà analoga. "Il creatore e la creatura sono ricondotti all’unità, non con la comunanza dell’univocità ma della analogia. Ma tale comunanza può essere duplice. O perché delle cose partecipano allo stesso elemento secondo un ordine di priorità e posteriorità, come, per es., la potenza e l’atto partecipano al concetto di ente e similmente la sostanza e l’accidente, oppure perché una cosa riceve da un’altra sia l’essere sia la definizione (esse et rationem ab altero recipit). L’analogia tra la creatura e il Creatore è di questo secondo tipo; infatti la creatura non possiede l’essere (non habet esse) se non perché discende dal primo ente, e non viene chiamata ente se non perché imita il primo ente. Altrettanto accade per i nomi di sapienza e di ogni altra cosa che viene detta delle creature" (I Sent., Prol., q. 1, a. 2, ad 2). Nella stessa opera, il Commento alle Sentenze (libro I, d. 19, q. 5, a. 2, ad 1) S. Tommaso afferma che "ci sono tre modi secondo cui una cosa può essere detta per analogia.
Il primo modo, secondo l’intenzione e non secondo l’essere (secundum intentionem et non secundum esse)..
Il secondo modo, secondo l’essere e non secondo l’intenzione (secundum esse et non secundum intentionem) ..
Il terzo modo, sia secondo l’intenzione sia secondo l’essere (secundum intentionem et secundum esse).
Per il primo caso S. Tommaso adduce l’esempio di "sano";
per il secondo quello di "corpo",
per il terzo quello di "ente".
Come risulta da questo celebre testo del quale si è servito il Gaetano per la sua ricostruzione della dottrina tomistica dell’analogia, l’analogia dell’essere si può realizzare in due modi distinti, o a livello esclusivamente ontologico (é il caso di corpo, che a livello logico è univoco mentre è analogo a livello ontologico, data la differenza esistente tra i corpi viventi e non viventi, i corpi celesti e i corpi terrestri); oppure sia a livello ontologico sia a livello logico (secundum esse et secundum rationem): è il caso dell’essere che è analogo ossia simile e non identico sia nel concetto sia nella realtà (vedi: ANALOGIA).
4. IL CONCETTO INTENSIVO
4. IL CONCETTO INTENSIVO
Come abbiamo notato, l’originalità metafisica di S. Tommaso sta tutta nella sua scoperta del concetto intensivo di essere: dell’essere inteso non come perfezione comune bensì come perfezione assoluta; non come perfezione minima a cui si possono aggiungere tutte le altre perfezioni, e neppure semplicemente come perfezione somma (come Platone poteva concepire la bellezza, Plotino l’unità, Dionigi l’areopagita la bontà) bensì come perfezione piena e intensissima che racchiude tutte le altre. Per definire questo nuovo concetto di essere, S. Tommaso si avvale di frasi vigorose e scultoree nelle quali mette in luce tre verità fondamentali: a) il primato assoluto dell’atto dell’essere; b) la ricchezza strepitosa dell’essere; c) l’intimità dell’essere.
a) Primato assoluto dell’atto dell’essere. Diversamente dalla forma che certamente è atto, ma che non può mai sussistere per conto proprio, neppure nelle sostanze separate, gli angeli, che sono pure forme, l’atto dell’essere è singolarissimo, in quanto può sussistere per conto proprio; esso è atto per essenza e non per partecipazione. "L’atto primo è l’essere sussistente per conto proprio (primus autem actus est esse subsistens per se). Perciò ogni cosa riceve l’ultimo completamento mediante la partecipazione all’essere. Quindi l’essere è il completamento d’ogni forma. Infatti la forma arriva alla completezza solo quando ha l’essere, e ha l’essere solo quando è in atto. Sicché non esiste nessuna forma se non mediante l’essere. Per questo affermo che l’essere sostanziale di una cosa non è un?accidente, ma è l’attualità d’ogni forma esistente (actualitas cuiuslibet formae existentis) tanto dotata quanto priva di materia" (Quodl., XII, q. 5, a. 1). Primo nell’ordine dell’attualità, l’essere diviene pertanto anche la sorgente di tutto ciò che in qualche modo è in atto, e quindi la sorgente e la causa di tutti gli enti, che partecipano all’atto dell’essere: "Tra le cose l’essere è la più perfetta (ipsum esse est perfectissimum omnium), perché verso tutte sta in rapporto di atto. Niente infatti ha l’attualità se non in quanto è: perciò l’essere stesso è l’attualità di tutte le cose, anche delle stesse forme (ipsum esse est actualitas omnium rerum, et etiam ipsarum formarum)" (I, q. 4, a. 1, ad 3).
b) Pregnanza singolarissima dell’essere: l’essere non è soltanto perfezione somma ma è anche il ricettacolo di tutte le perfezioni, per cui tutte le costellazioni di perfezioni che riempiono l’universo non sono altro che irradiazioni della stessa e unica perfezione dell’essere, "Tra tutte le cose l’essere è la più perfetta (esse est inter omnia perfectissimum). Ciò risulta dal fatto che l’atto è sempre più perfetto della potenza. Ora qualsiasi forma particolare si trova in atto solo se le si aggiunge l’essere. Infatti l’umanità o l’igneità possono considerarsi come esistenti o nella potenza della materia o nella capacità dell’agente, oppure nella mente: ma ciò che possiede l’essere diviene attualmente esistente. Conseguentemente ciò che chiamo essere è l’attualità d’ogni atto e quindi la perfezione di qualsiasi perfezione (esse est actualitas omnium actuum et propter hoc est perfectio omnium perfectionum" (De Pot., q. 7, a. 2, ad 9). "Ogni nobiltà di qualsiasi cosa appartiene ad essa in forza dell’essere (omnis nobilitas cuiuslibet rei est sibi secundum esse); poiché sarebbe nulla la nobiltà che viene all’uomo dalla sapienza, se per essa non fosse effettivamente sapiente; e cosi delle altre perfezioni. Pertanto il grado di nobiltà di una cosa corrisponde al grado di nobiltà con cui possiede l’essere (secundum modum quo res habet esse, est suus modus in nobilitate); poiché si dice che è più o meno nobile secondo che il suo essere si restringe più o meno a qualche grado speciale di nobiltà. Quindi se vi è qualcuno a cui appartenga tutta la virtù dell’essere, non può mancargli nessuna nobiltà che trovasi negli altri" (C. G., Cc. 28, n. 260). "L’essere è più nobile di qualsiasi altro elemento che lo accompagni. Perciò, in assoluto, l’essere è più nobile anche del conoscere, supposto che si possa pensare il conoscere facendo astrazione dall’essere. E quindi ciò che è più perfetto nell’essere in sede assoluta, è più nobile di qualsiasi altra cosa che sia più perfetta solamente in rapporto a qualche altro aspetto che accompagna l’essere’ (I Sent., d. 17, q. 1, a. 2, ad 3). Pertanto l’essere è veramente, come prova S. Tommaso, la perfezione assoluta e la radice d’ogni altra perfezione. L’essere è ciò che vi è di più perfetto nella realtà, anzi è il completamento di tutte le altre perfezioni che così non diventano altro che aspetti dell’essere, ed è la sorgente di tutti gli enti, che non sono altro che partecipazioni dell’essere L’eccellenza dell’essere risulta proprio da questo fatto, che mentre nessun’altra perfezione e nessun ente è concepibile senza che partecipi all’essere, questo si può pensare in assoluta autonomia, come a sé stante come sussistente, come solitario senza che per questo nulla perda della sua ricchezza, della sua pienezza, della sua intensità.
c) Intimità dell’essere. Una terza proprietà che S. Tommaso sottolinea nell’essere è la sua intimità: l’essere è ciò che nelle cose vi è di più intimo e di più profondo: l’essere si intranea nelle cose fino a toccare le zone più recondite, fino a raggiungere le fibre più segrete. Tutta la trama costitutiva dell’ente, tutto il suo sviluppo e la sua espansione proviene dall’essere e va verso l’essere. "Tra tutte le cose, l’essere è quella che più intimamente e immediatamente conviene agli enti (immediatius et intimius convenit rebus); perciò, avendo la materia l’essere in atto mediante la forma, è necessario che la forma dando l’essere alla materia si unisca ad essa più intimamente d’ogni altro elemento" (De An., a. 9). "Pertanto nell’ente l’elemento più intimo è l’essere; dopo l’essere (in ordine di intimità) viene la forma, per la cui mediazione la cosa è in possesso dell’essere; infine viene la materia, che pur costituendo il fondamento della cosa, si trova tuttavia più distante dall’essere della cosa di qualsiasi altro elemento" (De Nat. Acc., c. 1, n. 468).
Talvolta S. Tommaso ricava l’eccellenza dell’essere anche dal fatto che non solo esso rappresenta la sorgente di tutti gli enti, ma anche il loro traguardo finale: "l’essere è il fine ultimo d’ogni azione" (Sub. Sep., c. 7, n. 16). "Ogni azione e movimento sono ordinati in qualche maniera all’essere sia allo scopo che esso venga conservato nella specie o nell’individuo, oppure perché venga acquistato di nuovo" (C. G., III, c. 2). ((L’atto ultimo è l’essere, ed essendo il divenire un passaggio dalla potenza all’atto, è necessario che l’essere sia l’ultimo atto verso cui tende qualsiasi divenire, e poiché il divenire naturale tende verso ciò che naturalmente si desidera, occorre che esso, l’essere sia l’atto ultimo cui ogni cosa anela" (Comp. Theol., I, c. 11. n. 21).
5. LA SCOPERTA DELL’ ESSERE
5. LA SCOPERTA DELL’ ESSERE
La scoperta del concetto intensivo di essere fu il risultato di un lungo processo filosofico. S. Tommaso stesso in varie occasioni ne indica, in modo assai sintetico, le tappe più significative, che sono tre:
a) La prima è quella dei presocratici: "Essendo, per così dire, piuttosto grossolani, essi credevano che non esistessero altro che corpi sensibili. Quelli che tra essi accettavano il moto non lo consideravano che sotto certi aspetti accidentali, come sarebbe la rarefazione e la condensazione, l’associazione e la dissociazione. E supponendo che Ia sostanza stessa dei corpi fosse increata, si limitarono a stabilire delle cause per codeste trasformazioni accidentali, quali l’amicizia, la lite, l’intelligenza o altre cose del genere" (I, q. 44, a. 2).
b) La seconda tappa è quella marcata da Platone e Aristotele: "Essi distinsero razionalmente la forma sostanziale dalla materia che ritenevano increata; e capirono che nei corpi avvengono delle trasformazioni di forme sostanziali. Di queste trasformazioni stabilirono delle cause universali, cioè il circolo obliquo per Aristotele e le Idee per Platone (..). Tuttavia entrambi considerarono l’ente sotto un aspetto particolare (utrique igitur consideraverunt ens particulari quadam consideratione) o in quanto appartenente a una determinata specie o in quanto determinato dai suoi accidenti. Quindi essi assegnarono alle cose solamente delle cause efficienti particolari" (I, q. 44, a. 2).
c) La terza tappa è quella percorsa dallo stesso S. Tommaso (il quale, però, si guarda bene dall’attribuirsi questo merito): è la tappa che concerne la scoperta del principio unico e universale di tutte le cose, l’essere stesso. "Essendo necessario che esista un principio primo semplicissimo, il suo modo di essere non va concepito come qualcosa che partecipi all’essere, bensì come quello dell’essere sussistente stesso (quasi ipsum esse existens). E poiché l’essere sussistente non può essere che uno solo, ne consegue che tutte le altre cose che traggono origine da esso, esistano come partecipanti all’essere. Occorre pertanto una risoluzione comune per tutte le forme di divenire (accidentale, sostanziale, esistenziale), dato che tutte implicano nel loro concetto due elementi, l’essenza e l’essere. E quindi oltre al modo di divenire della materia col sopraggiungere della forma, occorre riconoscere in precedenza un’altra origine delle cose, grazie alla quale l’essere viene dato a tutto l’universo reale dall’ente primo, che si identifica con l’essere" (Sub. sep., c. 9, n. 94).
La singolarità del concetto di essere era già stata rilevata da S. Agostino quando aveva notato che Dio l’aveva scelto come suo nome proprio, ma nella speculazione dell’Ipponate non c’è ancora la scoperta della densità semantica dell’esse e tanto meno una filosofia dell’essere Questo passo l’ha compiuto l’Aquinate scrutando l’ente non soltanto sotto qualche aspetto particolare (i suoi rapporti con l’essenza, con la sostanza, con gli accidenti, con la materia, con la forma ecc.) ma proprio in quanto ente, ossia in quanto partecipe della perfezione dell’essere (essendo l’ente ciò che ha l’essere). Fu proprio in quel momento che egli colse il valore singolarissimo dell’essere: che è solo l’essere a fare dell’ente qualche cosa di reale, di attuale; che è solo l’essere a conferire attualità, nobiltà, perfezione, dinamismo all’ente. In conclusione, fu una più attenta e più accurata indagine dell’ente in direzione dell’essere a condurre S. Tommaso alla scoperta del concetto intensivo di essere e a metterlo alla base del suo edificio metafisico.
6. LA CONOSCENZA DELL’ ESSERE
6. LA CONOSCENZA DELL’ ESSERE
Sappiamo che S. Tommaso distingue due concetti di essere, quello comune che è il concetto più astratto e più generico, quello intensivo che è il concetto più concreto e più determinato in quanto abbraccia tutte le determinazioni (tutte le determinazioni in assoluto quando si tratta dell’esse per essentiam; tutte le determinazioni di un ente particolare, quando si tratta di un esse per participationem.).
Il concetto comune, generico, sta alla base di tutta la conoscenza ed entra nell’apprensione di ogni altra idea; ma per quanto primario e immediato, neppure il concetto di esse commune, nella gnoseologia di S. Tommaso. può essere colto intuitivamente, perché l’Aquinate esclude nella conoscenza umana qualsiasi forma di intuizione intellettiva: tutta la conoscenza intellettiva deve passare attraverso i "fantasmi" che a loro volta raccolgono i dati dei sensi esterni; perciò tutto quanto l’intelletto conosce, anche l’idea elementarissima di essere e di ente, è il risultato del procedimento astrattivo. Certo nel caso dell’esse commune e dell’ens si tratta di un’astrazione peculiare che viene chiamata astrazione precisiva in quanto non esclude ulteriori determinazioni ma soltanto prescinde da esse.
Ma al concetto intensivo di essere che è più ricco, più denso, più elevato di tutti gli altri concetti come si arriva? In quanto è un concetto che è ricavato dagli enti ma che allo stesso tempo oltrepassa tutte le limitazioni e determinazioni degli enti stessi, si deve dire che è il frutto sia di un processo astrattivo sia di un processo riflessivo, in altre parole di un processo altamente speculativo. Riflettendo sugli enti, su ciò che li costituisce come enti, ma che non si lascia mai catturare dagli enti, perché tutte le essenze sono ricettacoli troppo piccoli per abbracciarlo interamente, è necessario lasciare in disparte gli enti (le loro qualità, la loro sostanza, la loro forma, la loro essenza) e andare oltre gli enti stessi: verso l’esse nella pienezza e ricchezza del suo infinito dominio. "Il percorso da fare qui è caratterizzato da un approfondimento progressivo d’atto in atto, dall’atto accidentale all’atto sostanziale, e dall’atto formale all’esse autentico che è l’actus essendi, atto ultimo" (C. Fabro). Si tratta di quel processo astrattivo-risolutivo che corrisponde al terzo grado di astrazione (vedi: ASTRAZIONE), che è il procedimento proprio della metafisica.
Che tale sia la traiettoria che segue la nostra intelligenza quando va alla conquista del concetto intensivo dell’essere, S. Tommaso non lo dice mai esplicitamente, e questo giustifica la notevole varietà di opinioni tra i tomisti su questo argomento. Tuttavia che tale sia l’insegnamento dell’Angelico lo si può evincere da testi come i seguenti: "L’intelletto umano non acquista subito alla prima apprensione una conoscenza perfetta dell’oggetto; ma da principio ne percepisce un aspetto, mettiamo l’essenza, che è l’oggetto primario e proprio dell’intelligenza, e in seguito conosce le proprietà, gli accidenti e le relazioni che ricoprono la quiddità. Si trova così costretto a raffrontare e a contrapporre, a comporre e a scomporre e passare da una composizione o divisione a ulteriori composizioni o divisioni, cioè a ragionare" (I, q. 85, a. 5). Quando noi cerchiamo di farci un’idea di Dio, "anzitutto noi escludiamo da lui tutto ciò che è corporeo; poi quanto è spirituale o mentale, almeno nel senso in cui questo elemento si trova nelle creature viventi, come per es., bontà e sapienza. Allora resta nella nostra mente soltanto la verità che Dio è, e nulla più. Infine eliminiamo anche l’idea dello stesso essere, così come tale idea si trova nelle creature" (I Sent., d. 8, q. 1, a. 1, ad 4).
Pertanto l’essere in senso intensivo non è il risultato di un’intuizione (come vuole Maritain) ma neppure di un giudizio (come sostiene Gilson), bensì di un laborioso processo speculativo che implica senz’altro sia giudizi sia ragionamenti. Il processo si conclude con l’acquisizione di un "concetto" singolare per il quale può essere valida la denominazione di concetto riflessivo (mentre quello dell’essere comune è un concetto precisivo).
Molti studiosi di S. Tommaso sostengono che l’esse è oggetto del giudizio e a sostegno di questa tesi possono addurre numerosi testi dell’Angelico, in cui si ripete regolarmente che l’oggetto della prima operazione della mente (l’apprensione) è l’essenza o quiddità della cosa; mentre l’oggetto della seconda (il giudizio) è l’essere della cosa (esse rei): "Prima quidem operatio respicit ipsam naturam rei (..) Secunda operatio respicit ipsum esse rei" (In De Trin., lect. 2, q. 1, a. 3) (Cfr. I Sent., d. 38, q. 1, a. 3; De Ver., q. 1, a. 9; I, q. 14, a. 2, ad 1).
Ma, a nostro avviso, è necessario distinguere tra l’espressione dell’essere e la sua apprensione. Certo, l’espressione generalmente avviene nel giudizio: è il giudizio che rispecchia l’actus essendi e non la definizione. Ma l’elaborazione del concetto intensivo dell’essere non è frutto del giudizio, quanto di una lunga e laboriosa riflessione comparativa e risolutiva.
7. RAPPORTO DELL’ESSERE CON L’ESSENZA
7. RAPPORTO DELL’ESSERE CON L’ESSENZA
L’essere in senso intensivo, di per sé, dice perfezione assoluta, senza restrizioni ne delimitazioni; l’essere intensivo è di diritto essere sussistente, illimitato, infinito. Ma allora a che cosa si deve che l’actus essendi degli enti è invece sempre limitato, finito, partecipato? S. Tommaso risolve questo problema assegnando all’essenza il ruolo e la funzione di potenza, ossia di ricettacolo che, ricevendolo, delimita e circoscrive l’essere Le essenze, spiega S. Tommaso, sono come dei recipienti e contengono tanto di essere quanto ne comporta la loro capacità: "L’essere che in sé stesso è infinito può essere partecipato da infiniti enti e in infiniti modi. Se dunque l’essere di qualche ente è finito, bisogna che esso sia limitato da qualche altra cosa, che sia in una certa guisa presente nell’ente come suo principio" (C. G., I, c. 43). Tale è il ruolo dell’essenza (vedi: ESSENZA). Ovviamente nel caso in cui l’essere non subisca nessuna restrizione, nessuna limitazione, ma si realizzi nella sua infinita perfezione: allora, la sua essenza è semplicemente quella di essere sussistente: l’essere è la sua essenza. E' esattamente quanto succede in Dio: "In solo Deo suum esse est sua quidditas vel natura; in omnibus autem aliis esse est praeter quidditatem, cui esse acquiritur" (II Sent., d. 3, q. 1, a. 1 sol.).
La riflessione sulla natura dell’ente ne rivela la partecipazione alla perfezione dell’essere. Questo è un rilievo più di ordine logico che ontologico, che conduce alla elaborazione del concetto intensivo dell’essere ma non alla dimostrazione della sua sussistenza.
Per provare la sussistenza effettiva dell’essere occorre partire dall’ente reale e non da concetti: da aspetti (fenomeni) reali di enti reali. E precisamente quanto fa S. Tommaso. Sono tre aspetti di contingenza negli enti che esistono di fatto e che noi quotidianamente sperimentiamo, che lo inducono, dopo la scoperta del concetto intensivo dell’essere, a provare la sua sussistenza effettiva, cioè l’esistenza dell’esse ipsum. I tre aspetti (fenomeni) della contingenza dell’ente sono: la partecipazione, la composizione reale (tra essenza e atto d’essere) e la gradazione della perfezione dell’essere negli enti. Ecco le tre argomentazioni di S. Tommaso ridotte all’osso.
a) Dal fenomeno della partecipazione: "Tutto ciò che è qualcosa per partecipazione rimanda a un altro che sia la stessa cosa per essenza, come a suo principio supremo (..). Ora, dato che tutte le cose che sono, partecipano all’essere e sono enti per partecipazione, occorre che in cima a tutte le cose ci sia qualcosa che sia essere in virtù della sua stessa essenza, ossia tale che la sua essenza sia l’essere stesso" (In Ioan., Prol., n. 5; lo stesso argomento lo si trova, in nuce, nel Commento alle Sentenze II, d. 1, q. 1, a. 2, sol.).
b) Dal fenomeno della distinzione (composizione) reale tra essenza ed essere: ".. E' necessario che ogni cosa in cui l’essere è diverso dalla sua natura (essenza), abbia l’essere da un altro. E poiché tutto ciò che è in virtù di un altro esige come causa prima ciò che è per sé, vi deve essere qualche cosa che sia causa dell’essere in tutte le altre, appunto perché essa è soltanto essere; diversamente si andrebbe all’infinito nelle cause, avendo ogni cosa che non è solo essere una causa" (De Ent. et Ess., c. 4, n. 27).
c) Dalla gradualità della perfezione dell’essere negli enti: "L’essere è presente in tutte le cose, in alcune in modo più perfetto, in altre in modo meno perfetto; però non è mai presente in modo così perfetto da identificarsi con la loro essenza, altrimenti l’essere farebbe parte della definizione dell’essenza di ogni cosa, il che è evidentemente falso, giacché l’essenza di qualsiasi cosa è concepibile anche prescindendo dall’essere. Pertanto occorre concludere che le cose ricevono l’essere da altri e (retrocedendo nella serie delle cause) è necessario che si arrivi a qualche cosa la cui essenza sia costituita dall’essere stesso, altrimenti si dovrebbe andare indietro all’infinito" (II Sent., d. 1, q. 1. a. 1).
Da quanto siamo andati esponendo risulta chiaramente che l’essere concepito intensivamente e indubbiamente il cardine fondamentale di tutta la metafisica di S. Tommaso. Muovendo da tale concetto egli opera quella risoluzione di tutta la realtà contingente (in divenire) nel suo ultimo sicuro, solidissimo fondamento, l’essere: quella risoluzione da egli stesso invocata nell’opuscolo De substantiis separatis (c. 9, n. 94): "Oportet igitur communem quamdam resolutionem in omnibus huiusmodi fieri (c’è bisogno di una risoluzione universale di tutto ciò che è soggetto al divenire)". Si tratta sicuramente di una risoluzione metafisica e non semplicemente logica, perché per risalire all’Esse ipsum si prende il via da un fenomeno concreto, realissimo: la condizione di contingenza dell’essere negli enti.
E poiché quello di esse ipsum subsistens è anche il nome più proprio di Dio (cfr. I, q. 13, a. 11), tutte le risoluzioni dell’essere partecipato nell’essere sussistente diventano altrettanti argomenti, altrettante vie dell’esistenza di Dio. Queste sono vie nuove, personali, in perfetta sintonia con la metafisica dell’essere, che S. Tommaso ha proposto come prove dell’esistenza di Dio. Ed è qui: nella risalita dagli enti all’essere, non nelle famose cinque vie, che egli mutua da Platone, Aristotele, Avicenna, Maimonide, che il Dottore Angelico ha dato un importante, decisivo contributo anche alla teologia naturale.