BAAL - BRAMOSIA - DIZIONARIO DI TEOLOGIA BIBLICA

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B: BAAL - BRAMOSIA

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LUIS MARTINEZ FERNANDEZ

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    BAAL (inizio)

    → idoli II 1 – matrimonio VT II 1 – olio 1 – padri e Padre I 1, III 2 – Signore VT – Sposo-sposa VT 0 – vergogna I 4.

    BABELE - BABILONIA (inizio)

    A differenza dell’*Egitto, che nel simbolismo biblico ha un significato ambiguo, Babilonia vi figura sempre come una potenza malvagia, benché Dio possa, all’occasione, servirsene per realizzare i suoi desideri.
    1. Il segno di Babele.
    - Ancor prima che Israele entri in rapporto diretto con la grande città mesopotamica, questa è presente all'orizzonte della storia sacra. Infatti Babele è il nome ebraico di Babilonia, e la famosa torre di cui parla Gen 11, 1-9 non è altro che la torre a terrazze (o zikkurat) del suo grande tempio. Segno per eccellenza dell’*idolatria babilonese, questa torre è anche presentata come simbolo dell'*orgoglio umano. Quindi la tradizione biblica collega la confusione delle *lingue al segno di Babele: così Dio ha castigato gli uomini per la loro orgogliosa idolatria.
    2. Il flagello di Dio.
    - Tuttavia, a partire dal sec. VII, Babilonia ha una parte più diretta nella storia sacra. È il momento in cui i Caldei, che l'hanno conquistata, pensano di strappare a Ninive l'impero del Medio-Oriente. Potenza terribile, che «fa della sua *forza il suo dio» (Ab 1, 11); ma Dio farà entrare questa potenza nel suo gioco. Babilonia contribuisce così ad eseguire il suo *giudizio contro Ninive (Nah 2, 2 - 3, 19). È il flagello di Dio per Israele e per i regni vicini: Jahvè li ha dati tutti nelle mani di Nabuchodonosor, suo re, di cui devono portare il giogo (Ger 27, 1-28, 17). È il *calice d’oro con cui Jahvè inebria i popoli (Ger 25, 15-29; 51, 7). È il martello di cui si serve per pestare tutta la terra (Ger 50, 23; 51, 20 ss). Essa soprattutto eseguirà il giudizio di Jahvè contro Giuda (Ger 21, 3-7): la sua terra sarà il luogo d’*esilio dove Dio raccoglierà il resto del suo popolo (Ger 29, 1-20). Dura realtà, evocata dai libri dei Re (2 Re 24 -25); ma «sui fiumi di Babilonia», dove i canti fanno posto ai pianti (Sal 137), i Giudei deportati conoscono la sofferenza purificatrice che prepara le restaurazioni future.
    3. La città del male.
    - Questa funzione provvidenziale non impedisce a Babilonia di essere la *città del male per eccellenza. Certamente, come le altre nazioni, come la stessa Ninive (Is 19, 24; cfr. Giona), essa è chiamata ad unirsi un giorno al popolo di Dio (Sal 87, 4). Ma al pari di Ninive essa si è compiaciuta della propria forza (Is 47, 7 s. 10; cfr. 9, 7-14). Si è levata dinanzi a Jahvè con orgoglio ed insolenza (Ger 50, 29-32; cfr. Is 14, 13 s). Ha moltiplicato i suoi delitti: stregoneria (Is 47, 12), idolatria (Is 46, 1; Ger 51, 44-52), crudeltà di ogni specie... È diventata veramente il tempio della malizia (Zac 5, 5-11), la «città del nulla» (Is 24, 10?).
    4. Uscire da Babilonia.
    - Se per Israele colpevole l’esilio era un giusto castigo, ora, per il piccolo resto convertito dalla prova, è una *prigionia intollerabile ed anche un soggiorno pericoloso. Trascorsi i 70 anni predetti (*numero convenzionale: Ger 25, 11; 29, 10; 2 Cron 36, 21), verrà dunque l’anno della remissione (Is 61, 2; cfr. Lev 25, 10). Questa liberazione tanto attesa è per il popolo di Dio una «buona novella» (Is 40, 9; 52, 7 ss). Gli esiliati sono invitati a lasciare la città malvagia: «Uscite da Babilonia!» (Is 48, 20; Ger 50, 8), «Fuori! Non toccate nulla di impuro!» (Is 52, 11). Ripartiranno così verso Gerusalemme come in un nuovo *esodo. Momento il cui solo ricordo, nei secoli futuri, colmerà i cuori di gioia (Sal 126, 1 s). Data importante di cui Matteo fa una tappa verso l’era messianica (Mt 1, 11 s).
    5. Il giudizio di Babilonia.
    - Nello stesso tempo in cui la storia sacra compie così una nuova svolta, Babilonia, flagello di Dio, fa a sua volta l’esperienza dei giudizi divini. La requisitoria contro la città del male è stata stesa. La sentenza è annunciata con gioia dai profeti (Is 21, 1-10; Ger 51, 11 s), i quali intonano su Babilonia lamenti ironici (Is 47), e ne descrivono in anticipo la rovina spaventosa (Is 13; Ger 50, 21-28; 51, 27-43). Sarà il *giorno di Jahvè contro di essa (Is 13, 6...), la *vendetta di Jahvè contro i suoi dèi (Ger 51, 44-57). Di questo avvenimento, la marcia trionfale di Ciro è come il prodromo (Is 41, 1-5; 45, 1-6); gli eserciti di Serse lo realizzeranno nel 485, cosicché di Babilonia non rimarrà pietra su pietra (cfr. forse Is 24, 7-18; 25, 1-5). Tuttavia essa continuerà a vivere nel ricordo dei Giudei come il tipo della città pagana votata alla perdizione, e il suo re Nabuchodonosor come il tipo del tiranno orgoglioso e sacrilego (Deut 2 - 4; Giudit 1, 1-12).
    6. Permanenza del mistero di Babele.
    - La città storica di Babilonia è caduta molto prima che giungesse il NT. Ma attraverso essa il popolo di Dio ha preso coscienza di un mistero di iniquità che agisce costantemente quaggiù: Babilonia e *Gerusalemme, drizzate l’una di fronte all’altra, sono le due città fra le quali gli uomini si dividono nel linguaggio cristiano, la città di Dio di fronte alla città di *Satana. Ora la Chiesa primitiva si è resa presto conto di essere trascinata anch’essa in questo dramma delle due città. Di fronte alla nuova Gerusalemme (Gal 4, 26; Apoc 21), Babilonia continua a levarsi ad ogni istante. A partire dalla persecuzione di Nerone essa assume l’aspetto concreto della Roma imperiale (1 Piet 5, 13). L’Apocalisse la descrive a questo titolo come la prostituta famosa, assisa su di una *bestia scarlatta, ebbra del sangue dei santi (Apoc 17). Essa è alleata con il dragone, che è *Satana, e con la bestia, che è l’*Anticristo. Il popolo di Dio è quindi invitato a fuggirla (Apoc 18, 4), perché il suo giudizio è vicino; cadrà, Babilonia la grande (Apoc 18, 1-8), e le nazioni nemiche di Dio faranno lamento su di essa, mentre il cielo risuonerà di acclamazioni (Apoc 18, 9 - 19, 10). Tale è la sorte riservata infine alla città del male; ogni catastrofe storica che colpisce gli imperi terreni drizzati contro Dio e contro la Chiesa è una attuazione di questo giudizio divino. Gli oracoli contro Babilonia conservati nel VT trovano in questa prospettiva il loro compimento escatologico: rimangono sospesi come una minaccia sopra le *nazioni peccatrici che di secolo in secolo incarnano il mistero di Babilonia.
    J. AUDUSSEAU e P. GRELOT
    → anticristo VT 2 - città - esilio - guerra VT III 2 - lingua 2 - nazioni - orgoglio 2 - Pentecoste II 2 d - persecuzione I 3 - popolo C III - potenza III 0 - prigionia I.

    BAMBINO (inizio)

    Come tutti i popoli sani, Israele vede nella *fecondità un segno della *benedizione divina: i bambini sono «la corona degli *anziani» (Prov 17, 6), i figli sono «rampolli di olivi attorno alla mensa» (Sal 128, 3). Tuttavia, a differenza di taluni moderni, gli autori biblici non dimenticano che il bambino è un essere incompiuto e sottolineano l’importanza di una ferma *educazione: la stoltezza (cfr. *follia) è stretta al suo cuore (Prov 22, 15), il capriccio è la sua legge (cfr. Mt 11, 16-19), e per non lasciarlo in balia di tutti i venti (Ef 4, 14) bisogna tenerlo sotto tutela (Gal 4, 1 ss). Di fronte a queste constatazioni sono tanto più notevoli le affermazioni bibliche sulla dignità religiosa del bambino.
    I. DIO ED I BAMBINI
    Già nel VT il bambino, a motivo stesso della sua debolezza e della sua imperfezione native, appare come un privilegiato di Dio. Il Signore stesso è il protettore dell’orfano ed il vindice dei suoi diritti (Es 22, 21 ss; Sal 68, 6); egli ha manifestato la sua tenerezza paterna e la sua preoccupazione pedagogica nei confronti di Israele «quando era bambino», al tempo dell’uscita dall’Egitto e del soggiorno nel deserto (Os 11, 14). I bambini non sono esclusi dal culto di Jahvè, partecipano anche alle suppliche penitenziali (Gioe 2, 16; Giudit 4, 10 s), e Dio si prepara una lode dalla bocca dei bambini e dei piccolissimi (Sal 8, 2 s = Mt 21, 16). Lo stesso avverrà nella Gerusalemme celeste, dove gli eletti faranno l’esperienza dell’amore «materno» di Dio (Is 66, 10-13). Già un salmista, per esprimere il suo abbandono fiducioso nel Signore, non aveva trovato di meglio che l’immagine del piccino che si addormenta sul seno della madre (Sal 131, 2). Più ancora, Dio non esita a scegliere taluni bambini come primi beneficiari e messaggeri della sua *rivelazione e della sua *salvezza: il piccolo Samuele accoglie la parola di Jahvè e la trasmette fedelmente (1 Sam 1 -3); David è scelto a preferenza dei suoi fratelli maggiori (1 Sam 16, 1-13); il giovane Daniele si dimostra più sapiente degli anziani di Israele salvando Susanna (Dan 13, 44-50). Infine, un vertice della profezia messianica è la nascita di Emmanuel, segno di liberazione (Is 7, 14 ss); ed Isaia saluta il bambino regale che, assieme al regno di David, ristabilirà il diritto e la giustizia (9, 1-6).
    II. GESÙ ED I BAMBINI
    Non era perciò conveniente che, per inaugurare la nuova alleanza, il Figlio di Dio si facesse bambino? Luca ha notato con cura le tappe dell’infanzia così percorse: neonato del presepio (Lc 2, 12), piccino presentato al tempio (2, 27), bambino sottomesso ai genitori, e tuttavia misteriosamente indipendente da essi nella sua dipendenza dal Padre suo (2, 43-51). Fatto adulto, Gesù nei confronti dei bambini adotta lo stesso comportamento di Dio. Come aveva dichiarato *beati i *poveri, così *benedice i bambini (Mc 10, 16), rivelando in tal modo che essi sono, gli uni e gli altri, atti ad entrare nel regno; i bambini simboleggiano i *discepoli autentici, «il regno dei cieli appartiene a quelli che sono come loro» (Mt 19, 14 par.). Di fatto si tratta di «accogliere il regno come bambini» (Mc 10, 15), di riceverlo con tutta semplicità come un dono del Padre, invece di esigerlo come qualcosa di dovuto; bisogna «diventare come bambini» (Mt 18, 3) ed acconsentire a «rinascere» (Gv 3, 5) per accedere a questo regno. Il segreto della vera grandezza è «di farsi piccoli» come i bambini (Mt 18, 4): questa è la vera *umiltà, senza la quale non si può diventare *figli del Padre celeste. I veri discepoli sono precisamente i «piccolissimi», a cui il Padre ha voluto rivelare, come un tempo a Daniele, i suoi segreti nascosti ai sapienti (Mt 11, 25 s). D’altronde, nel linguaggio del vangelo, «piccolo» e «discepolo» sembrano talvolta termini equivalenti (cfr. Mt 10, 42 e Mc 9, 41). Beati coloro che accolgono uno di questi piccoli (Mt 18, 5; cfr. 25, 40), ma guai a chi li *scandalizza o li disprezza (18, 6. 10).
    III. LA TRADIZIONE APOSTOLICA
    Paolo è soprattutto sensibile allo stato di imperfezione rappresentato dall’infanzia (1 Cor 13, 11; Gal 4, 1; Ef 4, 14). Invita i cristiani a proseguire la propria *crescita per pervenire insieme alla «pienezza di Cristo» (Ef 4, 12-16). Rimprovera ai Corinti il loro atteggiamento puerile (1 Cor 3, 1 ss) e li mette in guardia contro una falsa concezione dell’infanzia spirituale, reagendo, a quanto pare, contro un’abusiva interpretazione delle parole di Gesù (1 Cor 14, 20; cfr. Mt 18, 3 s). Paolo tuttavia non misconosce il privilegio dei piccoli: «Ciò che vi è di debole nel mondo è quanto Dio ha scelto» (1 Cor 1, 27 s). Nella sua carità apostolica, si comporta lui stesso spontaneamente nei confronti dei neofiti, i suoi «piccoli», con la tenerezza di una madre (1 Tess 2, 7 s; Gal 4, 19 s; cfr. 1 Cor 4, 15). Ebr 5, 11-14 presenta un insegnamento analogo a proposito della legge della crescita inerente alla vita cristiana: non si tratta di fermarsi allo stadio di bambino che si nutre solo di *latte; e se 1 Piet 2, 2 esorta i nuovi battezzati a desiderare, come dei neonati, il latte della Parola di Dio, è al fine di crescere per la salvezza. Quanto a Giovanni, egli non parla tanto dell’infanzia spirituale, quanto della nuova *nascita dei *figli adottivi di Dio (1 Gv 3, 1); ma al pari di Paolo, quando si rivolge ai suoi «piccoli» (1 Gv 2, 1. 18; Gv 13, 33) ha accenti paterni.
    L. ROY
    → autorità VT I 1.2; NT II 2 - educazione - fiducia - latte 3 – madre - nascita (nuova) - poveri NT II - semplice - umiltà III - vecchiaia - vita II 1.

    BANCHETTO (inizio)

    gioia VT; NT III - pasto - vino 2 b.

    BATTESIMO (inizio)

    Il sostantivo «battesimo» deriva dal verbo bàptein/baptìzein, che significa «immergere, lavare». Il battesimo è quindi una immersione od una abluzione. Il simbolismo dell’*acqua come segno di purificazione e di vita è troppo frequente nella storia delle religioni perché la sua esistenza possa sorprendere nei misteri pagani. Ma le rassomiglianze con il sacramento cristiano sono puramente esteriori e non toccano le realtà profonde. Le analogie si devono cercare anzitutto nel VT, nelle credenze giudaiche e nel battesimo di Giovanni.
    I. VECCHIO TESTAMENTO E GIUDAISMO
    1. La funzione purificatrice dell’acqua è molto accentuata nel VT.
    - Appare in parecchi avvenimenti della storia sacra che in seguito saranno considerati come prefigurazioni del battesimo: ad es. il *diluvio (cfr. 1 Piet 3, 20 s), od il passaggio del Mar Rosso (cfr. 1 Cor 10, 1 s). In numerosi casi di impurità la legge impone abluzioni rituali che *purificano ed abilitano al culto (Num 19, 2-10; Deut 23, 10 s). I profeti annunciano una effusione di acqua purificatrice del peccato (Zac 13, 1). Ezechiele associa questa lustrazione escatologica al *dono dello Spirito di Dio (Ez 36, 24-28; cfr. Sal 51, 9. 12 s).
    2. Il giudaismo postesilico.
    Il giudaismo postesilico moltiplica le abluzioni rituali, che diventano estremamente minuziose e non sfuggono al formalismo presso i farisei contemporanei del vangelo (Mc 7, 1-5 par.). Queste pratiche simboleggiavano la purificazione del *cuore e potevano contribuire ad ottenerla quando vi si univano sentimenti di dolore. Verso l’epoca del NT, i rabbini battezzano i proseliti, pagani di origine che si aggregano al popolo giudaico (cfr. Mt 23, 15). Sembra persino che taluni considerino questo battesimo necessario come la *circoncisione. I bagni rituali sono frequenti presso gli Esseni, secondo Giuseppe, nonché nelle comunità di Damasco e di Qumrân. Tuttavia qui il bagno non è un rito di iniziazione; non vi si è ammessi se non dopo una lunga prova, destinata a manifestare la sincerità della conversione. È quotidiano ed esprime lo sforzo verso una vita pura e l’aspirazione alla grazia purificatrice. Ognuno si immerge da solo nell’acqua, mentre i penitenti che si presenteranno a Giovanni riceveranno il battesimo dalle sue mani e una volta per sempre.
    II. IL BATTESIMO DI GIOVANNI
    Il battesimo di Giovanni può essere paragonato al battesimo dei proseliti. Quest’ultimo introduceva nel popolo di Israele; il battesimo di Giovanni realizza una specie di aggregazione alla vera posterità di *Abramo (Mt 3, 9 par.), al *resto di Israele, ormai sottratto all’*ira di Dio (Mt 3, 7. 10 par.) ed in attesa del *messia che viene. È un battesimo unico, dato nel deserto, in vista del pentimento e del perdono (Mc 1, 4 par.). Implica la confessione dei peccati ed uno sforzo di conversione definitiva, che il rito deve esprimere (Mt 3, 6 ss). Giovanni insiste sulla purità morale; non esige né dai pubblicani, né dai soldati che abbandonino le loro funzioni (Lc 3, 10-14). Il battesimo di Giovanni stabilisce soltanto una economia provvisoria: è un battesimo di acqua, preparatorio al battesimo messianico nello Spirito Santo e nel *fuoco (Mt 3, 11 par.; Atti 1, 5; 11, 16; 19, 3 s), purificazione suprema (cfr. Sal 51) che inaugurerà il mondo nuovo e la cui prospettiva qui pare confondersi con quella del *giudizio. Di fatto il dono dello Spirito, inviato dal messia glorificato, si distinguerà dal giudizio (Lc 3, 16 s par.).

    III. IL BATTESIMO DI GESÙ
    1.
    Presentandosi per ricevere il battesimo di Giovanni, Gesù si sottomette alla volontà del Padre (Mt 3, 14 s) e prende umilmente posto tra i peccatori. Egli è l’*agnello di Dio che in tal modo prende su di sé il peccato del mondo (Gv 1, 29. 36). Il battesimo di Gesù nel Giordano annunzia e prepara il suo battesimo «nella morte» (Lc 12, 50; Mc 10, 38), inquadrando così la sua vita pubblica tra due battesimi. È quanto vuol dire anche l’evangelista Giovanni allorché riferisce che l’acqua ed il *sangue uscirono dal costato di Gesù trafitto (Gv 19, 34 s) e quando afferma che lo Spirito, l’acqua e il sangue sono intimamente uniti (1 Gv 5, 6-8).
    2. Il battesimo di Gesù da parte di Giovanni è coronato dalla discesa dello *Spirito Santo sotto forma di *colomba, e dalla proclamazione della sua filiazione divina da parte del Padre celeste. La discesa dello Spirito su Gesù è una investitura che risponde alle profezie (Is 11, 2; 42, 1; 61, 1); è nello stesso tempo l’annunzio della *Pentecoste, che inaugurerà il battesimo nello Spirito, per la Chiesa (Atti 1, 5; 11, 16) e per tutti coloro che vi entreranno (Ef 5, 25-32; Tito 3, 5 ss). Il riconoscimento di Gesù come *figlio annunzia la filiazione adottiva dei credenti, partecipazione a quella di Gesù e conseguenza del dono dello Spirito (Gal 4, 6). Di fatto il «battesimo nella morte» deve condurre Gesù alla sua *risurrezione; allora, ricevendo la *pienezza dello Spirito, la sua umanità glorificata sarà costituita «spirito vivificante» (1 Cor 15, 45), che comunica lo Spirito a coloro che credono in lui.
    IV. IL BATTESIMO CRISTIANO
    1. Il battesimo di acqua e di Spirito.
    - Giovanni Battista annunziava il battesimo nello Spirito e nel fuoco (Mt 3, 11 par.). Lo Spirito è il dono messianico promesso. Il *fuoco è il *giudizio che incomincia a compiersi alla venuta di Gesù (Gv 3, 18-21; 5, 22-25; 9, 39). L’uno e l’altro sono inaugurati nel battesimo di Gesù, che prelude a quello dei suoi fedeli. Paolo vede il battesimo cristiano annunciato nel passaggio del *Mar Rosso che libera Israele dalla schiavitù (1 Cor 10, 1 s). La sua effettiva realizzazione ha inizio alla Pentecoste che è una specie di battesimo della Chiesa nello Spirito e nel fuoco. Pietro predica immediatamente ai suoi ascoltatori, attirati dal prodigio, la necessità di ricevere il battesimo con sentimenti di pentimento, al fine di ottenere la remissione dei peccati e il dono dello Spirito Santo; cosa che si verifica immediatamente (Atti 2, 38-41). Questo modo di agire presuppone un ordine impartito da Cristo, qual è annunciato da Gv 3, 3 ss e espressamente formulato dopo la risurrezione (Mt 28, 19; Mc 16, 16). Il battesimo in genere comporta un’immersione totale (cfr. Atti 8, 38) o, se questa non è possibile, almeno un’aspersione di acqua sul capo, come fa fede la Didachè 7, 3. Il battesimo è seguito dall’imposizione delle mani che assicura il dono plenario dello Spirito Santo (Atti 8, 15 ss; 19, 6). San Paolo approfondisce e completa la dottrina battesimale, che risultava dagli insegnamenti del Salvatore (Mc 10, 38) e dalla pratica della Chiesa (1 Cor 6, 3). Il battesimo conferito in nome di Cristo (1 Cor 1, 13) unisce alla morte, alla sepoltura e alla risurrezione del Salvatore (Rom 6, 3 ss; Col 2, 12). L’immersione rappresenta la morte e la sepoltura di Cristo; l’uscita dall’acqua simboleggia la *risurrezione in unione con lui. Il battesimo fa morire il corpo in quanto strumento del peccato (Rom 6, 6) e rende partecipi alla vita per Dio in Cristo (6, 11). La morte al peccato e il dono della vita sono indissolubili; l’abluzione di acqua pura è nello stesso tempo aspersione del *sangue di Cristo, più eloquente di quello di *Abele (Ebr 12, 24; 1 Piet 1, 2), effettiva partecipazione ai meriti acquisiti di diritto per tutti da Cristo sul Calvario, unione alla sua risurrezione e, per principio alla sua glorificazione (Ef 2, 5 s). Il battesimo è quindi un sacramento pasquale, una comunione alla *Pasqua di Cristo; il battezzato muore al peccato e vive per Dio in Cristo (Rom 6, 11), vive della *vita stessa di Cristo (Gal 2, 20; Fil 1, 21). La trasformazione così realizzata è radicale; è spoliazione e morte del vecchio uomo e rivestimento dell’uomo nuovo (Rom 6, 6; Col 3, 9; Ef 4, 24), *creazione nuova ad *immagine di Dio (Gal 6, 15). Un insegnamento analogo, ma più sommario, è contenuto in 1 Piet 3, 18-21, che vede nel passaggio di *Noè in mezzo alle acque del diluvio l’annuncio del passaggio del cristiano attraverso le acque del battesimo, passaggio liberatore, grazie alla risurrezione di Cristo.
    2. Il battezzato e le Persone divine.

    - Il battesimo nel *nome di *Gesù Cristo o del Signore Gesù (Atti 2, 38; 8, 16; 10, 48; 19, 5; 1 Cron 6, 11) significa che il battezzato appartiene a Cristo, che è intimamente associato a lui. Questo effetto capitale si esprime nei particolari sotto diverse forme: il battezzato riveste Cristo, è uno con lui (Gal 3, 27; Rom 13, 14); tutti coloro che ricevono il battesimo sono inoltre uniti tra di loro nell’unità stessa di Cristo (Gal 3, 28) e del suo corpo glorificato (1 Cor 12, 13; Ef 4, 4 s); ormai non fanno più che uno spirito con Cristo (1 Cor 6, 17). Il battesimo nel nome di Gesù presuppone indubbiamente l’uso di una formula in cui Cristo solo veniva menzionato. La formula trinitaria che in seguito è prevalsa (cfr. Didachè 7, 1. 3) deriva da Mt 28, 19. Esprime in forma sublime che il battezzato, unito al Figlio, lo è nello stesso tempo alle altre due persone: il credente riceve infatti il battesimo nel nome del Signore Gesù e per mezzo dello Spirito di Dio (1 Cor 6, 11); diventa il *tempio dello Spirito (6, 19), il figlio adottivo del Padre (Gal 4, 5 s), il *fratello e coerede di Cristo, che vive intimamente la sua vita ed è destinato a condividerne la gloria (Rom 8, 2. 9. 17. 30; Ef 2, 6).
    3. Conversione e fede battesimale.
    - Il battesimo suppone che si sia *confessata la propria *fede in Gesù Cristo (Atti 16, 30 s), il cui articolo essenziale, che riassume e contiene gli altri, è la risurrezione di Cristo (Rom 10, 9). Tuttavia l’oggetto della fede può essere conosciuto implicitamente quando lo Spirito è dato prima del battesimo (Atti 10, 44-48), e sembra che la fede del *padre di famiglia possa valere per tutti i suoi: così per Cornelio e per il carceriere di Filippi (Atti 10, 47; 16, 33). Ma la fede in Cristo non è soltanto adesione dello spirito al messaggio evangelico; comporta una *conversione totale, una donazione intera a Cristo che trasforma tutta la vita. Culmina normalmente nella domanda del battesimo, che ne è il sacramento, e diventa perfetta nel riceverlo. Paolo non la separa mai da esso; e quando parla della *giustificazione mediante la fede, lo fa per opporla alla pretesa giustificazione mediante le *opere della legge, sostenuta dai giudaizzanti. Egli suppone sempre che la professione di fede sia coronata col ricevere il battesimo (cfr. Gal 3, 26 s). Mediante la fede l’uomo risponde all’appello divino manifestatogli dalla predicazione apostolica (Rom 10, 14 s), risposta che d’altronde è opera della *grazia (Ef 2, 8). Nel battesimo lo Spirito si impadronisce del credente, lo aggrega al corpo della Chiesa e gli dà la certezza di essere entrato nel *regno di Dio. E’ chiaro che il sacramento non agisce in modo *magico. La conversione totale che esige deve essere il punto di partenza di una vita nuova in una fedeltà indefettibile.
    4. Fedeltà richiesta dal battezzato.
    - Altri aspetti sottolineano la profondità della trasformazione spirituale realizzata al momento del battesimo. Esso è stato per il catecumeno una nuova *nascita per mezzo dell’acqua e dello Spirito (Gv 3, 5), un bagno di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo (Tito 3, 5), un *sigillo impresso nella sua anima (2 Cor 1, 22; Ef 1, 13; 4, 30), un’illuminazione che l’ha fatto passare dalle tenebre del peccato alla *luce di Cristo (Ef 5, 8-14; Ebr 6, 4), una nuova *circoncisione che l’ha aggregato al nuovo popolo di Dio (Col 2, 11; cfr. Ef 2, 11-22). Tutto è compendiato nella qualità di *Figlio di Dio (1 Gv 3, 1), che gli conferisce una dignità incomparabile. Non si tratta di un nuovo stato statico, ma dell’ingresso in uno stato dinamico, vita superiore da cui il cristiano non deve mai decadere, il che presuppone uno sforzo costante per rendere sempre più reale la morte al peccato e la vita per Dio (Rom 6, 12 ss). L’accento viene messo ora sulla unione alla passione, ora sulla risurrezione; questi due aspetti si riferiscono all’unica realtà pasquale e permangono indissolubilmente legati. Unito alla Pasqua di Cristo da sforzi e da una fedeltà generosa, il battezzato si prepara ad entrare nel Regno glorioso (Col 1, 12 s) e nel possesso dell’eredità celeste di cui assapora le primizie col dono dello Spirito (2 Cor 1, 22; Ef 1, 4).
    F. AMIOT

    → acqua IV 2 - bianco 2 - Chiesa III 2 b, IV, V 1 - circoncisione NT - colomba 3 - confessione NT 1 - Corpo di Cristo III 1 - culto NT II 2, III 2 - diluvio 3 - elezione NT I - fede NT II 2.3 - fuoco NT II - gioia NT II 0 - Giovanni Battista - gustare 2 - luce e tenebre NT II 2 - morte NT II 1, III 1 - nascita (nuova) - nome NT - nuovo III 3 b - Pasqua III 2 - peccato IV 2 e. 3 c – penitenza-conversione NT I, III, IV 1 - Pentecoste II 2 a e - perdono II 3 - prova-tentazione NT II - puro NT II 2 - risurrezione NT II 2 - salvezza NT II 2 - santo NT II, III - sigillo 2 b - Spirito di Dio NT I 1 - unzione III 5.6 - veste II 4 - vita IV 4.

    BEATITUDINE (inizio)

    L’uomo desidera la felicità e la chiama *vita, *pace, *gioia, *riposo, *benedizione, *salvezza. Tutti questi beni sono in vario modo inclusi nella formula con cui si dichiara qualcuno beato o disgraziato. Quando il «sapiente» proclama: «Beati i poveri! Disgraziati i ricchi!», non intende pronunziare né una *benedizione che dia la felicità, né una *maledizione che produca l’infelicità, ma esortare, in nome della sua esperienza della felicità, a seguire le vie che vi portano.
    VECCHIO TESTAMENTO
    Per comprendere la portata ed il significato di numerose massime di sapienza che sembrano terra terra, bisogna collocarle nel clima religioso in cui furono enunciate. Di fatto se la beatitudine suppone sempre Dio come sorgente, ha conosciuto una lenta evoluzione che va dal terrestre al celeste.
    I. DIO E LA BEATITUDINE
    1. Felicità e gloria in Dio.

    - A differenza degli dèi greci, salutati ordinariamente con il titolo di «beati» perché incarnano l’ideale dell’uomo, la Bibbia non si sofferma sulla felicità di Dio (cfr. 1 Tim 1, 11; 6, 15), che non ha misura comune con quella a cui aspira l’uomo. Essa vede soprattutto in Jahvè un Dio di *gloria, che desidera comunicare questa gloria agli uomini; ciò implica una seconda differenza: mentre gli dèi greci fruiscono della loro felicità senza preoccuparsi in modo particolare della sorte degli uomini, Jahvè si china con sollecitudine su tutti gli uomini, specialmente sul suo popolo; la beatitudine dell’uomo deriva dalla *grazia divina, è partecipazione alla sua gloria.
    2. La beatitudine è Dio stesso.
    - Attraverso le proclamazioni che abbondano nella letteratura sapienziale, il lettore della Bibbia scopre in che cosa consiste la vera felicità e perché deve cercarla. Beato colui che teme Jahvè: sarà potente, benedetto (Sal 112, 1 s), avrà figli numerosi (Sal 128, 1 s). Se vuole assicurarsi vita, salvezza, benedizione, ricchezza (Prov 3, 1-10), deve seguire le vie divine (Sal 1, 1), camminare nella legge (Sal 119, 1), ascoltare la sapienza (Prov 8, 34 s), trovarla (Prov 3, 13 s), esercitarsi in essa (Eccli 14, 20), aver cura del povero (Sal 41, 2), in una parola essere *giusto. Sviluppando questi motivi per instradare i suoi discepoli sulle *vie della vera felicità, il saggio non oltrepassa in genere la prospettiva della *retribuzione immediata. Ai più e ai *poveri di Jahvè spetterà annunciare questo superamento; comprenderanno che con Dio possiedono tutto, e che l’abbandono totale, la *fiducia senza limiti è la via della beatitudine: nessun motivo espresso, ma una semplice affermazione. «Beati coloro che sperano in lui» (Is 30, 8). «Beato l’uomo che confida in te» (Sal 84, 13; cfr. Sal 2, 12; 65, 5; 146, 5). Quindi, per l’israelita temere Dio, osservare la sua legge, ascoltare la sapienza, significa aspettare la felicità come ricompensa; significa anche, per i più spirituali, possederla già, significa essere con Dio per sempre, *gustare, «alla sua destra, le delizie eterne» (Sal 16, 11; cfr. 73, 23 ss).
    II. DALLA FELICITÀ TERRESTRE ALLA CELESTE
    È così precisato il vertice divino della beatitudine. Ma per scoprire che solo Dio è la felicità, ogni uomo deve seguire un percorso che, di *delusione in delusione (Sal 41, 10; 118, 8 s; 146, 3 s), depura lentamente i suoi desideri.
    1. La beatitudine terrestre.
    - La felicità è la *vita, una vita che si identificò per lungo tempo con la vita terrena. Ecco la beatitudine del popolo che ha Jahvè per Dio: avere figli grandi, belle figlie, granai ripieni, greggi numerosi, ed infine la *pace (Sal 144, 12-15). E i testi sacri fanno l’enumerazione particolareggiata di questi beni dell’uomo nel campo nazionale, familiare o personale. Avere un re degno di questo nome (Eccle 10, 16 s), una sposa di buon senso (Eccli 25, 8), eccellente (26, 1), una grossa fortuna, acquistata senza peccato e posseduta senza esserne schiavo (31, 8); essere prudente (25, 9), non peccare con la lingua (14, 1), aver pietà degli sfortunati (Prov 14, 21), non aver rimproveri da muoversi (Eccli 14, 2). In breve, avere una vita degna di questo nome, e per questo essere educato da Dio stesso (Sal 94, 12). Certamente conviene far lamenti su colui che è morto; ma i pianti non devono durare troppo, perché un’afflizione funesta impedirebbe di ben fruire della felicità in terra (Eccli 38, 16-23).
    2. Verso la beatitudine celeste.
    - I beni terreni dell’alleanza, elargiti, benedetti da Jahvè, erano i segni di una comunanza di vita con Dio. Quando si fece strada la credenza nella vita eterna, ne vennero percepiti con maggior nitidezza i limiti e i rischi; a prezzo di questa purificazione, arrivarono allora a significare la stessa vita eterna; nello stesso tempo, la nuova speranza faceva affiorare valori nuovi, come la *fecondità spirituale dell’uomo e della donna sterili. Questa speranza opera un rovesciamento dell’antico ordine di valori. Già l’esperienza suggeriva che non bisognava apprezzare la felicità di un uomo prima dell’ora della fine (Eccli 12, 28). Con un’audacia inaudita, che preannuncia il vangelo, il libro della Sapienza proclama beati gli *sterili se sono giusti e virtuosi (Sap 3, 13 ss). I sapienti sono pervenuti allora a quel che proclamavano già i salmi dei *poveri quando vedevano il bene assoluto nella fiducia in Jahvè (ad es. Sal 73, 23-28).
    NUOVO TESTAMENTO
    Con la venuta di *Gesù Cristo sono virtualmente donati tutti i beni, perché in lui la beatitudine trova infine il proprio ideale e il proprio compimento. Perchè egli è il *Regno già presente e dà ai suoi fedeli il bene supremo: lo Spirito Santo, come anticipo sull’eredità celeste.
    I. LA BEATITUDINE E CRISTO
    Gesù non è semplicemente un sapiente di grande esperienza, ma è colui che vive pienamente la beatitudine che propone.
    1. Le «beatitudini», poste all’inizio del discorso inaugurale di Gesù, offrono, secondo Mt 5, 3-12, il programma della felicità cristiana. Nella recensione di Luca, esse sono abbinate a delle constatazioni di sventura, esaltando in tal modo il valore superiore di certe condizioni di vita (Lc 6, 20-26). Queste due interpretazioni tuttavia non possono essere ricondotte alla beatificazione di *virtù o stati di vita. Si compensano a vicenda; soprattutto esprimono la verità in esse contenuta solo a condizione che venga loro attribuito quel significato che Gesù aveva dato loro. Gesù infatti è venuto da parte di Dio a pronunciare un solenne si alle promesse del VT; il regno dei cieli è lì, le necessità e le afflizioni sono soppresse, la misericordia e la vita, concesse da Dio. Effettivamente, se certe beatitudini sono pronunciate al futuro, la prima («Beati i poveri...»), che contiene virtualmente le altre, intende attualizzarsi fin d’ora. C’è di più. Le beatitudini sono un sì detto da Dio in Gesù. Mentre il VT giungeva ad identificare la beatitudine con Dio stesso, Gesù si presenta a sua volta come colui che porta a *compimento l’aspirazione alla felicità: il *regno dei cieli è presente in lui. Più ancora, Gesù ha voluto «incarnare» le beatitudini vivendole perfettamente, mostrandosi «mite ed umile di cuore» (Mt 11, 29).
    2. Le altre proclamazioni evangeliche tendono tutte parimenti a dimostrare che Gesù è al centro della beatitudine. *Maria è «proclamata beata» per aver dato alla luce il Salvatore (Lc 1, 48; 11, 27), perché ha creduto (1, 45); con ciò essa annunzia la beatitudine di tutti coloro che, *ascoltando la parola di Dio (11, 28), crederanno senza aver *visto (Gv 20, 29). Guai ai farisei (Mt 23, 13-32), a Giuda (26, 24), alle città incredule (1, 21)! Beato Simone, al quale il Padre ha rivelato in Gesù il Figlio del Dio vivente (Mt 16, 17)! Beati gli occhi che hanno visto Gesù (13, 16)! Beati soprattutto i discepoli che, in attesa del ritorno del Signore, saranno fedeli, vigilanti (Mt 24, 46), tutti dediti al servizio reciproco (Gv 13, 17).
    II. I VALORI DI CRISTO
    Mentre il VT si sforzava timidamente di aggiungere ai valori terreni della ricchezza e del successo il valore della giustizia nella povertà e nell’insuccesso, Gesù, dal canto suo, denuncia l’ambiguità di una rappresentazione terrena della beatitudine. Ormai i beati di questo mondo non sono più i ricchi, i pasciuti, gli adulati, ma coloro che hanno fame e che piangono, i poveri e i perseguitati (cfr. 1 Piet 3, 14; 4, 14). Questo rovesciamento dei valori era possibile ad opera di colui che è ogni valore. Due beatitudini principali comprendono tutte le altre: la *povertà con il suo corteo delle *opere di *giustizia, di *umiltà, di *mitezza, di *purezza, di *misericordia, di preoccupazione per la *pace; e poi la *persecuzione per amore di Cristo. Ma questi stessi valori non sono nulla senza Gesù che dà loro tutto il senso. Quindi soltanto colui che ha posto Cristo al centro della sua fede può intendere le beatitudini dell’Apocalisse. Beato se le ascolta (Apoc 1, 3; 22, 7), se rimane vigilante (16, 15), perché è chiamato alle nozze dell’agnello (19, 9), per la risurrezione (20, 6) Anche se deve dare la vita in *testimonianza, non si perda d’animo: «Beati i morti che muoiono nel Signore!» (14, 13).
    J. L. D’ARAGON e X. LÉON-DUFOUR
    →benedizione II 3 - cielo VI - consolazione - eredità VT II 2; NT II - gioia - gloria IV 1 - gustare 2 - pace - paradiso - pasto IV - poveri NT I, II - promesse III 1 - riposo - riso 2 - sofferenza NT I 2 - tristezza NT 2.

    BEELZEBUL (inizio)

    →demoni NT 1.

    BEFFARDO (inizio)

    → empio - riso.

    BELIAL (inizio)

    → Satana III.

    BELLEZZA (inizio)

    → bene e male I 1 - donna VT 3 - gloria I - grazia I - profumo I.

    BENE E MALE (inizio)

    «Dio vide tutto ciò che aveva fatto: ed era molto buono» (Gen 1, 31). Tuttavia, per affrettare la venuta del regno escatologico, Cristo ci fa domandare nel Pater: «Liberaci dal male» (Mi 6, 13). L’opposizione di queste due formule pone al credente dei nostri giorni un problema di cui la Bibbia stessa offre elementi di soluzione: donde viene il male in questo mondo creato buono? Quando e come sarà vinto?
    I. IL BENE ED IL MALE NEL MONDO
    1. Per colui che le vede e le esperimenta, alcune cose sono soggettivamente buone o cattive. La parola ebraica tôb (tradotta indifferentemente con le parole greche kalòs ed agathòs, bello e buono [cfr. Lc 6, 27. 35]) designa primitivamente le persone o gli oggetti che provocano sensazioni piacevoli o l’euforia di tutto l’essere: un buon pasto (Giud 19, 6-9; 1 Re 21, 7; Rut 3, 7), una bella ragazza (Est 1, 11), persone benefiche (Gen 40, 14), in breve tutto ciò che procura la felicità o facilita la *vita nell’ordine fisico o psicologico (cfr. Deut 30, 15); al contrario, tutto ciò che porta alla *malattia, alla *sofferenza in tutte le sue forme, e soprattutto alla *morte, è cattivo (ebr. ra’; gr. poneròs e kakòs).
    2. Si può anche parlare d’una bontà oggettiva delle creature.
    Questo, nel senso in cui l’intendevano i Greci? Questi, per ogni cosa, immaginavano un archetipo da imitare o da realizzare; proponevano all’uomo un ideale, il kalòs - kagathòs che, possedendo in se stesso tutte le qualità morali, estetiche e sociali, è perfetto, piacevole ed utile alla *città. In questa prospettiva particolare, come concepire il male? Come una imperfezione, una pura negatività, una assenza di bene? Oppure, al contrario, come una realtà avente la sua propria esistenza e derivante da quel principio cattivo che aveva una grande parte nel pensiero iranico? Quando la Bibbia attribuisce una reale bontà alle cose, non l’intende a questo modo. Dicendo: «Dio vide che era buono» (Gen 1, 4...), essa mostra che questa bontà non si misura in funzione di un bene astratto, ma in rapporto al Dio creatore, il quale solo dà alle cose la loro bontà.
    3. La bontà dell’uomo costituisce un caso particolare.
    Di fatto dipende in parte dall’uomo stesso. Fin dalla *creazione Dio lo ha posto dinanzi «all’*albero della *conoscenza del bene e del male», lasciandogli la possibilità di obbedire e di fruire dell’albero di vita, oppure di disobbedire e di essere trascinato nella morte (Gen 2, 9. 17), *prova decisiva della *libertà che si ripete per ogni uomo. Se rigetta il male e fa il bene (Is 7, 15; Am 5, 14; cfr. Is 1, 16 s), osservando la *legge di Dio e conformandosi alla sua *volontà (cfr. Deut 6, 18; 12, 28; Mi 6, 8), egli sarà buono e gli piacerà (Gen 6, 8); diversamente sarà cattivo e gli dispiacerà (Gen 38, 7). *Responsabile, opererà in coscienza la sua scelta che determinerà la sua qualificazione morale e, di conseguenza, il suo destino.
    4. L'uomo ha scelto, fin dall'origine, il male. 
    Ora, sedotto dal maligno (cfr. *Satana), l’*uomo ha fin dall’origine scelto il male. Ha cercato il suo bene in creature: «buone da mangiare e seducenti da vedere» (Gen 3, 6), ma fuori della *volontà di Dio, il che costituisce l’essenza stessa del *peccato. Non vi ha trovato che i frutti amari della sofferenza e della morte (Gen 3, 16-19). A causa del suo peccato il male si è dunque introdotto nel mondo, poi vi ha proliferato. I figli di *Adamo sono diventati talmente cattivi che Dio si pente di averli fatti (Gen 6, 5 ss): nessuno che faccia il bene quaggiù (Sal 14, 1 ss; Rom 3, 10 ss). Questa è l’esperienza dell’uomo: si sente frustrato nei suoi desideri insaziabili (Eccle 5, 9 ss; 6, 7), impedito di godere pienamente dei beni della terra (Eccle 5, 14; 11, 2-6), incapace persino di «fare il bene senza mai peccare» (Eccle 7, 20), perché il male esce dal suo stesso *cuore (Gen 6, 5; Sal 28, 3; Ger 7, 24; Mt 15, 19 s). È colpito nella sua libertà (Rom 7, 19), schiavo del peccato (6, 17): la sua ragione stessa è compromessa: viziando l’ordine delle cose, egli chiama male il bene e bene il male (Is 5, 20; Rom 1, 21-25). Infine, apatico e deluso, si accorge che «tutto è vanità» (Eccle 1, 2); esperimenta duramente che «il mondo intero è in potere del maligno» (1 Gv 5, 19; cfr. Gv 7, 7). Di fatto il male non è una semplice assenza di bene, ma una forza positiva che asservisce l’uomo e corrompe l’universo (Gen 3, 17 s). Dio non l’ha creato, ma ora che è apparso, esso gli si oppone. Incomincia una *guerra incessante, che durerà quanto la storia: per salvare l’uomo, il Dio onnipotente dovrà trionfare del male e del maligno (Ez 38 - 39; Apoc 12, 7-17).

    II. DIO SOLO È BUONO
    1. La bontà di *Dio è una rivelazione fondamentale del VT.
    Avendo conosciuto il male nel suo parossismo durante la schiavitù di Egitto, Israele scopre il bene in Jahvè suo *liberatore. Dio lo strappa alla morte (Es 3, 7s; 18, 9), poi lo conduce nella *terra promessa, in quel «buon paese» (Deur 8, 7-10) «in cui scorrono il *latte ed il miele», e «su cui Jahvè tiene costantemente gli occhi». Israele vi troverà la felicità (cfr. Deut 4, 40), se rimane fedele alla *alleanza (Deut 8, 11- 19; 11, 8-12. 18-28).
    2. Dio pone una condizione ai suoi doni.
    - Come Adamo nel paradiso, Israele si vede posto di fronte ad una scelta che determinerà il suo destino. Dio gli mette dinanzi la *benedizione e la *maledizione (Deut 11, 26 ss), perché il bene fisico ed il bene morale sono parimenti legati a Dio: se Israele «dimenticasse Jahvè», cessasse di amarlo, non osservasse più i comandamenti e rompesse l’alleanza, sarebbe immediatamente privato di questi beni terreni (Deut 11, 17) e rinviato in schiavitù, mentre la sua terra diventerebbe un *deserto (Deut 30, 15-20; 2 Re 17, 7- 23; Os 2, 4-14). Di questa dottrina fondamentale dell’alleanza Israele esperimenta la verità nel corso della sua storia: come nel dramma del paradiso, l’esperienza della sventura segue quella del peccato.
    3. La fortuna degli empi e la sfortuna dei giusti.
    - Or ecco che, su un punto capitale, la dottrina sembra colta in fallo: non sembra che Dio favorisca gli *empi e lasci i buoni nell’infelicità? I *giusti soffrono, il *servo di Jahvè è perseguitato, i *profeti sono messi a morte (cfr. Ger 12, 1 s; 15, 15-18; Is 53; Sal 22; Giob 23-24). Dolorosa e misteriosa esperienza della *sofferenza, il cui senso non appare di colpo. Tuttavia per mezzo di essa i *poveri di Jahvè imparano a poco a poco a staccarsi dai «beni di questo *mondo», effimeri ed instabili (Sof 3, 11 ss; cfr. Mt 6, 19 ss; Lc 12, 33 s), per trovare la loro *forza, la loro *vita ed il loro bene in Dio, che solo rimane loro quando tutto è perduto, ed al quale aderiscono con una *fede ed una *speranza eroiche (Sal 22, 20; 42, 6; 73, 25; Ger 20, 11). Certamente essi sono ancora soggetti al male, ma hanno con sé il loro salvatore, che trionferà nel giorno della *salvezza; allora riceveranno quei beni che Dio ha promesso ai suoi fedeli (Sol 22, 27; Ger 31, 10-14). In tutta verità, Dio «solo è buono» (Mc 10, 18 par.).
    III. DIO TRIONFA DEL MALE
    Rivelandosi come salvatore, Dio annunziava già la sua futura *vittoria sul male. Era ancora necessario che questa si affermasse in una forma definitiva, rendendo l’uomo buono e sottraendolo al potere del maligno (1 Gv 5, 18 s), «principe di questo *mondo» (Lc 4, 6; Gv 12, 31; 14, 30).
    1. Certamente Dio aveva già dato la *legge, che era buona e destinata alla vita (Rom 7, 12 ss): praticando i comandamenti, l’uomo farebbe il bene ed otterrebbe la vita eterna (Mt 19, 16 s). Ma questa legge rimaneva per sé inefficace finché il *cuore dell’uomo, prigioniero del peccato, non era mutato. Volere il bene è alla portata dell’*uomo, ma non il compierlo: egli non fa il bene che vuole, fa il male che non vuole (Rom 7, 18 ss). La concupiscenza lo trascina quasi suo malgrado, e la legge, fatta per il suo bene, si volge in definitiva a suo danno (Rom 7, 7. 12 s; Gal 3, 19). Questa lotta interiore lo lascia infinitamente infelice; chi dunque lo libererà (Rom 7, 14- 24)?
    2. Solo «*Gesù Cristo nostro Signore» (Rom 7, 25) può cogliere il male alla radice, trionfandone nel cuore stesso dell’uomo (cfr. Ez 36, 26 s). Egli è il nuovo *Adamo (Rom 5, 12-21), senza peccato (Gv 8, 46), su cui Satana non ha alcun potere. Egli si è fatto obbediente fino alla morte di *croce (Fil 2, 8). Ha dato la vita affinché le sue pecore trovino pascolo (Gv 10, 9-18). Si è fatto «*maledizione per noi, affinché mediante la fede ricevessimo lo Spirito promesso» (Gal 3, 13 s).
    3. I frutti dello Spirito.
    - Rinunziando alla vita e ai beni terreni (Ebr 12, 2) ed inviandoci lo Spirito Santo, Cristo ci ha procurato così le «cose buone» che dobbiamo domandare al Padre (Mt 7, 11; cfr. Lc 11, 13). Non si tratta più dei beni materiali, come quelli che erano promessi un tempo agli Ebrei; sono i «*frutti dello Spirito» in noi (Gal 5, 22-25). Ormai l’uomo, trasformato dalla *grazia, può «fare il bene» (Gal 6, 9 s), «fare *opere buone» (Mt 5, 16; 1 Tim 6, 18 s; Tito 3, 8. 14), «vincere il male con il bene» (Rom 12, 21). Per divenire capace di questi beni nuovi, egli deve passare attraverso la spogliazione,«vendere i suoi beni» e *seguire Cristo (Mt 19, 21), «rinunziare a se stesso e portare la sua croce con lui» (Mt 10, 38 s; 16, 24 ss).
    4. La vittoria del bene sul male.
    - Scegliendo di vivere in tal modo con Cristo per obbedire agli incitamenti dello Spirito Santo, il cristiano rompe la sua solidarietà con la opzione di Adamo. Quindi il male morale è veramente vinto in lui. Certamente le sue conseguenze fisiche e psicologiche rimangono finché durerà il mondo presente, ma egli si gloria delle sue tribolazioni, acquistando per mezzo di esse la *pazienza (Rom 5, 4), stimando che «le sofferenze del tempo presente non sono da paragonarsi alla *gloria che deve rivelarsi» (8, 18). Così, mediante la fede e la speranza, egli è già in possesso delle *ricchezze incorruttibili (Lc 12, 33 s) che sono accordate per la *mediazione di Cristo, «sommo sacerdote dei beni futuri» (Ebr 9, 11; 10, 1). Questo è soltanto un inizio, perché credere non è *vedere; ma la fede garantisce i beni sperati (Ebr 11, 1), quelli della *patria migliore (Ebr 11, 16), quelli del mondo nuovo che Dio creerà per i suoi eletti (Apoc 21, 1 ss).

    J. DE VAULX 
    → Babele-Babilonia 3 - città VT 3; NT 2 - co-scienza - crescita 2 a - frutto III - guerra - gustare 1 - lingua 1 - luce e tenebre NT II - maledizione - menzogna III - mondo - odio III 3 - opere I 3 - peccato - persecuzione - prova-tentazione - responsabilità - retribuzione - sapienza VT I 2, II l; NT III 2 - Satana - sofferenza - vendetta - via II - virtù e vizi.

    BENEDIZIONE (inizio)

    I. RICCHEZZE DELLA BENEDIZIONE
    Spesso la benedizione evoca soltanto le forme più superficiali della religione, formule borbottate, pratiche vuote di senso, alle quali tanto più si tiene, quanto meno si ha fede. D’altra parte anche la tradizione cristiana vivente non ha ritenuto degli usi biblici se non i meno ricchi di senso, classificando i più importanti nelle categorie della grazia e del ringraziamento. Di qui una vera indifferenza alle parole di benedizione ed anche alla realtà che esse possono designare. Tuttavia l’ultimo gesto visibile di Cristo sulla terra, quello che egli lascia alla sua Chiesa e che l’arte cristiana di Bisanzio e delle cattedrali ha fissato, è la sua benedizione (Lc 24, 50 s). Precisare nei particolari le ricchezze della benedizione biblica significa in realtà mettere in luce le meraviglie della generosità divina e la qualità religiosa dello stupore che questa generosità suscita nella creatura. La benedizione è un *dono che ha rapporto con la vita ed il suo mistero, ed è un dono espresso mediante la parola ed il suo mistero. La benedizione è sia *parola che dono, sia dizione che bene (cfr. gr. eu-loghìa, lat. bene-dictio), perché il bene che essa apporta non è un oggetto preciso, un dono definito, perché non appartiene alla sfera dell’avere ma a quella dell’essere, perché non deriva dall’azione dell’uomo, ma dalla creazione di Dio. Benedire significa dire il dono creatore e vivificante, sia prima che si produca, sotto la forma di una preghiera, sia dopo avvenuto, sotto la forma del ringraziamento. Ma, mentre la preghiera di benedizione afferma in anticipo la generosità divina, il ringraziamento l’ha vista rivelarsi.
    II. IL VOCABOLARIO DELLA BENEDIZIONE
    In ebraico, come anche nelle lingue moderne, nonostante l’indebolimento che la parola ha subito, una sola radice (brk, collegata forse al *ginocchio ed all’*adorazione, forse anche alla forza vitale degli organi sessuali) serve a designare tutte le forme della benedizione, a tutti i suoi livelli. Poiché la benedizione è ad un tempo cosa donata, dono di qualche cosa e formulazione di questo dono, tre parole la esprimono: il sostantivo berakah, il verbo barek, l’aggettivo barûk.
    1. Benedizione (berakah).
    - Anche nel suo senso più profano, più materiale, quello di «dono», la parola implica una sfumatura sensibilissima di incontro umano. I doni offerti da Abigail a David (1 Sam 25, 14-27), da David alla gente di Giuda (1 Sam 30, 26-31), da Naaman guarito da Eliseo (2 Re 5, 15), da Giacobbe ad Esaù (Gen 33, 11) sono tutti destinati a suggellare un’unione o una *riconciliazione. Ma gli usi di gran lunga più frequenti della parola sono in contesto religioso: anche per designare le ricchezze più materiali, se è scelta la parola benedizione, si è per farle risalire a Dio e alla sua generosità (Prov 10, 6. 22; Eccli 33, 17), od ancora alla stima delle persone perbene (Prov 11, 11; 28, 20; Eccli 2, 8). La benedizione evoca l’immagine di una sana prosperità, ma anche della generosità verso i disgraziati (Eccli 7, 32; Prov 11, 26) e sempre della benevolenza di Dio. Questa abbondanza e questa agiatezza è quel che gli Ebrei chiamano *pace, e le due parole sono sovente associate; ma, se evocano entrambe la stessa pienezza di *ricchezza, la ricchezza essenziale della benedizione è quella della *vita e della *fecondità; la benedizione fiorisce (Eccli 11, 22 ebr.) come un Eden (Eccli 40, 17). Il suo simbolo privilegiato è l’*acqua (Gen 49, 25; Eccli 39, 22); l’acqua è essa stessa una benedizione essenziale, indispensabile (Ez 34, 26; Mal 3, 10); simultaneamente alla vita che alimenta sulla terra, per la sua origine celeste essa evoca la generosità e la gratuità di Dio, la sua potenza vivificante. L’oracolo di Giacobbe su Giuseppe raduna tutte queste immagini, la vita feconda, l’acqua, il *cielo: «Benedizioni dei cieli dall’alto, benedizioni dell’abisso nelle profondità, benedizioni delle mammelle e del seno materno» (Gen 49, 25). Questa sensibilità alla generosità di Dio nei doni della natura prepara Israele ad accogliere le generosità della sua *grazia.
    2. Benedire.
    - Il verbo presenta una gamma di usi molto vasta, dal saluto banale rivolto allo sconosciuto per istrada (2 Re 4, 29) o dalle formule abituali di cortesia (Gen 47, 7. 10; 1 Sam 13, 10) fino ai doni più alti del favore divino. Colui che benedice è per lo più *Dio, e la sua benedizione fa sempre scaturire la vita (Sal 65, 11; Gen 24, 35; Giob 1, 10). Quindi soltanto gli esseri viventi sono suscettibili di riceverla; gli oggetti inanimati sono consacrati al servizio di Dio e santificati dalla sua presenza, ma non benedetti. Dopo Dio la sorgente della vita è il *padre, al quale spetta benedire. Più di qualunque altra, la sua benedizione è efficace, come è terribile la sua *maledizione (Eccli 3, 8), e bisogna che Geremia sia all’estremo delle forze per osare di maledire l’uomo che venne ad annunziare al padre suo che gli era nato un figlio (Ger 20, 15; cfr. Giob 3, 3). Per un singolare paradosso capita sovente che il debole benedica il potente (Giob 29, 13; Sal 72, 13-16; Eccli 4, 5), che l’uomo osi benedire Dio. E questo perché, se il *povero non ha nulla da dare al ricco, e l’uomo nulla da dare a Dio, la benedizione stabilisce tra gli esseri una corrente vitale e reciproca, che permette all’inferiore di veder traboccare su di sé la generosità del potente. Non è assurdo benedire il Dio che è «al di sopra di tutte le benedizioni» (Neem 9, 5) significa semplicemente confessare la sua generosità e ringraziarlo,
    costituisce il primo dovere della creatura (Rom 1, 21).
    3. Benedetto.
    - Il participio barûk è, tra tutte le parole di benedizione, la più forte. Costituisce il centro della formula tipica di benedizione israelitica: «Benedetto sia N...!». Né semplice constatazione, né puro augurio, ancor più entusiastica della *beatitudine, questa formula scaturisce come un grido dinanzi ad un personaggio in cui Dio ha rivelato la sua potenza e la sua generosità e ha scelto «tra tutti»: Jael, «tra le donne della tenda» (Giud 5, 24), Israele, «tra le nazioni» (Deut 33, 24), Maria, «tra le donne» (Lc 1, 42; cfr. Giudit 13, 18). Stupore dinanzi a quel che Dio può fare nel suo *eletto. La persona benedetta è nel mondo come una *rivelazione di Dio, a cui appartiene per un titolo speciale; è «benedetto da Jahvè», come taluni esseri sono «sacri a Jahvè». Ma, mentre la *santità che consacra a Dio separa dal mondo profano, la benedizione fa dell’essere, che Dio designa, un punto di riunione ed una fonte di irradiazione. Il santo ed il benedetto appartengono entrambi a Dio; ma il santo rivela piuttosto la sua grandezza inaccessibile, il benedetto la sua generosità inesauribile. Frequente e spontanea come il grido: «Benedetto N...!», anche la formula parallela: «Benedetto Iddio!» sgorga dall’impressione provata dinanzi ad un atto in cui Dio ha rivelato la sua *potenza. Essa non sottolinea tanto la grandezza dell’atto, quanto la sua meravigliosa opportunità, il suo carattere di segno. Nuovamente la benedizione è una reazione dell’uomo alla rivelazione di Dio (cfr. Gen 14, 20, Melchisedec; Gen 24, 27, Eliezer; Es 18, 10, Jetro; Rut 4, 14, Booz a Rut). Infine, più di una volta, le due esclamazioni: «Benedetto N...!» e «Benedetto Iddio!» sono unite e si rispondono: «Benedetto Abramo dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra! - e benedetto il Dio altissimo, che ha consegnato i tuoi nemici nelle tue mani!» (Gen 14, 19 s; cfr. 1 Sam 25, 32 s; Giudit 13, 17 s). In questo ritmo completo appare la vera natura della benedizione: è una esplosione estatica dinanzi ad un eletto da Dio, ma non si ferma all’eletto e risale fino a Dio che si è rivelato in questo segno. Egli è il barûk per eccellenza, il benedetto; possiede in pienezza ogni benedizione. Benedirlo non significa credere di aggiungere alcunché alla sua ricchezza, significa lasciarsi trasportare dall’entusiasmo di questa rivelazione ed invitare il mondo a *lodarla. La benedizione è sempre *confessione pubblica della potenza divina e *ringraziamento per la sua generosità.
    III. STORIA DELLA BENEDIZIONE
    Tutta la storia di Israele è la storia della benedizione promessa ad Abramo (Gen 12, 3) e data al mondo in Gesù, «*frutto benedetto» del «seno benedetto» di Maria (Lc 1, 42). Tuttavia negli scritti del VT l’attenzione rivolta alla benedizione presenta molte sfumature e la benedizione assume accenti diversissimi.
    1. Fino ad Abramo.
    - Benedetti in origine dal creatore (Gen 1, 28), l’uomo e la donna con il loro peccato scatenano la *maledizione di Dio. Tuttavia, se sono maledetti il serpente (3, 14) ed il suolo (3, 17), non lo sono né l’uomo né la donna. Dal loro lavoro, dalla loro sofferenza, sovente a prezzo di un’agonia, continuerà a sorgere la vita (3, 16-19). Dopo il diluvio una nuova benedizione dà all’umanità potenza e fecondità (9, 1). Tuttavia il peccato non cessa di dividere e di distruggere l’umanità; la benedizione di Dio a Sem ha come contropartita la maledizione di Canaan (9, 26).
    2. La benedizione dei patriarchi.
    - La benedizione di Abramo è invece di tipo nuovo. Senza dubbio, in un mondo che rimane diviso, Abramo avrà dei *nemici e Dio gli dimostrerà la sua fedeltà maledicendo chiunque (al singolare) lo maledirà, ma il caso deve rimanere un’eccezione, e il *disegno di Dio è di benedire «tutte le *nazioni della terra» (Gen 12, 3). Tutti i racconti della Genesi sono la storia di questa benedizione.
    a) Le benedizioni pronunziate dai padri, di carattere più arcaico, li presentano in atto di invocare sui loro figli, in genere al momento di morire, le potenze della *fecondità e della *vita, «la rugiada del cielo e le terre grasse» (Gen 27, 28), i torrenti di latte ed «il sangue dell’uva» (49, 11 s), la forza per schiacciare i loro avversari (27, 29; 49, 8 s), una terra in cui stabilirsi (27, 28; cfr. 27, 39; 49, 9) e perpetuare il loro *nome (48, 16; 49, 8 ...) ed il loro vigore. In questi brani ritmati ed in questi racconti si scorge il sogno delle tribù nomadi alla ricerca di un territorio, avide di difendere la loro indipendenza, ma già coscienti di formare una comunità attorno a qualche capo ed a clan privilegiati (cfr. Gen 49). È, insomma, il sogno della benedizione, quale spontaneamente gli uomini desiderano e sono disposti a conquistare con ogni sorta di mezzi, comprese la *violenza e l’astuzia (27 18 s).
    b) A questi ritornelli ed a questi racconti popolari la Genesi sovrappone, non per sconfessarli, ma per collocarli al loro posto nell’azione di Dio, le promesse e le benedizioni pronunziate da Dio stesso. Anche qui si tratta di un *nome potente (Gen 12, 2), d’una discendenza innumerevole (15, 5), d’una terra dove stabilirsi (13, 14-17), ma Dio prende in mano l’avvenire dei suoi; cambia il loro nome (17, 5. 15), li fa passare attraverso la *tentazione (22, 1) e la fede (15, 6), fissa già loro un comandamento (12, 1; 17, 10). Intende soddisfare il *desiderio dell’uomo, ma a condizione che ciò avvenga nella fede. 3. Benedizione ed alleanza. - Questo legame tra la benedizione e il comandamento è il principio stesso dell’*alleanza: la *legge è il mezzo per far vivere un popolo «sacro a Dio» e per conseguenza «benedetto da Dio». È quel che esprimono i riti d’alleanza. Nella mentalità religiosa del tempo il *culto è il mezzo privilegiato per assicurarsi la benedizione divina; per rinnovare, al contatto dei luoghi, dei tempi, dei riti sacri, la potenza vitale dell’uomo e del suo mondo, così breve e così fragile. Nella religione di Jahvè il culto non è autentico se non nell’alleanza e nella fedeltà alla legge. Le benedizioni del codice dell’alleanza (Es 23, 25), le minacce dell’assemblea di Sichem sotto Giosuè (Gios 24, 19), le grandi benedizioni del Deuteronomio (Deut 28, 1-14), suppongono tutte una carta d’alleanza che proclama le volontà divine, poi l’adesione del popolo, ed infine l’atto cultuale che sigilla l’accordo e gli conferisce valore sacro.
    4. I profeti e la benedizione.
    - I *profeti non conoscono quasi il linguaggio della benedizione. L’azione di Dio in essi, che pure sono gli uomini della *parola e della sua efficacia (Is 55, 10 s), consci di essere da lui chiamati ed eletti, segni della sua opera (Is 8, 18), è troppo interiore, troppo pesante, troppo poco visibile e splendente per provocare in essi ed attorno ad essi il grido di benedizione. Ed il loro messaggio che consiste nel ricordare le condizioni dell’alleanza e nel denunciarne le violazioni, non li porta punto a benedire. Tra gli schemi letterari che essi utilizzano, quello della maledizione è loro familiare, quello della benedizione è praticamente sconosciuto. È tanto più notevole il veder sorgere talora, nel bel mezzo di una maledizione di tipo classico, un’immagine od un’affermazione che proclama che la promessa di benedizione rimane intatta, che dalla desolazione sorgerà la vita come «un seme santo» (Is 6, 13). Così la promessa della pietra angolare in Sion prorompe nel bel mezzo della maledizione contro i governanti insensati che credono la città invulnerabile (Is 28, 14-19), ed in Ezechiele la grande profezia dell’effusione dello spirito, tutta ripiena delle immagini della benedizione, l’acqua, la terra, le messi, conclude, per una logica divina, la condanna di Israele (Ez 36, 16-38).
    5. I canti di benedizione.
    - La benedizione è uno dei temi principali della *preghiera di Israele; è la risposta a tutta l’opera di Dio, che è rivelazione. È molto vicina al *ringraziamento, alla lode od alla *confessione e costruita sullo stesso schema, ma è più vicina di quelli all’evento in cui Dio si è rivelato, e conserva in genere un accento più semplice: «Benedetto Jahvè che fece per me cose meravigliose!» (Sal 31, 22), «che non ci abbandonò ai loro denti» (Sal 124, 6), «che perdona tutti i tuoi peccati» (103, 2). Anche l’inno dei tre fanciulli nella fornace, che convoca l’universo per cantare la gloria del Signore, non perde di vista l’atto che Dio ha compiuto: «Poiché ci ha salvati dagli inferi» (Dan 3, 88).
    IV. BENEDETTI IN CRISTO
    Come potrebbe il Padre, che ha dato per noi il suo proprio Figlio, rifiutarci alcunché (Rom 8, 32)? In lui ci ha donato tutto, e noi non manchiamo di alcun *dono della *grazia (1 Cor 1, 7) e «con *Abramo il credente» (Gal 3, 9; cfr. 3, 14) siamo «benedetti con ogni sorta di benedizioni spirituali» (Ef 1, 3). In lui rendiamo grazie al Padre dei suoi doni (Rom 1, 8; Ef 5, 20; Col 3, 17). I due movimenti della benedizione, la grazia che discende ed il *ringraziamento che risale, sono ricapitolati in *Gesù Cristo. Non c’è nulla al di là di questa benedizione, e la folla degli eletti, raccolti dinanzi al trono e dinanzi all’agnello per cantare il loro trionfo finale, proclama a Dio: «Benedizione, gloria, sapienza, ringraziamento... per i secoli dei secoli!» (Apoc 7, 12). Se quindi tutto il NT non è che la benedizione perfetta ricevuta da Dio ed a lui rimandata, tuttavia è ben lungi dall’essere costantemente ripieno di parole di benedizione. Queste sono relativamente rare ed usate in contesti precisi, il che finisce per precisare esattamente il senso della benedizione biblica.
    1. Benedetto colui che viene!
    - I vangeli non offrono che un solo esempio di benedizione rivolta a Gesù, e cioè il grido della folla in occasione del suo ingresso a Gerusalemme, alla vigilia della passione: «Benedetto colui che viene!» (Mt 21, 9 par.). Nessuno tuttavia corrispose mai come Gesù al ritratto dell’essere benedetto, in cui Dio rivela, mediante splendidi *segni, la sua potenza e la sua bontà (cfr. Atti 10, 38). La sua venuta nel mondo suscita in Elisabetta (Lc 1, 42), in Zaccaria (1, 68), in Simeone (2, 28), nella stessa Maria (senza la parola, 1, 46 s) un’ondata di benedizioni. Egli ne è evidentemente il centro: Elisabetta proclama: «Benedetto il frutto del tuo seno!» (1, 42). Personalmente, a parte l’esempio unico della domenica delle palme, egli non è mai benedetto direttamente. Questa assenza non deve dipendere da un caso. Forse riflette la distanza che si stabiliva spontaneamente tra Gesù e gli uomini: benedire qualcuno significa in certo modo unirsi a lui. Forse connota pure il carattere incompiuto della rivelazione di Cristo finché la sua opera non è consumata, l’oscurità che sussiste sulla sua persona fino alla sua morte e alla sua risurrezione. Nell’Apocalisse, invece, quando l’agnello, che era stato messo a morte, viene a prendere possesso del proprio dominio sul mondo, ricevendo il *libro in cui sono suggellati i destini dell’universo, l’intero cielo lo acclama: «Degno è l’agnello sgozzato di ricevere la potenza... la gloria e la benedizione» (Apoc 5, 12 s). La benedizione ha qui la stessa portata e lo stesso valore della *gloria di Dio.
    2. Il calice di benedizione.
    - Prima di moltiplicare i pani (Mt 14, 19 par.), prima di distribuire il pane divenuto il suo corpo (Mt 26, 26 par.), prima di spezzare il pane ad Emmaus (Lc 24, 30), Gesù pronuncia una benedizione, ed anche noi «benediciamo il calice di benedizione» (1 Cor 10, 16). Poco importa qui che, in questi testi, la benedizione designi un gesto speciale, od una formula particolare, distinta dalle parole *eucaristiche propriamente dette, oppure non sia che il titolo dato alle parole che seguono: il fatto è che i racconti eucaristici associano strettamente la benedizione ed il ringraziamento, e che, in questa associazione, la benedizione rappresenta l’aspetto rituale e visibile, il gesto e la formula, mentre il ringraziamento esprime il contenuto dei gesti e delle parole. Tra tutti i riti che il Signore ha potuto compiere nella sua vita, questo è il solo che ci sia conservato, perché è il rito della nuova alleanza (Lc 22, 20). La benedizione vi trova il suo compimento totale; è un dono espresso in una parola immediatamente efficace; è il dono perfetto del padre ai suoi figli, tutta la sua grazia, ed il dono perfetto del Figlio che offre la sua vita al Padre, tutto il nostro ringraziamento unito al suo; è un dono di fecondità, un mistero di vita e di comunione.
    3. La benedizione dello Spirito Santo.
    - Se il dono dell’eucaristia contiene tutta la benedizione di Dio in Cristo, se il suo ultimo atto è la benedizione che egli lascia alla sua Chiesa (Lc 24, 51) e la benedizione che suscita in essa (24, 53), tuttavia il NT non dice mai che Gesù Cristo sia la benedizione del Padre. Di fatto la benedizione è sempre il *dono, la vita ricevuta ed assimilata. Ora il dono per eccellenza è lo *Spirito Santo. Non già che Gesù Cristo ci sia donato meno dello Spirito Santo, ma lo Spirito ci è donato per essere in noi il dono ricevuto da Dio. Il vocabolario del NT è espressivo. È vero che Cristo è nostro, ma è soprattutto vero che noi siamo di Cristo (cfr. 1 Cor 3, 22; 2 Cor 10, 7). Dello Spirito, invece, si dice più volte che ci è dato (Mc 13, 11; Gv 3, 34; Atti 5, 32; Rom 5, 5), che noi lo riceviamo (Gv 7, 39; Atti 1, 8; Rom 8, 15) e lo possediamo (Rom 8, 9; Apoc 3, 1), tanto che si parla spontaneamente del «dono dello Spirito» (Atti 2, 38; 10, 45; 11, 17). La benedizione di Dio, nel senso pieno della parola, è il suo Spirito Santo. Ora questo dono divino, che è Dio stesso, porta tutti i caratteri della benedizione. I grandi temi della benedizione, l’acqua che rigenera, la nascita ed il rinnovamento, la vita e la fecondità, la pienezza e la pace, la gioia e la comunione dei cuori, sono parimenti i *frutti dello Spirito.
    J. GUILLET
    → Abramo I 3, II 4 - acqua II 1 - beatitudine - bene e male II 2 - confessione VT I - destra 2 - lezione VT I 3 b - eucaristia I - fecondità I 1 - frutto - grazia II 3 - gustare 2 - olio - ringraziamento.

    BENI (inizio)

    → beatitudine - bene e male - II, III 3.4 - benedizione - eredità - ricchezza.

    BESTEMMIA (inizio)

    Ogni ingiuria rivolta ad un uomo merita di essere punita (Mt 5, 22). Quanto più la bestemmia, insulto fatto a Dio stesso! Essa è il contrario dell’*adorazione e della *lode che l’uomo deve a Dio, è il segno per eccellenza dell’*empietà umana.
    VECCHIO TESTAMENTO
    La presenza di un solo bestemmiatore nel popolo di Dio è sufficiente per contaminare tutta la comunità. Perciò la legge dice: «Chiunque bestemmia il *nome di Jahvè, morirà, tutta la comunità lo lapiderà» (Lev 24, 16; cfr. Es 20, 7; 22, 27; 1 Re 21, 13). Più sovente la bestemmia si trova sulle labbra dei pagani, i quali insultano il Dio vivente quando assalgono il suo popolo: un Sennacherib (2 Re 19, 4 ss. 16. 22; Tob 1, 18), un Antioco Epifanie (2 Mac 8, 4; 9, 28; 10, 34; Dan 7, 8. 25; 11, 36), cui si ispira senza dubbio il ritratto di Nabuchodonosor nel libro di Giuditta (9, 7 ss). Così pure gli Edomiti che plaudono alla rovina di Gerusalemme (Ez 35, 12 s) ed i pagani che insultano l’unto di Jahvè (Sal 89, 51 s). A costoro Dio si riserva di applicare egli stesso il castigo meritato: Sennacherib cadrà di spada (2 Re 19, 7. 28. 37) come Antioco, la *bestia satanica (Dan 7, 26; 11, 45; cfr. 2 Mac 9), ed il paese di Edom sarà ridotto a deserto (Ez 35, 14 s). D’altronde il popolo di Dio deve guardarsi dal provocare egli stesso le bestemmie dei pagani (Ez 36, 20; Is 52, 5), perché Dio farebbe *vendetta di questa profanazione del suo nome.
    NUOVO TESTAMENTO
    1. Lo stesso dramma si intreccia nel NT attorno alla persona di Gesù. Egli, che onora il *Padre, è accusato dei *Giudei di bestemmia, perché si dice *Figlio di Dio (Gv 8, 49. 59; 10, 31-36), e proprio per questo sarà condannato a morte (Mc 14, 64 par.; Gv 19, 7). In realtà, questo stesso accecamento porta a consumazione il peccato dei Giudei, perché disonorano il Figlio (Gv 8, 49) e, sulla croce, lo caricano di bestemmie (Mc 15, 29 par.). Se non fosse che un errore sull’identità del *figlio dell’uomo, sarebbe un peccato remissibile (Mt 12, 32) dovuto ad ignoranza (Lc 23, 34; Atti 3, 17; 13, 27). Ma è un disconoscimento più grave, perché i nemici di Gesù attribuiscono a *Satana i segni che egli compie per mezzo dello Spirito di Dio (Mt 12, 24. 28 par.): c’è dunque bestemmia contro lo *Spirito, che non può essere rimessa né in questo mondo, né nell’altro (Mt 12, 31 s par.), perché è un rifiuto volontario della *rivelazione divina.
    2. Il dramma continua ora attorno alla *Chiesa di Gesù Cristo. Paolo era un bestemmiatore quando la perseguitava (1 Tim 1, 13); quando poi predica il *nome di Gesù, i Giudei gli si oppongono con bestemmie (Atti 13, 45; 18, 6). La loro opposizione conserva quindi lo stesso carattere del Calvario. Vi si unisce ben presto l’ostilità dell’impero romano persecutore, nuova manifestazione della *bestia dalla bocca piena di bestemmie (Apoc 13, 1-6), nuova *Babilonia adorna di titoli blasfemi (Apoc 17, 3). Infine i falsi dottori, maestri di *errore, introducono la bestemmia fin tra i fedeli (2 Tim 3, 2; 2 Piet 2, 2. 10. 12), tanto che talora diventa necessario consegnarli a Satana (1 Tim 1, 20). Le bestemmie degli uomini contro Dio vanno così verso un parossismo che coinciderà con la crisi finale, nonostante i segni annunziatori del *giudizio divino (Apoc 16, 9. 11- 21). Di fronte a questa situazione, i cristiani non seguiranno l’esempio dei *Giudei infedeli «a motivo dei quali il nome di Dio è bestemmiato» (Rom 2, 24). Eviteranno tutto ciò che provocherebbe gli insulti dei pagani contro Dio o contro la sua parola (1 Tim 6, 1; Tito 2, 5). La loro buona condotta deve portare gli uomini a «glorificare il Padre che è nei cieli» (Mt 5, 16).
    R. DEVILLE
    → empio - maledizione - nome VT 3 - parola umana 1.

    BESTIE E BESTIA (inizio)

    1. Nascita di un simbolismo.
    - Nella Bibbia non si tratta di un simbolismo analogo a quello dei bestiari del Medio-Evo; al massimo è abbozzato a proposito di qualche *animale. Tuttavia le bestie nemiche dell’uomo occupano un posto nel pensiero religioso e forniscono rappresentazioni mediante immagini che si ritrovano dalla Genesi all’Apocalisse. Nessuna riflessione sul mistero animale; in compenso tutti gli animali repellenti o dannosi sono presenti, compresi quelli della leggenda: le bestie selvatiche, leoni, lupi e pantere (Os 5, 14; Ab 1, 8), iene e sciacalli (Is 13, 22); i rapaci e gli uccelli delle rovine (Is 13, 21; 34, 11 ss; Sof 2, 14); i rettili, dal basilisco al coccodrillo (Sal 91, 13; Ez 29); gli insetti nocivi come le locuste e le cavallette (Nah 3, 15 ss)... Tutta una fauna cattiva, connessa con la presenza dei *demoni (cfr. i satiri di Is 13, 21; 34, 12-14; Lev 17, 7), si leva in tal modo di fronte all’uomo. Senza contare i grandi mostri marini (Gen 1, 21), prototipi della bestia per eccellenza, il dragone, il serpente fuggitivo, Rahab o Leviathan (Is 27, 1; Giob 7, 12; Is 51, 9). Questo, che personifica il *mare nel simbolismo dei miti orientali, si leva di fronte a Jahvè stesso come l’avversario del suo disegno di salvezza.
    2. Alle origini.
    - Di fatto, riprendendo una immagine ora smitizzata, taluni testi rappresentano l’atto *creativo di Dio come un combattimento vittorioso contro il mostro primordiale, incarnazione del disordine: Rahab o Leviathan (Sal 74, 13 s; 89, 10 s; Giob 9, 13; 25, 12; Is 51, 9). Questa *guerra, collocata fuori del campo della storia, darà un senso a tutti gli scontri storici tra Jahvè e i suoi *nemici. Il primo di questi scontri è il dramma del *paradiso (Gen 3). Nella Genesi il subdolo avversario di Dio e degli uomini non è ancora chiamato con il suo vero nome; ma dietro il serpente terrestre si nasconde il serpente-prototipo, il dragone che è il demonio e *Satana (Sap 2, 24; Apoc 12, 9; 20, 2). La bestia maledetta tra tutte rappresenta in tal modo il maledetto per eccellenza; e la storia sarà un campo chiuso in cui questi si misurerà con la posterità della *donna, sulla quale ha acquistato un certo potere (Gen 3, 14 ss).
    3. Le lotte della bestia contro l’uomo.
    a) Le bestie, flagello di Dio. - Questa guerra si colloca anzitutto sul piano temporale: le bestie malefiche se la prendono con l’umanità peccatrice. Ma non agiscono in piena indipendenza; Dio sa volgere la loro azione ai propri fini; esse sono gli artefici del suo *giudizio contro l’Egitto (Es 7, 26 - 8, 28; 10, 1-20; Sap 16, 1-12); eseguono le sue *maledizioni contro il popolo infedele (Deut 28, 26. 42; Lev 26, 22; cfr. Ger 15, 3). Così il clichè delle città abbandonate, in balia degli animali selvatici, serve ad evocare il castigo delle collettività umane (Is 34, 11 s; Ger 9, 10; 10, 22; 49, 33; 50, 39; 51, 37; Sof 2, 14 s...). Nel deserto, serpenti brucianti mordono coloro che mormorano (Num 21, 5-7); nella terra promessa le locuste divorano i raccolti, esercito terribile la cui invasione annunzia il *giorno di Jahvè (Gioe 1 - 2). Locuste simboliche si ritrovano pure tra i flagelli escatologici, strani cavalieri che devastano l’umanità peccatrice (Apoc 9, 3-10; cfr. Nah 3, 15 ss; Ger 51, 27). Alla loro testa marcia l’angelo dell’abisso (Apoc 9, 11), e nessuno sfuggirà loro, se non è segnato per la salvezza (Apoc 9, 4; cfr. 7, 3).
    b) I trionfi della bestia. - Ma la bestia ha altri trionfi. Sotto il suo velo *Satana si fa adorare dagli uomini. Questi nel loro accecamento si prostrano dinanzi «ad ogni specie di immagini di rettili e di animali ripugnanti» (Ez 8, 10). Vietata in Israele dalla legge (Deut 4, 16 ss), questa forma di *idolatria provoca stragi presso i popoli pagani (Sap 11, 15; 12, 24; 13, 10. 14; Rom 1, 23), attirando su di essi i rigori dell’*ira divina (Sap 16, 1-9; Rom 1, 24 ss). Più ancora: la bestia si incarna in qualche modo nei grandi imperi pagani che tentano di dominare il mondo, fanno guerra al popolo di Dio e manifestano un’arroganza sacrilega (Dan 7, 2-8). Così riprende quaggiù il combattimento primordiale, perché dal dragone, principe di questo *mondo, la bestia in questione ha il suo potere (Apoc 13, 4). Di fronte a Cristo-re essa si leva come l’*anticristo, bestemmiando, perseguitando i santi e facendosi adorare (Apoc 13, 1-9), e nessuno ha il diritto di vivere quaggiù se non è segnato con la sua cifra (Apoc 13, 16 ss; *numero). Questa pretesa dell’impero totalitario non è soltanto il caso di Antioco Epifane o della Roma pagana: la si vedrà rinascere lungo tutta la storia della Chiesa.
    c) La sconfitta della bestia. - Ma questo trionfo della bestia non è che apparente e momentaneo. Già nel VT si afferma la *vittoria dei credenti. Per Israele nel deserto Mosè innalza il segno del serpente di bronzo (Num 21, 9), e chiunque lo guarda rimane in vita (Sap 16, 6). Di fronte alla zoolatria dei pagani Israele sa difendere la sua fede nel solo Dio vivente (Dan 14, 23-42). Affronta senza cedere il pericolo dei leoni, e Dio ne lo libera (Dan 6); infatti chiunque confida in Dio è custodito dai suoi *angeli, e può calpestare con i piedi le bestie malefiche (Sal 91, 11-13). Queste vittorie anticipate annunziano quella di Gesù, il quale, dopo aver respinto Satana (Mt 4, 1-11 par.), rimane nel deserto «con le bestie selvatiche», servito dagli angeli (Mc 1, 13). Egli può quindi comunicare ai suoi discepoli «il potere di schiacciare coi piedi serpenti, scorpioni, ed ogni potenza del nemico» (16, 17 s), perché ora Satana è caduto dal cielo, e gli stessi *demoni sono sottomessi agli inviati di Gesù (cfr. Lc 10, 17 ss). Se la sconfitta della bestia non è ancora pubblica, è nondimeno un fatto acquisito.
    4. La morte della bestia.
    - Il *giudizio che porrà termine alla storia implicherà la consumazione di questa sconfitta: la bestia sarà uccisa, ed il suo corpo dato al fuoco (Dan 7, 11-27), così si consumerà la disfatta dei serpente primordiale che è il demonio e Satana (Apoc 12, 9). Sarà l’ultimo combattimento di Cristo (Apoc 19, 11-16), che difende la sua *città santa contro le *nazioni scatenate (Apoc 20, 8 s). Allora Satana, e la *morte e l’Ade, e la bestia ed il suo falso profeta, e tutti gli adoratori della bestia, seguaci dell’anticristo, saranno gettati insieme nel lago di fuoco e di zolfo, il che costituisce la seconda parte (Apoc 19, 19 ss; 20, 10. 14). Così avrà fine il dramma che s’è aperto alle origini.
    P. GRELOT
    → animali - anticristo VT l; NT 3 - Babele-Babilonia 6 - bestemmia - demoni VT - guerra VT IV - mare 1.2 - numeri II 2 - re NT II - regno VT III - Satana III - vittoria VT 1; NT 2.

    BEVANDA (inizio)

    → acqua - calice - fame e sete – latte - nutrimento - sangue VT 2 - vino.

    BIANCO (inizio)

    Nel mondo della Bibbia, il bianco accompagna le feste e le manifestazioni gioiose degli uomini. Evoca l’innocenza, la *gioia, la purezza; suscita lo stupore. Colore di *luce e di *vita, il bianco si oppone al nero, colore di tenebre, di lutto. La Bibbia sfrutta questi diversi sensi (Eccle 9, 8; Eccli 43, 18), ma dà loro una dimensione nuova, escatologica: il bianco è il contrassegno degli esseri associati alla *gloria di Dio: esseri celesti o esseri trasfigurati.
    1. Gli esseri celesti.
    - L’Apocalisse è quella che, nella descrizione del mondo celeste, ritorna con più insistenza sul bianco e sottolinea così il suo senso escatologico: sassolino (Apoc 2, 17), nube (14, 14), cavallo (19, 11), trono (20, 11). Ma tutta la Bibbia, VT e NT, pone in rilievo lo splendore, il candore degli esseri venuti dal cielo: sia che si tratti dell’uomo vestito di bianco di Ez 9, 2 o degli angeli, messaggeri di Dio, dalla «veste abbagliante» (Lc 24, 4 par.; Atti 10, 30), dei 24 anziani della corte celeste (Apoc 4, 4) o del «figlio d’uomo» (Apoc 1, 13 s), di Cristo stesso, annunziato dall’Antico dei giorni «dalla veste bianca come la neve, dai capelli candidi come la lana» (Dan 7, 9).
    2. Gli esseri trasfigurati.
    - Colore celeste di Cristo, il bianco non appare durante la sua vita terrena, salvo che nel momento privilegiato della *trasfigurazione, quando le sue stesse *vesti «diventano fulgide, bianchissime, tali che nessun lavandaio sulla terra saprebbe farle più bianche» (Mc 9, 3 par.). Il bianco è, allo stesso modo, il colore degli esseri trasfigurati, dei santi che, purificati dal loro peccato (Is 1, 18; Sal 51, 9), imbiancati dal sangue dell’agnello (Apoc 7, 14), partecipano all’essere glorioso di Dio (7, 9-13). Essi formano la «bianca scorta» del vincitore (3, 4 s), folla immensa e trionfante che esterna la sua gioia in una eterna festa di luce: l’agnello si unisce alla sposa rivestita di «lino d’un candore splendente» (19, 1-14). La liturgia battesimale ha adottato in ogni tempo il lino bianco come veste (cfr. Lev 6, 3) ed impone una veste bianca al neo-battezzato che, per mezzo della grazia, partecipa alla gloria dello stato celeste con l’innocenza e la gioia che esso implica.
    G. BECQUET
    → gioia - gloria - luce - puro - veste II 3.

    BIBBIA (inizio)

    → libro - scrittura III.

    BISOGNO (inizio)

    → desiderio - fame e sete.

    BOCCA (inizio)

    → labbra - lingua - parola di Dio - parola umana.

    BONTÀ (inizio)

    → amore - bene e male - benedizione - dono - giustizia A I VT 4 - misericordia - mitezza 3 - tenerezza.

    BRACCIO E MANO (inizio)

    Il braccio e la mano sono normalmente l’organo e il segno dell’azione, dell’espressione, della relazione. Il simbolismo del braccio implica quindi sovente una sfumatura di *potenza; quello della mano l’abilità, il possesso.
    1. Il braccio e la mano di Dio.
    - La mano di Dio ha fatto il cielo e la terra (Is 66, 2). Come la mano del vasaio, essa plasma (Giob 10, 8; Ger 18, 6; cfr. Gen 2, 7). Così Dio rivela la potenza del suo braccio, anzi «il suo braccio» in modo assoluto (Is 53, 1), nella creazione (Ger 32, 17), e nella storia (Deut 4, 34; Lc 1, 51). Sovente egli agisce «col braccio teso e con mano forte». Il suo «braccio di santità» (Is 52, 10), la sua «mano buona» (Esd 7, 9), «l’*ombra della sua mano» (Is 49, 2), la sua mano alzata per il giuramento (Deut 32, 40), evocano la sua protezione potente (cfr. Gv 10, 29). Nella mano di Dio si trova la sicurezza (Sap 3, 1; cfr. Sal 31, 6 = Lc 23, 46), e quando la mano di Dio «è su» un *profeta, è per prenderne possesso e come per comunicargli lo spirito di visione (Ez 1, 3...). La mano di Dio non è «troppo corta» per salvare (Is 50, 2). Essa tuttavia può farsi pesante (Sal 32, 4), e colpire (Is 5, 25; cfr. Ebr 10, 31), quando è stato disprezzato l’amore insistente che essa testimoniava (cfr. Is 65, 2 = Rom 10, 21). La mano di Cristo, come quella di Dio, è onnipotente (Mc 6, 2; cfr. Gv 10, 28); possiede tutto (Gv 3, 35); è soccorrevole (Mt 8, 3).
    2. Il braccio e la mano dell’uomo.
    - Paragonato a quello di Dio, il «braccio di *carne» è impotente (2 Cron 32, 8; cfr. Is 40, 12; Prov 30, 4). Tuttavia anche nell’uomo il braccio è strumento e simbolo di azione vigorosa (Sal 18, 35). Il gesto della mano esprime il moto dell’animo: la gioia (2 Re 11, 12), l’angoscia (Ger 2, 37), la *benedizione (Gen 48, 14), il giuramento (Gen 14, 22), soprattutto la *preghiera e l’*adorazione (Sal 28, 2; 1 Tim 2, 8; Giob 31, 27); infine le mani del supplicante devono essere pure (Sal 24, 4; Giac 4, 8; cfr. Is 1, 15). Se la mano di Dio «è con» qualcuno (cfr. Lc 1, 66), è per proteggerlo o per dotare di potenza divina l’atto di quest’uomo (Atti 11, 21; 5, 12). Così, *imponendo le mani, gli apostoli possono comunicare lo Spirito di Dio stesso (Atti 19, 6; cfr. 1 Tim 4, 14).
    A. RIDOUARD
    → destra - forza I 1 - imposizione delle mani - potenza - Spirito di Dio VT II.

    BRAMOSIA (inizio)

    → bene e male I 4 III 1.4 –carne II 2 b –cupidigia –desiderio II, III –peccato II 2, IV 3 a.

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