PACE - PENSIERI - DIZIONARIO DI TEOLOGIA BIBLICA

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P: PACE - PENSIERI

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  ................. LUIS MARTINEZ FERNANDEZ

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    PACE (inizio)

    L’uomo desidera la pace dal più profondo del suo essere. Ma spesso ignora la natura del bene che invoca con tutte le sue forze, e le vie che segue per ottenerlo non sono sempre le vie di Dio. Deve quindi imparare dalla storia sacra in che cosa consista la ricerca della vera pace, e sentir proclamare il dono di questa pace da Dio in Gesù Cristo.
    I. LA PACE, FELICITÀ PERFETTA
    Per apprezzare nel suo pieno valore la realtà indicata dalla parola, occorre sentire il sapore locale che sussiste nell’espressione semitica sin nella sua concezione più spirituale, e nella Bibbia sin nell’ultimo libro del NT.
    1. Pace e benessere.
    - La parola ebraica šalôm deriva da una radice che, secondo i suoi usi, designa il fatto di essere intatto, completo (Giob 9, 4), ad es. terminare una casa (1 Re 9, 25), o l’atto di ristabilire le cose nel loro stato primitivo, nella loro integrità, ad es. «pacificare» un creditore (Es 21, 34), compiere un voto (Sal 50, 14). Perciò la pace biblica non è soltanto il «patto» che permette una vita tranquilla, né il «tempo della pace» in opposizione al «tempo della *guerra» (Eccle 3, 8; Apoc 6, 4); designa il benessere dell’esistenza quotidiana, lo stato dell’uomo che vive in armonia con la natura, con se stesso, con Dio; in concreto è *benedizione, *riposo, *gloria, *ricchezza, *salvezza, *vita.
    2. Pace e felicità.
    - «Essere in buona salute» ed «essere in pace» sono due espressioni parallele (Sal 38, 4); per domandare come sta uno, se sta bene, si dice: «È in pace?» (2 Sam 18, 32; Gen 43, 27); Abramo che morì in una vecchiaia felice e sazio di giorni (Gen 25, 8) se ne andò in pace (Gen 15, 15; cfr. Lc 2, 29). In senso più largo, la pace è la sicurezza. Gedeone non deve più *temere la morte dinanzi alla apparizione celeste (Giud 6, 23; cfr. Dan 10, 19); Israele non ha più da temere i *nemici, grazie a Giosuè vincitore (Gios 21, 44; 23, 1), a David (2 Sam 7, 1), a Salomone (1 Re 5, 4; 1 Cron 22, 9; Eccli 47, 13). Infine la pace è concordia in una vita fraterna: il mio familiare, il mio amico, è «l’uomo della mia pace» (Sal 41, 10; Ger 20, 10); è mutua fiducia sanzionata sovente da una *alleanza (Num 25, 12; Eccli 45, 24) o da un trattato di buona vicinanza (Gios 9, 15; Giud 4, 17; 1 Re 5, 26; Lc 14, 32; Atti 12, 20).
    3. Pace e salvezza.
    - Tutti questi beni materiali e spirituali sono compresi nel saluto, nell’augurio di pace (in arabo, il salamelecco) mediante il quale, nel VT e nel NT, si dice «buon giorno», ed «addio», sia nella conversazione (Gen 26, 29; 2 Sam 18, 29), sia nelle lettere (ad es. Dan 3, 98; Filem 3). Ora, se è conveniente augurare la pace o porsi la domanda circa le disposizioni pacifiche del visitatore (2 Re 9, 18), si è perché la pace è uno stato da conquistare o da difendere; è *vittoria su un qualche nemico. Gedeone od Achab sperano di ritornare in pace, cioè vincitori della guerra (Giud 8, 9; 1 Re 22, 27 s); allo stesso modo si augura il successo di una esplorazione (Giud 18, 5 s), il trionfo sulla sterilità di Anna (1 Sam 1, 17), la *guarigione delle ferite (Ger 6, 14; Is 57, 18 s); infine si offrono «*sacrifici pacifici» (salutaris hostia) che significano la *comunione tra Dio e l’uomo (Lev 3, 1).
    4. Pace e giustizia.
    - Infine la pace è ciò che è bene in opposizione a ciò che è male (Prov 12, 20; Sal 28, 3; cfr. Sal 34, 15). «Non c’è pace per i malvagi» (Is 48, 22), viceversa, «guardare l’uomo giusto: c’è una posterità per l’uomo di pace» (Sal 37, 37); «gli *umili possederanno la terra e *gusteranno le delizie di una pace senza fine» (Sal 37, 11; cfr. Prov 3, 2). La pace è la somma dei beni accordati alla *giustizia: avere una terra fertile, mangiare a sazietà, abitare in sicurezza, dormire senza timore, trionfare dei propri nemici, moltiplicarsi, e tutto questo in definitiva perché Dio è con noi (Lev 26, 1-13). Lungi, quindi, dall’essere soltanto una assenza di guerra, la pace è pienezza della felicità.
    II. LA PACE, DONO DI DIO
    Se la pace è il frutto ed il segno della *giustizia, come mai gli *empi sono in pace (Sal 73, 3)? La risposta a questa questione angosciosa sarà data nel corso della storia sacra: concepita da prima come una felicità terrena, la pace appare come un bene sempre più spirituale, a motivo della sua fonte celeste.
    1. Il Dio di pace.
    - Fin dagli inizi della storia biblica si vede Gedeone costruire un altare a «Jahvè Shalom» (Giud 6, 24). Dio, che domina il cielo (Giob 25, 2), può di fatto creare la pace (Is 45, 7). Da lui si attende quindi questo bene. «Grande è Jahvè che vuole la pace del suo servo» (Sal 35, 27): benedice Israele (Num 6, 26), il suo popolo (Sal 29, 11), la casa di David (1 Re 2, 33), il sacerdozio (Mal 2, 5). chi confida (cfr. *fiducia) in lui può quindi addormentarsi in pace (Sal 4, 9; cfr. Is 26, 3). «Augurate la pace a Gerusalemme! Siano tranquilli coloro che ti amano!» (Sal 122, 6; cfr. Sal 125, 5; 128, 6).
    2. Dona la pace, o Signore!
    - L’uomo ottiene questo dono divino mediante la preghiera fiduciosa, ma anche mediante una «attività di giustizia», perché, secondo il disegno di Dio stesso, egli deve cooperare all’instaurazione della pace sulla terra, cooperazione che si rivela ambigua a motivo del *peccato sempre presente. La storia del tempo dei Giudici è quella di Dio che suscita *liberatori incaricati di ristabilire questa pace che Israele ha perso per le sue colpe. David pensa di aver svolto il suo compito quando ha liberato il paese dai suoi nemici (2 Sam 7, 1). Il re ideale si chiama Salomone, re pacifico (1 Cron 22, 9), sotto il regno del quale i due *popoli del Nord e del Sud sono fraternamente uniti (1 Re 5).
    3. La lotta per la pace.
    a) La lotta profetica. - Ora questo ideale si corrompe presto, ed i re cercano di procurarsi la pace non come un frutto della giustizia divina, ma mediante *alleanze politiche, sovente empie. Condotta illusoria che sembra autorizzata dalla parola di apparenza profetica di taluni uomini, non tanto preoccupati di ascoltare Dio, quanto «di avere qualcosa da mettere sotto i denti» (Mi 3, 5): in pieno stato di peccato, essi osano proclamare una pace duratura (Ger 14, 13). Verso l’anno 850 Michea, figlio di Jitmla, si leva per disputare a questi falsi profeti la parola e la realtà della pace (1 Re 22, 13-28). La lotta diventa vivissima in occasione dell’assedio di Gerusalemme (cfr. Ger 23, 9-40). Il dono della pace esige la soppressione del peccato, e quindi un *castigo preliminare. Geremia accusa: «Essi guariscono superficialmente la piaga del mio popolo dicendo: Pace! Pace! E tuttavia non c’è pace» (Ger 6,14). Ezechiele esclama: Basta con gli intonachi! Il muro deve cadere (Ez 13, 15 s). Ma quando esso sarà crollato, coloro che profetizzavano la sventura, ormai sicuri che non c’è più illusione possibile, proclamano nuovamente la pace. Agli esiliati Dio annunzia: «Io conosco il disegno che ho su di voi, disegno di pace e non di sventura: concedervi un futuro ed una speranza» (Ger 29, 11; cfr. 33, 9). Sarà conclusa un’alleanza di pace, che sopprime gli animali feroci, garantisce sicurezza, benedizione (Ez 34, 25-30), perché, dice Dio, «io sarò con essi» (Ez 37, 26).
    b) La pace escatologica. - Questa controversia sulla pace è soggiacente al messaggio profetico nel suo insieme. La vera pace si libera delle sue limitazioni terrene e delle sue contraffazioni peccaminose, diventando un elemento essenziale della predicazione escatologica. Gli oracoli minacciosi dei profeti terminano ordinariamente con un annunzio di restaurazione abbondante (Os 2, 20 ...; Am 9, 13 ...; ecc.). Isaia sogna il «principe della pace» (Is 9, 5; cfr. Zac 9, 9 s), che darà una «pace senza fine» (Is 9, 6), aprirà un nuovo *paradiso, perché «egli sarà la pace» (Mi 5, 4). La natura sarà soggetta all’uomo, i due regni separati si *riconcilieranno, le *nazioni vivranno in pace (Is 2, 2...; 11, 1...; 32, 15-20; cfr. 65, 25), «il giusto fiorirà» (Sal 72, 7). Questo *vangelo della pace (Nah 2, 1), la liberazione da Babilonia (Is 52, 7; 55, 12), è realizzato dal *servo sofferente (53, 5), che col suo sacrificio annuncia quale sarà il prezzo della pace. Da quel momento «pace a chi è lontano ed a chi è vicino! Le ferite saranno guarite» (57, 19). 1 governanti del popolo saranno pace e giustizia (60, 17). «Farò scorrere su di essa la pace come un fiume, e come un torrente straripante la *gloria delle nazioni» (66, 12; cfr. 48, 18; Zac 8, 12).
    c) Infine la riflessione sapienziale affronta la questione della vera pace. La fede afferma: «Grande pace per coloro che amano la tua legge, nulla è loro di scandalo» (Sal 119, 165); ma gli avvenimenti sembrano contraddirla (Sal 73, 3), sollevando il problema della *retribuzione. Esso sarà pienamente risolto soltanto con la credenza nella sopravvivenza perfetta e personale: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio... Agli occhi degli insensati essi sembrano morti... ma sono nella pace» (Sap 3, 1 ss), cioè nella pienezza dei beni, nella *beatitudine.
    III. LA PACE DI CRISTO
    La speranza dei profeti e dei sapienti diventa realtà concessa in *Gesù Cristo, perché il peccato è vinto in lui e per mezzo di lui; ma finché il peccato non è morto in ogni uomo, finché il Signore non sarà venuto nell’ultimo *giorno, la pace rimane un bene futuro; il messaggio profetico conserva quindi il suo valore: «il frutto della giustizia si *semina nella pace da coloro che praticano la pace» (Giac 3, 18; cfr. Is 32, 17). Tale è il messaggio proclamato dal NT, da Luca a Giovanni, passando attraverso Paolo.
    1. Luca.
    - Luca, nel suo vangelo, traccia in modo speciale il ritratto del re pacifico. Alla sua nascita gli angeli hanno annunziato la pace agli uomini che Dio ama (Lc 2, 14); *Gerusalemme non vuole accogliere questo messaggio (19, 42), ripetuto dai discepoli festanti che scortano il *re che entra nella sua città (19, 38). Nella bocca del re pacifico l’augurio della pace terrena diventa l’annunzio di una *salvezza: come un buon giudeo, Gesù dice: «Va’ in pace!», ma con questa parola rende la salute alla emorroissa (8, 48 par.), rimette i peccati alla peccatrice pentita (7, 50), connotando in tal modo la sua *vittoria sul potere della *malattia e del *peccato. Al pari di lui, i discepoli offrono alle città, con il loro saluto di pace, la salvezza in Gesù (10, 5-9). Ma questa salvezza sconvolge la pace di questo *mondo: «credete che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma piuttosto la divisione» (12, 51). Gesù quindi non si accontenta di proferire le stesse minacce dei profeti contro ogni sicurezza fallace (17, 26-36; cfr. 1 Tess 5, 3), ma separa i membri di una stessa famiglia. Secondo la frase del poeta cristiano, egli non è venuto a distruggere la guerra, ma ad aggiungervi la pace, quella pace di Pasqua che consegue alla vittoria definitiva (Lc 24, 36). I discepoli irradieranno quindi fino ai confini del mondo la pax israelitica (cfr. Atti 7, 26; 9, 31; 15, 23) che sul piano religioso è come una trasfigurazione della pax romana (cfr. 24, 2), perché Dio ha annunziato la pace per mezzo di Gesù Cristo rivelandosi come «il Signore di tutti» (10, 36).
    2. Paolo.
    - Unendo ordinariamente nei saluti delle sue lettere la *grazia alla pace, ne afferma in tal modo l’origine e la stabilità. Manifesta soprattutto il legame che essa ha con la *redenzione. Essendo «la nostra pace», Cristo ha fatto la pace, ha *riconciliato i due popoli unendoli in un solo *corpo (Ef 2, 14-22), Dio si è così «riconciliato tutti gli esseri, sia in terra che nei cieli, facendo pace in virtù del *sangue della *croce di Cristo» (Col 1, 20). Poiché dunque «noi siamo raccolti in uno stesso corpo, la pace di Cristo regna nei nostri cuori» (Col 3, 15), grazie allo *Spirito che crea tra noi un saldo vincolo (Ef 4, 3). Per mezzo di Gesù Cristo ogni credente, *giustificato, è in pace con Dio (Rom 5, 1), il Dio d’amore e di pace (2 Cor 13, 11) che lo santifica «a fondo» (1 Tess 5, 23). Al pari della *carità e della *gioia, la pace è *frutto dello Spirito (Gal 5, 22; Rom 14, 17), è la *vita eterna anticipata quaggiù (Rom 8, 6), supera ogni intelligenza (Fil 4, 7), sussiste nella tribolazione (Rom 5, 1-5), irradia nei nostri rapporti con gli uomini (1 Cor 7, 15; Rom 12, 18; 2 Tim 2, 22), fino al *giorno in cui il Dio di pace che ha risuscitato Gesù (Ebr 13, 20), avendo distrutto Satana (Rom 16, 20) ristabilirà tutte le cose nella loro integrità originale.
    3. Giovanni. 
    Giovanni esplicita ancora la rivelazione. Per lui, come per Paolo, la pace è frutto del *sacrificio di Gesù (Gv 16, 33); come nella tradizione sinottica, essa non ha nulla a che vedere con la pace di questo mondo. Alla stregua del VT, che vedeva nella *presenza di Dio in mezzo al suo popolo il bene supremo della pace (ad es. Lev 26, 12; Ez 37, 26), Giovanni fa vedere nella presenza di Gesù la fonte e la realtà della pace, e questo è uno degli aspetti caratteristici della sua prospettiva. Quando la *tristezza invade i discepoli che stanno per essere separati dal loro maestro, Gesù li rassicura: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (Gv 14, 27); questa pace non è più legata alla sua presenza terrena, ma alla sua *vittoria sul *mondo; Gesù, vittorioso della *morte, dona quindi, con la sua pace, lo Spirito Santo ed il potere sul peccato (20, 19-23).
    4. «Beata visione di pace».
    - Saldo nella speranza che gli fa contemplare la *Gerusalemme celeste (Apoc 21, 2), il cristiano tende a realizzare la *beatitudine: «Beati coloro che fanno la pace!» (Mt 5, 9), perché ciò significa vivere come Dio, significa essere *figli di Dio nel Figlio unico, Gesù. Egli mira quindi con tutte le sue forze a stabilire quaggiù la concordia e la tranquillità. Ora, questa politica cristiana della pace terrena si rivela tanto più efficace in quanto è senza illusioni; tre principi ne guidano la ricerca instancabile. Soltanto il riconoscimento universale della sovranità (cfr. *Signore) di Cristo da parte di tutto l’universo in occasione dell’ultimo avvento stabilirà la pace definitiva ed universale. Soltanto la Chiesa, che supera le distinzioni di razza, di classe e di *sesso (Gal 3, 28; Col 3, 11), rappresenta sulla terra il luogo, il *segno e la fonte della pace tra i popoli, perché è il corpo di Cristo e la dispensatrice dello Spirito. Infine soltanto la *giustizia dinanzi a Dio e tra gli uomini è il fondamento della pace, perché sopprime il peccato, sorgente di ogni divisione. Il cristiano sosterrà il suo sforzo pacifico, ascoltando il Dio, che solo dà la pace, parlare attraverso il salmo in cui sono raccolti gli attributi del Dio della storia: «Ciò che Dio dice è la pace per il suo popolo... Fedeltà germoglia dalla terra, e dai cieli guarda la giustizia. Jahvè stesso darà la felicità, e la nostra terra il suo frutto. La giustizia camminerà dinanzi a lui e la pace sull’orma dei suoi passi» (Sal 85, 9-14).
    X. LÉON-DUFOUR
    → beatitudine - benedizione II 1, IV 3 - Gerusalemme VT III 3 - guerra - preoccupazioni 2 - riconciliazione - riposo - salvezza VT I 2 - violenza IV 3.

    PADRI E PADRE (inizio)

    Al mondo, che pretende di instaurare una «fraternità senza padre», la Bibbia rivela che Dio è essenzialmente padre. Partendo dall’esperienza dei padri e degli sposi della terra, ai quali la vita familiare fornisce il mezzo di esercitare l’autorità e di completarsi nell’amore, ed in contrasto con il modo aberrante in cui il paganesimo applicava ai suoi dèi queste realtà umane, il VT rivela l’amore e l’autorità del Dio vivente mediante le immagini del padre e dello *sposo. Il NT le riprende entrambe, ma «completa» quella del padre, rivelando la filiazione unica di Gesù e la dimensione ancora insospettata che questa filiazione procura alla paternità di Dio su tutti gli uomini.
    I. I PADRI DELLA GENERAZIONE CARNALE
    1. Padrone e signore.
    - Sul piano, che potremmo chiamare orizzontale, il padre è il capo incontestato della famiglia, colui che la sposa riconosce come padrone (baal, Gen 20, 3) e *signore (adân, 18, 12), colui dal quale dipendono l’*educazione dei figli (Eccli 30, 1-13), la conclusione dei *matrimoni (Gen 24, 2 ss; 28, 1 s), la libertà delle figlie (Es 21, 7), nonché (anticamente) la vita dei bambini (Gen 38, 24; 42, 37); in lui s’incarna tutta la famiglia di cui egli assicura la unità (ad es. 32, 11), e che perciò si chiama bejt ‘ab, «casa paterna» (34, 19).Per analogia, poiché la *casa viene a designare un clan (ad es. Zac 12, 12 ss), una frazione importante del popolo (ad es. «la casa di Giuseppe»), od anche il popolo intero («la casa di Israele»), l’autorità del capo di questi gruppi è concepita ad immagine di quella del padre nella famiglia (cfr. Ger 35, 18). Con la monarchia, il *re è «il padre» della nazione (Is 9, 5), precisamente come Nabonide a Babilonia è qualificato come «padre della patria». Il nome di padre è parimenti applicato ai sacerdoti (Giud 17, 10; 18, 19), ai consiglieri regi (Gen 45, 8; Est 3, 13f; 8, 12l), ai profeti (2 Re 2, 12) ed ai sapienti (Prov 1, 8; ecc.; cfr. Is 19, 11), a motivo della loro autorità di educatori: con la loro irradiazione orizzontale, i «padri» di questa terra preparavano Israele a ricevere come un *popolo unico la salvezza di Dio ed a riconoscere in Dio il proprio padre.
    2. Antenato di una genealogia.
    - Sul piano verticale il padre è principio di una discendenza ed anello di una genealogia. Procreando, egli perpetua se stesso (Gen 21, 12; 48, 16), contribuisce alla conservazione della sua stirpe, assicurandosi che il patrimonio familiare andrà ad eredi usciti da lui (15, 2 s); se muore senza figli, è considerato come castigato da Dio (Num 3, 4; 27, 3 s). Al vertice della genealogia, gli antenati sono i padri per eccellenza, coloro nei quali è preformato il futuro della stirpe. Come nella *maledizione del figlio di Cam è inclusa la subordinazione dei Cananei ai figli di Sem, così la grandezza di Israele è anticipatamente contenuta nella elezione e *benedizione di Abramo (Gen 9, 20-27; 12, 2). Le tappe della vita di Abramo, Isacco e Giacobbe sono scandite dalla promessa di una discendenza innumerevole e di una terra fertile; infatti la storia di Israele è scritta in filigrana nella loro storia, precisamente come quella dei popoli vicini nelle storie di Lot, di Ismaele o di Esaù, scartati dalle promesse (Gen 19, 30-38; 21, 12 s; 36, 1). Similmente ogni tribù fa risalire al suo antenato eponimo la responsabilità della sua situazione nell’ambito della nazione (Gen 49, 4). Le genealogie, pur esprimendo sovente relazioni diverse o più complesse dalla comunanza di sangue (Gen 10), riducono a sistema le prosapie paterne, e sottolineano in tal modo la importanza degli antenati, i cui atti hanno impegnato il futuro ed i diritti dei loro discendenti. Quelle delle tradizioni sacerdotali (Gen 5, 11), in special modo, collocano la successione delle *generazioni in rapporto all’elezione divina ed alla salvezza, ponendo una continuità tra lo stesso *Adamo ed i patriarchi.
    II. I PADRI DELLA GENERAZIONE SPIRITUALE
    I patriarchi sono i padri per eccellenza del popolo eletto non tanto in virtù della loro paternità fisica, quanto piuttosto a motivo delle *promesse che, al di là della stirpe, riguarderanno infine tutti coloro che imiteranno la loro fede. La loro paternità «secondo la carne» (Rom 4, 1) non era che la condizione provvisoria di una paternità spirituale ed universale, fondata sulla permanenza e la coerenza del disegno salvifico di un Dio continuamente all’opera dalla elezione di *Abramo fino alla glorificazione di Gesù (Es 3, 15; Atti 3, 13). Paolo è stato il teologo di questa paternità spirituale; ma l’idea era già preparata nel VT.
    1. Verso un superamento del primato della stirpe.
    - L’aspetto spirituale della paternità degli antenati assume una crescente importanza nel VT, a misura che si approfondisce l’idea di solidarietà nel male e nel bene. La ascendenza dei «padri», che si allunga ad ogni generazione, non comprende soltanto i patriarchi, e neanche soltanto gli antenati di cui si fa l’elogio nel sec. II (Eccli 44 - 50; 1 Mac 2, 51-61); comprende pure dei ribelli, tra i quali alcuni profeti pongono in prima fila lo stesso Giacobbe, eponimo della nazione (Os 12, 3 ss; Is 43, 27). Ora questi ribelli impegnano i loro discendenti, considerati solidali con la loro disobbedienza ed il loro castigo (Es 20, 5; Ger 32, 18; Bar 3, 4 s; Lam 5, 7; Is 65, 6 s; Dan 9, 16); dal fatto che essi ne sono i padri secondo la parentela fisica consegue, così si crede, che li fanno eredi, mediante una vera paternità morale, delle loro colpe od almeno dei *castighi in cui incorrono. Geremia annuncia (31, 29 s) ed Ezechiele (18) afferma la caducità di questa concezione automatica della *retribuzione: si sarà puniti secondo il proprio peccato.A partire dall’esilio un progresso similare si delinea per la solidarietà della linea del bene. Dio non è mai apparso così chiaramente come l’unico Padre del suo popolo come nel momento stesso in cui Abramo e Giacobbe, la cui eredità è occupata da intrusi (cfr. Ez 33, 24), sembrano dimenticare la loro posterità (Is 63, 16): nel bel mezzo della *prova si forma un «Israele qualitativo», al quale non appartengono tutti i discendenti di Abramo secondo la carne, ma soltanto coloro che imitano la sua ricerca di *giustizia e la sua *speranza (Is 51, 1 ss). D’altronde la stirpe di Israele non è forse impura sin dalle origini, secondo la linea sia dei padri che delle madri (Ez 16, 3)? Lo stesso cronista non confessa forse la parentela del suo popolo con clan pagani (1 Cron 2, 18-55)? Dei profeti non proclamano forse la possibilità per i proseliti di unirsi al popolo delle promesse (Is 56, 3-8; cfr. 2 Cron 6, 32 s)? Nonostante i sussulti nazionalistici, non è lontano il tempo in cui la paternità benefica di Abramo e dei grandi antenati si attuerà mediante la fede, e non più mediante la razza.

    2. Dalla nazione all’universo.
    - La paternità degli antenati, a mano a mano che viene concepita in senso più spirituale, diventa pure più universale. Ciò è chiaramente indicato per *Abramo. Secondo la tradizione sacerdotale, il suo nome significa «padre di una moltitudine», cioè: di una moltitudine di popoli (Gen 17, 5). Così pure la promessa di Gen 12, 3: «In te si diranno benedette tutte le nazioni della terra», nella traduzione greca diventa: «in te saranno benedette...» (cfr. Eccli 44, 21; Atti 3, 25; Gal 3, 8). Invece di magnificare la stirpe eletta, i LXX vogliono insinuare l’idea che tutti i popoli parteciperanno un giorno alla *benedizione di Abramo. Queste correnti universalistiche, spesso ancora controbilanciate dalla tendenza inversa di fare della stirpe un assoluto (Esd 9, 2), sono portate a termine da Giovanni Battista e da Gesù. «Da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo» (Mt 3, 9 par.), afferma Giovanni. Anche per Gesù, se c’è una filiazione abramica indispensabile alla salvezza, non è costituita dall’appartenenza razziale, ma dalla *penitenza (Lc 19, 9), dalla imitazione delle *opere del patriarca, cioè della sua *fede (Gv 8, 33. 39 s). E Cristo lascia intendere che Dio, chiamando dei pagani, susciterà ai padri una posterità spirituale di credenti (Mt 8, 11 ).

    3. Dalla predizione alla realtà vissuta.
    - Dando una prima realizzazione all’annunzio di Gesù, la vita della Chiesa permette al dottore delle genti (1 Tim 2, 7), stimolato dalla crisi giudaizzante, di approfondire gli stessi temi. Indubbiamente, per Paolo, i membri dell’«Israele secondo la carne» (1 Cor 10, 18), «amati a motivo dei loro padri» (Rom 11, 28), conservano, in virtù anche delle *promesse fatte a questi (Atti 13, 17. 32 s), una priorità nella chiamata alla salvezza (Rom 1, 16; cfr. Atti 3, 26), quantunque molti rifiutino di credere all’*erede per eccellenza delle promesse (Gal 3, 16) e con ciò si rendano schiavi come Ismaele (Gal 4, 25). Ma nello stesso «Israele di Dio» (Gal 6, 16) non c’è differenza tra Giudei e Gentili (Ef 3, 6): *circoncisi o no, tutti, «facendosi forti della *fede di Abramo, padre di noi tutti», diventano figli del patriarca e beneficiari delle *benedizioni promesse alla sua discendenza (Gal 3, 7 ss; Rom 4, 11-18). Nel *battesimo nasce una nuova stirpe spirituale di figli di Abramo secondo la promessa (Gal 3, 27 ss), stirpe i cui primi rappresentanti non tarderanno ad essere chiamati essi stessi padri (2 Piet 3, 4).
    III. LA PATERNITÀ DEL DIO DEI PADRI
    1. Dai padri al Padre.
    - La spiritualizzazione progressiva dell’idea di paternità dell’uomo ha reso possibile la rivelazione di quella di Dio. Il fatto che la paternità dei patriarchi sembri inoperante durante l’esilio offre l’occasione di esaltare la permanenza di quella di Jahvè (Is 63, 16): nonostante il contrasto, la paternità può quindi essere attribuita nello stesso tempo agli antenati ed a Dio. È quanto appare anche dalla storia «sacerdotale»: collocando al vertice della scala delle *generazioni *Adamo, che è creato ad immagine di Dio (Gen 1, 27) e genera egli stesso a sua immagine (5, 1 ss), essa suggerisce che la linea delle ascendenze risale fino a Dio. Più tardi, Luca farà lo stesso (Lc 3, 23-38). Infine, per Paolo, Dio è il padre supremo, al quale ogni patria (gruppo uscito da uno stesso antenato) deve la sua esistenza ed il suo valore (Ef 3, 14 s). Così, tra i padri umani e Dio, esiste una somiglianza che permette di applicare a Dio stesso il nome di padre; più ancora, soltanto questa paternità divina dà alle paternità umane il loro pieno significato nel disegno della salvezza.
    2. Trascendenza della paternità divina.
    - Non è stato tuttavia un ragionamento per analogia a condurre Israele a chiamare Dio suo padre; bensì un’esperienza vissuta, e forse una reazione contro le concezioni dei popoli vicini. Tutte le nazioni antiche invocavano il loro dio come loro padre. Presso i Semiti una simile abitudine risaliva molto lontano, e la qualità paterna vi includeva per il dio un compito di protezione e di dominio, spesso di creazione. Nei testi di Ugarit (sec. XIV), El, dio supremo del pantheon cananeo, è chiamato «re padre Shunem»: con ciò si esprime il suo dominio sugli dèi e sugli uomini. Il suo stesso nome di El, che è pure quello del Dio dei patriarchi (Gen 46, 3), avrebbe designato primitivamente lo sceicco, e quindi indicherebbe la sua autorità su quel che talvolta si chiama il suo «clan». Secondo questo primo valore, l’idea di paternità divina è potuta passare nella Bibbia. Ma esisteva un altro valore, che il VT rigetta. Di fatto lo El fenicio, paragonato ad un toro come il Min egiziano, fecondava la sua sposa e generava altri dèi. Baal, figlio di El, era specializzato nella fecondazione delle coppie umane, degli animali e del suolo, mediante l’imitazione rituale della sua unione a una dea. Jahvè invece è unico; non ha né attività sessuale, né sposa, né figli in senso carnale. Se i poeti chiamano talvolta «*figli di Dio» gli angeli (Deut 32, 8; Sal 29, 1; 89, 7; Giob 1, 6 ...), i principi ed i giudici (Sal 82, 1. 6), lo fanno purificando le loro fonti sirofenicie in modo da sottomettere queste semplici creature a Dio, al quale non è attribuita alcuna paternità di ordine fisico. Se Jahvè è procreatore (Deut 32, 6), lo è evidentemente in senso morale: egli non è il padre degli dèi e lo sposo di una dea, ma simultaneamente (quindi in senso figurato) il padre e lo sposo (Os, Ger) del suo popolo. Se è anche padre in quanto creatore (Is 64, 7; Mal 2, 10; cfr. Gen 2, 7; 5, 1 ss), non è per mezzo di mostruose teogonie, come nei miti babilonesi. Infine il Dio che sovranamente «chiama il frumento» (Ez 36, 29) non ha nulla in comune con il Baal fecondante e con la magia dei suoi culti erotici, di cui i profeti hanno orrore; e non intende essere invocato come padre al modo in cui Baal lo è dai suoi (Ger 2, 27). Tutto avviene come se le guide di Israele avessero voluto purificare la nozione di paternità divina, in vigore presso i loro vicini, da tutte le sue risonanze sessuali, per non ritenere, di una terminologia sociale concernente i padri di famiglia e gli antenati, che l’aspetto atto ad essere trasferito a Dio.
    3. Jahvè, padre di Israele.
    - All’inizio, la paternità divina è concepita soprattutto in una prospettiva collettiva e storica: Dio si è rivelato come padre di Israele al momento dell’*esodo, mostrandosi suo protettore e suo padrone; l’idea-base è quella di una sovranità benefica, di una *provvidenza che esige sottomissione e fiducia (Es 4, 22; Num 11, 12; Deut 14, 1; Is 1, 2 ss; 30, 1. 9; Ger 3, 14). Osea e Geremia conservano l’idea, ma l’arricchiscono sottolineando l’immensa *tenerezza di Jahvè (Os 11, 3 s. 8 s; Ger 3, 19; 31, 20). A partire dall’esilio, mentre si continua a sfruttare lo stesso tema della paternità di Dio fondata sulla elezione (Is 45, 10 s; 63, 16; 64, 7 s; Tob 13, 4; Mal 1, 6; 3, 17) ed il cantico di Mosè vi aggiunge l’idea di adorazione (Deut 32, 10), taluni salmisti (Sal 27, 10; 103, 13) e taluni sapienti (Prov 3, 12; Eccli 23, 1-4; Sap 2, 13-18; 5, 5) considerano pure ogni giusto come *figlio di Dio, cioè oggetto della sua tenera protezione. Applicazione individuale che non costituirebbe un’assoluta novità, se si fosse certi che negli antichi *nomi teofori come Abiezer (Gios 17, 2), la finale ‘ab (padre) rappresenta il suffisso della prima persona, in modo da tradurre: «Mio Padre è soccorso».
    4. Jahvè, padre del re.
    - A partire da David, la paternità di Jahvè è rivendicata specialmente per il *re (2 Sam 7, 14 s; Sal 2, 7; 89,27; 110, 3 LXX), per mezzo del quale il favore divino raggiunge tutta la nazione che egli rappresenta. Tutti i re del Vicino Oriente antico erano considerati come figli adottivi del loro dio; e la frase del Sal 2, 7: «Tu sei il mio figlio», si ritrova tale e quale in una formula di adozione babilonese. Ma, fuori di Israele, le esigenze del dio sono per lo più capricci, come si vede per Kemosh in base alla stele di Mesha (cfr. 2 Re 3); ed in Egitto, egli è padre in senso carnale. Jahvè invece è il Dio che trascende l’ordine carnale e sanziona la condotta morale dei re (2 Sam 7, 14). Questi testi sulla filiazione regale preparano la rivelazione della filiazione unica di Gesù, nella misura in cui, attraverso i re di Giuda, si profila già il *messia definitivo. Un altro passo sarà fatto dopo l’esilio, con la messa in scena della *sapienza (Prov 8), personificata come figlia di Dio, che precede ogni creatura, e che riassumerebbe in sé la speranza collegata fin dalla profezia di Natan alla successione dinastica di David.
    IV. GESÙ RIVELA IL PADRE
    In prossimità dell’era cristiana, Israele conserva piena coscienza che Dio è padre del suo popolo e di ciascuno dei suoi fedeli. L’appellativo di padre, molto raro nelle apocalissi e nei testi di Qumrân, che temono forse l’uso che ne fa l’ellenismo, è frequente negli scritti rabbinici, dove si ritrova persino, tale e quale, la formula «Padre nostro, che sei nei cieli» (Mt 6, 9). *Gesù Cristo porta a *compimento il meglio della riflessione giudaica sulla paternità di Dio. Come il *povero del salmo, per il quale la comunità degli «uomini dal cuore puro», solo vero Israele (Sal 73, 1), rappresenta la «generazione dei figli di Dio» (73, 15), Gesù pensa ad una comunità (ci fa dire «Padre nostro», e non «Padre mio») composta dei «piccolissimi» (Mt 11, 25 par.) ai quali il Padre rivela i suoi segreti, e ciascuno dei quali è personalmente figlio di Dio (Mt 6, 4. 6. 18). Ma egli innova, andando oltre lo stesso universalismo a cui era giunta una corrente del tardo giudaismo. Questa, pur collegando la paternità di Dio alla sua qualità di creatore, non ne traeva ancora la conclusione che Dio fosse padre di tutti gli uomini e che gli uomini fossero tutti *fratelli (cfr. Is 64, 7; Mal 2, 10). Così pure, se concepiva la pietà divina come estendentesi ad «ogni carne» (Eccli 18, 13), generalmente aggiungeva che soltanto i figli di Dio, cioè i giusti di Israele, ne risentono l’effetto completo (Sap 12, 19-22; cfr. 2 Mac 6, 13-16); in concreto, ad essi soli applicava il tema deuteronomico (Deut 8, 5) di una «correzione di Jahvè» ispirata dall’amore paterno (Prov 3, 11 s; cfr. Ebr 12, 5-13). Per Gesù, invece, la comunità dei «piccolissimi», ancora limitata di fatto ai soli Giudei pentiti che fanno la volontà del Padre (Mt 21, 31 ss), comprenderà anche dei pagani (Mt 25, 32 ss), che soppianteranno i «figli del regno» (Mt 8, 12). A questo nuovo *Israele, che di diritto è già aperto a tutti, il Padre prodiga i beni necessari (Mt 6, 26. 32; 7, 11), anzitutto lo Spirito Santo (cfr. Lc 11, 13), e manifesta l’immensità della sua tenerezza misericordiosa (Lc 15, 11-32): non rimane che riconoscere umilmente quest’unica paternità (Mt 23, 9), e vivere come *figli che pregano il loro Padre (7, 7-11), pongono in lui la loro *fiducia (6, 25- 34), si sottomettono a lui imitando il suo amore universale (5, 44 s), la sua inclinazione a *perdonare (18, 33; cfr. 6, 14 s), la sua *misericordia (Lc 6, 36; cfr. Lev 19, 2), la sua stessa *perfezione (Mt 5, 48). Se questo tema dell’imitazione del Padre non è nuovo (infatti Lc 6, 36 si ritrova in un targum), nuova è l’insistenza sulla sua applicazione al perdono vicendevole ed all’amore dei *nemici. Dio non è mai tanto nostro padre come quando ama e perdona, e noi non siamo mai tanto suoi figli come quando agiamo allo stesso modo verso tutti i nostri *fratelli.
    V. IL PADRE DI GESÙ
    1. Per mezzo di Gesù, Dio si è rivelato come Padre di un Figlio unico.
    - Che *Dio sia suo Padre in un senso unico, Gesù lo fa comprendere col suo modo di distinguere «il mio Padre» (ad es. Mt 7, 21; 11, 27 par.; Lc 2, 49; 22, 29) ed «il vostro Padre» (ad es. Mt 5, 45; 6, 1; 7, 11; Lc 12, 32), di presentarsi talvolta come «il *Figlio» (Mc 13, 32), il Figlio diletto, cioè unico (Mc 12, 6 par.; cfr. 1, 11 par.; 9, 7 par.), e soprattutto di esprimere la coscienza di un’unione così stretta tra loro, che egli penetra tutti i segreti del Padre e li può, egli solo, rivelare (Mt 11, 25 ss). La portata trascendente di queste parole, «Padre» e «Figlio», che (almeno nella formula «Figlio di Dio», evitata del resto da Gesù) non è per sé evidente e non era percepita dai suoi interlocutori (in Lc 4, 41 Figlio di Dio equivale a Cristo), è confermata da quella del titolo «*figlio dell’uomo» e dalla rivendicazione di un’autorità che trascende il creato. Lo è pure dalla preghiera di Gesù, che si rivolge al Padre dicendo «Abba» (Mc 14, 36), equivalente del nostro «Papà»: familiarità di cui non c’è esempio prima di lui, e che manifesta un’intimità senza pari.
    2. Nel mistero della sua paternità, Dio si dà un uguale.
    - I primi teologi esplicitano ciò che dicono i sinottici del «Padre del nostro Signore Gesù Cristo» (Rom 15, 6; 2 Cor 1, 3; 11, 31; Ef 1, 3; 1 Piet 1, 3). Ne parlano sovente sotto il suo nome di Padre ed a lui pensano pur quando dicono semplicemente ho Theòs (ad es. 2 Cor 13, 13). Paolo tratta dei rapporti del Padre e del Figlio come attori della salvezza. Non di meno quando parla del «proprio Figlio di Dio» collocandolo in rapporto ai figli adottivi (Rom 8, 15 29. 32) ed attribuisce al «suo Figlio diletto» la stessa opera creatrice (Col 1, 13. 15 ss), ciò suppone che ci sia in *Dio un mistero di paternità trascendente. Giovanni va ancora più lontano. Chiama Gesù l’unigenito, cioè il *Figlio unico e diletto (Gv 1, 14. 18; 3, 16. 18; 1 Gv 4, 9). Sottolinea il carattere unico della paternità corrispondente a questa filiazione (Gv 20, 17), l’unità perfetta delle volontà (5, 30) e delle attività (5, 17-20) del Padre e del Figlio, manifestata dalle *opere miracolose che l’uno dà da compiere all’altro (5, 36), la loro mutua immanenza (10, 38; 14, 10 s; 17, 21), la loro mutua intimità di *conoscenza e di amore (5, 20. 23; 10, 15; 14, 31; 17, 24 ss), la loro mutua glorificazione (12, 28; 13, 31 s; 17, 1. 4 s). I Giudei, passando dal piano dell’azione al piano dell’essere, intendono le dichiarazioni di Gesù come professioni di uguaglianza con Dio (5, 17 s; 10, 33; 19, 7). Ed hanno ragione: Dio è veramente «il proprio Padre» di Gesù; questi esisteva già prima di Abramo (8, 57 s), come il Logos divino destinato a manifestare il Padre (1, 1. 18).
    3. Nella sua condizione di incarnazione, il Figlio rimane soggetto al Padre.
    - Se la dignità di Figlio fa di Gesù l’uguale di Dio, il Padre conserva nondimeno, secondo Cristo stesso (ad es. Mt 26, 39 par.; 11, 26 s; 24, 36 par.) e gli autori del NT, le sue.prerogative paterne. A lui il kèrygma primitivo (ad es. Atti 2, 24) e Paolo (ad es. 1 Tess 1, 10; 2 Cor 4, 14) attribuiscono la risurrezione di Gesù. Egli ha l’iniziativa della salvezza: sceglie e chiama il cristiano (ad es. 2 Tess 2, 13 s) o l’apostolo (ad es. Gal 1, 15 s); giustifica (ad es. Rom 3, 26. 30; 8, 30). Gesù non è che il *mediatore necessario: il Padre lo manda (Gal 4, 4; Rom 8, 3; Gv, passim), lo sacrifica (Rom 8, 32), gli affida un’opera da compiere (ad es. Gv 17, 4), delle parole da dire (12, 49), degli uomini da salvare (6, 39 s). Il Padre è fonte e fine di tutte le cose (1 Cor 8, 6); il Figlio, che non agisce che in sua dipendenza (Gv 5, 19; 14, 10; 15, 10), si sottometterà quindi a lui (1 Cor 15, 28), come a suo capo (11, 3), alla fine dei tempi.
    VI. IL PADRE DEI CRISTIANI
    Gli uomini hanno il potere di diventare figli di Dio (Gv 1, 12), perché Gesù lo è per natura. Il Cristo dei sinottici apporta i primi barlumi su questo punto, identificandosi con i suoi (ad es. Mt 18, 5; 25, 40), dicendosi loro fratello (28, 10) ed una volta designandosi persino con essi sotto l’appellativo comune di «figli» (17, 26). Ma la piena luce ci viene da Paolo, secondo il quale Dio ci libera dalla *schiavitù e ci adotta come figli (Gal 4, 5 ss; Rom 8, 14-17; Ef 1, 5) mediante la fede battesimale, che fa di noi un solo essere in Cristo (Gal 3, 26 ss), e di Cristo un figlio primogenito, che divide con i suoi *fratelli l’*eredità paterna (Rom 8, 17. 29; Col 1, 18). Lo *Spirito, essendo l’agente interno di questa adozione, ne è pure il testimone; e l’attesta ispirandoci la preghiera stessa di Cristo al quale ci conforma: Abba (Gal 4, 6; Rom 8, 14 ss. 29). Dalla Pasqua la Chiesa, recitando il «Padre nostro», esprime la coscienza di essere amata dello stesso amore di cui Dio circonda il suo Figlio unico (cfr. 1 Gv 3, 1); ed è questo che Luca indubbiamente suggerisce facendoci dire soltanto: «Padre!» (Lc 11, 2), come Cristo. La nostra vita filiale, manifestata nella preghiera, si esprime pure con la carità fraterna; infatti se amiamo il nostro Padre, non possiamo non amare anche tutti i suoi figli, nostri fratelli: «chiunque ama colui che ha generato, ama anche il generato da lui» (1 Gv 5, 1).
    P. TERNANT
    → Abramo I 3, II 2 - addii VT - amore I NT 4 - autorità VT I 1.2; NT II 2 - benedizione II 2, III 2, IV 2.3 - casa I 1 - Dio NT IV - educazione I 1 - elezione VT I 3 b - esempio - fecondità - figlio di Dio - fratello VT 2 - generazione - Gesù Cristo I 2 - insegnare VT I 1 - madre - misericordia 0; NT I 2.3 - nome NT 1 - pastore e gregge - patria VT 1 - popolo A II 1 - preghiera III 1, V 2 d - Provvidenza - rivelazione NT I 1 c - sepoltura 1 - Spirito di Dio 1 - tenerezza - terra VT II 1 - unità III - uomo I 1 d. 2 a.

    PADRONE (inizio)

    → autorità - matrimonio VT II 1 - padri e Padre I 1 - retribuzione I - schiavo - servire - Signore.

    PAGANO (inizio)

    → anatema VT - apostoli II 2 - eresia 2.3 - giudeo I - idoli - nazioni - popolo C II.

    PANE (inizio)

    Il pane, dono di Dio, è per l’uomo una sorgente di forza (Sal 104, 14 s), un mezzo di sussistenza così essenziale che, mancare di pane, significa mancare di tutto (Am 4, 6; cfr. Gen 28, 20); nella preghiera, che Cristo insegna ai suoi discepoli, il pane sembra quindi riassumere tutti i *doni che ci sono necessari (Lc 11, 3); più ancora, esso è stato preso come segno del maggiore dei doni (Mc 14, 22).
    I. IL PANE QUOTIDIANO
    1. Nella vita corrente.
    - Nella vita corrente si caratterizza una situazione dicendo il gusto che essa dà al pane. Colui che soffre e che Dio sembra abbandonare mangia un pane «di lacrime», di angoscia o «di cenere» (Sal 42, 4; 80, 6; 102, 10; Is 30, 20); chi è lieto lo mangia nella gioia (Eccle 9, 7). Del peccatore si dice che mangia un pane di empietà o di menzogna (Prov 4, 17) e del pigro, un pane di ozio (Prov 31, 27). D’altra parte il pane non è soltanto un mezzo di sussistenza: è destinato ad essere diviso. Ogni *pasto suppone una riunione e quindi una *comunione. Mangiare il pane regolarmente con uno, significa essergli *amico, quasi intimo (Sal 41, 10 = Gv 13, 18). Il dovere dell’*ospitalità è sacro e fa del pane di ognuno il pane del viandante mandato da Dio (Gen 18, 5; Lc 11, 5. 11). Soprattutto a partire dall’*esilio, l’accento è posto sulla necessità di condividere il proprio pane con l’affamato: la *pietà giudaica trova qui l’espressione migliore della carità fraterna (Prov 22, 9; Ez 18, 7. 16; Giob 31, 17; Is 58, 7; Tob 4, 16). Paolo, quando raccomanda ai Corinti la colletta in favore dei «santi», ricorda loro che ogni dono viene da Dio, a cominciare dal pane (2 Cor 9, 10). Nella Chiesa cristiana, la «frazione del pane» designa infine il rito eucaristico spezzato in favore di tutti: il corpo del Signore diventa la fonte stessa dell’unità della Chiesa (Atti 2, 42; 1 Cor 10, 17).
    2. Il pane, dono di Dio.
    - Dio, dopo aver creato l’uomo (Gen 1, 29), e nuovamente dopo il diluvio (9, 3), gli fa conoscere ciò che può mangiare; e l’uomo peccatore si assicurerà il necessario a prezzo di una dura fatica: «Mangerai il pane col sudore della tua fronte» (3, 19). Da quel momento abbondanza o penuria di pane avranno valore di segno: l’abbondanza sarà *benedizione di Dio (Sal 37, 25; 132, 15; Prov 12, 11), e la penuria *castigo del peccato (Ger 5, 17; Ez 4, 16 s; Lam 1, 11; 2, 12). L’uomo deve quindi chiedere umilmente il suo pane a Dio ed aspettarlo con fiducia. A questo riguardo i racconti di moltiplicazione dei pani sono significativi. II miracolo compiuto da Eliseo (2 Re 4, 42 ss) esprime bene la sovrabbondanza del dono divino: «Si mangerà e se ne avanzerà». L’umile fiducia è quindi la prima lezione dei racconti evangelici; desumendo da un salmo (78, 25) la formula: «Tutti mangiarono e furono sazi» (Mt 14, 20 par.; 15, 37 par.; cfr. Gv 6, 12), essi evocano il «pane dei forti» con cui Dio saziò il suo popolo nel deserto. In un identico contesto di pensiero Gesù ha invitato i suoi discepoli a chiedergli «il pane quotidiano» (Mt 6, 11), come figli che con fiducia attendono tutto dal loro Padre celeste (cfr. Mt 6, 25 par.). Infine il pane è il dono supremo dell’epoca escatologica, sia per ciascuno in particolare (Is 30, 23), sia nel banchetto messianico promesso agli eletti (Ger 31, 12). I *pasti di Gesù con i suoi erano così preludio al banchetto escatologico (Mt 11, 19 par.), e soprattutto il pasto *eucaristico in cui il pane che Cristo dà ai suoi discepoli è il suo *corpo, vero dono di Dio (Lc 22, 19).
    II. IL PANE NEL CULTO
    1. La legislazione sacerdotale accorda una grande importanza ai pani «di proposizione», posti nel tempio su una mensa con i vasi destinati alle libagioni (1 Re 7, 48; 2 Cron 13, 11; cfr. Es 25, 23- 30). La loro origine sembra antica (1 Sam 21, 5 ss). Forse è un riflesso dell’antico sentimento religioso che offriva il *nutrimento alla divinità. Per Israele, il cui Dio rifiuta ogni nutrimento (Giud 13, 16), questi pani diventano il simbolo della *comunione tra Dio ed i suoi fedeli; saranno consumati dai sacerdoti (Lev 24, 5-9).
    2. Il pane delle primizie faceva parte dell’offerta presentata alla festa delle settimane (Lev 23, 17). La formula «in atto di presentazione» fa vedere che esso significa la riconoscenza del dono divino come ogni liturgia delle *primizie (cfr. Es 23, 16. 19). Spetta naturalmente al sacerdote, rappresentante di Dio (Lev 23, 20; cfr. Ez 44, 30; Num 18, 13). Una intenzione di riconoscenza ispira pure l’offerta del pane e del vino fatta dal resacerdote Melchisedec al Dio creatore (Gen 14, 18 ss).
    3. Già nei codici più antichi i pani azzimi accompagnano i sacrifici (Es 23, 18; 34, 25) e costituiscono il nutrimento di Israele durante la festa di primavera (23, 15; 34, 18). Il fermento era escluso dalle offerte cultuali (Lev 2, 11); forse vi si vedeva un simbolo di corruzione. In ogni caso, quando la festa agricola degli azzimi fu unita alla immolazione della *Pasqua, l’uso del pane senza lievito fu posto in relazione con l’uscita dall’Egitto: doveva ricordare la partenza affrettata che aveva impedito di far fermentare la pasta (Es 12, 8. 11. 39). Forse l’origine del rito è semplicemente un uso della vita nomade, scomparso nella vita sedentaria in Canaan. In seguito vi è stata congiunta l’idea di un rinnovamento: il vecchio fermento deve sparire (12, 15). S. Paolo riprende questa immagine per convincere i battezzati a vivere come uomini *nuovi (1 Cor 5, 7 s). L’uso del pane nel culto trova il suo *compimento nell’*eucaristia: dopo aver moltiplicato i pani con atti liturgici (Mt 14, 19 par.), Gesù durante la cena comanda di rinnovare l’azione mediante la quale egli fece del pane il suo corpo sacrificato ed il sacramento dell’unità dei fedeli (1 Cor 10, 16-22; 11, 23-26).
    III. IL PANE DELLA PAROLA
    Annunziando la fame della *parola di Dio, il profeta Amos (8, 11) paragona il pane alla parola (cfr. Deut 8, 3 a proposito della manna). In seguito, nella evocazione del banchetto messianico, profeti e sapienti parlano del pane che designa la parola viva di Dio (Is 55, 1 ss), la sapienza divina in persona (Prov 9, 5 s; Eccli 24, 19-22; cfr. 15, 1 ss). Anche per Gesù il pane evoca la parola divina di cui si deve vivere ogni giorno (Mt 4, 4). Al desiderio del pane mangiato nel regno escatologico (Lc 14, 15), Gesù risponde con la parabola degli invitati, che ha di mira anzitutto l’accettazione della persona e del suo messaggio. Inserendo il primo racconto della moltiplicazione dei pani in un contesto di insegnamento, sembra che Marco voglia suggerire che questi pani sono il simbolo della parola di Gesù e nello stesso tempo del suo corpo offerto (Mc 6, 30. 34): Secondo S. Giovanni, Gesù rivela il senso di questo miracolo affermando di essere il vero pane (Gv 6, 32 s). Egli si presenta anzitutto come la parola alla quale bisogna credere (6, 35-47). Poiché questa parola incarnata si offre in sacrificio, l’adesione di fede comporterà necessariamente la comunione con questo sacrificio nel rito eucaristico (6, 49-58). Alimento necessario e dono di Dio nella sua stessa materialità, il pane richiesto ogni giorno dal fedele al suo Dio può significare, con lo sviluppo della fede, la parola divina e la persona stessa del salvatore immolato, che è il vero pane del cielo, il pane di vita, vivo e vivificante (6, 32. 35. 51).
    D. SESBOUÉ
    → comunione NT - eucaristia - fame e sete - manna - nutrimento - pasto - vita IV 2.

    PAOLO (inizio)

    → apostoli II - apparizioni di Cristo 5 - fede III - legge C III - missione NT II 2 - nazioni NT II 2 - vangelo IV.

    PARABOLA (inizio)

    Già nella Chiesa primitiva si chiama parabola una storia raccontata da Gesù per illustrare il suo insegnamento. Alla base del termine greco parabolè c’è l’idea di paragone. certo, il genio orientale predilige il discorso e l’insegnamento sotto forma di paragone; apprezza anche l’enigma che solletica la curiosità, che incita alla ricerca; di questi gusti, ci portano l’eco i libri biblici, in particolare le sentenze sapienziali (Prov 10, 26; 12, 4; Giud 14, 14). Tuttavia non è questo l’essenziale, se si vuole spiegare il genere parabolico: bisogna interpretare la parola come la messa in scena di simboli, cioè di immagini tratte da realtà terrene allo scopo di esprimere (cfr *segno) le realtà rivelate da Dio (la storia sacra, il regno...), che il più delle volte richiedono una spiegazione in profondità.
    I. SIMBOLI NELLA STORIA SACRA
    1. Estensione del procedimento.
    - Fin dall’inizio della sua storia, Israele si trovava dinanzi al problema di parlare, con una mentalità molto concreta, del Dio trascendente che non ammetteva nessuna rappresentazione sensibile (Es 20, 4). Bisogna quindi evocare continuamente la vita divina partendo dalle realtà terrene che avrebbero assunto valore di *segni. Gli antropomorfismi, così numerosi nei testi antichi, sono paragoni impliciti che contengono in germe vere parabole (Gen 2, 7 s. 19. 21...). Essi saranno più rari in seguito, ma la preoccupazione di evocare sarà tanto più forte (Ez 1, 26 ss). La vita stessa dell’uomo, nel suo aspetto morale e religioso, aveva bisogno di questi accostamenti. I profeti ne fanno uso abbondante sia nelle loro invettive (Am 4, 1; Os 4, 16; Is 5, 18 ...), sia per enunciare le promesse divine (Os 2, 20 s; Is 11, 6-9); (Ger 31, 21...); nello stesso tempo amano le azioni simboliche, cioè le predicazioni mimate (Is 20, 2; Ger 19, 10; Ez 4 - 5). Vere parabole s’incontrano anche nei libri storici per illustrare quel certo evento importante della storia sacra (Giud 9, 8-15; 2 Sam 12, 14; 14, 5 ss). Il procedimento si amplifica nel tardo giudaismo sino a diventare, nei rabbini, un vero metodo pedagogico. Fatto inventato o storia del passato vengono ad appoggiare un qualsiasi insegnamento, introdotti con la formula: «A che cosa questo è simile?». Gesù si inserisce in questo movimento, avendo cura di esprimere frequentemente in forma di paragone gli elementi della sua dottrina: «A che cosa paragonerò?» (Mc 4, 30; Lc 13, 18), «Il regno dei cieli è simile...» (Mt 13, 24. 31).
    2. Portata religiosa delle parabole.
    - Illustrando con le realtà concrete della vita quotidiana il loro insegnamento sul senso della storia sacra, i profeti ne fanno dei veri temi: il *pastore, il matrimonio, la *vigna, che si ritrovano nelle parabole evangeliche. L’amore gratuito e benevolo di Dio, le reticenze del popolo nella sua risposta costituiscono la trama di questi sviluppi mediante immagini (ad es. Is 5, 1-7; Os 2; Ez 16); quantunque vi si possano pure trovare allusioni più precise ad un determinato atteggiamento di vita morale (Prov 4, 18 s; 6, 6-11; 15, 4), od anche ad una determinata situazione sociale (Giud 9, 8-15). Nel vangelo la prospettiva è accentrata sulla realizzazione definitiva del regno di Dio nella persona di Gesù. Di qui il gruppo importante delle parabole del regno (soprattutto Mt 13, 1-50 par.; 20, 1-16; 21, 33 - 22, 14 par.; 24, 45 - 25, 30).
    3. Parabola ed allegoria.
    - Capita che la storia simbolica non offra soltanto una lezione globale, ma tutti i particolari hanno un significato proprio, e richiedono un’interpretazione speciale. La parabola diventa allora allegoria. Ciò avviene già in taluni testi del VT (ad es. Ez 17), e questo procedimento si ritrova nelle paremie del quarto vangelo (Gv 10, 1-16; 15, 1-6). Di fatto spesso le parabole presentano almeno alcuni tratti allegorici; ad esempio Gesù che parla di Dio e di Israele sotto i tratti del padrone della vigna (Mt 21, 33 par.). Gli evangelisti accentuano questo carattere suggerendo già un’interpretazione. Così Matteo allegorizza in «vostro Signore» il «Signore della casa» di cui parla Gesù (Mt 24, 42; Mc 13, 35), e Luca riferisce la parabola del buon Samaritano in termini che fanno pensare a Cristo (Lc 10, 33. 35).
    II. LA PRESENTAZIONE APOCALITTICA
    1. Nella profezia del VT.

    - Per spiegare il carattere enigmatico di talune parabole evangeliche, più che agli enigmi dei sapienti (1 Re 10, 1-3; Eccli 39, 3), bisogna ricorrere alla presentazione volutamente misteriosa di scritti tardivi. A partire da Ezechiele, l’annuncio profetico del futuro si trasforma a poco a poco in apocalisse, avvolge cioè deliberatamente il contenuto della *rivelazione in una serie di immagini che hanno bisogno di spiegazione per essere comprese. La presenza di un «angelo-interprete» fa generalmente spiccare la profondità del messaggio e la sua difficoltà. Così l’allegoria dell’aquila in Ez 17, 3-10, chiamata «enigma» e «parabola» (mašal), è poi spiegata dal profeta (17, 12-21). Le visioni di Zaccaria comportano un angelo-interprete (Zac 1, 9 ss; 4, 5 s...) e soprattutto le grandi visioni apocalittiche di Daniele, nelle quali si suppone sempre che il veggente non comprenda (Dan 7, 15 s; 8, 15 s; 9; 22). Si giunge così a uno schema tripartito: simbolo - richiesta di spiegazione - applicazione del simbolo alla realtà.
    2. Nel vangelo.
    - Il mistero del regno e della persona di Gesù è talmente nuovo che anch’esso non può manifestarsi se non gradualmente, e secondo la ricettività diversa degli uditori. Perciò Gesù, nella prima parte della sua vita pubblica, raccomanda a suo riguardo il «segreto messianico», posto in così forte rilievo da Marco (1, 34. 44; 3, 12; 5, 43 ...). Perciò pure egli ama parlare in parabole che, pur dando una prima idea della sua dottrina, obbligano a riflettere ed hanno bisogno di una spiegazione per essere perfettamente comprese. Si perviene così a un insegnamento a due livelli, ben sottolineato da Mc 4, 33-34: il ricorso a temi classici (il re, il banchetto, la vite, il pastore, le semine...) mette sulla buona strada l’insieme degli ascoltatori; ma i discepoli hanno diritto a un approfondimento della dottrina, impartito da Gesù stesso. I loro quesiti ricordano allora gli interventi dei veggenti nelle apocalissi (Mt 13, 10-13. 34 s 36. 51; 15, 15; cfr. Dan 2, 18 ss; 7, 16). Le parabole appaiono così una specie di mediazione necessaria affinché la ragione si apra alla fede: più il credente penetra nel *mistero rivelato, più approfondisce la comprensione delle parabole; viceversa, più l’uomo rifiuta il messaggio di Gesù, più gli resta interdetto l’accesso alle parabole del regno. Gli evangelisti sottolineano appunto questo fatto quando, colpiti dalla ostinazione (*indurimento) di molti Giudei di fronte al vangelo, rappresentano Gesù che risponde ai discepoli con una citazione di Isaia: le parabole mettono in evidenza l’accecamento di coloro che rifiutano deliberatamente di aprirsi al messaggio di Cristo (Mt 13, 10-15 par.). Tuttavia, accanto a queste parabole affini alle apocalissi, ce ne sono di più chiare che hanno di mira insegnamenti morali accessibili a tutti (così Lc 8, 16 ss; 10, 30-37; 11, 5-8).
    III. L’INTERPRETAZIONE DELLE PARABOLE
    Se ci si pone in questo contesto biblico ed orientale in cui Gesù parlava, e si tiene conto della sua volontà di insegnamento progressivo, diventa più facile interpretare le parabole. La loro materia sono i fatti umili della vita quotidiana, ma anche, e forse soprattutto, i grandi avvenimenti della storia sacra. I loro temi classici, facilmente reperibili, sono già pregni di significato per il loro sfondo di VT, al momento in cui Gesù se ne serve. Nessuna inverosimiglianza deve stupire nei racconti composti con libertà ed interamente ordinati all’insegnamento; il lettore non dev’essere urtato dall’atteggiamento di taluni personaggi presentati per evocare un ragionamento a fortiori od a contrario (ad es. Lc 6, 1-8; 18, 1-5). Ad ogni modo bisogna anzitutto mettere in luce l’aspetto teocentrico, e più precisamente cristocentrico, della maggior parte delle parabole. Qualunque sia la misura esatta dell’allegoria, in definitiva il personaggio centrale deve per lo più evocare il Padre celeste (Mt 21, 28; Lc 15, 11), o Cristo stesso - sia nella sua missione storica (il «seminatore» di Mt 13, 3. 24. 31 par.), sia nella sua gloria futura (il «ladro» di Mt 24, 43; il «padrone» di Mt 25, 14; lo «sposo» di Mt 25, 1); e quando ve ne sono due, sono il Padre ed il Figlio (Mt 20, 1-16; 21, 33. 37; 22, 2). Infatti l’amore del Padre testimoniato agli uomini con l’invio del suo Figlio è la grande rivelazione portata da Gesù. A questo servono le parabole che mostrano il compimento perfetto che il nuovo *regno dà al disegno di Dio sul mondo.
    D. SESBÜÉ
    → mistero NT I - parola di Dio - rivelazione NT I 1 b - sapienza NT I 1.

    PARACLITO (inizio)

    Il termine «Paraclito» (gr. paràkletos) appartiene alla letteratura giovannea. Non designa la natura di uno, ma la sua funzione: colui che è «chiamato accanto» (para-kalèo; ad-vocatus) svolge la funzione attiva di assistente, di avvocato, di sostegno (il senso di «consolatore» deriva da una falsa etimologia e non è attestato nel NT). Questa funzione è svolta sia da Gesù Cristo che in cielo è «nostro avvocato presso il Padre, ed intercede per i peccatori» (1 Gv 2, 1), sia quaggiù dallo Spirito Santo, il quale, essendo per i credenti il rivelatore e il difensore di Gesù (Gv 14, 16 s. 26; 15, 26 s; 16, 7-11. 13 ss), ne attualizza la presenza.
    1. Lo Spirito Santo, presenza di Gesù.
    - La venuta del Paraclito è legata alla partenza di Gesù (Gv 16, 7), che segna una nuova tappa nella storia della *presenza di Dio tra gli uomini. Nel discorso dopo la cena Gesù annunzia che verrà nuovamente, non soltanto alla fine dei tempi (14, 3), ma al momento delle *apparizioni pasquali (14, 18 ss; 16, 16-19); questa *visione del risorto colmerà di *gioia i discepoli (16, 22). Tuttavia la sua presenza tra i suoi non sarà più di ordine sensibile, ma «spirituale». Fino ad ora egli «rimaneva con» i suoi (14, 25); ora, in suo *nome (14, 26), dietro sua preghiera, il Padre darà (cfr. *dono) loro «un altro paraclito» (14, 16), che Gesù stesso manderà (15, 26; 16, 7). Pur essendo «diverso» da Gesù, lo Spirito porta a perfezione la presenza di Gesù. Come Gesù, egli è «in» essi (14, 17; 17, 23); come Gesù, egli rimane «con» i credenti (14, 17. 25), ma «per sempre» (14, 16; cfr. Mt 28, 20), perché anticipa le dimore (cfr. *rimanere) che Gesù è andato a preparare nella casa del Padre (14, 2 s). Egli è lo Spirito di *verità (14, 17; 16, 13), della verità che è Gesù (14, 6) in opposizione al padre della *menzogna (8, 44), della verità che caratterizza ormai l’*adorazione del Padre (4, 23 s). Egli è lo Spirito *Santo (14, 26) che Gesù, il santo (6, 69), con la sua consacrazione (17, 19), ha meritato di dare loro (20, 22; 7, 39); egli li «consacra» (17, 17), facendo sì che essi non siano più del *mondo (17, 16); come Gesù non si manifesta al mondo (14, 21 s) che lo odia (7, 7; 15, 18 s), così lo Spirito non è ricevuto dal mondo (14, 17).
    2. Lo Spirito di verità, memoria vivente della Chiesa.
    - Nella comunità dei discepoli il Paraclito ha una presenza attiva. Deve glorificare Gesù (16, 14), in primo luogo attualizzando il suo *insegnamento: «Egli vi insegnerà tutto e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (14, 26). Insegnamento e *memoria che avvengono in stretto legame con Gesù, come Gesù aveva assolto la sua *missione sempre unito al Padre suo. Come Gesù dispone dei beni del Padre (16, 15; 17, 10), così lo Spirito «prenderà del mio per farne parte a voi» (16, 14 s); egli ricorderà ciò che Gesù ha detto, perché «non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà sentito»: allo stesso modo Gesù attingeva tutto dal Padre (5, 30; 8, 40; 15, 15), il suo insegnamento non era «suo» (8, 28; 12, 49 s; 14, 10). Come, *vedendo Gesù, si vedeva il Padre (14, 9), così l’*unzione (chrìsma) istruisce su tutto (1 Gv 2, 27), e cioè lo Spirito «introduce a tutta intera la verità» (Gv 16, 13): egli «ripresenta» nella luce pasquale gli avvenimenti passati (cfr. 2, 22; 7, 39; 11, 51 s; 12, 16; 13, 7). Con ciò rende *testimonianza a Cristo (15, 26) e permette ai discepoli di testimoniare con lui e per mezzo di lui (15, 27).
    3. Lo Spirito di verità, difensore di Gesù.
    - Il Paraclito non rivela soltanto una verità che si oppone all’errore, ma *giustifica la verità contro la *menzogna del mondo: anche in questo egli è «lo Spirito di verità»: le rende testimonianza nel *processo che il *mondo intenta a Gesù nel cuore dei suoi discepoli. Mentre nella tradizione sinottica lo Spirito difendeva i discepoli citati al tribunale dei re (Mc 13, 11 par.), in Giovanni è il difensore di Gesù: da accusati, i discepoli diventano giudici dei loro giudici, come lo era stato Gesù nella sua vita terrena (5, 19-47). Il Paraclito confonde il mondo su un triplice punto (16, 8-11): il *peccato, perché il peccato è l’*incredulità nei confronti di Gesù; la *giustizia, perché la giustizia è dalla parte di Gesù che è glorificato presso il Padre; il *giudizio, perché il verdetto di condanna è già pronunciato contro il principe di questo mondo. Così nel cuore del credente, grazie al Paraclito che egli accoglie ed ascolta, dimora una convinzione: non è il mondo, ma Gesù ad aver ragione; perciò anch’egli ha motivo di credere, di soffrire per la causa del suo maestro. Con lui, egli è già vincitore del mondo e del demonio (16, 33).
    X. LÉON DUFOUR
    → insegnare NT II - missione NT III - mondo NT III 2 - presenza di Dio NT II - processo III 3 - Spirito di Dio NT II.

    PARADISO (inizio)

    Il termine greco paràdeisos ricalca il persiano pardès, che significa: giardino. I Settanta usano questo termine ora in senso proprio (Eccle 2, 5; Cant 4, 12), ora nel senso religioso, il solo che qui interessa.
    1. Il giardino di Dio.
    - Nelle religioni del Medio Oriente, la rappresentazione della vita degli dèi desume le sue immagini dalla vita dei potenti della terra: gli dèi vivono con delizie nei palazzi circondati da giardini, dove scorre «l’*acqua della vita», dove cresce, tra altri *alberi meravigliosi, «l’albero della vita» il cui *frutto nutre gli immortali. In terra, i loro *templi, circondati da giardini sacri, imitano questo prototipo. Tali immagini, purificate del loro politeismo, si sono acclimatate nella Bibbia: secondo le convenzioni dell’antropomorfismo non si teme di evocare Dio «che passeggia alla brezza del giorno» nel suo giardino (Gen 3, 8); il giardino ed i suoi alberi sono persino citati in proverbio (Gen 13, 10; Ez 31, 8 s. 16 ss).
    2. Dal paradiso perduto al paradiso ritrovato.
    a) Il paradiso perduto. - Le stesse immagini sono introdotte nello svolgimento della storia sacra, per evocare lo stato in cui Dio ha creato l’uomo, il destino per il quale l’ha posto quaggiù. Dio ha piantato per lui un giardino in Eden (Gen 2, 8 ss; cfr. Ez 28, 13). La sua vita in questo giardino implica il *lavoro (Gen 2, 15), pur avendo il carattere di una felicità ideale che richiama in più di un tratto le descrizioni classiche dell’età aurea: familiarità con Dio, libero uso dei frutti del giardino, dominio sugli *animali (2, 19 s), unità armoniosa della coppia primitiva (2, 18. 23 s), innocenza morale significata dalla mancanza di *vergogna (2, 25), assenza della *morte che non entrerà nella terra se non in conseguenza del *peccato (cfr. 3, 19). Tuttavia la *prova dell’uomo occupa pure un posto essenziale in questo paradiso primitivo: Dio vi ha posto l’albero della conoscenza, ed il serpente viene a tentarvi Eva. Nonostante ciò, la felicità dell’Eden sottolinea per contrasto le miserie della nostra condizione attuale, che comporta le esperienze contrarie: questa condizione, frutto del *peccato umano, è legata al tema del paradiso perduto (3, 23).
    b) Promessa del paradiso. - Il sogno che l’uomo porta in sé non è quindi fallace: corrisponde alla sua *vocazione originale. Ma rimarrebbe per sempre irrealizzabile (cfr. Gen 3, 23) se, per una disposizione provvidenziale, tutta la storia sacra non avesse come fine e senso di reintegrare l’uomo nel suo stato primitivo. Perciò, dal VT al NT, il tema del paradiso ritrovato, con le sue diverse risonanze, pervade gli oracoli escatologici, intrecciandosi con quelli della nuova *terra santa e della nuova *creazione. I peccati del popolo di Dio hanno fatto del suo soggiorno in terra un luogo di desolazione (Ger 4, 23); ma negli ultimi tempi Dio lo trasformerà in giardino di Eden (Ez 36, 35; Is 51, 3). In questo nuovo paradiso le *acque vive zampilleranno dal *tempio dove Dio risiederà; sulle rive cresceranno *alberi meravigliosi, che forniranno al nuovo *popolo *nutrimento e *guarigione (Ez 47, 12). Così la via all’albero della vita sarà riaperta agli uomini (Apoc 2, 7; 22, 2; in contrasto con Gen 3, 24). La vita paradisiaca restaurata al termine della storia sacra presenterà caratteri che riprodurranno quelli dell’Eden primitivo, ed anche, in più punti, li supereranno: *fecondità meravigliosa della natura (Os 2, 23 s; Am 9, 13; Ger 31, 23-26; Gioe 4, 18); *pace universale, non soltanto degli uomini tra loro (Is 2, 4), ma anche con la natura e gli animali (Os 2, 20; Is 11, 6-9; 65, 25); *gioia pura (Ger 31, 13; Is 35, 10; 65, 18 ...); soppressione di ogni *sofferenza e della stessa *morte (Is 35, 5 s; 65, 19 ...; 25, 7 ss; Apoc 20, 14; 21, 4); soppressione dell’antico serpente (Apoc 20, 2 s. 10); ingresso in una *vita eterna (Dan 12, 2; Sap 5, 15; Apoc 2, 11; 3, 5). La realtà che queste immagini evocano, in contrasto con la condizione in cui l’uomo è ridotto dal peccato, riprende quindi i tratti della sua condizione originale, ma eliminando ogni idea di prova ed ogni possibilità di caduta.
    c) Anticipazioni del paradiso ritrovato. - Il paradiso ritrovato è una realtà escatologica. Il popolo di Dio, nella sua esperienza storica, non ne ha conosciuto che ombre fuggitive: come, ad esempio, il possesso di una *terra «dove scorre latte e miele» (Es 3, 17; Deut 6, 3; ecc.). Tuttavia la sua esperienza spirituale gliene ha dato un’anticipazione di altro ordine. Infatti Dio gli ha accordato la sua *legge, fonte di ogni *sapienza (Deut 4, 5 s); ora «la sapienza è un albero di vita» che assicura la felicità (Prov 3, 18; cfr. Eccli 24, 12-21); la legge fa abbandonare nell’uomo che l’osserva la sapienza «come un fiume di paradiso» (Eccli 24, 25 ss; cfr. Gen 2, 10 ... ); il sapiente che l’insegna agli altri è «come un corso d’acqua che porta al paradiso» (Eccli 24, 30); la *grazia ed il *timore del Signore sono un paradiso di *benedizione (40, 17. 27). Con la sapienza Dio restituisce quindi all’uomo una pregustazione della gioia paradisiaca. Il NT fa conoscere il segreto ultimo di questo *disegno divino. Cristo è la fonte della sapienza; è questa stessa sapienza (1 Cor 1, 30). È nello stesso tempo il nuovo *Adamo (Rom 5, 14; 1 Cor 15. 45), per mezzo del quale l’umanità accede al suo stato escatologico. *Vittorioso egli stesso del serpente antico, che è il demonio e *Satana (cfr. Apoc 20, 2), al momento della sua *tentazione, egli visse in seguito «con le bestie selvagge» in una specie di paradiso ritrovato (Mc 1, 13; cfr. Gen 1, 26; 2, 19 s). I suoi *miracoli infine fanno vedere che la *malattia e la *morte sono fin d’ora vinte. L’uomo che crede in lui ha trovato il «*nutrimento di vita» (Gv 6, 35), «l’*acqua viva» (4, 14), la «*vita eterna» (5, 24 ss), cioè i doni del paradiso escatologico ormai inaugurato.
    3. Il paradiso, soggiorno dei giusti.
    - Nei testi biblici, la descrizione del paradiso escatologico rimane sobria e si purifica progressivamente; ma gli apocrifi l’amplificano notevolmente, testimoniando un certo sviluppo nelle credenze giudaiche (ad es. nel libro di Enoch). Prima di ritornare negli ultimi *tempi nella *terra santa, il paradiso serve come soggiorno intermedio, dove i *giusti sono raccolti da Dio per attendere il *giorno del *giudizio, la *risurrezione e la *vita del mondo futuro. Tale è il soggiorno promesso da Gesù al buon ladrone (Lc 23, 43), ma già trasformato dalla presenza di colui che è la vita: «Sarai con me...». Quanto allo stato di *beatitudine, assicurato al termine della storia sacra, Gesù vi entra per primo al di là della sua morte per restituirne l’accesso ai peccatori redenti.
    4. Il paradiso ed il cielo.
    - In quanto soggiorno di Dio, il paradiso si trova fuori di questo *mondo. Ma il linguaggio biblico colloca pure in *cielo la dimora divina. Perciò il paradiso è identificato talvolta con «il più alto dei cieli», quello in cui risiede Dio: qui Paolo è rapito in spirito per contemplare realtà ineffabili (2 Cor 12, 4). Questo è pure il senso abituale del termine paradiso nel linguaggio cristiano: In Paradisum deducant te angeli… «Gli angeli ti conducano in Paradiso» (liturgia delle esequie). Ormai il paradiso è aperto per coloro che muoiono nel Signore.
    P. GRELOT
    → Adamo I 2 - albero 1 - cielo VI - creazione VT II 1 - deserto VT II 3; NT I 1 - patria VT 2 - terra VT 1 3, II 2.4.

    PARENESI (inizio)

    → esortare - predicare.

    PAROLA DI DIO (inizio)

    «Hanno una bocca e non parlano» (Sal 115, 5; Bar 6, 7). Questa satira degli «idoli muti» (1 Cor 12, 2) sottolinea uno dei tratti più caratteristici del *Dio vivente nella rivelazione biblica: egli parla agli uomini, e l’importanza della sua parola nel VT non fa che preparare il fatto centrale del NT, dove questa parola - il Verbo - diventa carne.
    VECCHIO TESTAMENTO
    I. DIO PARLA AGLI UOMINI
    Nel VT, il tema della parola divina non è un oggetto di speculazione astratta, come in altre correnti di pensiero (cfr. il Logos dei filosofi alessandrini). È innanzitutto un fatto di esperienza: Dio parla direttamente a uomini privilegiati; per mezzo loro parla al suo popolo ed a tutti gli uomini.
    1. Il profetismo è una delle basi fondamentali del VT: in tutti i secoli Dio parla a uomini scelti, con missione di trasmettere la sua parola. Questi uomini sono *profeti, nel senso largo del termine. II modo in cui Dio si rivolge ad essi può variare: agli uni parla «in visione ed in *sogni» (Num 12, 6; cfr. 1 Re 22, 13-17); agli altri mediante un’ispirazione interna più indefinibile (2 Re 3, 15...; Ger 1, 4; ecc.); a Mosè parla «bocca a bocca» (Num 12, 8). Molto spesso il modo di esprimersi della sua parola non è neppure precisato (ad es. Gen 12, 1). Ma l’essenziale non è qui: tutti questi profeti hanno chiara coscienza che Dio parla loro, che la sua parola li invade in qualche modo fino a far loro violenza (Am 7, 15; cfr. 3, 8; Ger 20, 7 ss). Per essi quindi la parola di Dio è il fatto primario che determina il senso della loro vita, ed il modo straordinario in cui la parola sorge in essi fa sì che ne attribuiscano l’origine all’azione dello *spirito di Dio. Tuttavia, in altri casi, la parola può arrivare anche per vie più segrete, apparentemente più vicine alla psicologia normale: quelle a cui ricorre la *sapienza divina per rivolgersi al cuore degli uomini (Prov 8, 1-21. 32-36; Sap 7 - 8), sia che insegni loro come condurre la vita, sia che *riveli loro i segreti divini (Dan 5, 11 s; cfr. Gen 41, 39). Ad ogni modo non si tratta di una parola d’uomo, soggetta a fluttuazione o ad errore: profeti e sapienti sono in comunicazione diretta con il Dio vivente.
    2. Ora la parola divina non è data ai privilegiati del cielo come un insegnamento esoterico che essi dovrebbero nascondere alla comune dei mortali. È un messaggio da trasmettere; non ad una piccola cerchia, ma a tutto il popolo di Dio, che Dio vuole raggiungere per mezzo dei suoi portavoce. Così l’esperienza della parola di Dio non è soltanto prerogativa di un piccolo numero di mistici: tutto Israele è chiamato a riconoscere che Dio gli parla per bocca dei suoi inviati. Se avviene che, a tutta prima, la parola divina vi sia disconosciuta e disprezzata (ad es. Ger 36), *segni indiscutibili finiscono sempre per imporre l’evidenza. All’epoca del NT tutto il giudaismo professerà che «Dio parlò ai nostri padri a molte riprese ed in molteplici modi» (Ebr 1, 1).
    II. ASPETTI DELLA PAROLA
    La parola di Dio può essere considerata sotto due aspetti, indissociabili ma distinti: rivela ed agisce.
    1. Dio, parlando, rivela.
    - Per mettere il pensiero dell’uomo in comunicazione con il suo proprio pensiero, Dio parla. La sua parola è, di volta in volta, legge e regola di vita, rivelazione del senso delle cose e degli avvenimenti, promessa ed annunzio del futuro.
    a) La concezione della parola divina come *legge e regola di vita risale alle stesse origini di Israele. Al tempo dell’*alleanza al Sinai, Mosè ha dato al popolo da parte di Dio un codice religioso e morale riassunto in dieci «parole», il Decalogo (Es 20, 1-17; Deut 5, 6-22; cfr. Es 34, 28; Deut 4, 13; 10, 4). Questa affermazione del Dio unico, legata alla rivelazione delle sue esigenze essenziali, fu uno dei primi elementi che permisero ad Israele di prendere coscienza che «Dio parla». Taluni racconti biblici hanno sottolineato il fatto delineando il quadro del Sinai e mostrando Dio che parla direttamente a tutto Israele dalla nube (cfr. Es 20, 1...; Deut 4, 12); di fatto, altri passi pongono chiaramente in rilievo la funzione mediatrice di Mosè (Es 34, 10-28). Ma, ad ogni modo, la legge si impone a titolo di parola divina. Come tale i sapienti ed i salmisti vi videro la sorgente della felicità (Prov 18, 13; 16, 20; Sal 119).
    b) Tuttavia alla legge divina si trova collegata sin dall’origine una *rivelazione di Dio e della sua azione in terra: «Io sono *Jahvè, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto» (Es 20, 2). Questa è la certezza essenziale che fonda l’autorità della stessa legge. Se Israele è un popolo monoteista, non è per sapienza umana, ma perché Jahvè ha parlato ai suoi padri, poi a Mosè, per farsi conoscere come «l’*unico» (Es 3, 13-15; cfr. Deut 6, 4). Così pure, a mano a mano che la storia si svolge, è la parola del suo Dio ad illuminarlo circa il suo significato nascosto. In ciascuna delle grandi esperienze nazionali essa gli rivela intenzioni segrete (Gios 24, 2-13). Neppure questo riconoscere il *disegno di Dio negli eventi di questo mondo è di origine umana; deriva dalla conoscenza profetica, prolungata dalla riflessione sapienziale (cfr. Sap 10- 19). In breve, deriva dalla parola di Dio.
    c) Infine la parola di Dio sa valicare i limiti del tempo per svelare in anticipo il futuro. Passo passo essa illumina Israele sulla prossima tappa del disegno di Dio (Gen 15, 13-16; Es 3, 7- 10; Gios 1, 1-5; ecc.). Infine, al di là di un futuro immediato che si tinge di foschi colori, essa rivela ciò che avverrà «negli ultimi *tempi», quando Dio realizzerà pienamente il suo disegno: questo è tutto l’oggetto dell’escatologia profetica. Legge, rivelazione, promessa: questi tre aspetti della parola divina si accompagnano e si condizionano reciprocamente lungo tutto il VT. Esigono da parte dell’uomo una risposta, sulla quale ritorneremo ancora.
    2. Dio, parlando, agisce.
    - Tuttavia la parola di Dio non è soltanto un messaggio dottrinale rivolto agli uomini. È una realtà dinamica, una potenza che opera infallibilmente gli effetti intesi da Dio (Gios 21, 45; 23, 14; 1 Re 8, 56). Dio la manda come un messaggero vivente (Is 9, 7; Sal 107, 20); essa *corre (147, 5); essa piomba in qualche modo sugli uomini (Zac 1, 6). Dio veglia su di essa per compierla (Ger 1, 12), e di fatto essa produce sempre ciò che annunzia (Num 23, 19; Is 55, 10 s), sia che si tratti degli avvenimenti della storia, delle realtà cosmiche oppure del termine del disegno di salvezza.
    a) Questa concezione dinamica della parola non era ignota all’Oriente antico, che l’intendeva in un modo quasi *magico. Nel VT essa è stata applicata anzitutto alla parola profetica: quando Dio rivela in anticipo i suoi disegni, è certo che poi li realizzerà. La storia è un compimento delle sue *promesse (cfr. Deut 9, 5; 1 Re 2, 4; Ger 11, 5); gli eventi rispondono alla sua chiamata (Is 44, 7 s). Al momento dell’esodo, «egli disse» e gli insetti vennero (Sal 105, 31. 34). Alla fine della cattività di Babilonia, «egli dice di Gerusalemme: “Sia abitata!”, e dice di Ciro: “Mio pastore”...» (Is 44, 26. 28).
    b) Ma se così è della storia, come dubitare che la creazione intera *obbedisca anch’essa alla parola di Dio? Di fatto, proprio sotto la forma di una parola conviene immaginare l’atto originale del *creatore: «Disse, e quello fu» (Sal 33, 6-9; cfr. Gen 1; Lam 3, 37; Giudit 16, 14; Sap 9, 1; Eccli 42, 15). Da allora questa stessa parola rimane attiva nell’universo, governando gli astri (Is 40, 26), le acque dell’abisso (Is 44, 27) e l’insieme dei fenomeni della natura (Sal 107, 25; 147, 15-18; Giob 37, 5-13; Eccli 39, 17. 31). Più dei *nutrimenti terreni, essa, come una *manna celeste, conserva in vita gli uomini che credono in Dio (Sap 16, 26; cfr. Deut 8, 3 LXX).
    c) Una simile efficacia, constatabile sia nella creazione che nella storia, non può mancare agli oracoli di salvezza che concernono gli «ultimi *tempi»; di fatto, «la parola di Dio rimane per sempre» (Is 40, 8). Per questo, da un secolo all’altro, il popolo di Dio raccoglie devotamente tutte queste parole che gli descrivono in anticipo il suo futuro. Nessun evento ne esaurisce il significato, finché non sono giunti gli «ultimi tempi» (cfr. Dan 9).
    III. L’UOMO DINANZI A DIO CHE PARLA
    La parola di Dio è quindi un fatto, dinanzi al quale l’uomo non può rimanere passivo: il portavoce esercita un ministero delle responsabilità pesantissime; all’uditore della parola viene intimato di prendere posizione, e ciò impegna il suo destino.
    1. Il ministero della parola. 
    Esso non è presentato dal VT come una fonte di gioie mistiche: al contrario, ogni *profeta si espone alla contraddizione, ed anche alle *persecuzioni. Certamente Dio, ponendo nella sua bocca le proprie parole, gli dà una forza sufficiente per trasmettere senza timore il messaggio che gli è affidato (Ger 1, 6-10). Ma egli, a sua volta, è responsabile dinanzi a Dio di questa *missione da cui dipende il destino degli uomini (Ez 3, 16-21; 33, 1-9). Di fatto, se cerca di sottrarvisi, Dio ve lo può ricondurre con la forza, come lascia intendere la storia di Giona (1; 3). Ma per lo più i portavoce di Dio adempiono la loro missione a rischio della loro tranquillità e della stessa loro vita; e questa *fedeltà eroica è per essi un motivo di *sofferenza (Ger 15, 16 ss), un duro dovere di cui non percepiscono immediatamente la mercede (1 Re 19, 14).
    2. L’accoglienza della parola.
    - Quanto agli uditori della parola, essi le devono accordare nel loro *cuore un’accoglienza fiduciosa e docile. In quanto rivelazione e regola di vita, la parola è per essi una *luce (Sal 119, 105); in quanto promessa, dà una sicurezza per il futuro. Chiunque sia colui che la trasmette, Mosè od un profeta, è quindi conveniente *ascoltarla (Deut 6, 3; Is 1, 10; Ger 11, 3. 6), sia per «averla nel cuore» (Deut 6, 6; 30, 14) e metterla in pratica (Deut 6, 3; Sal 119, 9. 17. 101), sia per contare su di essa e sperare in essa (Sal 119, 42. 74. 81 ecc.; 130, 5). La risposta umana alla parola di Dio costituisce quindi un atteggiamento interno complesso, che comporta tutti gli aspetti della vita teologale: la *fede, perché la parola è rivelazione del Dio vivente e dei suoi disegni; la *speranza, perché è promessa di ingresso; 1’*amore, perché è regola di vita (cfr. Deut 6, 4 ss).
    IV. PERSONIFICAZIONE DELLA PAROLA DI DIO
    La parola divina non è un elemento tra gli altri nell’economia del VT; la domina tutta, conferendo un senso alla storia in quanto ne è creatrice, suscitando degli uomini la vita di fede in quanto è loro indirizzata come un messaggio. Non c’è quindi da stupire nel vedere questa importanza tradursi talvolta in una personificazione della parola, parallela alle personificazioni della *sapienza e dello *spirito di Dio. Così è per la parola rivelatrice (Sal 119, 89) e soprattutto per la parola operante, esecutrice degli ordini divini (Sal 147, 15; 107, 20; Is 55, 11; Sap 18, 14 ss). Nella filigrana di questi testi si scopre già l’azione del Verbo di Dio in terra, ancor prima che il NT la riveli pienamente agli uomini.
    NUOVO TESTAMENTO
    Alcuni passi del NT riprendono la dottrina della parola di Dio in un senso identico a quello del VT (cfr. Mt 15, 6). Così *Maria crede alla parola che le è trasmessa dall’angelo (Lc 1, 37 s. 45), e la parola è indirizzata a Giovanni Battista come ai profeti antichi (Lc 3, 2). Ma per lo più il mistero della parola ha ormai come centro la persona di *Gesù Cristo.
    I. PAROLA DI DIO E PAROLA DI GESÙ
    1. La parola opera e rivela.
    - Non si dice mai che la parola di Dio sia indirizzata a Gesù come si diceva un tempo per i profeti. Tuttavia, sia in Giovanni che nei sinottici, la sua parola si presenta esattamente come la parola di Dio nel VT: potenza che opera e luce che rivela. *Potenza che opera: con una parola Gesù compie i *miracoli che sono i segni del regno di Dio (Mt 8, 8. 16; Gv 4, 50-53). Sempre con una parola egli produce nei cuori gli effetti spirituali di cui questi miracoli sono i simboli, come il *perdono dei peccati (Mt 9, 1-7 par.). Con una parola trasmette ai Dodici i suoi poteri (Mt 18, 18; Gv 20, 23) ed istituisce i segni della nuova alleanza (Mt 26, 26-29 par.). La parola creatrice agisce quindi in lui e per mezzo di lui, operando in terra la salvezza. *Luce che rivela: Gesù annunzia il *vangelo del regno, «annunzia la parola» (Mc 4, 33), facendo conoscere in *parabole i *misteri del regno di Dio (Mt 13, 11 par.). Apparentemente egli è un *profeta (Gv 6, 14) od un dottore che *insegna in nome di Dio (Mt 22, 16 par.). In realtà parla «con *autorità» (Mc 1, 22 par.), come in proprio, con la certezza che «le sue parole non passeranno» (Mt 24, 35 par.). Questo atteggiamento lascia intravvedere un mistero, sul quale il quarto vangelo si china con predilezione. Gesù «dice le parole di Dio» (Gv 3, 34), dice «ciò che il Padre gli ha insegnato» (8, 28). Perciò «le sue parole sono spirito e vita» (6, 63). A più riprese l’evangelista usa con enfasi il verbo «parlare» (lalein) per sottolineare l’importanza di questo aspetto di Gesù (ad es. 3, 11; 8, 25-40; 15, 11; 16, 4...), perché Gesù «non parla da sé» (12, 49 s; 14, 10), ma «come il Padre gli ha parlato prima» (12, 50). Il mistero della parola profetica, inaugurato nel VT, raggiunge quindi in lui il suo perfetto compimento.
    2. Gli uomini di fronte alla parola.
    - Perciò agli uomini viene intimato di prendere posizione di fronte a questa parola che li mette in contatto con Dio stesso. I sinottici riferiscono discorsi di Gesù che mostrano chiaramente la posta di questa scelta. Nella parabola del *seme, la parola - che è il vangelo del regno - è accolta diversamente dai suoi diversi uditori: tutti «sentono»; ma soltanto quelli che la «comprendono» (Mt 13, 23) o 1’«accolgono» (Mc 4, 20 par.) o la «custodiscono» (Lc 8, 15), la vedono portare in essi il suo *frutto. Così pure, al termine del discorso della montagna in cui ha proclamato la nuova *legge, Gesù oppone la sorte di coloro che «ascoltano la sua parola e la mettono in pratica» alla sorte di coloro che «l’ascoltano senza metterla in pratica» (Mt 7, 24. 26; Lc 6, 47. 49): casa fondata sulla roccia, da una parte; sulla sabbia, dall’altra. Queste immagini introducono una prospettiva di *giudizio; ognuno sarà giudicato sul suo atteggiamento di fronte alla parola: «Se uno avrà arrossito di me e delle mie parole, il figlio dell’uomo arrossirà anche di lui quando verrà nella gloria del Padre suo (Mc 8, 38 par.). Il quarto vangelo riprende le stesse idee con una particolare insistenza. Fa vedere che, negli uditori di Gesù, si opera una divisione a motivo delle sue parole (Gv 10, 19). Da una parte ci sono coloro che credono (Gv 2, 22; 4, 39. 41. 50), che ascoltano la sua parola (5, 24), la custodiscono (8, 51 s; 14, 23 s; 15, 20), *rimangono in essa (8, 31), e nei quali essa rimane (5, 38; 15, 7); questi hanno la vita eterna (5, 24), non vedranno mai la morte (8, 51). Dall’altra parte vi sono coloro che trovano questa parola troppo dura (6, 60), che non «possono ascoltarla» (8, 43) e che, per tale fatto, la rifiutano e rigettano Cristo: questi saranno giudicati dalla parola stessa di Gesù nell’ultimo giorno (12, 48), perché essa non è parola sua, ma parola del Padre (12, 49; 17, 14), che è *verità (17, 17). È quindi lo stesso, prendere posizione nei confronti della parola di Gesù, nei confronti della sua persona, e nei confronti di Dio. Secondo la decisione presa, l’uomo si vede introdotto in una vita teologale fatta di fede, di fiducia e di amore, od invece rigettato nelle tenebre del mondo malvagio.
    II. LA PAROLA NELLA CHIESA
    1. L’azione della parola di Dio.
    - Gli Atti e le lettere apostoliche ci mostrano la parola di Dio che continua in terra l’opera di salvezza inaugurata da Gesù. D’altronde questa parola non designa tanto una serie di «parole del maestro» raccolte e ripetute dai discepoli (cfr. Mt 10, 14; 1 Cor 7, 10. 12. 25), quanto il messaggio stesso del *vangelo, proclamato nella *predicazione cristiana. Il ministero apostolico è essenzialmente un servizio di questa parola (Atti 4, 29 ss; 6, 2. 4), che dev’essere annunziata per risuonare nel mondo intero (8, 4. 25; 13, 5; 18, 9 s; 1 Tess 1, 8); servizio sincero, che non falsa il messaggio (2 Cor 2, 17; 4, 2); servizio coraggioso, che lo proclama con ardire (Atti 4, 31; Fil 1, 14). Ora questa parola è, per se stessa, una potenza di *salvezza: la *crescita della Chiesa si identifica con la sua crescita (Atti 6, 7; 12, 24; 19, 20), e neppure le catene di cui è carico l’apostolo non riescono ad incatenarla (2 Tim 2, 9). Essa è la «parola di salvezza» (Atti 13, 26), la «parola di vita» (Fil 2, 16), la parola sicura (1 Tim 1, 15; 2 Tim 2, 11; Tito 3, 8), la parola viva ed efficace (Ebr 4, 12); altrettante espressioni che sottolineano la sua azione nei cuori dei credenti. Ad essa questi devono quindi la loro rigenerazione, quando credono in essa al momento del *battesimo (1 Piet 1, 23; Giac 1, 18; cfr. 5, 26). Nell’opera della salvezza si ritrova così la stessa efficacia della parola che il VT presentava nella cornice della creazione e dello svolgimento della storia, e che i vangeli attribuivano alla parola di Gesù. Ma, di fatto, questa parola annunziata dagli apostoli è qualcosa di diverso dalla parola stessa di Gesù, esaltato come *Signore alla destra di Dio, che parla per mezzo dei suoi apostoli e conferma la loro parola mediante segni (Mc 16, 20)?
    2. Gli uomini dinanzi alla parola di Dio.
    - Perciò, di fronte alla parola apostolica, si opera la stessa divisione, che si osservava già di fronte a Gesù: rifiuto degli uni (Atti 13, 46; 1 Piet 2, 8; 3, 1); accoglienza degli altri (1 Tess 1, 6), che ricevono la parola (1 Tess 2, 13), l’ascoltano (Col 1, 5; Ef 1, 13), la ricevono con docilità per metterla in pratica (Giac 1, 21 ss), la custodiscono per essere salvati (1 Cor 15, 2; cfr. Apoc 3, 8), la glorificano (Atti 13, 48), cosicché essa rimane in essi (Col 3, 16; 1 Gv 1, 10; 2, 14). Questi, se è necessario, sostengono per causa sua la prova ed il *martirio (Apoc 1, 9 s; 6, 9; 20, 4), e grazie ad essa vincono le potenze del male (Apoc 12, 11). Si manifesta così nella storia l’azione della parola divina, che ha suscitato negli uomini fede, speranza ed amore.
    III. IL MISTERO DEL VERBO DI DIO
    1. Il Verbo fatto carne.
    - Di questo mistero della parola divina Giovanni ci offre il segreto ultimo, accostandolo nel modo più stretto al mistero stesso di Gesù, Figlio di Dio: in quanto *Figlio, Gesù è la parola sussistente, il Verbo di Dio. Da lui quindi deriva, in ultima analisi, ogni manifestazione della parola divina, nella creazione, nella storia, nel compimento finale della salvezza. Si comprende in tal modo la frase della lettera agli Ebrei: «Dopo aver parlato ai nostri padri per mezzo dei profeti, Dio ci ha parlato per mezzo del Figlio suo (Ebr 1, 1 s). In quanto Verbo, Gesù esisteva quindi fin dall’inizio in Dio ed era egli stesso Dio (Gv 1, 1 s). Era la parola creatrice nella quale tutto è stato fatto (1, 3; cfr. Ebr 1, 2; Sal 33, 6 ss), la parola illuminatrice che brillava nelle tenebre del mondo per portare agli uomini la *rivelazione di Dio (Gv 1, 4 s. 9). Già nel VT egli si manifestava segretamente sotto le apparenze della parola operante e rivelatrice. Ma infine, al termine dei tempi, questo Verbo è entrato apertamente nella storia facendosi carne (1, 14); allora è diventato per gli uomini oggetto di esperienza concreta (1 Gv 1, 1 ss), cosicché «abbiamo visto la sua *gloria» (Gv 1, 14). Con ciò egli ha portato a termine la sua duplice attività di rivelatore e di autore della salvezza: come Figlio unico, ha fatto conoscere agli uomini il Padre (1, 18); per salvarli, ha introdotto nel mondo la *grazia e la *verità (1, 14. 16 s). Il Verbo manifestato al mondo è ormai al centro della storia umana: prima di lui, essa tendeva verso la sua incarnazione; dopo la sua venuta, è tesa verso il suo trionfo finale. Sarà infatti ancora lui a manifestarsi in un’ultima lotta, per porre termine all’azione delle potenze malvagie ed assicurare quaggiù la *vittoria definitiva di Dio (Apoc 19, 13).
    2. Gli uomini di fronte al Verbo fatto carne.
    - Poiché Cristo è il Verbo sussistente «venuto nella carne», si comprende come l’atteggiamento assunto dagli uomini di fronte alla sua parola e di fronte alla sua persona determini nello stesso tempo il loro atteggiamento di fronte a Dio. Effettivamente la sua venuta in terra ha dato occasione ad una divisione tra di essi. Da un lato, le tenebre non l’hanno accolto (Gv 1, 5), il *mondo malvagio non l’ha conosciuto (1, 10), i suoi - il suo stesso popolo - non l’hanno ricevuto (1, 11): è tutta la storia evangelica che sfocia nella passione. Ma dall’altro lato, vi sono di quelli che hanno «creduto nel suo nome» (1, 12): questi hanno «ricevuto dalla sua *pienezza, grazia su grazia» (1, 16) ed egli, che è il Figlio per natura (1, 14. 18), ha dato loro il potere di diventare figli di Dio (1, 12). Attorno al Verbo incarnato si è così cristallizzato un dramma che, di fatto, dura da quando Dio ha incominciato a parlare agli uomini per mezzo dei suoi profeti. Ma anche quando i profeti proclamavano la parola di Dio, non era forse già il Verbo stesso ad esprimersi per bocca loro, lo stesso Verbo che doveva prendere carne alla fine dei tempi per rivolgersi direttamente agli uomini, quando il Padre l’avrebbe mandato personalmente in terra? A questa azione nascosta, preparatoria, si è ora sostituita una presenza diretta e visibile. Ma per gli uomini il problema vitale posto dalla parola di Dio non ha mutato aspetto: chi crede alla parola, chi riconosce il Verbo e l’accoglie, entra per mezzo suo in una vita teologale di figlio di Dio (Gv 1, 12); chi rifiuta la parola, chi disconosce il Verbo, rimane nelle tenebre del mondo ed è per ciò stesso giudicato (cfr. 3, 17 ss). Prospettiva terribile che ogni uomo deve affrontare, apertamente se è posto in presenza del vangelo di Gesù Cristo, segretamente se la parola divina lo raggiunge soltanto in forme imperfette. Il Verbo parla ad ogni uomo, e da ogni uomo attende una risposta. Ed il destino eterno di quest’uomo dipende dalla sua risposta.
    A. FEUILLET e P. GRELOT
    → amen 2 - arca d’alleanza II - ascoltare - benedizione - compiere VT 1.2 - correre 1 - creazione NT I 2 - crescita 2 c - Dio VT III - discepolo VT 1.2; NT 3 - disegno di Dio - fame e sete - fede NT II 2 - Gesù Cristo II 2 d - giudizio VT I 1 - giuramento VT 2 - insegnare - Jahvè 2 - lampada 1 - latte 3 - legge - libro III - manna 1.3 - memoria 1 b - miracolo II 2 a - mistero VT 1; NT II 1 - nascita (nuova) 3 a - nutrimento II - pane III - parabola - parola umana 2 - predicare II - profeta VT I 2, 11 1 - regno NT II 1 - rivelazione - sacerdozio VT II 2 - sapienza - scrittura II - seminare II 2 - silenzio - sogni - Spirito di Dio - vangelo - verità - volontà di Dio.

    PAROLA UMANA (inizio)

    Conformemente ad una concezione comune nell’antichità, il mondo biblico non vede nella parola umana soltanto un suono vano, un semplice mezzo di comunicazione tra gli uomini: la parola esprime la persona, partecipa al suo dinamismo, è dotata in qualche modo di efficacia. Di qui la sua importanza nella condotta della vita: a seconda della sua qualità, essa implica, per chi la pronunzia, onore o confusione (Eccli 5, 13); morte e vita sono in suo potere (Prov 18, 21). Per giudicare il valore di un uomo, essa è quindi come la pietra di paragone che permette di provarlo (Eccli 27, 4- 7). Si comprende come i maestri di sapienza ne inculchino il buon uso e ne denunzino i difetti: il NT non farà che riprendere su questo punto l’insegnamento del VT.
    1. Del cattivo uso della parola.
    - Ecco anzitutto il chiacchierone, che cade nella scempiaggine (Prov 10, 8; 13, 3) e nell’indiscrezione (Prov 20, 19) e si fa detestare (Eccli 20, 5-8); lo stolto, che si riconosce dal suo parlare fuori luogo (20, 18 ss); il falso amico, che non offre per consolazione che «parole di vento» (Giob 2, 26). Ma c’è di peggio: la parola dei malvagi, che è una insidia sanguinaria (Prov 12, 6). Il sapiente deve guardarsi dalla maldicenza (Eccli 5, 14), perché la *lingua fa più vittime della spada (Prov 12, 18; Eccli 28, 17 s). Le parole dei delatori sono spesso accolte «come ghiottonerie» (Prov 26, 22), ma feriscono crudelmente: i salmisti, con l’accento di persone che hanno molto sofferto, denunciano costantemente la maldicenza e la calunnia che li colpiscono (Sal 5, 10; 10, 7). Nel NT la lettera di Giacomo riprende questi stessi consigli sugli eccessi della parola (Giac 3, 2-12). D’altronde altri pericoli sono da temere, come le *bestemmie, le parole impure (Eccli 23, 12-21) ed i falsi *giuramenti. La legge mosaica vietava questi ultimi (Es 20, 7; Num 30, 3; Deut 23, 22 ...). Per tema che se ne facciano in modo inconsiderato, il Siracide giunge a consigliare di restringere il numero dei giuramenti (Eccli 23, 7-11). Infine Gesù insegnerà un ideale di sincerità che renderà inutili i giuramenti (Mt 5, 33...), e questo ideale sarà ritenuto dalla Chiesa apostolica (Giac 5, 12; 2 Cor 1, 17 s). Tra i peccati di parola si può infine menzionare la fiducia superstiziosa nella sua efficacia *magica. Frequente nell’Oriente antico, conosciuta nell’ambiente biblico (parola di cattivo augurio: Num 22, 6; parola di un fantasma: Is 29, 4),essa è vietata dalla legge sotto pena di morte allo stesso titolo delle altre operazioni magiche (Lev 20, 6. 27).
    2. Del buon uso della parola.
    - All’opposto dei peccatori e degli stolti, i sapienti devono saper regolare esattamente le loro parole. Una parola detta a proposito, una risposta opportuna, è un tesoro ed una gioia (Prov 15, 23; 25, 11), perché «c’è un tempo per tacere ed un tempo per parlare» (Eccle 3, 7). Bisogna quindi misurare le parole (Eccli 1, 24), usare, parlando, bilance e pesi, e mettere un chiavistello alla propria bocca (Eccli 28, 25; Sal 39, 2; 141, 3), essere tardo nel parlare (Giac 1, 19). A questa misura bisogna ancora aggiungere la sapienza e la bontà, come fa la donna perfetta (Prov 31, 26). Allora la parola umana è come un’acqua profonda, un torrente traboccante, una sorgente di vita (Prov 18, 4; cfr. Deut 32, 1 s); infatti la bocca parla dall’abbondanza del cuore, per modo che l’uomo buono trae dal suo un tesoro (Lc 6, 45). Parlando sotto la azione dello Spirito Santo, egli può edificare, esortare e consolare i suoi fratelli (1 Cor 14, 3), perché allora la sua parola di uomo esprime la *parola di Dio.
    A. PEUILLET e P. GRELOT
    → amen 1 - cuore 1 1 - giuramento - labbra - lingua - menzogna - predicare II - silenzio 2 - testimonianza VT I - verità VT 2; NT 1.

    PARRESIA (inizio)

    → fiducia 3 - fierezza – liberazione-libertà III 3 a - predicare II 2 b - preghiera IV 4 - Spirito di Dio NT IV - vergogna II 1.

    PARTENZA (inizio)

    → addii - ascensione II 4 - esodo - missione VT I; NT II - via - vocazione I.

    PARUSIA (inizio)

    → addii NT 1 - anticristo NT - apparizioni di Cristo 1 - ascensione III - disegno di Dio NT IV - Gesù Cristo II 1 a - giorno del Signore NT - giudizio 0; NT - gloria IV 1, V - guerra NT III - Pasqua III 1.3 - pazienza 1 NT 2 - perfezione NT 6 - re NT II 2 - regno NT III 3 - speranza NT II, IV - Sposo-sposa NT 3 b c - tempo NT III - vegliare 1 - visita NT - vittoria VT 3 a.

    PASQUA (inizio)

    Al tempo di Gesù, la Pasqua giudaica raduna a Gerusalemme i fedeli di Mosè per la immolazione e la manducazione dell’*agnello pasquale; commemora l’esodo che liberò gli Ebrei dalla schiavitù egiziana. Oggi la Pasqua cristiana riunisce in tutti i luoghi i discepoli di Cristo nella comunione con il loro Signore, vero agnello di Dio; li associa alla sua *morte ed alla sua *risurrezione che li hanno liberati dal *peccato e dalla morte. Evidente è la continuità dall’una all’altra festa, ma si è cambiato piano, passando dalla antica alla nuova *alleanza mediante la Pasqua di Gesù.
    I. LA PASQUA ISRAELITICA
    1. Pasqua primaverile, nomade e domestica.

    - In origine la Pasqua è una festa di famiglia. La si celebra di *notte, alla luna piena dell’equinozio di primavera, il 14 del mese di abib o delle spighe (chiamato nisan dopo l’esilio). Si offre a Jahvè un giovane animale, nato nell’anno, per attirare le benedizioni divine sul gregge. La vittima è un agnello o un capretto, maschio, senza difetto (Es 12, 3-6); non se ne deve spezzare alcun osso (12, 46; Num 99, 12). Il suo *sangue è posto, in segno di preservazione, all’ingresso di ogni dimora (Es 12, 7. 22). La sua carne è mangiata nel corso di un *pasto veloce, preso dai convitati in tenuta da viaggio (12, 8-11). Questi tratti nomadi e domestici suggeriscono per la Pasqua un’origine antichissima: potrebbe essere il sacrificio che gli Israeliti chiedono al Faraone di poter andare a celebrare nel deserto (3, 18; 5, 1 ss); risalirebbe così oltre Mosè e 1’uscita dall’Egitto. Ma è stato l’esodo a darle il suo significato definitivo.
    2. Pasqua ed esodo.
    - La grande primavera di Israele è quella in cui Dio lo libera dal giogo egiziano mediante una serie di interventi provvidenziali, il più splendido dei quali si afferma nella decima piaga: lo sterminio dei primogeniti egiziani (Es 11, 5; 12, 12. 29 s). A questo avvenimento la tradizione collegherà in seguito l’immolazione dei primogeniti del gregge ed il riscatto dei primogeniti israeliti (13, 1 s. 11-15; Num 3, 13; 8, 17). Tale accostamento rimane secondario. Ciò che importa è il fatto che la Pasqua coincide con la liberazione degli Israeliti: essa diventa il memoriale dell’*esodo, avvenimento principale della loro storia; ricorda che Dio ha colpito l’Egitto e risparmiato i suoi fedeli (12, 26 s; 13, 8 ss). Questo sarà ormai il senso della Pasqua e la nuova portata del suo nome. Pasqua è ricalcato sul greco pàscha, derivato dall’aramaico pashâ e dall’ebraico pesah. L’origine del nome è discussa. Taluni vi attribuiscono un’etimologia straniera, assira (pasahu, placare) od egiziana (pa-sh il ricordo; pe-sah, il colpo); ma nessuna di queste ipotesi si impone. La Bibbia collega pesah al vero pasah, che significa sia zoppicare, sia eseguire una danza rituale attorno ad un sacrificio (1 Re 18, 21. 26), sia, in senso figurato, «saltare», «passare», risparmiare. La Pasqua è il passaggio di Jahvè che passò oltre le case israelitiche, mentre colpiva quelle degli Egiziani (Es 12, 13. 23. 27; cfr. Is 31, 5).
    3. Pasqua ed azzimi.
    - Col tempo alla Pasqua si salderà un’altra festa, originariamente distinta, ma collegata per la sua data primaverile: gli azzimi (Es 12, 15-20). La Pasqua si celebra il 14 del mese; gli azzimi si fissano infine dal 15 al 21. Questi *pani non fermentati accompagnano l’offerta delle *primizie della *messe (Lev 23, 5-14; Deut 26, 1); la eliminazione del lievito vecchio è un rito di *purità e di rinnovamento annuale, di cui si discute se l’origine sia nomade od agricola. Checché ne sia, la tradizione israelitica ha ugualmente collegato questo rito all’uscita dall’Egitto (Es 25, 15; 34, 18). Esso evoca ora la fretta della partenza, così rapida che gli Israeliti hanno dovuto portar via la loro pasta prima che avesse fermentato (Es 12, 34. 39). Nei calendari liturgici, Pasqua ed azzimi sono ora distinti (Lev 23, 5-8; cfr. Esd 6, 19-22; 2 Cron 35, 17) ed ora confusi (Deus 16, 1-8; 2 Cron 30, 1-13). Ad ogni modo nelle Pasque annuali si attualizza la liberazione dell’esodo, e questo significato profondo della festa è avvertito con maggior intensità nelle tappe importanti della storia di Israele: quelle del Sinai (Num 9) e dell’ingresso in Canaan (Gios 5); quelle delle riforme di Ezechia verso il 716 (2 Cron 30), e di Giosia verso il 622 (2 Re 23, 21 ss); quella della restaurazione postesilica nel 515 (Esd 6, 19-22).
    4. Pasqua e i nuovi esodi.
    - La liberazione dal giogo egiziano viene evocata ogniqualvolta Israele subisce altre schiavitù: sotto il giogo assiro, verso il 710, Isaia saluta la liberazione come una notte pasquale (30, 29), in cui Dio risparmierà (pasah) Gerusalemme (31, 5; cfr. 10, 26); cento anni dopo, Geremia celebra la liberazione degli esuli del 721 come un nuovo esodo (Ger 31, 2- 21) e persino, secondo l’ampliamento enfatico dei LXX, come l’anniversario esatto del primo: «Ecco che io riconduco, dice Dio, i figli di Israele, nella festa di Pasqua!» (Ger 31, 8 = greco 38, 8). Sotto il giogo babilonese, Geremia afferma che il ritorno dei deportati del 597 sostituirà l’esodo nei ricordi di Israele (Ger 23, 7 s); il Deutero-Isaia annuncia la fine dell’*esilio (587-538), come l’esodo decisivo che eclisserà quello antico (Is 40, 3-5; 41, 17-20; 43, 16-21; 49, 9-11; 55, 12- 13; cfr. 63, 7 - 64, 11): il raduno dei dispersi (Is 49, 6) sarà opera dell’agnello-*servo (Is 53, 7) che diverrà inoltre la luce delle nazioni e che, con l’agnello pasquale, servirà da prefigurazione al futuro salvatore.
    5. Pasqua, festa del tempio.
    - Così la Pasqua, attraverso i secoli, ha subito evoluzioni. Sono sopraggiunte precisazioni, modifiche. La più importante è l’innovazione del Deuteronomio, che trasforma l’antica celebrazione familiare in una festa del *tempio (Deut 16, 1-8). Forse questa legislazione ha conosciuto sotto Ezechia un inizio di realizzazione (2 Cron 30; cfr. Is 30, 29); in ogni caso, sotto Giosia, entra nei fatti (2 Re 23, 21 ss; 2 Cron 35). La Pasqua si allinea in tal modo sulla centralizzazione generale del *culto. Il suo rito si adatta ad essa; il sangue viene versato sull’altare (2 Cron 35, 11); sacerdoti e leviti sono gli attori principali della cerimonia. Dopo l’esilio la Pasqua diventa la festa per eccellenza, la cui omissione comporterebbe per i Giudei una vera scomunica (Num 9, 13); tutti i circoncisi, ed essi soli, devono prendervi parte (Es 12, 43-49); in caso di necessità, può essere ritardata di un mese (Num 9, 9-13; cfr. 2 Cron 30, 2 ss). Queste precisazioni della legislazione sacerdotale fissano una giurisprudenza ormai immutabile. Fuori della città santa, la Pasqua è indubbiamente celebrata qua o là nella cornice familiare; così è certamente nella colonia giudaica di Elefantina, in Egitto, secondo un documento dell’anno 419. Ma l’immolazione dell’agnello è progressivamente eliminata da queste celebrazioni particolari, che ormai vengono eclissate dalla solennità di Gerusalemme.
    6. Pasqua, tempo delle alte gesta divine.
    - La Pasqua è diventata uno dei grandi *pellegrinaggi dell’anno liturgico. Nel giudaismo essa riveste un ricchissimo significato reso esplicito dal Targum di Es 12, 42: Israele sottratto alla schiavitù evoca il mondo tratto dal caos, Isacco sottratto al supplizio e la umanità sottratta alla miseria del Messia atteso. Queste prospettive trovano nella Bibbia molti punti d’appoggio:
    a) Pasqua e creazione: creazione e *redenzione sono infatti spesso collegate, specialmente nel grande Hallel pasquale: Sal 136, 4-15; cfr. Os 13, 4 (greco); Ger 32, 17-21; Is 51, 9 s; Neem 9; Sal 33, 6 s; 74, 13-17; 77, 17-21; 95, 5-9; 100, 3; 124, 4-8; 135, 6-9; Sap 19. Se Dio può separare le acque del Mar Rosso (Es 14, 21) è perché in principio ha diviso l’oceano originale (Gen 1, 6).
    b) Pasqua e Isacco: Allo stesso modo, Dio può salvare i figli di Giacobbe perché ha inizialmente salvato i suoi antenati. Si considera che Abramo fosse in attesa dell’esodo (Gen 15, 13 s), il cui pegno è per lui la salvezza di Isacco (Gen 22). Ora si ritiene che Isacco venga offerto a Sion (2 Cron 3, 1), come più tardi l’agnello pasquale (Deut 16) e preservato dalla spada (Gen 22, 12), come più tardi Israele (Es 12, 23; cfr. 1 Cron 21, 15); Isacco è salvato dal capro, Israele dall’agnello; Isacco, mediante la sua *circoncisione, versa un sangue già ricco di valore *espiatorio (Es 4, 24-26), come più tardi quello delle vittime pasquali (Ez 45, 18-24); ma soprattutto Isacco è pronto a versare tutto il suo sangue, meritando con ciò di prefigurare l’agnello pasquale per eccellenza: Gesù Cristo (Ebr 11, 17- 19).
    c) Pasqua e l’era messianica: Tutti gli interventi di Dio nel passato fanno sperare nel suo intervento decisivo in futuro. La salvezza definitiva (= escatologica) appare come una nuova creazione (Is 65, 17), un esodo irreversibile (65, 22), una *vittoria totale sul male, il *paradiso ritrovato (65, 25). L’inviato di Dio con missione di instaurare questa trasformazione del mondo non è altri che il *messia (Is 11, 1-9), sicché i Giudei ne attendono la venuta in ogni notte pasquale. Poiché certuni continuano a raffigurarsi questo messia sotto tratti guerrieri, c’è sempre il rischio di un risveglio del nazionalismo: spesso proprio nel periodo della Pasqua si affermano dei movimenti politici (cfr. Lc 13, 1 ss) o si esasperano le passioni religiose (Atti 12, 14). All’epoca romana, l’amministrazione ha cura di mantenere l’ordine durante le festività pasquali e ogni anno, in questo periodo, il procuratore sale a Gerusalemme. Ma la fede religiosa può guardare anche oltre questa agitazione religiosa e preservarsi pura da ogni compromesso: lascia a Dio la cura di fissare l’ora e il modo per l’intervento del messia che deve inviare.
    II. LA PASQUA DI GESÙ
    Di fatto il messia viene; per incominciare, Gesù prende parte alla Pasqua giudaica; la vorrebbe migliore, ma infine la sostituirà portandola a compimento. Al tempo della Pasqua, Gesù pronunzia parole e compie atti che a poco a poco ne mutano il senso. Abbiamo così la Pasqua del *Figlio unico, che indugia presso il santo dei santi perché sa di esservi in casa del Padre (Lc 2, 41-51); la Pasqua del nuovo *tempio, in cui Gesù purifica il santuario provvisorio ed annunzia il santuario, definitivo, il suo corpo risorto (Gv 2, 13-23; cfr. 1, 14. 51; 4, 21-24); la Pasqua del *pane moltiplicato, che sarà la sua *carne offerta in sacrificio (Gv 6, 51); infine e soprattutto la Pasqua del nuovo *agnello, in cui Gesù prende il posto della vittima pasquale, istituisce il nuovo pasto pasquale, ed effettua il suo proprio esodo, «passaggio» da questo mondo peccatore al *regno del Padre (Gv 13, 1). Gli evangelisti hanno ben compreso le intenzioni di Gesù e, con sfumature diverse, le mettono in luce. I sinottici descrivono l’ultimo *pasto di Gesù (anche se è stato consumato alla vigilia della Pasqua) come un pasto pasquale: la cena è celebrata entro le mura di Gerusalemme; è incorniciata da una liturgia che comporta, tra l’altro, la recita dell’Hallel (Mc 14, 26 par.). Ma è il pasto di una nuova Pasqua: sulle benedizioni rituali, destinate al *pane ed al *vino, Gesù innesta l’istituzione dell’*eucaristia; dando da mangiare il suo *corpo e da bere il suo *sangue versato, egli descrive la sua morte come il *sacrificio della Pasqua di cui egli è il nuovo agnello (Mc 14, 22-24 par.). Giovanni preferisce sottolineare questo fatto inserendo nel suo vangelo parecchie allusioni a Gesùagnello (Gv 1, 29. 36), e facendo coincidere, nel pomeriggio del 14 nisan, la immolazione dell’agnello (18, 28; 19, 14. 31. 42) e la morte in croce della vera vittima pasquale (19, 36).
    III. LA PASQUA CRISTIANA
    1. La Pasqua domenicale.
    - Crocifisso alla vigilia di un *sabato (Mc 15, 42 par.; Gv 19, 31), Gesù risorge l’indomani di questo stesso sabato: il primo giorno della *settimana (Mc 16, 2 par.). Pure in questo primo giorno gli apostoli ritrovano il loro Signore risorto: egli *appare loro nel corso di un pasto che ripete la cena (Lc 24, 30. 42 s; Mc 16, 14; Gv 20, 19-26; 21, 1-14 [?]; Atti 1, 4). Le assemblee cristiane si riuniranno quindi il primo giorno della settimana per la frazione del pane (Atti 20, 7; 1 Cor 16, 2). Questo giorno riceverà ben presto un nome nuovo: il *giorno del Signore, dies Domini, la domenica (Apoc 1, 10). Esso ricorda ai cristiani la *risurrezione di Cristo, li unisce a lui nella sua eucaristia, li indirizza verso l’attesa della sua parusia (1 Cor 11, 26).
    2. La Pasqua annuale.
    - Oltre la Pasqua domenicale, c’è pure per i cristiani una celebrazione annuale che dà alla Pasqua giudaica un nuovo contenuto: i Giudei celebravano la loro liberazione dal giogo straniero ed attendevano un messia liberatore nazionale; i cristiani festeggiano la loro *liberazione dal *peccato e dalla *morte, si uniscono a Cristo crocifisso e risorto per condividere con lui la vita eterna, e rivolgono la loro speranza verso la sua parusia gloriosa. In questa *notte che brilla ai loro occhi come il giorno, al fine di preparare il loro incontro nella santa cena con l’agnello di Dio che porta e toglie i peccati del mondo, essi si riuniscono per una vigilia in cui il racconto dell’esodo è letto loro ad una nuova profondità (1 Piet 1, 13-21): battezzati, essi costituiscono il *popolo di Dio in esilio (17), camminano con le *reni succinte (13), liberi dal male, verso la *terra promessa del *regno dei cieli. Poiché Cristo, loro vittima pasquale, è stato immolato, bisogna che essi celebrino la festa non con il vecchio fermento della cattiva condotta, ma con azzimi di purezza e di *verità (1 Cor 5, 6 ss). Con Cristo essi hanno vissuto personalmente il mistero di Pasqua morendo al peccato e risorgendo per una *vita nuova (Rom 6, 3-11; Col 2, 12). Perciò la festa della *risurrezione di Cristo diventa ben presto la data privilegiata del *battesimo, risurrezione dei cristiani in cui rivive il mistero pasquale. La controversia del sec. II sulla celebrazione della Pasqua lascia intatto questo senso profondo che sottolinea il superamento definitivo della festa giudaica.
    3. La Pasqua escatologica.
    - Per i cristiani il mistero pasquale terminerà con la morte, la risurrezione, l’incontro con il Signore. La Pasqua terrena prepara per essi questo ultimo «passaggio», questa Pasqua dall’al di là. Di fatto il termine Pasqua non designa soltanto il mistero della morte e della risurrezione di Cristo, od il rito eucaristico ebdomadario od annuale, ma designa pure il banchetto celeste verso il quale noi tutti camminiamo. L’Apocalisse innalza i nostri occhi verso l’agnello ancora segnato dal suo supplizio, ma vivo ed in piedi; rivestito di gloria, egli attira a sé i suoi *martiri (Apoc 5, 6-12; 12, 11). Secondo le sue stesse parole, Gesù ha veramente *compiuto la Pasqua mediante l’oblazione eucaristica della sua morte, mediante la sua risurrezione, mediante il sacramento perpetuo del suo sacrificio, infine mediante la sua parusia (Lc 22, 16), che deve riunirci per la *gioia del banchetto definitivo, nel regno del Padre suo (Mi 26, 29)
    P. É. BONNARD
    → agnello di Dio 2 - apparizioni di Cristo - battesimo IV 1.4 - calamità 1 - Chiesa IV 1 - esodo - eucaristia II 1 - feste - giorno del Signore NT III 3 - memoria - notte - pane II 3 - pasto II - pellegrinaggio VT 2; NT - Pentecoste I, II 2 b - predicare 1 2.3.4 - primizie I 1, II - redenzione - risurrezione NT - sacrificio NT I, II 1 - sangue VT 3 b.

    PASSAGGIO (inizio)

    → mondo VT III 3 - morte - Pasqua - prova-tentazione NT III 2 - rimanere - tempo NT II 2.

    PASSIONE DI CRISTO (inizio)

    → croce - Gesù Cristo I 3, II 1 b - gloria IV 3 - morte NT II - ora 2.

    PASSIONE (inizio)

    → amore 0; I VT 2 - cercare - desiderio - ira - zelo.

    PASTO (inizio)

    Più volte al giorno l’uomo si pone a tavola per prendere il suo pasto, o nell’intimità familiare o per un banchetto ufficiale; vi si mangia il pane della penuria, oppure ci si abbandona all’orgia. Il condividere la mensa crea tra i commensali una comunanza di esistenza. Ma il pasto può anche avere un carattere sacro, sia nelle religioni pagane che nella Bibbia. Ci si può sedere alla mensa degli idoli ed unirsi ai demoni, oppure inginocchiarsi alla mensa del Signore per comunicare col suo corpo e il suo sangue. Attraverso questo segno l’uomo realizza la comunanza di esistenza a cui aspira o con Dio o con le potenze infernali.
    I. I PASTI DEGLI UOMINI
    Nella Bibbia il pasto più semplice è già un grande atto umano. Segno di cortesia nella *ospitalità (Gen 18, 1-5; Lc 24, 29) o testimonianza di riconoscenza (Mt 9, 11), segno di gioia all’arrivo di un parente (Tob 7, 9), al ritorno del figliol prodigo (Lc 15, 22-32), può diventare *ringraziamento al Dio salvatore (Atti 16, 34). Se la *gioia del pasto deve essere piena e traboccante (Gv 2, 1-10; cfr. Eccle 9, 7 s), l’affettazione del lusso non è vista con benevolenza (cfr. Giudit 1, 16), neppure in Salomone (1 Re 10, 5). L’abbondanza degenera in traviamento insensato (Mt 14, 6-11; Lc 16, 19), che a sua volta può cambiarsi in castigo (Giudit 13, 2). Beato colui che conserva abbastanza lucidità per ascoltare su questo punto i moniti divini (Dan 5, 1-20; Lc 12, 19 s)! Istruiti dall’esperienza, i sapienti hanno tracciato regole per la condotta nei pasti: semplici consigli di temperanza (Prov 23, 20 s; Eccli 31, 12-22) o di prudenza (Prov 23, 1 ss; Eccli 13, 7), preoccupazioni di rettitudine morale (Eccli 6, 10; 40, 29). Soprattutto hanno predetto la sventura a chi non rispetta le leggi dell’*ospitalità ed hanno condannato colui che tradisce il legame creato dalla comunanza di mensa (Sal 41, 10): un giorno Satana entrerà nel cuore di Giuda che ha accettato il boccone offerto da colui che egli ha deciso di tradire (Gv 13, 18. 26 s).
    II. I PASTI SACRI
    I culti dell’Oriente biblico comportavano banchetti sacri di carattere misterico, in cui si riteneva che la partecipazione alla vittima assicurasse una appropriazione delle potenze divine. La tentazione di unirsi a queste forme di culto, sia a quelle di Moab (Num 25, 2), oppure di Canaan (Ez 18, 6. 11. 15; 22, 9), fu permanente per Israele. Anche il jahvismo comportava pasti sacri, sia nella sua forma ortodossa (Lev 3), sia nella sua contraffazione idolatrica rappresentata dal culto del vitello d’oro (Es 32, 6). D’altronde ogni pasto, almeno ogni pasto includente carne, aveva un carattere sacro (1 Sam 14, 31-35); infine, ogni atto religioso solenne comportava un pasto *sacrificale (1 Sam 9, 12 s; cfr. 1, 4-18). Il significato preciso di questa manducazione sacra non è chiaro, e sembra essere sfuggito parzialmente agli stessi Israeliti (cfr. l’incertezza di cui è testimonianza Lev 10, 17 s); i profeti non vi fanno allusione. La rappresentazione animistica di una appropriazione, per questa via, delle forze sacre non è mai evocata, a differenza della sua ingenua contropartita, l’idea di una alimentazione di Dio mediante i cibi sacrificali (Num 28, 2) di cui il salmista non vorrà più sentir parlare. Tuttavia le tradizioni diverse si accordano su un punto: il pasto sacro sarebbe un rito che serve non a creare, ma a confermare una *alleanza, sia che si tratti dell’alleanza tra i clan (Gen 31, 53 s; cfr. 26, 26-31), oppure dell’alleanza di Dio con il suo unto (1 Sam 9, 22), con i suoi sacerdoti (Lev 24, 6-9), con il suo popolo (Es 24, 11; Deut 27, 7). Anche così la cena pasquale è un memoriale dei mirabilia dell’inizio dell’alleanza (Es 12 - 13), e la manducazione delle *primizie un ricordo della *provvidenza continua di Dio che veglia sui suoi (Deut 26). Il Deuteronomio sistematizza questo pensiero subordinando il tema del pasto a quello della *festa gioiosa alla presenza di Jahvè (Deut 12, 4-7. 11 s. 18; 14, 22 s; 15, 20; 16, 10-17): il solo pasto sacro è quello che riunisce tutto il popolo nel luogo scelto da Dio per la sua presenza, e mediante il quale il popolo commemora nel ringraziamento le benedizioni di Dio, lodandolo con i suoi stessi doni. La celebrazione parlata, cantata o danzata prende qui il sopravvento sulla materialità del banchetto. Questa evoluzione, che si può riconoscere anche nelle liturgie cristiane, era aiutata dalla polemica profetica contro una concezione troppo materiale del *sacrificio e dalla esaltazione correlativa del sacrificio di *lode, frutto delle labbra: «Rallegrati, Gerusalemme! Jahvè tuo Dio è in mezzo a te, ed esulterà per te di gioia, ti rinnoverà mediante il suo amore, danzerà per te con grida di gioia» (Sof 3, 14-17; cfr. Is 30, 29; Neem 12, 27-43), tema che sarà essenziale alla comprensione del sacrificio della nuova legge (Ebr 13, 9-16).
    III. I PASTI DI CRISTO
    La festa dei pasti umani assume tutto il suo senso quando vi è presente l’uomo-Dio. Egli è l’amico che si invita alla tavola familiare di Lazzaro (Lc 10, 38-42) ed al banchetto delle nozze di Cana (Gv 2, 1-11). Accetta l’invito del fariseo Simone, ma allora accoglie la confessione della peccatrice pentita (Lc 7, 36-50). condivide senza scrupoli la mensa dei pubblicani Matteo (Mt 9, 10) o Zaccheo (Lc 19, 2-10). Con la sua presenza Gesù conferisce ai pasti il loro pieno valore. Raduna i suoi nella comunanza di mensa e pronunzia egli stesso la *benedizione (Mt 14, 19; 15, 36). Approva le leggi dell’ospitalità (Lc 7, 44 ss); raccomanda l’umile scelta dell’ultimo posto (14, 7-11) e la cura del povero Lazzaro (16, 21). Questi pasti realizzano già gli annunzi messianici del VT, mentre procurano i doni di Dio: gioia (Mt 9, 15), perdono (Lc 7, 47), salvezza (Lc 19, 9), infine sovrabbondanza quando Gesù in persona prepara la tavola nel deserto per la moltitudine affamata (Mt 14, 15-21). Ritorno alla felicità del paradiso e rinnovo dei miracoli dell’esodo (Gv 6, 31 ss; cfr. Es 16, 18), queste *opere di Cristo annunziano pure un altro banchetto, la *eucaristia, e, attraverso ad esso, il banchetto escatologico. In attesa del suo ritorno Gesù inaugura il pasto della nuova alleanza suggellata nel suo sangue. Al posto della *manna, egli vi dà la sua *carne in cibo, vero *pane vivo offerto per la vita del mondo (Gv 6, 31 ss. 48-51). Questo passo è una continuazione di quelli che un tempo radunavano fraternamente i suoi attorno a lui, e che, forse, includevano già pane e vino. Ma egli lo fa precedere dalla lavanda dei piedi, che esprime simbolicamente il senso sacrificale della istituzione eucaristica e ricorda che l’umiltà e la carità sono richieste per partecipare degnamente al pasto (Gv 13, 2-20). Nel giorno di Pasqua il risorto *appare ai suoi durante un pasto (Lc 24, 30; Gv 21, 13); la prima comunità di Gerusalemme pensa di rivivere i pasti con il risorto (Atti 1, 4) rinnovando «la frazione del pane» nella gioia e nella *comunione fraterna (Atti 2, 42. 46). Di fatti, secondo S. Paolo, la condizione primordiale della partecipazione all’eucaristia è la carità (1 Cor 11, 17-33). In tal modo egli insegna la duplice dimensione del pasto sacro: in se stesso è pasto «sacramentale», perché chiunque mangia di questo pane è uno con il Signore e, per mezzo suo, con tutti (1 Cor 10, 17); ma questo pasto non è ancora il pasto definitivo: annunzia che il Signore ritornerà per il banchetto escatologico.
    IV. IL BANCHETTO ESCATOLOGICO
    L’immagine del banchetto era usata nel VT dai sapienti per descrivere la gioia che procura il banchetto della sapienza (Prov 9, 1 s). Alla fine dei tempi «Jahvè preparerà per tutti i popoli un banchetto» straordinario (Is 25, 6; cfr. 65, 13), al quale parteciperanno tutti coloro che hanno fame, «anche se non hanno denaro» (55, 1 s). Gesù promette ai suoi discepoli questa *beatitudine (Mt 5, 3. 6), che si realizzerà alla sua parusia: tutti coloro che hanno risposto, mediante la fede, all’invito del re prenderanno posto al banchetto (Lc 22, 30), per bere il vino nuovo (Mt 26, 29) con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli (Mt 8, 11), perché abbiano la *veste nuziale (22, 11-14); e se i servi sono fedeli nel *vegliare, il padrone «si cingerà, li farà sedere a mensa e, passando dall’uno all’altro, li *servirà» (Lc 12, 37). Pasto in cui tutti saranno radunati, ma pasto in cui ognuno sarà a tu per tu con il Signore: «Ecco io sto alla porta e busso; se uno ascolta la mia voce ed apre la porta, io entrerò in casa sua per cenare, io vicino a lui ed egli vicino a me» (Apoc 3, 20).
    P. M. GALOPIN
    → addii NT 1 - alleanza VT I 3; NT 1 - calice 1 - comunione - fame e sete VT 1 c - eucaristia nutrimento - pane - Pasqua - regno NT II 2 - sacrificio VT II 1; NT II 1 - vino.

    PASTORE E GREGGE (inizio)

    Profondamente radicata nell’esperienza degli «aramei nomadi» (Deut 26, 5), quali furono i patriarchi di Israele in mezzo ad una civiltà pastorale (cfr. Gen 4, 2), la metafora del pastore che guida il gregge esprime in modo mirabile due aspetti, apparentemente contrari e spesso separati, dell’*autorità esercitata sugli uomini. Il pastore è ad un tempo un capo ed un compagno. È un uomo forte, capace di difendere il suo gregge contro le bestie feroci (1 Sam 17, 34-37; cfr. Mt 10, 16; Atti 20, 29); è pure delicato verso le sue pecore, conoscendo il loro stato (Prov 27, 23), adattandosi alla loro situazione (Gen 33, 13 s), portandole nelle sue braccia (Is 40, 11), amando teneramente l’una o l’altra «come una figlia» (2 Sam 12, 3). La sua autorità è indiscussa, fondata sulla devozione e l’amore. D’altronde, nell’Oriente antico (Babilonia, Assiria), i re si consideravano volentieri come pastori ai quali la divinità aveva affidato il servizio di radunare e di curare le pecore del gregge. Su questo sfondo la Bibbia presenta in modo particolareggiato le relazioni che uniscono Israele e Dio, attraverso Cristo ed i suoi delegati.
    VECCHIO TESTAMENTO
    1. Jahvè, capo e padre del gregge.
    - Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, *Jahvè non porta quasi mai il titolo di pastore: due designazioni antiche (Gen 49, 24; 48, 15) e due invocazioni nel salterio (Sal 23, 1; 80, 2). Il titolo sembra riservato a colui che deve venire. In cambio, se non c’è trasposizione allegorica nei confronti di Jahvè, le relazioni di Dio con il suo popolo si possono descrivere con una vera *parabola del buon pastore. In occasione dell’esodo, «egli spinse il suo popolo come pecore» (Sal 95, 7), come «un gregge nel deserto» (Sal 78, 52 s): «simile ad un pastore che fa pascolare il suo gregge, raccoglie nelle sue braccia gli agnelli, se li mette sul petto, conduce al riposo le pecore madri» (Is 40, 11), Jahvè continua a «guidare» così il suo popolo (Sal 80, 2); certamente Israele assomiglia più ad una giovenca testarda che ad un agnello in una prateria (Os 4, 16); dovrà andare in prigionia (Ger 13, 17). Allora nuovamente Jahvè lo «guiderà verso le acque gorgoglianti» (Is 49, 10), radunando le pecore disperse (cfr. 56, 8), facendo loro un «fischio» (Zac 10, 8). Egli rivela la stessa sollecitudine verso ogni fedele, che non manca di nulla e non può temere nulla sotto il vincastro di Dio (Sal 23, 1-4). Infine la sua *misericordia si estende ad ogni *carne (Eccli 18, 13).
    2. Il gregge ed i suoi pastori.
    - Il Signore affida ai suoi servi le pecore che fa pascolare egli stesso (Sal 100, 3; 79, 13; 74, 1; Mi 7, 14): le guida «per mano di Mosè» (Sal 77, 21) e, per evitare che «la comunità di Jahvè sia senza pastore», designa Giosuè come capo dopo Mosè (Num 27, 15- 20); toglie David dagli ovili dei greggi per fargli pascolare il suo popolo (Sal 78, 70 ss; 2 Sam 5, 2; 24, 17). Mentre i Giudici (2 Sam 7, 7), i capi del popolo (Ger 2, 8) e i principi delle nazioni (Ger 25, 34 ss; Nah 3, 18; Is 44, 28) ricevono il titolo di pastore, questo titolo, come avviene per Jahvè, non viene mai esplicitamente attribuito ai re di Israele; tuttavia ne è loro assegnata la funzione (1 Re 22, 17; Ger 23, l-2; Ez 34, l-10). Infatti il titolo è riservato al nuovo *David, e viene così a costituire un elemento della speranza escatologica. Tale è il messaggio di Ezechiele, preparato da quello di Geremia: Jahvè riassume la direzione del suo gregge e l’affiderà al messia. Di fatto i pastori di Israele si sono rivelati infedeli alla loro *missione. Non hanno *cercato Jahvè (Ger 10, 21), si sono rivoltati contro di lui (2, 8), non occupandosi del gregge, ma pascendo se stessi (Ez 34, 3), lasciando che le pecore si smarrissero e si disperdessero (Ger 23, 1 s; 50, 6; Ez 34, 1-10). «Tutti questi pastori saranno pascolo del vento» (Ger 22, 22). Secondo il voto del profeta (Mi 7, 14 s), Jahvè prenderà in mano il gregge (Ger 23, 3), lo radunerà (Mi 4, 6), lo ricondurrà (Ger 50, 19), ed infine lo custodirà (Ger 31, 10; Ez 34, 11-22). Poi cercherà di «provvederlo di pastori secondo il suo cuore, che faran pascolare con scienza ed intelligenza» (Ger 3, 15; 23, 4); infine, secondo Ezechiele, non ci sarà più che un solo pastore, nuovo David, con Jahvè per Dio (Ez 34, 23 s): tale sarà «il gregge che io faccio pascolare» (34, 31) e che si moltiplicherà (36, 37 s): sotto questo unico pastore Giuda ed Israele, un tempo nemici, saranno unificati (37, 22. 24; cfr. Mi 2, 12 s). Tuttavia dopo l’esilio i pastori della comunità non rispondono all’attesa di Jahvè, e Zaccaria riprende la polemica contro di essi, annunziando il destino del pastore futuro. Nella sua *ira Jahvè *visiterà questi cattivi pastori (Zac 10, 3; 11, 4-17) e brandirà la spada (13, 7); dell’Israele così purificato sopravvivrà un *resto (13, 8 s). Il contesto della profezia invita a vedere nel pastore colpito (13, 7) non il pastore insensato (11, 15 ss), ma il «trafitto» (12, 10), la cui morte è stata salutare (13, 1-6). Questo pastore si identifica in concreto con il *servo che, simile ad una pecora muta, deve giustificare le pecore disperse mediante il suo sacrificio (Is 53, 6 s. 11 s).
    NUOVO TESTAMENTO
    All’epoca di Cristo i giudizi sui pastori erano vari. In nome della *legge, che essi in pratica non potevano osservare, venivano assimilati a ladri ed uccisori, ma si conservava vivo il ricordo della profezia del pastore futuro. Gesù la realizza; sembra persino che abbia voluto collocare i pastori tra i «piccoli» che, come i pubblicani e le prostitute, ricevono volentieri la buona novella. Si può interpretare in tal senso l’accoglienza che i pastori di Betlemme hanno riservato a Gesù, nato probabilmente nella loro stalla (Lc 2, 8-20). Fedele alla tradizione biblica, Gesù descrive la sollecitudine misericordiosa di Dio sotto i tratti del pastore che va a ricercare la pecora smarrita (Lc 15, 4-7). Tuttavia nella sua persona giunge a termine l’attesa del buon pastore ed egli stesso delega a taluni uomini una funzione pastorale nella Chiesa.
    1. Gesù, il buon pastore.
    - I sinottici presentano numerosi tratti che annunziano l’allegoria giovannea. La nascita di Gesù a Betlemme ha realizzato la profezia di Michea (Mt 2, 6 = Mi 5, 1); la sua misericordia rivela in lui il pastore voluto da Mosè (Num 27, 17), perché egli viene in aiuto alle pecore senza pastore (Mt 9, 36; Mc 6, 34). Gesù si considera come inviato alle pecore perdute di Israele (Mt 15, 24; 10, 6; Lc 19, 10). Il «piccolo gregge» dei discepoli che egli ha radunato (Lc 12, 32) rappresenta la comunità escatologica alla quale è promesso il *regno dei santi (cfr. Dan 7, 27); esso sarà perseguitato dai lupi esterni (Mt 10, 16; Rom 8, 36) e da quelli interni, travestiti da pecore (Mt 7, 15). Sarà disperso, ma, secondo la profezia di Zaccaria, il pastore che sarà stato colpito lo radunerà nella Galilea delle *nazioni (Mt 26, 31 s; cfr. Zac 13, 7). Infine, al termine del tempo, il Signore delle pecore separerà nel gregge i buoni ed i cattivi (Mt 25, 31 s). In questo spirito altri scrittori del NT presentano «il grande pastore delle pecore» (Ebr 13, 20), maggiore di Mosè, il «capo dei pastori» (1 Piet 5, 4), «il pastore ed il guardiano» che ha ricondotto le anime smarrite guarendole con le sue stesse lividure (1 Piet 2, 24 s). Infine nell’Apocalisse, che sembra seguire una tradizione apocrifa sul messia conquistatore, Cristo- *agnello diventa il pastore che conduce alle fonti della vita (Apoc 7, 17) e che colpisce i pagani con uno scettro di ferro (19, 15; 12, 5). Nel quarto vangelo queste indicazioni sparse formano un quadro grandioso che presenta la Chiesa vivente sotto il vincastro dell’unico pastore (Gv 10). C’è tuttavia una sfumatura: non si tratta tanto del re, signore del gregge, quanto del Figlio di Dio che rivela ai suoi l’amore del Padre. Il discorso di Gesù riprende i dati anteriori e li approfondisce. come in Ezechiele (Ez 34, 17), si tratta di un giudizio (Gv 9, 39). Israele rassomiglia a pecore spremute (Ez 34, 3), in balìa «dei ladri, dei predoni» (Gv 10, l. 10), disperse (Ez 34, 5 s. 12; Gv 10, 12). Gesù, come Jahvè, le «fa uscire» e le «guida al buon pascolo» (Ez 34, 10-14; Gv 10, 11. 3. 9. 16); allora esse conosceranno il Signore (Ez 34, 15. 30; Gv 10, 15) che le ha salvate (Ez 34, 22; Gv 10, 9). L’«unico pastore» annunziato (Ez 34, 23), «sono io», dice Gesù (Gv 10, 11). Gesù precisa ancora. Egli è il *mediatore unico, la *porta per accedere alle pecore (10, 7) e per andare ai pascoli (10, 9 s). Egli solo delega il potere pastorale (cfr. 21, 15 ss); egli solo dà la *vita nella piena libertà dell’uscire e dell’entrare (cfr. Num 27, 17). Una nuova esistenza è fondata sulla mutua *conoscenza del pastore e delle pecore (10, 3 s. 14 s), amore reciproco fondato sull’amore che unisce il Padre ed il Figlio (14, 20; 15, 10; 17, 8 s. 18-23). Infine Gesù è il pastore perfetto perché dà la sua vita per le pecore (10, 15. 17 s); egli non è soltanto «percosso» (Mt 26, 31; Zac 13, 7), ma dà spontaneamente la propria vita (10, 18); le pecore disperse che egli raduna vengono sia dal recinto di Israele che delle *nazioni (10, 16; 11, 52). Infine il gregge unico così radunato è unito per sempre, perché l’amore del Padre onnipotente lo custodisce e gli assicura la vita eterna (10, 27-30).
    2. La Chiesa ed i suoi pastori.
    - Secondo Giovanni, il discorso del buon pastore inaugurava la Chiesa: Gesù accoglie il cieco-nato guarito, scacciato dalla sinagoga dai capi malvagi di Israele. Pietro, dopo la risurrezione, riceve la missione di pascere tutta la Chiesa (21, 16). Altri «pastori» (Ef 4, 11) sono incaricati di *vegliare sulle chiese: gli «anziani» e gli «episcopi» (1 Piet 5, 1 ss; Atti 20, 28). Sull’*esempio del Signore, essi devono *cercare la pecora smarrita (Mt 18, 12 ss), vegliare contro i lupi rapaci che non risparmieranno il gregge, contro i falsi dottori che trascinano nell’*eresia (Atti 20; 28 ss). L’appellativo di «pastore» deve evocare da solo le loro qualità ed il comportamento di Jahvè nel VT; il NT ne ricorda alcuni tratti: bisogna pascere la Chiesa di Dio con lo slancio del cuore, in modo disinteressato (cfr. Ez 34, 2 s), diventando i modelli del gregge; allora «sarete ricompensati dal capo dei pastori» (1 Piet 5, 3 s).
    C. LESQUIVIT e X. LÉON-DUFOUR
    → agnello di Dio 3 - autorità - Chiesa II 2, V 2 - David 1.3 - ministero II 3 - Pietro (S.) 3 c - porta NT - unità III - visita VT 1.

    PATRIA (inizio)

    La patria, «terra dei padri», è uno degli aspetti essenziali dell’esperienza di un popolo. Per il *popolo del VT la patria ha avuto un posto importante nella fede e nella speranza. Ma questa non era che una tappa preliminare della rivelazione, perché Dio in fine ha fatto conoscere l’esistenza di un’altra patria, alla quale sono destinati tutti gli uomini. 
    VECCHIO TESTAMENTO 
    1. L’esperienza di una patria.
    - La storia del popolo di Dio inizia con uno sradicamento: Abramo deve lasciare la sua patria, per andare verso un’altra terra di cui non sa ancora nulla (Gen 12, 1 s). Ora il nuovo insediamento della sua stirpe tarda a verificarsi. Durante il loro soggiorno in Canaan, i patriarchi sono degli *stranieri e degli ospiti (Gen 23, 4; Ebr 11, 13); l’eredità della terra è loro promessa (Gen 12, 7), ma non ancora data. Così pure l’*Egitto dove soggiornano è per essi una terra straniera (cfr. 15, 13). Soltanto dopo l’*esodo e l’*alleanza del Sinai la promessa di Dio è mantenuta: Canaan diventa la loro *terra propria, una terra piena di significato religioso. Di fatto essa non soltanto è ricevuta da Dio come un dono; non soltanto racchiude le tombe dei padri (Gen 47, 30; 50, 5; Neem 2, 3 ss); ma il fatto che Dio vi possegga il uo luogo di residenza - il santuario dell’*arca, e poi il *tempio di Gerusalemme - le conferisce un valore sacro. Per tutti questi titoli essa appare legata alla fede.

    2. L’esperienza dello sradicamento.
    - Ma Israele fa pure l’esperienza contraria. Un duplice disastro nazionale devasta infine questa patria amata. Nello stesso tempo il popolo è trasportato lontano da essa, e fa l’esperienza dello sradicamento. L’*esilio non fa che ravvivare l’attaccamento dei Giudei alla patria (Sal 137, 1-6) di cui piangono le sventure (cfr. Lam). Comprendono allora che questa catastrofe ha come causa profonda il peccato nazionale, che Dio ha sanzionato in modo esemplare (Lam 1, 8. 18 s; Is 64, 4...; Neem 9, 29 ss). Perciò, finché la prova si prolunga, la patria umiliata o lontana occupa un posto centrale nella loro preghiera (Neem 9, 36 s), nei loro pensieri (2, 3), nelle loro speranze del futuro (Tob 13 9, 17; Bar 4, 30 - 5, 9). Attaccati alle istituzioni del passato, si sforzano incessantemente di rimetterle in piedi, ed in certa misura vi riescono. Ma nello stesso tempo scoprono negli oracoli dei profeti un’immagine trasfigurata della patria futura: la nuova *terra santa e la nuova *Gerusalemme, centro di una terra riunificata, che assumono l’aspetto del *paradiso ritrovato. Così la patria è ad un tempo per i Giudei una realtà concreta, analoga a tutte le altre patrie umane, ed una concezione ideale che spicca per la sua purezza e la sua grandezza su tutte le ideologie nazionalistiche in cui si cristallizzano i sogni umani. Senza essere plurinazionale, com’è nella stessa epoca la concezione dell’impero romano, essa tende nondimeno all’universalità, in virtù della vocazione di *Israele: in Abramo devono essere benedette tutte le famiglie della terra (Gen 12, 3), e Sion deve diventare la *madre di tutte le patrie (Sal 87).
    NUOVO TESTAMENTO
    1. Gesù e la sua patria.
    - Per essere pienamente uomo, Gesù ha fatto pure l’esperienza della patria. La sua non fu una terra qualunque, ma la terra che Dio aveva dato in eredità al suo popolo. Egli ha amato questa patria con tutte le fibre del suo cuore, tanto più che la sua missione propria era per essa l’occasione di un nuovo dramma. Di fatto la patria giudaica, come aveva disconosciuto un tempo la voce dei profeti, disprezza infine colui che le rivela la sua vera vocazione. A Nazaret, villaggio dei suoi padri, Gesù è rigettato: nessun profeta è disconosciuto se non nella sua patria (Mt 13, 54-57 par.; Gv 4, 44). A Gerusalemme, la capitale nazionale, Gesù sa che non va se non per morire (Lc 13, 33). Perciò piange sulla città colpevole, che non ha riconosciuto il tempo in cui Dio la *visitava (Lc 19, 41; cfr. 13, 34 s par.). La patria terrena dei Giudei va quindi irrimediabilmente verso la rovina, perché non ha compiuto ciò che Dio si aspettava da essa. Una nuova catastrofe significherà agli occhi di tutti che Dio le toglie la missione che le aveva fino allora affidata nel disegno di salvezza (Mc 13, 14-19; Lc 19, 43 s; 21, 20-23).
    2. La nuova patria.
    - Il nuovo popolo che è la Chiesa non sopprime il legame degli uomini ad una patria terrena, come tentano di fare talune ideologie moderne. L’amore della patria resterà sempre per essi un dovere, come prolungamento dell’amore familiare. In tal modo i cristiani di origine giudaica rimangono attaccati, come lo era Gesù, alla patria di Israele; su un altro piano, S. Paolo rivendica il diritto di cittadinanza romana che possiede per nascita (Atti 22, 27 s). Ma la patria di Israele ha perso ormai il suo significato sacro, trasferito ora ad una realtà più alta. La *Chiesa è la *Gerusalemme di lassù, di cui noi siamo i figli (Gal 4, 26), come gli Israeliti erano i figli della Gerusalemme della terra. Lassù noi abbiamo il nostro diritto di cittadinanza (cfr. *città) (Fil 3, 20). Per tal modo tutti gli uomini possono partecipare all’esperienza della nuova patria. Un tempo i pagani erano esclusi (cfr. *straniero) dalla cittadinanza di Israele (Ef 2, 12); ma ora condividono con i Giudei l’onore di essere concittadini dei santi (2, 19). Così il *cielo è la vera patria, di cui quella di Israele, scelta tra le patrie terrene, non era che la *figura, piena di senso, ma provvisoria. Non abbiamo quaggiù dimora permanente, e cerchiamo quella del futuro (Ebr 13, 14). Quella patria Dio preparava già un tempo ai patriarchi; ed essi, dietro la terra di Canaan, aspiravano già con tutta la loro fede a questa patria migliore (Ebr 11, 14 ss). Ogni uomo deve fare come essi e, al di là dell’angolo di terra in cui è radicato con i suoi, discernere la nuova patria dove, con essi, vivrà per sempre.
    P. GRELOT
    → città NT 2 - esilio - Gerusalemme VT - padri e Padre I, II 1 - popolo A II 4 - straniero - terra.

    PATRIARCHI (inizio)

    → Abramo - elezione VT I 3 b - padri e Padre I 2, II - patria VT.

    PAURA (inizio)

    → angoscia - fiducia 3 - incredulità I 1 - timore di Dio I.

    PAZIENZA (inizio)

    Nei confronti sia del suo popolo «dalla dura cervice», sia delle nazioni peccatrici, Dio si rivela paziente perché li ama e li vuole salvare. L’uomo dovrà imitare questa pazienza divina, di cui Gesù dà la rivelazione suprema ed il modello perfetto (Ef 5, 1; Mt 5, 45). Sull’esempio del suo maestro il discepolo dovrà affrontare la *persecuzione e le *prove con una *fedeltà costante e lieta, piena di *speranza; più umilmente, dovrà pure sopportare ogni giorno i difetti degli altri nella *mitezza e nella carità.
    I. LA PAZIENZA DI DIO 
    VECCHIO TESTAMENTO 
    «Dio afferma la sua *giustizia non tenendo conto dei peccati commessi una volta al tempo della pazienza divina» (Rom 3, 25 s). Il VT è così concepito da S. Paolo come un *tempo in cui Dio sopportava i peccati del suo popolo e quelli delle *nazioni al fine di manifestare la sua giustizia salvifica nel tempo presente» (cfr. 1 Piet 3, 20; Rom 9, 22 ss). Nel corso della sua storia il popolo santo ha preso coscienza sempre più profonda di questa pazienza di Dio. Nella rivelazione fatta a Mosè, Jahvè proclama: «Dio di tenerezza e di pietà, tardo all’*ira, grande in *grazia e fedeltà, che esercita la sua grazia verso migliaia, perdona colpe e trasgressioni e peccati»; ma è pure colui che «non lascia nulla impunito e castiga le colpe dei padri sui figli e sui nipoti fino alla terza ed alla quarta generazione» (Es 34, 6 s; cfr. Num 14, 18). Le successive rivelazioni insisteranno sempre più sulla pazienza, sull’amore *misericordioso del Padre, il quale «sa di che cosa siamo impastati; tardo all’ira, e pieno di amore, egli non ci tratta secondo le nostre colpe» (Sal 103, 8; cfr. Eccli 18, 8-14). Se i temi dell’*ira e del *giudizio non scompaiono mai, i profeti mettono maggiormente l’accento sul *perdono divino, e taluni testi mostrano Dio pronto a pentirsi delle sue minacce (Gioe 2, 13 s; Giona 4, 2). Ma questa pazienza di Dio non è mai debolezza: è appello alla *conversione: «Ritornate a Jahvè vostro Dio perché egli è tenerezza e pietà, tardo all’ira, grande in grazia...» (Gioe 2, 13; cfr. Is 55, 6). Israele comprende pure a poco a poco di non essere il solo beneficiario di questa pazienza: anche le nazioni sono amate da Jahvè; la storia di Giona ricorda che la misericordia di Dio è aperta a tutti gli uomini che fanno penitenza.
    NUOVO TESTAMENTO
    1. Gesù. 
    Gesù, con il suo atteggiamento nei confronti dei peccatori e con i suoi insegnamenti, illustra ed incarna la pazienza divina; rimprovera i suoi discepoli impazienti e vendicativi (Lc 9, 55); le parabole del fico sterile (13, 6-9) e del figliol prodigo (15), quella del servo spietato (Mt 18, 23- 35) sono nello stesso tempo rivelazioni della pazienza di Dio, che vuole salvare i peccatori, e lezioni di pazienza e di amore ad uso dei suoi discepoli. Il coraggio di Gesù nella sua passione, posto in rilievo specialmente nel racconto di Luca, diventerà il modello di ogni pazienza per l’uomo esposto alle *persecuzioni, ma che incomincia a comprendere ora il significato ed il valore redentore di queste sofferenze.
    2. Gli Apostoli. 
    Gli apostoli, nell’apparente tardare del ritorno di Gesù, vedono una manifestazione della longanimità divina: «Il Signore non ritarda il compimento di ciò che ha promesso, ma usa pazienza verso di voi, volendo che nessuno perisca, ma che tutti giungano al pentimento» (2Piet 3, 9. 15). Ma se l’uomo disprezza questi «tesori di bontà, di pazienza, di longanimità di Dio», «accumula contro di sé, con il suo *indurimento e con 1’impenitenza del suo cuore, un tesoro di *ira, nel giorno dell’ira, in cui si rivelerà il giusto *giudizio di Dio» (Rom 2, 5). Perciò, finché dura l’oggi della pazienza di Dio e della sua chiamata, gli eletti devono ascoltare la sua *parola e sforzarsi di entrare nel *riposo di Dio (Ebr 3, 7 - 4, 11).
    II. LA PAZIENZA DELL’UOMO
    L’uomo deve ispirarsi alla pazienza di Dio ed a quella di Gesù. Nella sofferenza e nella persecuzione permesse da Dio, l’uomo deve attingere la sua *forza in Dio stesso, che gli dà la *speranza e la *salvezza; nella vita quotidiana la sua pazienza verso i suoi fratelli sarà uno degli aspetti del suo amore per essi.
    1. Dinanzi a Dio.
    - Dinnanzi a Dio che lo prova con sofferenze o che permette la persecuzione, l’uomo, che scopre a poco a poco il senso di queste *sofferenze, impara a collocarsi in rapporto ad esse in una pazienza che gli fa «portare frutto» (Gv 15, 2). Giobbe comprende che la sofferenza non è necessariamente il castigo del *peccato, e dinanzi ad essa si mostra paziente: si tratta di una *prova della sua *fede: di fronte al mistero, egli si sottomette umilmente, ma senza percepire ancora né il significato, né il valore della sua prova. Pazienza è ancor quella del popolo giudaico perseguitato che sopporta le prove con costanza, tutto teso verso la venuta del *regno messianico (1 e 2 Mc; Dan 12, 12); il giusto oppresso non deve confidare con una costanza perseverante nella parola e nell’amore di Jahvè (Sal 130, 5; 25, 3. 5. 21; Eccli 2)? Il cristiano, il quale sa che «Cristo doveva soffrire per entrare nella sua *gloria» (Lc 24, 26), deve, sul suo esempio, subire con costanza le prove e le *persecuzioni: le sopporta con la speranza della salvezza al momento del ritorno glorioso di Gesù, e sa che in tal modo, mediante le sue sofferenze e la sua pazienza, coopera con il salvatore; «partecipa alle sofferenze di Cristo per essere con lui glorificato» (Fil 3, 10; Rom 8, 17). Nell’avversità, prenderà «come modello di sofferenza e di pazienza i profeti che hanno parlato nel nome del Signore» (Giac 5, 10), ed in genere tutti i grandi servi di Dio nel VT (Ebr 6, 12; 11), specialmente Abramo (Ebr 6, 15) e Giobbe (Giac 5, 11). Ma soprattutto imiterà la pazienza di Gesù (Atti 8, 32; Ebr 12, 2 s; 2 Tess 3, 5) e, con gli occhi fissi su di lui, «correrà con perseveranza l’agone che gli è proposto» (Ebr 12, 1 s). Questa pazienza, precisamente come l’amore, è un «frutto dello Spirito» (Gal 5, 22; cfr. 1 Cor 10, 13; Col l, 11); maturata nella prova (Rom 5, 3 ss; Giac 1, 2 ss), la costanza produce a sua volta la speranza che non delude (Rom 5, 5). Così fortificati da Dio e consolati dalle Scritture (Rom 15, 4), i cristiani tutti possono rimanere *fedeli nelle prove sopportate per il nome di Gesù (Apoc 2, 10; 3, 21); ottengono così la *beatitudine promessa a coloro che perseverano sino alla fine (Mt 10, 22; cfr. Mt 5, 11 s; Giac 1, 12; 5, 11; cfr. Dan 12, 12), e ciò varrà soprattutto al tempo delle grandi tribolazioni finali (Mc 13, 13; Lc 21, 19). Quanto agli *apostoli, essi sono chiamati ad una comunione più stretta ancora con la passione e la pazienza di Cristo: mediante la loro «costanza nelle tribolazioni, nelle miserie, nelle angosce», si rendono commendevoli in tutto come ministri di Dio e servi di Cristo (2 Cor 6, 4; 12, 12; 1 Tim 6, 11; 2 Tim 2, 10; 3, 10), ed attraverso le loro sofferenze e la loro pazienza la vita di Cristo si manifesta nel loro corpo; mentre la morte compie la sua opera in essi, la vita può compiere la sua nei cristiani (2 Cor 4, 10-12).
    2. Di fronte ai fratelli. 
    - Di fronte ai suoi fratelli che lo irritano, il sapiente ricorderà che «vale più un uomo paziente che un eroe, un uomo padrone di sé che un espugnatore di città» (Prov 16, 32; cfr. 25, 15; Eccle 7, 8). Soprattutto imiterà la pazienza di Gesù nei confronti dei suoi apostoli e nei confronti dei peccatori. Lungi dall’essere spietato (Mt 18, 23-35), sarà tollerante (5, 45); la sua pazienza quotidiana rivelerà il suo *amore (1 Cor 13, 4). Per vivere in accordo con la sua vocazione, egli «sopporterà gli altri con carità, in tutta umiltà, mitezza e pazienza» (Ef 4, 2; Col 3, 12 s; 1 Tess 5, 14). In tal modo sarà un vero figlio del Dio paziente che ama, che cioè, secondo l’interpretazione più comune, perdona e che vuol salvare, ed un discepolo sostituirsi a Dio per decidere del *bene e di Gesù, mite ed umile di cuore (Mt 11, 29).
    R. DEVILLE
    → educazione - fedeltà - indurimento 1 2 b - ira A 2; B VT III 1 - misericordia VT I 2 a - mitezza - persecuzione II 1.2 - poveri NT III 3 - prova-tentazione NT II - silenzio 1 - sofferenza - speranza – vegliare.

    PECCATO (inizio)

    La Bibbia parla spesso, quasi ad ogni pagina, di questa realtà che noi chiamiamo comunemente il peccato. I termini con cui il VT lo designa sono molteplici e desunti ordinariamente dalle relazioni umane: mancanza, iniquità, ribellione, ingiustizia, ecc.; il giudaismo aggiungerà quello di debito, di cui si servirà anche il NT; più generalmente ancora il peccatore è presentato come «colui che fa il male agli occhi di Dio», ed «al giusto» (saddíq) si oppone normalmente il «malvagio» (raša’). Ma la vera natura del peccato, la sua malizia e le sue dimensioni appaiono soprattutto attraverso la storia biblica; e noi vi apprendiamo pure che questa rivelazione sull’uomo è nello stesso tempo una rivelazione su Dio, sul suo *amore, al quale il peccato si oppone, e sulla sua *misericordia, alla quale esso permette di esercitarsi; infatti la storia della salvezza non è altro che la storia dei tentativi instancabilmente ripetuti dal Dio creatore per strappare l’uomo al suo peccato.
    I. IL PECCATO DELLE ORIGINI
    Tra tutti i racconti del VT, quello della caduta con cui si apre la storia dell’umanità offre già un insegnamento di straordinaria ricchezza. Da esso bisogna partire per comprendere ciò che è il peccato, anche se il termine non vi è pronunziato.
    1. Il peccato di Adamo.
    - Il peccato di *Adamo vi si manifesta essenzialmente come una disobbedienza, un atto con cui l’uomo si oppone coscientemente e deliberatamente a Dio, violando uno dei suoi precetti (Gen 3, 3); ma al di là di questo atto esterno di ribellione, la Scrittura menziona espressamente un atto interno da cui quello procede: Adamo ed Eva hanno disobbedito perché, cedendo alla suggestione del serpente, hanno voluto «essere come dèi che conoscono il bene ed il male» (3, 5), cioè secondo l’interpretazione più comune, sostituirsi a Dio per decidere del *bene e del male: prendendo se stessi per misura, essi pretendono essere i soli padroni del loro destino e disporre di se stessi a modo loro; rifiutano di dipendere da colui che li ha creati, pervertendo in tal modo la relazione che univa l’uomo a Dio. Ora, secondo Gen 2, questa relazione non era soltanto di dipendenza, ma di amicizia. All’uomo creato «a sua immagine e somiglianza» (Gen 1, 26 s), il Dio della Bibbia non aveva rifiutato nulla; non aveva riservato a se stesso nulla, neppure la *vita (cfr. Sap 2, 23) (ad es. Gilgamesh X, 3). Ed ecco che, per istigazione del serpente, prima Eva, poi Adamo incominciano a dubitare di questo Dio infinitamente generoso: il precetto dato per il bene dell’uomo (cfr. Rom 7, 10) non sarebbe che uno stratagemma escogitato da Dio per salvaguardare i propri privilegi, e la minaccia aggiunta al precetto non sarebbe che una menzogna: «No! Voi non morrete! Ma Dio sa che il giorno in cui mangerete di questo frutto, sarete come dèi che conoscono il bene ed il male» (Gen 3, 4 s). L’uomo diffida di Dio diventato suo rivale. La nozione stessa di Dio viene ad essere pervertita: alla nozione del Dio sovranamente disinteressato perché sovranamente perfetto, che non manca di nulla e non può che *donare, è sostituita quella di un essere indigente, interessato, tutto occupato a proteggersi contro la sua creatura. Prima di provocare l’atto dell’uomo, il peccato ha corrotto il suo spirito; e poiché lo tocca nella sua stessa relazione con Dio, di cui è l’*immagine, non si potrebbe concepire perversione più radicale né meravigliarsi che essa comporti conseguenze così gravi.
    2. Le conseguenze del peccato.
    - Tra l’uomo e Dio tutto è mutato: questo è il verdetto della *coscienza. Ancor prima che intervenga il *castigo propriamente detto (Gen 3, 23), Adamo ed Eva, che fruivano fino allora della familiarità divina (cfr. 2, 25), «si nascondono dinanzi a Jahvè Dio tra gli alberi» (3, 8). L’iniziativa è venuta dall’uomo e su di lui ricade la *responsabilità della colpa; egli non ha più voluto saperne di Dio e lo fugge; l’espulsione dal paradiso ratificherà questa volontà dell’uomo; ma questi allora constaterà che la minaccia non era una menzogna; lontano da Dio non c’è più possibilità di accesso all’*albero della vita (3, 22); non c’è più che la *morte, definitiva. Rottura tra l’uomo e Dio, il peccato introduce parimenti una rottura tra i membri della società umana, già nel paradiso, entro la stessa coppia primordiale. Appena commesso il peccato, Adamo, accusandola, rinnega la sua solidarietà con colei che Dio gli aveva dato come aiuto (2, 18), «osso delle sue ossa e carne della sua carne» (2, 23), ed il castigo consacra questa rottura: «La tua passione ti spingerà verso il tuo marito ed egli dominerà su di te» (3, 16). In seguito, questa rottura si estenderà ai figli di Adamo: ecco l’uccisione di Abele (4, 8), poi il regno della violenza e della legge del più forte celebrato dal canto selvaggio di Lamec (4, 24). E non è tutto. Il mistero del peccato supera il mondo umano. Tra Dio e l’uomo è entrato in scena un terzo personaggio, di cui il VT non parla quasi, senza dubbio per evitare che se ne faccia un secondo Dio, ma che la sapienza (Sap 2, 24) identificherà col demonio o *Satana e che riapparirà con il NT. Infine il racconto di questo primo peccato non termina senza che all’uomo sia data una speranza. Indubbiamente la schiavitù alla quale egli si è condannato credendo di acquistare l’indipendenza, è, di per sé, definitiva; il peccato, una volta entrato nel mondo, non può che proliferare, e, a mano a mano che si moltiplicherà, la vita effettivamente diminuirà fino a cessare completamente col *diluvio (Gen 6, 13 ss). L’iniziativa della rottura è venuta dall’uomo; è chiaro che l’iniziativa della riconciliazione non può venire che da Dio. Ma appunto, già in questo primo racconto, Dio lascia intravvedere che un giorno prenderà l’iniziativa (3, 15). La bontà di Dio, che l’uomo ha disprezzato, infine prevarrà; «vincerà il male col bene» (Rom 12, 21). La Sapienza precisa che Adamo «fu liberato dalla sua colpa» (Sap 10, 1). In ogni caso, la Genesi fa già vedere questa bontà di azione: essa preserva Noè e la sua famiglia dalla corruzione universale e dal suo castigo (Gen 6, 5-8), al fine di creare con lui, per così dire, un nuovo universo (8, 17. 21 s, confrontato con 1, 22. 28; 3, 17); soprattutto, quando «le *nazioni unanimi nella loro perversità furono confuse» (Sap 10, 5), essa scelse Abramo e lo ritrasse dal mondo peccatore (Gen 12, l; cfr. Gios 24, 2 s. 14), affinché «per mezzo suo si dicano benedette tutte le nazioni della terra» (Gen 12, 2 s, rispondendo visibilmente alle maledizioni di 3, 14 ss).
    II. IL PECCATO DI ISRAELE
    Il peccato, come ha segnato le origini della storia dell’umanità, così segna pure l’origine della storia di Israele. Questi, fin dalla sua nascita, rivive il dramma di Adamo. A sua volta, dalla propria esperienza impara e ci insegna che cos’è il peccato. Due episodi sembrano particolarmente istruttivi.
    1. L’adorazione del vitello d’oro.
    - Al pari di Adamo, e, se possibile, ancor più gratuitamente, Israele è stato colmato dei benefici di Dio. Senza alcun suo merito (Deut 7, 7; 9, 4 ss; Ez 16, 2- 5), in virtù del solo amore di Dio (Deut 7, 8) - perché Israele era «peccatore» né più né meno delle altre nazioni (cfr. Gios 24, 2. 14; Ez 20, 7 s. 18) -, è stato scelto per essere il *popolo particolare, privilegiato tra tutti i popoli della terra (Es 19, 5), costituito «figlio primogenito di Dio» (4, 22). Per liberarlo dalla schiavitù del faraone e dalla terra del peccato (quella dove non si può *servire Jahvè, secondo 5, 1), Dio ha moltiplicato i prodigi. Ora, nel preciso istante in cui Dio «contrae alleanza» con il suo popolo, si impegna con esso, consegnando a Mosè «le tavole della testimonianza» (31, 18), il popolo domanda ad Aronne: «Facci un dio che cammini dinanzi a noi» (32, 1). Nonostante le prove che Dio ha dato della sua «fedeltà», Israele lo trova troppo lontano, troppo «invisibile». Non ha fede in lui; preferisce un dio alla sua portata, di cui possa calmare l’*ira mediante *sacrifici, in ogni caso, un dio che possa trasportare a piacer suo, invece di essere obbligato a *seguirlo e ad obbedire ai suoi comandamenti (cfr. 40, 36 ss). Invece di «camminare con Dio», vorrebbe che Dio camminasse con lui. Peccato «originale» di Israele, rifiuto di obbedire che più profondamente è un rifiuto di credere a Dio e di abbandonarsi a lui, il primo che Deut 9, 7 menzioni, e che in realtà si rinnoverà in ognuna delle innumerevoli ribellioni del «popolo dalla dura cervice». Specialmente quando, più tardi, Israele sarà tentato di offrire un culto ai «Baal», accanto a quello che rendeva a Jahvè, ciò avverrà sempre perché rifiuterà di vedere in Jahvè l’unico «sufficiente», il Dio cui deve la sua esistenza, e di servire a lui solo (Deut 6, 13; Mt 4, 10). E quando S. Paolo descriverà la malizia propria del peccato d’idolatria, anche nei pagani, non esiterà a riferirsi a questo primo peccato di Israele (Rom 1, 23 = Sal 106, 20).
    2. I «sepolcri della cupidigia».
    - Subito dopo l’episodio del vitello d’oro, Deut 9, 22 ricorda un altro peccato di Israele, che anche S. Paolo evocherà presentandolo come il tipo dei «peccati del deserto» (1 Cor 10, 6). Il senso dell’episodio è abbastanza chiaro. Al cibo scelto da Dio e distribuito miracolosamente, Israele preferisce un cibo di sua scelta: «chi ci darà carne da mangiare? ... Ora deperiamo, privi di tutto: i nostri occhi non vedono più che la manna!» (Num 11, 4 ss). Israele rifiuta di lasciarsi guidare da Dio, di abbandonarsi a lui, di piegarsi a ciò che nel pensiero di Dio doveva costituire l’esperienza spirituale del *deserto (Deut 8, 3; cfr. Mt 4, 4). La sua *cupidigia sarà soddisfatta; ma, al pari di Adamo, saprà quanto costa all’uomo sostituire le sue vie e quelle di Dio (Num 11, 33).
     III. L’INSEGNAMENTO DEI PROFETI
    Tale è precisamente la lezione che Dio non cesserà di ripetergli per mezzo dei suoi profeti. Come l’uomo, che pretende di farsi da solo, non può pervenire che alla propria rovina, così il popolo di Dio si distrugge non appena devia dai sentieri (cfr. *via) che Dio gli ha tracciati: in tal modo il peccato appare come l’ostacolo per eccellenza, in verità il solo, alla realizzazione del disegno di Dio su Israele, al suo regno, alla sua «gloria», identificata in concreto con la gloria di Israele, popolo di Dio. Indubbiamente, sotto questo aspetto, il peccato del capo, del re, del sacerdote, riveste una responsabilità particolare e si comprende come sia menzionato di preferenza; ma non esclusivamente. Già il peccato di Achan aveva fermato l’esercito di tutto Israele dinanzi ad Ai (Gios 7), e sovente i profeti fanno responsabili delle sventure della nazione proprio i peccati del popolo nel suo complesso: «No, la mano di Jahvè non è troppo corta per salvare, né il suo orecchio troppo duro per sentire. Ma le vostre iniquità hanno scavato un abisso tra voi ed il vostro Dio» (Is 59, 1 s).
    1. La denunzia del peccato.
    - La predicazione dei profeti consisterà quindi in gran parte nel denunziare il peccato, quello dei capi (ad es. 1 Sam 3, 11; 13, 13 s; 2 Sam 12, 1-15; Ger 22, 13) e quello del popolo: di qui le enumerazioni di peccati che sono così frequenti nella letteratura profetica, ordinariamente in riferimento più o meno diretto al Decalogo, e che si moltiplicano con la letteratura sapienziale (ad es. Deut 27, 15-26; Ez 18, 5-9; 33, 25 s; Sal 15; Prov 6, 16-19; 30, 11-14). Il peccato diventa una realtà molto concreta, e noi veniamo a sapere quel che l’abbandono di Jahvè produce: *violenze, rapine, giudizi iniqui, menzogne, *adulteri, spergiuri, omicidi, usura, diritti vilipesi, in breve tutti i disordini sociali. La «*confessione» inserita in Is 59 rivela quali sono in concreto queste «iniquità» che «hanno scavato un abisso tra il popolo e Dio» (59, 2): «I nostri peccati ci sono presenti e noi riconosciamo i nostri torti: prevaricare e rinnegare Jahvè, cessare di seguire il nostro Dio, parlare di oppressione e di rivolta, e proferire in cuor nostro parole mendaci. Il giudizio è messo da lato e la giustizia sta in disparte, perché la verità incespica sulla piazza pubblica e la rettitudine non si può presentare» (59, 13 s). Molto tempo prima Osea non parlava in modo diverso: «Non c’è né sincerità, né amore, né conoscenza di Dio nel paese, ma spergiuro e menzogna, assassinio e furto, adulterio e violenza, omicidio su omicidio» (Os 4, 2; cfr. Is 1, 17; 5, 8; 65, 6 s; Am 4, 1; 5, 7-15; Mi 2, 1 s). La lezione è capitale: chi pretende di costruirsi da solo, indipendentemente da Dio, lo farà ordinariamente a spese altrui, specialmente dei piccoli e dei deboli. Lo proclama il salmista: «L’uomo che non ha posto in Dio il suo rifugio» (Sal 52, 9) «rumina il delitto per tutto il giorno» (v. 4), mentre «il giusto confida nell’amore di Dio in eterno e per sempre» (v. 10). Non era forse già quello che suggeriva l’adulterio di David (2 Sam 12)? Ma da questo episodio, di cui sappiamo il posto che occupa nella concezione giudaica del peccato (cfr. il Miserere), emerge un’altra verità non meno importante: il peccato dell’uomo non attenta soltanto ai diritti di Dio, lo colpisce per così dire al cuore.
    2. Il peccato, offesa di Dio.
    - Certamente il peccatore non potrebbe colpire Dio in se stesso; la Bibbia rispetta troppo la trascendenza divina per non ricordarlo all’occasione: «Si versano libagioni a dèi stranieri per ferirmi. Sono proprio io che essi feriscono, oracolo di Jahvè, o non piuttosto se stessi per loro propria confusione?» (Ger 7, 19). «Se pecchi, in che cosa lo colpisci? Se moltiplichi le tue offese, gli procuri forse qual che male?» (Giob 35, 6). Peccando contro Dio, l’uomo non perviene che a distruggere se stesso. Se Dio ci prescrive leggi, non lo fa nel suo interesse, ma nel nostro, «affinché siano tutti felici e viviamo» (Deut 6, 24). Ma il Dio della Bibbia non è quello di Aristotele, indifferente all’uomo e al mondo.
    a) Se il peccato non «ferisce» Dio in se stesso, lo ferisce anzitutto nella misura in cui colpisce coloro che Dio ama. Così David «colpendo con la spada Uria l’Ittita e prendendogli la moglie», pensava senza dubbio di aver leso soltanto un uomo, e per giunta un non israelita: aveva dimenticato che Dio si era costituito garante dei diritti di ogni persona umana. In nome di Dio, Natan gli ricorda che ha «disprezzato Jahvè» stesso e sarà punito in conseguenza (2 Sam 12, 9 ss).
    b) Più ancora, il peccato, «scavando un abisso tra Dio ed il suo popolo» (Is 59, 2), colpisce per ciò stesso Dio nel suo disegno d’amore: «Il mio popolo ha cambiato la sua *gloria con l’impotenza!... Hanno abbandonato me, fonte di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate che non tengono l’acqua» (Ger 2, 11 ss).
    c) La rivelazione biblica, a mano a mano che scoprirà le profondità di questo *amore, permetterà di comprendere in qual senso reale il peccato dell’uomo può «offendere» Dio: ingratitudine del figlio nei confronti di un *padre amatissimo (ad es. Is 64, 7), anzi, di una *madre che non potrebbe «dimenticare il frutto delle sue viscere, quand’anche le madri dimenticassero» (Is 49, 15), soprattutto infedeltà della *sposa, che si prostituisce ad ogni passante, indifferente all’amore instancabilmente fedele del suo sposo: «Hai visto ciò che ha fatto Israele, la ribelle?... Io pensavo: "Dopo aver fatto tutto questo, ritornerà a me"; ma essa non ritornò!... Ritorna, Israele ribelle!... Io non avrò più per te un volto severo, perché sono misericordioso» (Ger 3, 7. 12; cfr. Ez 16; 23). A questo stadio della rivelazione il peccato appare essenzialmente come la violazione di rapporti personali, come il rifiuto dell’uomo di lasciarsi amare da un Dio che soffre di non essere amato, che l’amore ha per così dire reso «vulnerabile»: mistero di un amore che non troverà la sua spiegazione che nel NT.
    3. Il rimedio del peccato.
    - I profeti non denunziano il peccato e non ne rivelano la gravità che per invitare più efficacemente alla *conversione. Infatti, se l’uomo è infedele, Dio rimane sempre *fedele; l’uomo rifiuta l’amore di Dio, ma Dio non cessa di offrirgli questo amore; finché l’uomo è ancor capace di ritorno, Dio lo sollecita a ritornare. Come nella parabola del figliuol prodigo, tutto è ordinato a questo ritorno desiderato, scontato: «Perciò io chiuderò la sua via con spine, ostruirò la sua strada affinché non trovi più i suoi sentieri; essa andrà dietro ai suoi amanti e non li raggiungerà, li cercherà e non li troverà. Allora dirà: ritornerò al mio primo marito, perché ero più felice una volta che non ora» (Os 2, 8 s; cfr. Ez 14, 11; ecc.). Di fatto, se il peccato consiste nel rifiuto d’amore, è chiaro che non sarà cancellato, tolto, perdonato che nella misura in cui l’uomo accetterà di amare nuovamente; supporre un «*perdono» che possa dispensare l’uomo dal ritornare a Dio, sarebbe lo stesso che voler che l’uomo ami dispensandolo dall’amare! L’amore stesso di Dio gli vieta quindi di non esigere questo ritorno. Se egli si proclama un «Dio geloso» (Es 20, 5; Deut 5, 9; ecc.), si è perché la sua *gelosia è un effetto del suo amore (cfr. Is 63, 15; Zac 1, 14); se pretende di procurare, egli solo, la felicità dell’uomo, creato a sua immagine, si è perché egli solo può farlo. Quanto alle condizioni di questo ritorno, si troveranno indicate sotto le voci *espiazione, *fede, *perdono, *penitenza-conversione, *redenzione. La prima condizione da parte dell’uomo è evidentemente che rinunzi alla sua volontà d’indipendenza, che accetti di lasciarsi fare da Dio, di lasciarsi amare, in altre parole, rinunzi a ciò che costituisce il fondo stesso del suo peccato. Ora egli si avvede che precisamente questo si trova fuori del suo potere. Affinché l’uomo sia perdonato, non basta che Dio si degni di non respingere la sposa infedele; occorre di più: «Facci ritornare e noi ritorneremo!» (Lam 5, 21). Dio stesso andrà quindi alla ricerca delle pecore smarrite (Ez 34); darà all’uomo un «cuore nuovo», uno «spirito nuovo», «il suo stesso spirito» (Ez 36, 26 s). Sarà «la nuova alleanza», quando la legge non sarà più scritta su tavole di pietra, ma nel *cuore degli uomini (Ger 31, 31 ss; cfr. 2 Cor 3, 3). Dio non si accontenterà di offrire il suo amore, né di esigere il nostro: «Jahvè tuo Dio *circonciderà il tuo cuore ed il cuore della tua posterità, in modo che tu ami Jahvè tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, affinché viva» (Deut 30, 6). Anche il salmista, confessando il suo peccato, supplica Dio stesso di «lavarlo», di «purificarlo», di creare in lui un cuore puro» (Sal 51), persuaso che la *giustificazione del peccato esige un atto strettamente divino, analogo all’atto creativo. Infine il VT annunzia che questa trasformazione interna dell’uomo che lo strappa al suo peccato si compirà grazie all’oblazione sacrificale di un *servo misterioso di cui nessuno, prima della realizzazione della profezia, avrebbe potuto sospettare la vera identità.
    IV. L’INSEGNAMENTO DEL NT
    Il NT rivela che questo servo venuto per «liberare dal peccato» (Is 53, 11), non è altri che il Figlio stesso di Dio. Non è quindi sorprendente che il peccato vi occupi un posto non minore che nel VT, né soprattutto che la rivelazione completa di ciò che ha fatto l’amore di Dio per vincere il peccato permetta di scoprirne la vera dimensione e nello stesso tempo la funzione nel disegno della sapienza divina.
    1. Gesù ed i peccatori.
    a)
    Fin dall’inizio della catechesi sinottica vediamo Gesù in mezzo ai peccatori. Egli infatti è venuto per essi, non per i giusti (Mc 2, 17). Servendosi del vocabolario giudaico dell’epoca, egli annunzia loro che i loro peccati sono «rimessi». Non già che, assimilando in tal modo il peccato ad un «debito», anzi, usandone talvolta il termine (Mt 6, 12; 18, 23 ss), egli intenda suggerire che esso poteva essere perdonato con un atto di Dio che non avrebbe richiesto la trasformazione dello spirito e del cuore dell’uomo. Al pari dei profeti e di Giovanni Battista (Mc 1, 4), Gesù predica la *conversione, un mutamento radicale dello spirito che ponga l’uomo nella disposizione di accogliere il favore divino, di lasciarsi manovrare da Dio: «Il regno di Dio è vicino: pentitevi e credete alla buona novella» (Mc 1, 15). Per contro, dinanzi a chi rifiuta la luce (Mc 3, 29 par.) o immagina di non aver bisogno di perdono, come il fariseo della parabola (Lc 18, 9 ss), Gesù rimane impotente.
    b) Perciò, come già i profeti, egli denunzia il peccato dovunque si trovi, anche in coloro che si credono giusti perché osservano le prescrizioni di una legge esterna. Infatti il peccato è dentro il cuore, donde «escono i disegni perversi: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, frodi, lascivia, invidia, diffamazione, orgoglio, stoltezza; sono tutte queste cose cattive che escono dal di dentro e contaminano l’uomo» (Mc 7, 21 ss par.). E questo perché egli è venuto «a portare a compimento la legge» nella sua pienezza, ben lungi dall’abolirla (Mt 5, 17); il discepolo di Gesù non può accontentarsi della «*giustizia degli scribi e dei farisei» (5, 20); senza dubbio la giustizia di Gesù si riduce in definitiva al solo precetto dell’*amore (7, 12); ma il discepolo, vedendo agire il suo maestro, conoscerà a poco a poco quel che significhi «amare» e correlativamente ciò che è il peccato, rifiuto d’amore.
    c) Lo conoscerà specialmente sentendo Gesù che gli rivela l’inconcepibile *misericordia di Dio per il peccatore. Pochi passi del NT meglio della parabola del figliuol prodigo o piuttosto del padre misericordioso (Lc 15, 11 ss), così vicina d’altronde all’insegnamento profetico, manifestano in qual senso il peccato è un’offesa di Dio e quanto sarebbe assurdo concepire un *perdono di Dio che non comportasse il ritorno del peccatore. Al di là dell’atto di disobbedienza che si può supporre - benché il solo fratello maggiore vi faccia allusione per opporlo alla sua propria obbedienza (v. 29 s), ciò che ha «contristato» il padre è la partenza del figlio suo, la volontà di non essere più figlio, di non più permettere al padre di amarlo efficacemente: ha «offeso» il padre privandolo della sua presenza di figlio. Come potrebbe «riparare» questa offesa se non col suo ritorno, accettando nuovamente di essere trattato come un figlio? Perciò la parabola sottolinea la gioia del padre. Escluso un simile ritorno, non si potrebbe concepire alcun perdono; o meglio, il padre aveva perdonato da sempre; ma il perdono non raggiunge efficacemente il peccato del figlio se non nel ritorno e mediante il ritorno di questi.
    d) Ora questo atteggiamento di Dio nei confronti del peccato, Gesù lo rivela ancor più mediante i suoi atti che mediante le sue parole. Non soltanto accoglie i peccatori con lo stesso amore e la stessa delicatezza del padre della parabola (ad es. Lc 7, 36 ss; 19, 5; Mc 2, 15 ss; Gv 8, 10 s), a rischio di scandalizzare i testimoni di una simile misericordia, incapaci di comprenderla come lo era stato il figlio maggiore (Lc 15, 28 ss). Ma agisce direttamente contro il peccato: trionfa, per primo, di *Satana al momento della *tentazione; durante la vita pubblica strappa già gli uomini a questo potere del demonio e del peccato che è costituito dalla *malattia e dalla possessione (cfr. Mc 1, 23), inaugurando in tal modo la funzione del *servo (Mt 8, 16 s), in attesa di «dare la propria vita in riscatto» (Mt 10, 45) e di «spargere il suo sangue, il sangue dell’alleanza, per una moltitudine in remissione dei peccati» (Mt 26, 28).
    2. Il peccato del mondo.
    - S. Giovanni, più ancora della «remissione dei peccati», pur conoscendo l’espressione tradizionale (Gv 20, 23; 1 Gv 2, 12), parla di Cristo che viene «a togliere il peccato del mondo» (Gv 1, 29). Al di là degli atti singoli, egli scorge la realtà misteriosa che li produce: una potenza ostile a Dio ed al suo regno, alla quale Cristo si trova di fronte.
    a) Questa ostilità si manifesta anzitutto concretamente nel rifiuto volontario della *luce. Il peccato possiede l’opacità delle tenebre: «La luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie» (Gv 3, 19). Il peccatore si oppone alla luce perché la teme, «per paura che le sue opere siano svelate». La odia: «chiunque fa il male odia la luce» (3, 20). Accecamento volontario, accecamento amato, perché non si riconosce come tale: «Se foste ciechi, sareste senza peccato. Ma voi dite: vediamo. Il vostro peccato rimane» (9, 41).
    b) Un accecamento così ostinato non si spiega se non con l’influsso perverso di *Satana. Di fatto il peccato asservisce a Satana: «chiunque commette il peccato è uno schiavo» (Gv 8, 34). Come il cristiano è figlio di Dio, il peccatore è «figlio del demonio, peccatore fin dall’origine», e «ne compie le opere» (1 Gv 3, 8-10). Ora, tra queste opere, Giovanni ne rivela due, l’omicidio e la *menzogna: «Fin dall’origine egli fu omicida e non perseverò nella verità, perché non c’è verità in lui; quando dice le sue menzogne, le trae dal suo intimo, perché è mentitore e padre della menzogna» (Gv 8, 44). Omicida, egli lo fu infliggendo la morte all’uomo (cfr. Sap 2, 24) ed anche ispirando a Caino di uccidere il fratello (1 Gv 3, 12-15); lo è oggi ispirando ai Giudei di mettere a morte colui che dice loro la *verità: «Voi volete uccidere me, che vi dico la verità che ho intesa da Dio... Fate le opere del vostro padre, e sono i desideri del vostro padre che voi volete fare» (Gv 8, 39-44).
    c) A loro volta omicidio e menzogna non si spiegano se non con l’*odio. A proposito del demonio, la Scrittura parlava di gelosia (Sap 2, 24); Giovanni non esita a parlare di odio: come l’incredulo ostinato «odia la luce» (Gv 3, 20), così i Giudei odiano Cristo e Dio suo Padre (15, 22 s): i Giudei, cioè il mondo asservito a Satana, chiunque rifiuta di riconoscere Cristo. E questo odio giungerà di fatto all’uccisione del Figlio di Dio (8, 37).
    d) Tale è la dimensione di questo peccato del mondo di cui Gesù trionfa. Lo può fare perché egli è senza peccato (Gv 8, 46; cfr. 1 Gv 3, 5), «uno» con Dio suo Padre (Gv 10, 30), «luce» pura «in cui non ci sono tenebre» (1, 5; 8, 12), verità senza traccia alcuna di menzogna o di falsità (1, 14; 8, 40), infine, e forse soprattutto, «amore», perché «Dio è amore» (1 Gv 4, 8), e se, durante la sua vita, egli non ha cessato di amare, la sua morte sarà un atto di amore tale che non se ne possa concepire uno maggiore, la «consumazione» dell’amore (Gv 15, 13; cfr. 13, 1; 19, 30). Perciò questa morte fu una *vittoria sul «principe di questo mondo». Questi crede di condurre il gioco, ma contro Gesù non può nulla (14, 30) e sarà lui ad essere «cacciato fuori» (12, 31). Gesù ha vinto il mondo (Gv 16, 33).
    e) Lo prova non soltanto il fatto che Gesù possa «riprendere la vita che ha dato» (Gv 10 17), ma, forse più ancora, che faccia partecipi della sua vittoria i suoi discepoli: il cristiano, divenuto «figlio di Dio» per aver accolto Gesù (1, 12), «non commette il peccato, perché è nato da Dio» (1 Gv 3, 9); più ancora, finché rimane in lui il «seme divino», cioè probabilmente, come si esprime S. Paolo, «finché si lascia muovere dallo Spirito di Dio» (Rom 8, 14 s; cfr. Gal 5, 16), egli «non può peccare». Di fatto Gesù «toglie il peccato del mondo» (Gv 1, 29) «battezzando nello Spirito» (v. 33), cioè comunicandogli lo *Spirito, simboleggiato dall’*acqua misteriosa sgorgata dal costato trafitto del crocifisso come la fonte di cui parlava Zaccaria, «aperta alla casa di David per il peccato e l’impurità» (Gv 19, 30-37; cfr. Zac 12, 10; 13, 1) e che Ezechiele vedeva «uscire da sotto la soglia del tempio» e trasformare le rive del Mar Morto in un nuovo *paradiso (Ez 47, 1-12; Apoc 22, 2). Certamente il cristiano, anche se *nato da Dio, può ricadere nel peccato (1 Gv 2, 1); ma «Gesù si è fatto propiziazione per i nostri peccati» (1 Gv 2, 2), ed ha comunicato lo Spirito agli apostoli appunto perché possano «rimettere i peccati» (Gv 20, 22 s).
    3. La teologia del peccato secondo S. Paolo.
    a) Un vocabolario più ricco permette a Paolo di distinguere ancor più nettamente il «peccato» (gr. hamartìa, al singolare) dagli «atti peccaminosi», chiamati di preferenza, fuori delle formule tradizionali, «colpe» (alla lettera «cadute», gr. paràptoma) o «trasgressioni» (gr. paràbasis), senza punto voler diminuire la gravità di questi ultimi. Così il peccato commesso da Adamo nel paradiso, di cui si sa l’importanza che vi annette l’apostolo, è successivamente chiamato «trasgressione», «colpa» e «disobbedienza» (Rom 5, 14. 17. 19). In ogni caso, nella morale di Paolo, l’atto peccaminoso non occupa certamente un posto minore che nei sinottici, come mostrano le liste di peccati, così frequenti nelle sue lettere: 1 Cor 5, 10 s; 6, 9 s; 2 Cor 12, 20; Gal 5, 19-21; Rom 1, 29-31; Col 3, 5-8; Ef 5, 3; 1 Tim 9; Tito 3, 3; 2 Tim 3, 2-5. Tutti questi peccati escludono dal regno di Dio, come talvolta è detto espressamente (1 Cor 6, 9; Gal 5, 21). Ora, vi si noterà, esattamente come nelle liste analoghe del VT, l’accostamento dei disordini sessuali dell’*idolatria e delle ingiustizie sociali (cfr. Rom 1, 21-32 e le liste di 1 Cor, Gal, Col, Ef). Si noterà parimenti la gravità attribuita da Paolo alla «cupidigia» (gr. pleonexìa), a quel peccato che consiste nel voler «possedere sempre di più», vizio che gli antichi latini chiamavano avaritia e che rassomiglia molto a ciò che il Decalogo (Es 20, 17) vietava sotto il nome di «concupiscenza» (cfr. Rom 7, 7): Paolo non si accontenta di accostare questo peccato all’idolatria; li identifica tra loro: «quella cupidigia che è idolatria» (Col 3, 5; cfr. Ef 5, 5).
    b) Al di là degli atti peccaminosi, Paolo risale al loro principio: essi sono nell’uomo peccatore l’espressione e l’esteriorizzazione di quella forza ostile a Dio ed al suo regno di cui parla S. Giovanni. Il solo fatto che Paolo gli riservi praticamente il termine di peccato (al sing.) gli conferisce già un rilievo singolare. Ma l’apostolo si applica soprattutto a descriverne sia l’origine in ciascuno di noi, sia gli effetti, con sufficiente precisione per offrire l’abbozzo di una vera teologia del peccato. Il peccato, presentato come una «potenza» personificata, al punto che talvolta sembra confondersi con il personaggio di *Satana, il «dio di questo mondo» (2 Cor 4, 4), nondimeno se ne distingue: esso appartiene all’uomo peccatore, è dentro di lui. Introdotto nel genere umano dalla disobbedienza di Adamo (Rom 5, 12-19) - e come per ripercussione nello stesso universo materiale (Rom 8, 20; cfr. Gen 3, 17) -, il peccato è passato in tutti gli uomini senza eccezione, trascinandoli tutti nella *morte, eterna separazione da Dio, quale i dannati subiscono nell’*inferno; indipendentemente dalla *redenzione, tutti, secondo la frase di S. Agostino, esatta a condizione di essere ben compresa, formano una «massa dannata». E Paolo si compiace nel descrivere a lungo questa situazione dell’uomo «venduto al potere del peccato» (Rom 7, 14), ancora capace di «simpatizzare» con il bene (7, 16. 22), perfino di «desiderarlo» (7, 15. 21), il che prova che non tutto in lui è corrotto, ma assolutamente incapace di «compierlo» (7, 18), e, pertanto, necessariamente votato alla morte eterna (7, 24), «salario» o meglio ancora «termine», «compimento» del peccato (6, 21-23).
    c) Simili affermazioni fanno talvolta accusare l’apostolo di esagerazione e di pessimismo. Ciò significa dimenticare anzitutto che Paolo, formulandole, fa astrazione dalla *grazia di Cristo: la sua stessa argomentazione ve lo costringe, dal momento che egli sottolinea l’universalità del peccato e la sua tirannia al solo fine di stabilire l’impotenza della *legge e di esaltare l’assoluta necessità dell’opera liberatrice di Cristo. Più ancora, Paolo non ricorda la solidarietà di tutta la umanità con *Adamo se non per rivelare una altra solidarietà molto superiore, quella di tutta l’umanità con Gesù Cristo; nel pensiero di Dio, *Gesù Cristo, 1’antitipo, è primo (Rom 5, 14); il che equivale a dire che il peccato di Adamo e le sue conseguenze non sono stati permessi se non perché Gesù Cristo ne doveva trionfare e con una tale sovrabbondanza che, ancor prima di esporre le rassomiglianze tra la funzione del primo Adamo e quella del secondo (5, 17 ss), Paolo ci tiene a segnarne le differenze (5, 15 s). Infatti la vittoria di Cristo sul peccato non è, per Paolo, meno splendida che per Giovanni. Il cristiano *giustificato dalla *fede e dal *battesimo (Gal 3, 26 ss; cfr. Rom 3, 21 ss; 6, 2 ss) ha operato una rottura totale con il peccato; morto al peccato, è diventato, con Cristo morto e risorto, un essere nuovo (Rom 6, 5), una «nuova *creatura» (2 Cor 5, 17); non è più «nella carne», ma «nello Spirito» (Rom 7, 5; 8, 9), pur potendo, finché vive in un «corpo mortale», ricadere sotto il dominio del peccato e «piegarsi alle sue voglie» (6, 12), se rifiuta di «camminare secondo lo Spirito» (8, 4).
    d) Dio non trionfa soltanto del peccato. La sua *sapienza «dalle risorse infinite» (Ef 3, 10) ottiene questa vittoria servendosi del peccato. Ciò che costituiva l’ostacolo per eccellenza al regno di Dio ed alla salvezza dell’uomo ha una funzione nella storia di questa salvezza. In effetti, proprio a proposito del peccato, Paolo parla della «sapienza di Dio» (1 Cor 1, 21-24; Rom 11, 33). In particolare, meditando sul peccato, che fu indubbiamente per il suo cuore la ferita più pungente (Rom 9, 2) ed in ogni caso uno scandalo per il suo spirito, 1’*incredulità di Israele, egli comprese che questa infedeltà, d’altronde parziale e provvisoria (Rom 11, 25), entrava nel *disegno salvifico di Dio sul genere umano e che «Dio non aveva racchiuso tutti gli uomini nella disobbedienza che per fare misericordia a tutti» (Rom 11, 32; cfr. Gal 3, 22). Perciò esclama con un’ammirazione riconoscente: «O abisso della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono insondabili i suoi decreti ed incomprensibili le sue vie!» (Rom 11, 33).
    e) Ma questo mistero della sapienza divina, che per la salvezza dell’uomo si serve persino del suo peccato, non si rivela in nessun caso più chiaramente che nella passione del Figlio di Dio. Di fatto, se Dio Padre ha «dato il suo Figlio» alla morte (Rom 8, 32), lo ha fatto per collocarlo in condizioni tali da poter compiere l’atto di *obbedienza e di amore maggiore che si possa concepire, ed operare in tal modo la nostra *redenzione passando, egli per primo, dalla condizione carnale alla condizione spirituale. Ora le circostanze di questa morte, ordinate a creare le condizioni più favorevoli per un simile atto, sono tutte effetto del peccato dell’uomo: tradimento di Giuda, abbandono degli apostoli, viltà di Pilato, odio delle autorità della nazione giudaica, crudeltà dei carnefici, e, al di là del dramma visibile, i nostri propri peccati, per la cui *espiazione egli muore. Per permettergli di amare come nessun uomo ha mai amato, Dio ha voluto che il suo Figlio si facesse vulnerabile al peccato dell’uomo, fosse soggetto agli effetti malefici della potenza di morte che è il peccato, affinché noi, grazie a questo atto supremo di amore, fossimo soggetti agli effetti benefici della potenza di vita che è la giustizia di Dio (2 Cor 5, 21). Infatti «Dio fa cooperare tutto al bene di coloro che lo amano» (Rom 8, 28), tutto, anche il peccato.
    S. LYONNET
    → Adamo - animali II 1 - bene e male I 4, III - bestemmia - calamità - carne II - castighi - cenere 1 - confessione VT 2; NT 2 - corpo I 1.2, II 2 - coscienza - cupidigia VT 2 - desiderio II - empio VT 1; NT 1 - errore - esilio I 2.3 - espiazione - giudizio - giustificazione I - idoli II 2 - incredulità - indurimento - inferi e inferno VT II - ira - lavoro I 1, II - lebbra 1 - legge C III 2 - liberazione-libertà III 2 a - malattia-guarigione - maledizione - menzogna - misericordia - mondo NT I 2, III 0.1 - morte - obbedienza II 1, III - odio I 1.3, II - opere NT I 3 - penitenza-conversione - perdono - prigionia II - processo I, II - profeta VT III 1, IV 1 - prova-tentazione - puro VT II - redenzione - responsabilità - Satana I, III - scandalo - schiavo II - sofferenza VT II - solitudine I 2 - sonno II, III - terra VT I 3, II 3 b - timore di Dio III - tristezza VT 2 - uomo II 1 - veste II 1 - virtù e vizi.

    PECORE (inizio)

    → agnello di Dio - animali - pastore e gregge.

    PEDAGOGIA (inizio)

    → educazione - legge C III 2.

    PEGNO (inizio)

    → primizie I 2 b - promesse IV - Spirito di Dio NT V 3.

    PELLEGRINAGGIO (inizio)

    Il pellegrinaggio, praticato nella maggior parte delle religioni, è un’usanza di gran lunga anteriore alla redazione della Bibbia. È un viaggio di credenti verso un luogo consacrato da una manifestazione divina o dall’attività di un capo religioso, per offrirvi la propria preghiera in un contesto particolarmente favorevole. In genere la visita al luogo santo, che è la conclusione del pellegrinaggio, viene preparata da riti di purificazione e si svolge nell’ambito di un’assemblea che rende manifesta ai fedeli la comunità religiosa alla quale appartengono. Il pellegrinaggio perciò è una ricerca di Dio e un incontro con lui in una cornice cultuale. 
    VECCHIO TESTAMENTO 
    1. Verso gli antichi santuari.
    - Prima della realizzazione dell’unità del luogo di culto, ad opera della riforma deuteronomica di Giosia, in Israele si constata l’esistenza di numerosi centri di pellegrinaggio, luoghi santi collegati alla storia sacra, in cui il popolo viene a *cercare Dio. La storia dei patriarchi riferisce solo un pellegrinaggio propriamente detto (Gen 35, 1-7). Però, presentando le teofanie accordate ad Abramo (Gen 12, 6 a Sichem; 18, 1 a Mambre), a Isacco (Gen 26, 24 a Bersabea) a Giacobbe (Gen 28, 12; 35, 9 a Bethel; 32, 31 a Penuel) i narratori cercano di legittimare l’adozione di santuari cananei attraverso l’usanza dei padri. Spiegano le caratteristiche di questi santuari: i loro *altari (Gen 12, 7 s; 13, 4; 26, 25; 33, 20), le loro stele (Gen 28, 18), i loro alberi sacri (Gen 12, 6; 18, 1; 21, 33...). Mettono le basi dei riti che vi compiono i pellegrini ulteriori: l’invocazione del *nome di Jahvè sotto diversi titoli (Gen 12, 8; 13, 4; 21, 33; 33, 20), le unzioni d’olio (Gen 28, 18; 35, 14), le purificazioni (Gen 35, 2 ss), la decima (Gen 14, 20; 28, 22). In seguito si constata la lunga persistenza delle *assemblee religiose, e quindi dei pellegrinaggi, in santuari di varia importanza: Sichem (Gios 24, 25; Giud 9, 6; 1 Re 12, 1-9), Bethel (1 Sam10, 3 vi mostra dei pellegrini; 1 Re 12, 29 ss; Am 5, 5; 7, 13), Bersabea (Am 5, 5). Si vedono comparire anche i santuari di Ofra (Giud 6, 24) e di Zorea (Giud 13, 19 s), dove si commemorano apparizioni dell’*angelo di Jahvè, quello di Silo, dove è di stanza l’*arca e dove ogni anno si celebra una festa di Jahvè (Giud 21, 19): senza dubbio è per questa festa che «sale» Elkana con le sue mogli (1 Sam 1, 3). Gli antichi racconti riferiscono di altre assemblee religiose a Mispa (1 Sam 7, 5 s), a Gilgal (1 Sam 11, 15), a Gabaon (1 Re 3, 4), a Dan (1 Re 12, 29). Ma a partire dall’ingresso dell’arca in Gerusalemme ad opera di David (2 Sam 6) e della costruzione del tempio di Salomone (1 Re 5 - 8), i pellegrinaggi a Gerusalemme assumono un’importanza predominante (1 Re 12, 27). È molto tempo che gli antichi codici dell’alleanza (jahvista: Es 34, 18-23; elohista: Es 23, 14- 17) prescrivono a tutta la popolazione maschile di presentarsi al cospetto del Signore Jahvè tre volte l’anno. Questa prescrizione deve essere adempiuta nei diversi santuari del paese, in occasione delle *feste.
    2. Verso il santuario unico.
    - La riforma di Giosia, abbozzata da Ezechia (2 Re 18, 4. 22; 2 Cron 29 - 31) sopprime i santuari locali e fissa a Gerusalemme la celebrazione della *Pasqua (2 Re 23; 2 Cron 35) e delle altre due *feste delle Settimane e delle capanne (Deut 16, 1-17). Cerca in questo modo di radunare il popolo intorno al suo Dio e di preservarlo dalle contaminazioni idolatriche locali. Questa riforma viene senza dubbio contestata alla morte di Giosia. Però, al ritorno dall’esilio, il *tempio di Gerusalemme è ormai l’unico santuario. Qui, per le grandi festività dell’anno, i pellegrini affluiscono da ogni parte della Palestina e anche dalla dispersione, che comincia ad estendersi. I «salmi delle salite» (Sal 120 - 134) esprimono la preghiera e i sentimenti dei pellegrini: il loro attaccamento alla casa del Signore e alla *città santa, la loro fede, la loro adorazione, la loro gioia nel realizzare nell’assemblea liturgica la comunione profonda del popolo di Dio. Questa esperienza, frequente in Israele, fornisce alla speranza escatologica una pregnante espressione: sull’esempio dei pellegrinaggi, si pensa al *giorno di Jahvè come al giorno che vedrà l’assemblea del popolo e dei pagani finalmente uniti (Is 2, 2-5; 60; 66, 18-21; Mi 7, 12; Zac 14, 16-19; Tob 13, 11).
    NUOVO TESTAMENTO
    In un primo tempo, il NT non apporta su questo punto nessuna novità: Gesù «sale» a Gerusalemme con i genitori, all’età di dodici anni, per obbedire alla legge (Lc 2, 41 s), e nel corso di tutta la sua missione, vi «sale» ancora in occasione di diverse festività (Gv 2, 13; 5, 1; 7, 14; 10, 22 s; 12, 12); Paolo stesso, più di venticinque anni dopo la croce, ci tiene a compiere il pellegrinaggio della Pentecoste (Atti 20, 16; 24, 11). Ma Gesù annuncia la rovina del Tempio (Mc 13, 2 par.) e il rifiuto di Israele consuma la rottura tra la Chiesa e il giudaismo. Inoltre, la risurrezione di Gesù concentra ormai il culto dei fedeli sulla sua persona glorificata, nuovo *tempio, e non più su un qualche luogo della terra (Gv 2, 19-21; 4, 21- 23). Da quel momento, la vita stessa del popolo di Dio si presenta come il vero pellegrinaggio escatologico (2 Cor 5, 6 ss; Ebr 13, 14). Questo pellegrinaggio è anche un esodo con a capo il Signore Gesù (Atti 3, 15; 5, 31; Ebr 2, 10); ha come meta delle realtà spirituali: il *monte di Sion, la Gerusalemme celeste, l’assemblea dei primogeniti iscritti nel cielo (Ebr 12, 22 ss) e un *tempio che è «il Signore, il Dio padrone di tutto... nonché l’*agnello» (Apoc 21, 22-26). La Chiesa è troppo attaccata alla storia per negare ogni valore ai pellegrinaggi verso i luoghi della vita terrena di Cristo o verso quelli delle sue manifestazioni nella vita dei santi: vede in queste riunioni nei luoghi dell’attività di Cristo un’occasione di comunione per i fedeli, nella fede e nella preghiera; cerca soprattutto di ricordare loro che sono in cammino verso il Signore, e sotto la sua guida.
    A. GEORGE
    → altare 1 - feste II 2 - Gerusalemme VT III 3; NT I 4 - monte III 1 - Pasqua I 5.6 - presenza di Dio VT III 1 - straniero II - tempio VT I 4 - via I 1.

    PENA (inizio)

    → castighi - lavoro II - prova-tentazione sofferenza - tristezza.

    PENITENZA - CONVERSIONE (inizio)

    Dio chiama gli uomini ad entrare in comunione con lui: Ma si tratta di uomini peccatori. Peccatori dalla nascita (Sal 51, 7): per colpa del loro primo padre, il *peccato è entrato nel mondo (Rom 5, 12) e da allora abita nel più intimo del loro «io» (7, 20). Peccatori per colpevolezza personale, perché ognuno di essi «venduto al potere del peccato» (7, 14), ha accettato volontariamente questo giogo delle passioni peccaminose (cfr. 7, 5). La risposta alla chiamata di Dio esigerà quindi da essi, al punto di partenza, una conversione, e poi, lungo tutta la vita, un atteggiamento penitente. Perciò la conversione e la penitenza occupano un posto considerevole nella rivelazione biblica. Tuttavia il vocabolario che le esprime ha acquistato la pienezza del suo significato soltanto a poco a poco, a mano a mano che si approfondiva la nozione del peccato. Talune formule evocano l’atteggiamento dell’uomo che si orienta deliberatamente verso Dio: «cercare Jahvè» (Am 5, 4; Os 10, 12), «cercare la sua faccia» (Os 5, 15; Sal 24, 6; 27, 8), «umiliarsi dinanzi a lui» (1 Re 21, 29; 2 Re 22, 19), «fissare il proprio cuore in lui» (1 Sam 7, 3)... Ma il termine più usato, il verbo šûb, rende l’idea di cambiar strada, di ritornare, di invertire il cammino. In contesto religioso significa che si volgono le spalle a ciò che è male e ci si rivolge a Dio. Questo definisce l’essenziale della conversione, che implica un mutamento di condotta, un nuovo orientamento di tutto il comportamento. In epoca tarda, si è maggiormente distinto tra l’aspetto interno della penitenza e gli atti esterni che essa impone. Perciò la Bibbia greca usa congiuntamente il verbo epistrèfein, che connota il mutamento della condotta pratica, ed il verbo metanoèin, che concerne il rivolgimento interno (la metànoia è il pentimento, la penitenza). Analizzando i testi biblici, bisogna considerare questi due aspetti distinti ma strettamente complementari.
    VECCHIO TESTAMENTO
    I. ALL’ORIGINE DELLE LITURGIE DI PENITENZA
    1.
    Fin dall’epoca antica, nella prospettiva della dottrina dell’*alleanza, si sa che il legame della comunità con Dio è suscettibile di essere rotto dalla colpa degli uomini, sia che si tratti di *peccati collettivi o di peccati individuali, che impegnano in qualche misura tutta la collettività. Perciò le sventure pubbliche sono l’occasione di una presa di coscienza delle colpe commesse (Gios 7; 1 Sam 5 - 6). È vero che l’idea del peccato è spesso scialba, poiché ogni mancanza materiale ad un’esigenza divina è suscettibile di irritare Jahvè. Per ristabilire il legame con lui e ritrovare il suo favore, la comunità deve in primo luogo castigare i responsabili, il che può giungere fino alla pena di morte (Es 32, 25-28; Num 25, 27 ss; Gios 7, 24 ss), a meno che non ci sia «riscatto» del colpevole (1 Sam 14, 36-45). Questi d’altronde può votarsi egli stesso ai *castighi divini affinché la sua comunità sia risparmiata (2 Sam 24, 17).
    2. Inoltre, finché dura il flagello (oppure per impedirne la venuta), si implora il perdono divino mediante pratiche ascetiche e liturgie penitenziali: si *digiuna (Giud 20, 26; 1 Re 21, 8 ss), si lacerano le vesti e si indossa il sacco (1 Re 20, 31 s; 2 Re 6, 30; 19, 1 s; Is 22, 12; cfr. Giona 3, 5-8), ci si stende sulla *cenere (Is 58, 5; cfr. 2 Sam 12, 16). Nelle riunioni cultuali si emettono gemiti e grida di cordoglio (Giud 2, 4; Gioe 1, 13; 2, 17). Sono previsti formulari di lamentazione e di supplica, di cui il nostro salterio conserva più di un esempio (cfr. Sal 60; 74; 79; 83; Lam 5; ecc.). Si ricorre a riti ed a sacrifici *espiatori (Num 16, 6-15). Soprattutto si fa una *confessione collettiva del peccato (Giud 10, 10; 1 Sam 7, 6) ed eventualmente si ricorre all’intercessione di un capo o di un profeta, come Mosè (Es 32, 30 ss).
    3. Le pratiche di questo genere sono attestate in tutte le epoche. Il profeta Geremia sarà implicato egli stesso in una liturgia penitenziale in qualità di intercessore (Ger 14, 1- 15, 4). Dopo l’esilio esse prenderanno uno sviluppo considerevole. Il pericolo sta nel fatto che possono restare puramente esteriori, senza che l’uomo vi impegni profondamente il suo cuore e senza che poi traduca la sua penitenza in atti. A questo pericolo del ritualismo superficiale i profeti opporranno il loro messaggio di conversione.
    II. IL MESSAGGIO DI CONVERSIONE DEI PROFETI
    Già all’epoca di David, l’intervento di Natan presso il re adultero annunzia la dottrina profetica della penitenza: David è indotto a confessare la sua colpa (2 Sam 12, 13) poi fa penitenza secondo le regole ed infine accetta il castigo divino (12, 13-23). Ma il messaggio di conversione dei profeti, soprattutto a partire dal sec. VIII, si rivolgerà a tutto il popolo. Israele ha violato la alleanza, «ha abbandonato Jahvè ed ha disprezzato il santo di Israele» (Is 1, 4); Jahvè avrebbe il diritto di abbandonarlo, a meno che esso non si converta. Perciò l’appello alla penitenza sarà un aspetto essenziale della predicazione profetica (cfr. Ger 25, 3-6).
    1. Amos.
    - Profeta della giustizia, non si accontenta di denunziare i peccati dei suoi contemporanei. Quando dice che bisogna «*cercare Dio» (Am 5, 4. 6), la formula non è soltanto cultuale, ma significa: cercare il bene e non il male, *odiare il male ed amare il *bene (5, 14 s); ciò implica una rettificazione della condotta ed una pratica leale della giustizia: soltanto una simile conversione potrà indurre Dio ad «essere clemente verso il *resto di Giuseppe» (5, 15). Anche Osea esige un distacco reale dall’iniquità e specialmente dall’*idolatria; promette che Dio in cambio restituirà il suo favore e stornerà la sua ira (Os 14, 2-9). Stigmatizzando le conversioni superficiali che non possono portare alcun frutto, insiste sul carattere interno della vera conversione, ispirata dall’*amore (hesed) e dalla *conoscenza di Dio (6, l-6; cfr. 2, 9).
    2. Isaia.
    - Denunzia nei Giudei peccati di ogni specie: violazioni della giustizia e deviazioni cultuali, ricorsi alla politica umana, ecc. Soltanto una vera conversione potrebbe apportare la *salvezza, perché il culto non conta nulla (Is 1, 11-15; cfr. Am 5, 21-25) quando non c’è una sottomissione pratica alle volontà divine: «Lavatevi! Purificatevi! Togliete la vostra iniquità dalla mia vista! Cessate di fare il male, imparate a fare il bene! Ricercate il diritto, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la vedova... Allora i vostri peccati, scarlatti, diventeranno bianchi come la neve; porpora, diventeranno come lana» (Is 1, 16 ss). Disgraziatamente Isaia sa che il suo messaggio urterà contro 1’*indurimento dei cuori (6, 10): «Con la conversione e la calma sareste stati salvati... ma non avete voluto!» (30, 15). Il dramma di Israele si avvierà quindi verso uno scioglimento catastrofico. Isaia conserva soltanto la certezza che «un *resto ritornerà... verso il Dio forte» (10, 21; cfr. 7, 3). Il popolo che infine beneficerà della salvezza sarà composto dei soli convertiti.
    3. Geremia. 
    L’insistenza sulle disposizioni interne che bisogna portare a Dio diventa rapidamente un luogo comune della predicazione profetica: *giustizia, *pietà ed *umiltà, dice Michea (6, 8); umiltà e sincerità, fa eco Sofonia (2, 3; 3, 12 s). Ma soprattutto Geremia sviluppa ampiamente il tema della conversione sulla linea di pensiero inaugurata da Osea. Se il profeta annunzia le sventure che minacciano Giuda, lo fa «affinché ognuno abbandoni la sua strada cattiva e Jahvè possa perdonare» (Ger 36, 3). Effettivamente gli inviti al «ritorno» costellano tutto il libro; ma precisano sempre le condizioni di questo ritorno. Israele la ribelle deve «riconoscere la sua colpa», se vuole che Jahvè non abbia più per essa un volto severo (3, 11 ss; cfr. 2, 23). I figli ribelli non devono accontentarsi di piangere e di supplicare confessando i loro peccati (3, 21- 25); devono mutare condotta e *circoncidere il loro cuore (4, l-4). Le conseguenze pratiche di un mutamento di condotta non sfuggono al profeta (cfr. 7, 3-11), che pertanto arriva a dubitare della possibilità di una conversione reale. Coloro che egli chiama preferiscono seguire 1’indurimento del loro cuore malvagio (18, 11 s; cfr. 2, 23 ss). Lungi dal deplorare la loro malvagità, essi vi si immergono (8, 4-7). Perciò il profeta non può che annunziare il *castigo alla inconvertibile Gerusalemme (13, 20-27). Ciò nonostante la sua prospettiva del futuro resta pregna di speranza. Verrà giorno in cui il popolo abbattuto accetterà il castigo ed implorerà la conversione del cuore come una grazia: «Fammi ritornare ed io ritornerò!» (31, 18 s). E Jahvè risponderà a questa umile domanda, perché, nella nuova *alleanza, «scriverà la sua legge nei cuori» (31, 33): «darò loro un cuore per conoscere che io sono Jahvè; essi saranno il mio popolo ed io sarò il loro Dio, perché ritorneranno a me con tutto il loro cuore» (24, 7).
    4. Ezechiele. 
    - Fedele alla stessa tradizione profetica, Ezechiele incentra il suo messaggio, nel momento in cui si compiono le minacce di Dio, sulla conversione necessaria: «Gettate lontano da voi le trasgressioni che avete commesso, e fatevi un cuore *nuovo ed uno spirito nuovo. Perché vorreste morire, o casa di Israele? Io non desidero la morte di alcuno! Convertitevi e vivrete» (Ez 18, 31 s). Quando precisa le esigenze divine, il profeta assegna indubbiamente alle prescrizioni cultuali un posto più ampio che non i suoi predecessori (22, 1-31); ma insiste pure più di essi sul carattere strettamente personale della conversione: ciascuno risponderà soltanto per sé, ciascuno sarà ricompensato secondo la sua condotta (3, 16-21; 18; 33, 10-20). Ed Israele è senza dubbio una «genia di ribelli» (2, 4-8). Ma a questi uomini dal cuore duro Dio può dare come una *grazia ciò che esige da essi in modo così imperioso: nella nuova alleanza darà loro un *cuore nuovo e metterà il suo *spirito in essi, cosicché essi aderiranno alla sua legge e si dorranno della loro cattiva condotta (36, 26-21; cfr. 11, 19 s).
    5. Da Amos ad Ezechiele.
    - Da Amos ad Ezechiele la dottrina della conversione si è quindi approfondita in modo costante, parallelamente alla conoscenza del peccato. Alla fine dell’esilio il messaggio di consolazione prende atto della conversione effettiva di Israele, od almeno del suo *resto. La *salvezza che esso annunzia è per «coloro che sono in cerca di giustizia, cercano Jahvè» (Is 51, 1), «hanno la legge nel cuore» (51, 7). A questi esso può assicurare che «la sofferenza è finita ed il peccato espiato» (40, 2). Jahvè dice ad Israele suo servo: «Ho dissipato i tuoi peccati colpe una nube... Ritorna a me, perché ti ho riscattato (44, 22). In questa nuova prospettiva, che suppone il popolo di Dio consolidato nella *fedeltà, il profeta ha di mira un allargamento inaudito delle promesse di salvezza. Dopo Israele, anche le *nazioni si convertiranno a loro volta: lasciando i loro *idoli, si rivolgeranno tutte verso il Dio vivente (45, 14 s. 23 s; cfr. Ger 16, 19 ss). L’idea farà la sua strada. Non soltanto il giudaismo postesilico si aprirà a proseliti convertiti dal paganesimo (Is 56, 3. 6), ma i quadri escatologici non mancheranno più di menzionare questo universalismo religioso (cfr. Sal 22, 28). Il libro di Giona farà persino vedere la predicazione profetica rivolta direttamente a pagani, «affinché si convertano e vivano». Al termine di un simile sviluppo dottrinale, vediamo come si è approfondita la nozione di penitenza; si è lontani dal puro ritualismo che occupava ancora troppo posto nell’antico Israele.
    III. LITURGIA DI PENITENZA E CONVERSIONE DEL CUORE
    1.
    La conversione nazionale di Israele è stata il duplice frutto della predicazione profetica e della prova dell’esilio. L’esilio è stato l’occasione provvidenziale di una presa di coscienza del peccato e di una confessione sincera, come rilevano concordemente i testi più recenti della letteratura deuteronomica (1 Re 8, 46-51) e della letteratura sacerdotale (Lev 26, 39 s). Ora, dopo l’esilio, il senso della penitenza ha radici così profonde nello spirito da dare il tono a tutta la spiritualità giudaica. Sopravvivono le antiche liturgie di penitenza (cfr. Gioe 1 - 2), ma la dottrina profetica ne ha rinnovato il contenuto. I libri del tempo conservano formulari stereotipati in cui si vede la comunità *confessare tutti i peccati nazionali commessi sin dalle origini, ed implorare in cambio il *perdono di Dio e l’avvento della sua salvezza (Is 63, 7 - 64, 11; Esd 9, 5-15; Neem 9; Dan 9, 4-19; Bar 1, 15-3, 8). Le lamentazioni collettive del salterio sono composte su questo modello (Sal 79; 106), ed il ricordo delle impenitenze passate è ancor più frequente (cfr. Sal 95, 8-11). Si sente che Israele è teso in uno sforzo di conversione profonda sempre rinnovato. È l’epoca in cui le liturgie di *espiazione prendono pure una grande estensione, tanto grande è l’incubo del peccato (Lev 4-5; 16).
    2. Non minore è lo sforzo sul piano individuale, perché è stata capita la lezione di Ezechiele. I salmi dei *malati e dei *perseguitati ripiegano più di una volta nella confessione del peccato (Sal 6, 2; 32; 38; 103, 3 s; 143, 1 s) ed il poeta di Giobbe rivela un senso profondissimo della radicale impurità dell’uomo (Giob 9, 30 s; 14, 4). L’espressione più perfetta di questi sentimenti è il Miserere (Sal 51), dove la dottrina profetica della conversione si trasforma tutta in preghiera: confessione delle colpe (v. 5 ss), domanda della purificazione interna (v. 3 s. 9), ricorso alla grazia che sola può mutare il cuore (v. 12 ss), orientamento verso una vita fervente (v. 15-19). Ora la liturgia di penitenza ha come centro il sacrificio del «*cuore contrito» (v. 18 s). Si comprende come, formati alla scuola di un simile testo ed eredi di tutta la tradizione che lo precedeva, i membri della setta di Qumrân abbiano pensato di ritirarsi nel deserto per convertirsi sinceramente alla legge di Dio e «preparargli la strada». Il loro sforzo rimane contrassegnato da un certo legalismo, ma non è molto lontano da quello che si troverà nel NT.
    NUOVO TESTAMENTO
    I. L’ULTIMO DEI PROFETI
    Alle soglie del NT, il messaggio di conversione dei profeti si ritrova in tutta la sua purezza nella predicazione di *Giovanni Battista, l’ultimo di essi. Così Luca riassume la sua missione; «egli ricondurrà molti figli di Israele al Signore loro Dio» (Lc 1, 16 s; cfr. Mal 2, 6; 3, 24). Una frase condensa il suo messaggio: «convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 3, 2). La venuta del regno apre una prospettiva di speranza; ma *Giovanni sottolinea soprattutto il *giudizio che la deve precedere. Nessuno potrebbe sottrarsi all’*ira che si manifesterà nel *giorno di Jahvè (Mt 3, 7. 10. 12). L’appartenenza alla stirpe di *Abramo non servirà a nulla (Mt 3, 9). Tutti gli uomini devono riconoscersi peccatori, produrre un *frutto che sia degno del pentimento (Mt 3, 8), adottare un comportamento nuovo appropriato al loro stato (Lc 3, 10-14). In segno di questa conversione Giovanni dà un *battesimo di acqua, che deve preparare i penitenti al battesimo di fuoco e di Spirito Santo che darà il messia (Mt 3, 11 par.).
    II. CONVERSIONE ED INGRESSO NEL REGNO DI DIO
    1. Gesù non si accontenta di annunziare l’approssimarsi del *regno di Dio, ma incomincia a realizzarlo con potenza; con lui il regno si inaugura, quantunque esso sia ancora volto verso compimenti misteriosi. Ma l’appello alla conversione lanciato dal Battista conserva nondimeno tutta la sua attualità: Gesù lo riprende in termini propri all’inizio del suo ministero (Mc 1, 15; Mt 4, 17). Egli è venuto a «chiamare i peccatori alla conversione» (Lc 5, 32); questo è uno degli aspetti essenziali del vangelo del regno. L’uomo che prende coscienza del suo stato di peccatore può d’altronde rivolgersi a Gesù con fiducia, perché «il *figlio dell’uomo ha il potere di rimettere i peccati» (Mt 9, 6 par.). Ma il messaggio di conversione urta contro la sufficienza umana in tutte le sue forme, dall’attaccamento alle *ricchezze (Mc 10, 21-25) fino all’orgogliosa sicurezza dei *farisei (Lc 18, 9). Gesù si leva come il «segno di Giona» in mezzo ad una *generazione malvagia, meno ben disposta nei confronti di Dio di quanto lo fosse un tempo Ninive (Lc 11, 29-32 par.). Perciò egli pronuncia contro di essa una requisitoria piena di minacce: gli uomini di Ninive la condanneranno al momento del giudizio (Lc 11, 32); Tiro e Sidone avranno una sorte meno severa delle città del lago (Lc 10, 13 ss par.). Di fatto l’impenitenza attuale di Israele è il segno dell’*indurimento del suo cuore (Mt 13, 15 par.; cfr. Is 6, 10). Se non modificano la loro condotta, gli uditori impenitenti di Gesù periranno (Lc 13, 1- 5), ad immagine del fico *sterile (Lc 13, 6-9; cfr. Mt 21, 18-22 par.).
    2. Gesù, quando esige la conversione, non fa allusione alcuna alle liturgie penitenziali. Diffida persino dei segni troppo appariscenti (Mt 6, 16 ss). Ciò che conta è la conversione del cuore che a diventare come *bambini (Mt 18, 3 par.). È, in seguito, lo sforzo continuo per «cercare il regno di Dio e la sua *giustizia» (Mt 6, 33), cioè per regolare la propria vita secondo la nuova *legge. L’atto stesso della conversione è evocato in parabole molto espressive. Implica una volontà di cambiamento morale, ma è soprattutto umile appello, atto di fiducia: «Mio Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18, 13). La conversione è una *grazia dovuta all’iniziativa divina che previene sempre: è il *pastore che muove alla ricerca della pecora smarrita (Lc 15, 4 ss; cfr. 15, 8). La risposta umana a questa grazia è concretamente analizzata nella parabola del figliuol prodigo, che mette in sorprendente rilievo la *misericordia del padre (Lc 15, 11-32). Infatti il vangelo del regno comporta questa rivelazione sconcertante: «c’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza» (Lc 15, 7. 10). Anche Gesù riserva quindi ai peccatori un’accoglienza che scandalizza i farisei (Mt 9, 10-13 par.; Lc 15, 2), ma provoca conversioni; ed il vangelo di Luca si compiace nel riferire in modo particolareggiato taluni di questi ritorni, come quello della peccatrice (Lc 7, 36-50) e quello di Zaccheo (19, 5-9)
    III. CONVERSIONE E BATTESIMO
    Durante la sua vita Gesù aveva già mandato gli *apostoli a predicare la conversione annunziando il vangelo del regno (Mc 6, 12). Dopo la risurrezione rinnova loro questa *missione: essi andranno a predicare in suo nome la penitenza a tutte le nazioni in vista della remissione dei peccati (Lc 24, 47), perché i peccati saranno rimessi a coloro ai quali essi li rimetteranno (Gv 20, 23). Gli Atti e le Lettere fanno assistere all’esecuzione di quest’ordine. Ma la conversione assume tuttavia un aspetto diverso a seconda che si tratti di Giudei o di pagani.
    1. Ai Giudei si richiede anzitutto la conversione morale a cui già li chiamava Gesù. A questo ravvedimento (metànoia) Dio risponderà accordando il *perdono dei peccati (Atti 2, 38; 3, 19; 5, 3l); suo suggello sarà il ricevere il *battesimo ed il dono dello Spirito Santo (Atti 2, 38). Tuttavia, assieme ad un cambiamento morale, la conversione deve anche includere un atto positivo di *fede in Cristo: i Giudei si rivolgeranno (epistrèfein) verso il Signore (Atti 3, 19; 9, 35). Ora, secondo l’esperienza che ne fa Paolo, una simile adesione a Cristo è la cosa più difficile da ottenere. I Giudei hanno un velo sul cuore. Se si convertissero, il velo cadrebbe (2 Cor 3, 16). Ma, secondo il testo di Isaia (6, 9 s), il loro *indurimento li lega all’*incredulità (Atti 28, 24-27). Peccatori quanto i pagani, minacciati al pari di essi dall’*ira divina, non comprendono che Dio dimostra *pazienza per spingerli al pentimento (Rom 2, 4). Soltanto un *resto risponde alla predicazione apostolica (Rom 11, 1-5).
    2. Il vangelo trova un’accoglienza migliore presso le *nazioni pagane. Fin dal battesimo del centurione Cornelio, i cristiani di origine giudaica constatano con stupore che «il ravvedimento che porta alla vita è offerto ai pagani come ad essi» (Atti 11, 18; cfr. 17, 30). Di fatto esso è annunziato con successo ad Antiochia ed altrove (Atti 11, 21; 15, 3. 19); appunto questo è l’oggetto speciale della missione di Paolo (Atti 26, 18. 20). Ma contemporaneamente al ravvedimento morale (metànoia), la conversione esige in questo caso il distacco dagli *idoli per rivolgersi (epistrèfein) al Dio vivente (Atti 14, 15; 26, 18; 1 Tess 1, 9), secondo un tipo di conversione che già il Deutero-Isaia aveva di mira. Compiuto questo primo passo, i pagani al pari dei Giudei sono portati a «rivolgersi a Cristo, pastore e guardiano delle loro anime» (1 Piet 2, 25).
    IV. PECCATO E PENITENZA NELLA CHIESA
    1.
    L’atto di conversione suggellato dal battesimo è compiuto una volta per sempre; è impossibile rinnovarne la grazia (Ebr 6, 6). Ora i battezzati sono suscettibili di ricadere nel peccato: la comunità apostolica ne ha fatto ben presto l’esperienza. In questo caso il ravvedimento è ancora necessario se, nonostante tutto, si vuol partecipare alla salvezza. Pietro vi invita Simon Mago (Atti 8, 22). Giacomo sollecita i cristiani ferventi a ricondurre i peccatori dal loro traviamento (Giac 5, 19 s). Paolo si rallegra del fatto che i Corinti si sono pentiti (2 Cor 7, 9 s), pur temendo che taluni peccatori non l’abbiano fatto (12, 21). Sollecita Timoteo a correggere gli avversari, sperando che Dio accorderà loro la grazia del pentimento (2 Tim 2, 25). Infine, nei messaggi alle sette chiese che aprono l’Apocalisse, si leggono chiari inviti al ravvedimento che suppongono destinatari decaduti dal loro primitivo fervore (Apoc 2, 5. 16. 21 s; 3. 3. 19). Senza parlare esplicitamente del sacramento della penitenza, questi testi fanno vedere che la virtù della penitenza deve avere il suo posto nella vita cristiana, come prolungamento della conversione battesimale.
    2. Di fatto soltanto la penitenza prepara l’uomo ad affrontare il *giudizio di Dio (cfr. Atti 17, 30 s). Ora la storia è in cammino verso questo giudizio. Se la sua venuta sembra tardare, si è unicamente perché Dio «usa *pazienza, volendo che nessuno perisca e che tutti, se possibile, giungano al pentimento» (2 Piet 3, 9). Ma, come Israele si è indurito nella impenitenza al tempo di Cristo e di fronte alla predicazione apostolica, così, secondo l’Apocalisse, gli uomini si ostineranno a non comprendere il significato delle *calamità che impregnano la loro storia e che annunziano il *giorno dell’ira: anch’essi si induriranno nella impenitenza (Apoc 9, 20 s), *bestemmiando il nome di Dio invece di pentirsi e di rendergli gloria (16, 9. 11). Non sono in causa i membri della Chiesa, ma soltanto i pagani ed i rinnegati (cfr. 21, 8). Cupa prospettiva, che il giudizio di Dio verrà a chiudere. È quindi urgente che, mediante la penitenza, i cristiani «si salvino da questa *generazione perversa» (Atti 2, 40).
    I. GIBLET e P. GRELOT
    → battesimo II, IV 3 - castighi 2.3 - cenere - cercare I, II - confessione VT 2; NT 2 - cuore I 3 - deserto VT II 1 - desiderio III - digiuno - empio VT 3; NT - Giovanni Battista 1 - indurimento II 2 - ira B VT III 2 - misericordia VT I 2 c - morte VT III 2 - peccato III 3, IV 1 a - perdono - predicare I 1 - responsabilità 5 - sonno III 1 - tristezza VT 3.


    PENSIERI (inizio)

    → cuore 0 - disegno di Dio VT IV - reni 2 - volontà di Dio VT I 2 b.

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