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Dando la vita, la
madre occupa un posto speciale nell’esistenza ordinaria degli uomini ed anche
nella storia della salvezza.
I. LA MADRE DEGLI UOMINI
Colei che dà la vita deve essere amata, ma l’amore che le si porta deve
anche essere trasfigurato, talvolta fino al sacrificio, sull’esempio di ciò che
fece Gesù.
1. L’appello alla fecondità.
- Adamo, chiamando «Eva» la sua donna, ne indicava la vocazione ad essere «la
madre dei viventi» (Gen 3, 20). La Genesi racconta in seguito come questa
vocazione si compie, e a volte nonostante le circostanze più sfavorevoli. Così
Sara ricorre ad uno stratagemma (16 1 s), le figlie di Lot ad un incesto (19,
30-38), Rachele al ricatto: «Dammi dei figli, oppure muoio», grida al proprio
marito; ma Giacobbe confessa che non può mettersi al posto di Dio (30, 1 s). Di
fatto Dio solo, che ha posto nel cuore della donna il desiderio imperioso di
essere madre, è colui che apre e chiude il seno materno: egli solo può trionfare
della *sterilità (1 Sam 1, 2 - 2, 5).
2. La madre al focolare.
- La donna, divenuta madre, esulta. Eva giubila al suo primo parto: «Ho
acquistato un uomo con il favore di Jahvè» (Gen 4, 1), giubilo che perpetuerà il
*nome di Caino (dall’ebr. qanah: «acquistare»). Così pure «Isacco» ricorda il
riso di Sara al momento di questa nascita (Gen 21, 6), e «Giuseppe» la speranza
che Rachele ha di avere ancora un altro figlio (30, 24). Con la sua maternità,
la donna non entra soltanto nella storia della vita, ma suscita nel suo sposo un
attaccamento più forte (Gen 29, 34). Infine, come proclama il decalogo, essa
deve essere rispettata dai figli, al pari del padre (Es 20, 12): le mancanze nei
suoi riguardi meritano lo stesso castigo (Es 21, 17; Lev 20, 9; Deut 21, 18-21).
I sapienziali, a loro volta, insistono sul dovere del rispetto verso la madre (Prov
19, 26; 20, 20; 23, 22; Eccli 3, 1-16), aggiungendo che la si deve ascoltare e
seguirne le istruzioni (Prov 1, 8).
3. La regina-madre.
- Una posizione speciale sembra competere alla madre del *re che sola, a
differenza della sposa, fruisce di un onore particolare presso il principe
regnante. Era chiamata la «grande signora», come Betsabea (1 Re 15, 13 e 2, 19)
o la madre del re Asa (2 Cron 15, 16)od Atalia (2 Re 11, 1 s). Quest’uso
potrebbe illuminare l’apparizione della maternità nella cornice del messianismo
regale; e non è senza interesse segnalare la funzione della madre di Gesù,
divenuta nella pietà «Nostra Signora».
4. Il senso profondo della maternità.
- Con la venuta di Cristo, il dovere della pietà filiale non è soppresso, ma
perfezionato: la catechesi apostolica lo conserva nettamente (Col 3, 20 s; Ef 6,
1- 4); Gesù lancia fulmini contro i farisei che lo eludono sotto vani pretesti
cultuali (Mt 15, 4-9 par.). Ma ormai, per amore verso Gesù, bisogna saper
superare la *pietà filiale, perfezionandola con la pietà verso Dio stesso. Egli
è venuto «a separare la figlia dalla madre» (Mt 10, 35), e promette il centuplo
a chi avrà lasciato per lui il padre o la madre (Mt 19, 29). Per essere degni di
lui, bisogna essere capaci di «*odiare il padre e la madre» (Lc 14, 26), cioè di
amare Gesù più dei genitori (Mt 10, 37). Gesù stesso dà l’esempio di questo
sacrificio dei legami materni. Nel tempio, a dodici anni, rivendica nei
confronti della madre il diritto di occuparsi delle cose del Padre suo (Lc 2, 49
s). A Cana, pur accordando infine ciò che la madre domanda, Gesù le fa
comprendere che essa non deve più intervenire presso di lui, sia perché 1’*ora
del suo ministero pubblico è suonata, sia perché l’ora della croce non è ancora
venuta (Gv 2, 4). Ma se Gesù in tal modo stabilisce le distanze nei confronti
della madre non lo fa perché disconosca la vera grandezza di *Maria; al
contrario, la rivela nella fede che manifesta. «Chi è mia madre e chi sono i
miei fratelli?», ed indica con la mano i suoi discepoli (Mt 12, 48 ss); alla
donna, che ammirava la maternità carnale di Maria, fa capire che essa è la
fedele per eccellenza, ascoltando la parola di Dio e mettendola in pratica (Lc
11, 27 s). Gesù estende questa maternità di ordine spirituale a tutti i suoi
discepoli quando, dall’alto della croce, dirà a colui che ama: «Ecco la tua
madre» (Gv 19, 26 s).
II. LA MADRE NELLA STORIA DELLA SALVEZZA
Le caratteristiche della madre vengono usate metaforicamente per esprimere un
atteggiamento divino, o una realtà d’ordine messianico, o ancora la fecondità
della Chiesa.
1. Tenerezza e sapienza divina.
- In Dio c’è una tale pienezza di *vita che Israele gli dà i nomi di *padre e di
madre. Per esprimere la *misericordiosa *tenerezza di Dio, si usa rahamim che
designa le viscere materne ed evoca la commozione viscerale che la donna prova
per i suoi figli (Sal 25, 6; 116, 5). Come una madre, Dio ci consola (Is 66,
13), e quand’anche se ne trovasse una che dimenticasse il figlio delle sue
viscere, egli non dimenticherà mai Israele (49, 15) come Gesù che voleva
radunare i figli di Gerusalemme (Lc 13, 34). La *sapienza, che è la *parola di
Dio incaricata di compiere i suoi disegni (Sap 18, 14 s) uscendo dalla sua
stessa bocca (Eccli 24, 3), si rivolge ai suoi figli come una madre (Prov 8 -
9), raccomandando loro le sue istruzioni, nutrendoli col *pane
dell’intelligenza, dissetandoli con la sua *acqua (Eccli 15, 2 ss). I suoi figli
le renderanno giustizia (Lc 7, 35), riconoscendo in Gesù colui che svolge la sua
funzione: «Chi viene a me, non avrà mai fame, chi crede in me, non avrà mai
sete» (Gv 6, 35; cfr. 8, 47).
2. La madre del messia.
- Già il protovangelo annunzia che la donna, la cui posterità schiaccerà la
testa del serpente, è madre (Gen 3, 15). Poi, nei racconti in cui si vede Dio
trionfare della *sterilità, le donne che hanno dato ai patriarchi una posterità
prefigurano da lungi la *verginemadre. Questa concezione verginale è annunciata
nelle profezie dell’Emmanuel (Is 7, 14) e di colei che deve partorire (Mi 5, 2);
in ogni caso gli evangelisti vi hanno riconosciuto la profezia compiuta in Gesù
Cristo (Mt 1, 23; Lc 1, 35 s).
3. La madre dei popoli.
- *Gerusalemme è la città-madre per eccellenza (cfr. 2 Sam 20, 19),
quella da cui gli abitanti traggono nutrimento e protezione. Da essa soprattutto
derivano la *giustizia e la *conoscenza di Jahvè. Come Rebecca, alla quale si
augura di moltiplicarsi in migliaia di miriadi (Gen 24, 60), essa diventerà la
madre di tutti i *popoli: «A Sion ognuno dice: “Madre”, perché in essa ognuno è
nato» (Sal 87, 5), sia che appartengano ad Israele oppure alle *nazioni. Dopo il
castigo che l’ha allontanata dal suo sposo, eccola nuovamente felice: «Lancia
grida di gioia, o sterile che non partorivi... perché sono più numerosi i figli
della derelitta che i figli di colei che ha uno sposo» (Is 54, 1; Gal 4, 22-30).
Verso di essa si slanciano «come colombe verso il loro colombaio» tutti i popoli
della terra (Is 2, 1-5; 60, 1-8). Ma Gerusalemme, ripiegandosi su se stessa,
rigettando Cristo, è stata infedele a questa maternità spirituale (Lc 19,
41-44), ed i suoi figli potranno rivolgersi contro di essa per rimproverarglielo
(cfr. Os 2, 4). Perciò essa sarà soppiantata da un’altra Gerusalemme, quella di
lassù che è veramente la nostra madre (Gal 4, 26), che discende dal cielo, da
presso Dio (Apoc 21, 2). Questa nuova città è la Chiesa che genera i suoi figli
alla vita di figli di Dio; è anche ogni comunità cristiana in particolare (2 Gv
1). Essa è destinata a dare a Cristo la *pienezza del suo *corpo, ed a radunare
nell’Israele spirituale tutti i popoli (Ef 4, 13). Partecipando a questa
maternità, gli apostoli sono gli strumenti di questa fecondità, piena di gioia
attraverso il dolore (cfr. Gv 16, 20 ss). Paolo dice ai suoi cari Galati che li
partorisce fino a che Cristo sia formato in essi (Gal 4, 19), e ricorda ai
Tessalonicesi che li ha circondati di cure come una madre che nutre i suoi figli
(1 Tess 2, 7 s). Ma questa maternità non ha valore se non in virtù di quella
della *donna che è continuamente nei dolori e nella gioia del parto, figura
dietro la quale si profilano tutte le madri, - da Eva, madre dei viventi, alla
Chiesa, madre dei credenti, passando attraverso la madre di Gesù, Maria, madre
nostra (Apoc 12 ).
A. NÉGRIER e X. LÉON-DUFOUR
→ Chiesa VI - donna - educazione I 1 - fecondità - Gerusalemme VT III 3
- latte 1 - Maria III - misericordia 0 - Spososposa - sterilità - tenerezza -
verginità NT 2.
→ autorità - discepolo - educazione - insegnare - obbedienza - Signore.
l. Magia
e maghi.
- Di fronte a un mondo che lo schiaccia, a degli esseri che gli
incutono paura o che desidera dominare, l’uomo cerca di acquisire un potere che
oltrepassi le sue sole forze e che lo renda padrone della divinità, e per ciò
stesso del proprio destino. Se i metodi oggi sono mutati, la tendenza e il
desiderio di dominare l’ignoto rimangono radicati nel cuore dell’uomo e portano
a pratiche analoghe. Divinazione (ebr. qsm: Ez 31, 26) e stregoneria (ebr. ksf:
Mi 5, 11; Nah 3, 4; gr. farmakìa: Deut 18, 10; cfr. Sap 12, 4; Apoc 18, 23),
ecco 1’«arte magica» (magikè tèchne: Sap 17, 7), da non confondere con la
scienza astrologica dei «magi» (Mt 2, 1-12). Alla pratica magica si ricollegano
gli incantesimi (Sal 58, 6; Ger 8, 17; Eccle 10, 11), l’uso dei nodi e dei
legami (Ez 13, 17-23), il «malocchio» che incanta (Sap 4, 12; cfr. 2, 24; Gal 3,
1), ecc. Ebrei e Giudei sono stati in contatto con gli Egiziani e i Caldei,
maghi (Es 7 - 9; Is 47, 12 s), indovini (Gen 41, 8. 24; Is 44, 25) sapienti e
stregoni (Es 7, 11): la magia è attestata in tutti i paesi, Israele compreso. Un
caso tipico viene raccontato diffusamente: quello della pitonessa di Endor, che
evoca i mani di Samuele per annunciare a Saul la sua tragica morte (1 Sam 28,
3-25). Si segnalano inoltre i sortilegi di Gezabele (2 Re 9, 22), le pratiche
superstiziose dei re Achaz (16, 3) e Manasse (21, 6), che Giosia combatte (23,
24). In genere i fatti vengono riferiti per dimostrare la superiorità di Jahvè,
o, più tardi, del Signore. Gesù sulle forze oscure che la magia e la divinazione
si sforzano di mobilitare.
2. Lotta contro la magia.
- Con questo infatti, vengono promulgate delle leggi e tramandati dei
ricordi che portano a conoscenza il giudizio della rivelazione divina su questo
punto importante.
a) Interdetti. - I tre grandi codici mosaici
proibiscono la magia sotto pena di morte (Lev 19; Deut 18; Es 23). Si
proibiscono a questo scopo pratiche come gli intrugli magici (Deut 22, 5. 11;
Lev 19, 19), per esempio il rito cananeo consistente nel far cuocere un capretto
nel latte di sua madre (Es 23, 19; 34, 26; Deut 14, 21). Vengono respinti con
abbominio i sacrifici di bambini (Deut 18), soprattutto nei riti di fondazione
(1 Re 16, 34), di preservazione (2 Re 3, 27) o di iniziazione (Sap 12, 3 ss).
Infine sono molti gli interdetti riguardanti il *sangue, perché bere il sangue
significherebbe appropriarsi della potenza vitale riservata a Dio solo (Gen 9,
4; Lev 3, 17; Atti 15, 29). Queste pratiche vengono puramente e semplicemente
associate all’*idolatria (Gal 5, 20; Apoc 21, 8).
b) In molti racconti, i maghi vengono confusi in virtù
della potenza divina. Così Giuseppe trionfa degli indovini (Gen 41), Mosè dei
maghi d’Egitto (Es 7, 10-13. 19-23; 8, 1-3. 12-15; 9, 8-12). Balaam è costretto
con la sua asina a servire Jahvè e il popolo ebraico (Num 22, 24). Daniele
confonde i saggi caldei (Dan 2; 4; 5; 14). Narrazioni analoghe, che si
propongono di edificare partendo da qualche ricordo e servendosi eventualmente
anche di apporti leggendari, come quelle riguardanti Jannes e Jambres (2 Tim 3,
8), si trovano anche nel NT: Simon mago si rivolge umilmente a Pietro (Atti 8,
9-24), Bar-Jesus-Elimas è ridotto al silenzio da Paolo (13, 6-11), come pure la
pitonessa di Filippi (16, 16 ss) o gli esorcisti giudei di Efeso (19, 13-20).
Sta di fatto che i *miracoli e le *profezie consentono di far a meno delle
pratiche magiche, perché rendono Dio presente in modo certo (Deut 18, 9-22; cfr.
Num 23, 23); viceversa, gli stregoni sviano dal servizio del vero Dio (Deut 13,
2-6), i fabbricanti di prodigi falsificano la dottrina (Mt 24, 34; Apoc 16,
12-16...). Così i profeti lottano vigorosamente contro i maghi delle nazioni (Is
19, 1 ss; 44, 25; 47, 12 s; Ger 27, 9; Ez 21, 34). La tentazione della magia è
grande, e in certo qual modo Gesù ha voluto subirla. Satana lo invita a servirsi
dei poteri divini per saziare la fame e sbalordire i Giudei; ma Gesù si rifiuta
di ricevere da lui il potere sul mondo: «Adorerai il Signore tuo Dio e a lui
solo renderai un culto» (Mt 4, 1-11).
c) Pratiche magiche e rituale. - È certo che il
rituale del VT ha desunto certe pratiche, in origine magiche, però
purificandole: era un modo per subordinarle al culto del vero Dio. Perciò,
mentre viene interdetto l’uso profano del sangue, il sacerdote, in nome di Dio,
compie con il sangue i riti della *espiazione (Lev 17, 11) e dell’*alleanza (Es
24, 8); il sangue deve coprire la voce dei peccati che gridano a Dio (Ger 17, 1;
Lev 4). Ripreso in questo nuovo contesto, il rito ha cambiato significato.
Tuttavia, se un rito diventa superstizioso, alla fine viene abolito: si
distrugge il serpente di bronzo divenuto oggetto di culto idolatrico (2 Re 18,
4). L’uso stesso del *nome divino, inizialmente lasciato a tutto il popolo
(perché, a differenza degli dèi egiziani, Jahvè non teme l’influenza degli
stregoni), finisce per essere riservato al sacerdote (Num 6, 27). È noto
attraverso i papiri greci d’Egitto che gli antichi maghi non esitavano a farne
uso, pronunciando così il nome di Dio invano (cfr. Es 20, 7 LXX). L’uomo, creato
libero e padrone di scegliere Dio, da Dio riceve pure il dominio sul mondo; non
ha bisogno quindi di ricorrere alla magia, quest’arte ibrida che cerca di
fondere artificiosamente religione e scienza esoterica, ma non riesce che a
parodiare la natura e a corrompere gli effetti della fede.
X- LÉON-DUFOUR
→ Egitto 1 - idoli - malattia-guarigione 0; VT II 1 - miracolo I 2 a, II 1 -
mistero 0 - morte VT I 3 - nome VT 4 - parola umana 1 - potenza III 2 -
rivelazione VT I 1 - segno VT II 3; NT II 4.
MALATTIA - GUARIGIONE (inizio)
La malattia, con
il suo corteo di sofferenze, pone un problema agli uomini di tutti i tempi. La
loro risposta dipende dall’idea che essi si fanno del mondo in cui vivono e
delle forze che li dominano. Nell’Oriente antico si considerava la malattia come
un flagello causato da spiriti malefici o mandato da divinità irritate da una
colpa cultuale. Per ottenere la guarigione si praticavano esorcismi destinati a
scacciare i *demoni, e si implorava il perdono degli dèi mediante suppliche e
sacrifici; la letteratura babilonese conserva formulari delle due specie. Perciò
la medicina dipendeva innanzitutto dai sacerdoti; per una parte, rimaneva vicina
alla *magia. Bisognerà attendere lo spirito osservatore dei Greci per vederla
svilupparsi in modo autonomo come una scienza positiva. Partendo da questo stato
di cose, la rivelazione biblica lascia da parte l’aspetto scientifico del
problema; considera esclusivamente il significato religioso della malattia e
della guarigione nel disegno di salvezza. Tanto più che attraverso la malattia
si manifesta già il potere della *morte sull’uomo (cfr. 1 Cor 11, 28-32); deve
quindi avere un significato analogo.
VECCHIO TESTAMENTO
I. LA MALATTIA
1. La salute suppone una pienezza di forza vitale; la malattia
è concepita innanzitutto come uno stato di debolezza e di fiaccbezza (Sal 38,
11). Al di là di questa constatazione empirica, le osservazioni mediche sono
molto sommarie; si limitano a ciò che si vede: affezioni della pelle, ferite e
fratture, febbre ed agitazione (così nei salmi di ammalati: Sal 6; 32; 38; 39;
88; 102). La classificazione delle diverse affezioni rimane vaga (ad es. per la
*lebbra). Le cause naturali non sono neppur ricercate, ad eccezione di quelle
che sono ovvie: le ferite, una caduta (2 Sam 4, 4), la *vecchiaia, di cui
Qohelet descrive con tetro umorismo la decadenza (Eccle 12, 1-6; cfr. Gen 27, 1;
1 Re 1, 1-4; e per contrasto Deut 34, 7). Di fatto, per l’uomo religioso
l’essenziale è altrove: che significa la malattia per colui che ne è colpito?
2. In un mondo in cui tutto dipende dalla causalità divina, la
malattia non fa eccezione; è impossibile non vedervi una percossa di Dio che
colpisce l’uomo (Es 4, 6; Giob 16, 12 ss; 19, 21; Sal 39, 11 s). Sempre in
dipendenza da Dio, vi si può riconoscere anche l’intervento di esseri superiori
all’uomo: l’*angelo sterminatore (2 Sam 24, 15 ss; 2 Re 19, 35; cfr. Es 12, 23),
i flagelli personificati (Sal 91, 5 s), *Satana (Giob 2, 7)... Nel giudaismo
postesilico l’attenzione si rivolgerà sempre più all’azione dei *demoni, spiriti
malefici, di cui la malattia permette di intravedere l’influsso sul mondo in cui
viviamo. Ma perché questo influsso diabolico, perché questa presenza del male
quaggiù, se Dio è il padrone assoluto?
3. Con un movimento spontaneo il senso religioso dell’uomo
stabilisce un legame tra la malattia ed il *peccato. La rivelazione biblica non
vi contraddice; precisa soltanto le condizioni in cui questo legame dev’essere
inteso. Dio ha creato l’uomo per la felicità (cfr. Gen 2). La malattia, come
tutti gli altri mali umani, è contraria a questa intenzione profonda; non è
entrata nel mondo se non come una conseguenza del peccato (cfr. Gen 3, 16-19). È
uno dei segni dell’*ira di Dio contro un mondo peccatore (cfr. Es 9, 1-12).
Comporta in particolare questo significato nella cornice della dottrina
dell’*alleanza: è una delle maledizioni principali che colpiranno il popolo di
Dio infedele (Deut 28, 21 s. 27 ss. 35). L’esperienza della malattia deve quindi
avere il risultato di affinare nell’uomo la coscienza del peccato. Si constata
effettivamente che ciò avviene nei salmi di supplica: la domanda di guarigione è
sempre accompagnata da una confessione delle colpe (Sal 38, 2-6; 39, 9-12; 107,
17). Si pone tuttavia la questione di sapere se ogni malattia ha come causa i
peccati personali di colui che ne è colpito. Qui la dottrina è più imprecisa. Il
ricorso al principio della responsabilità collettiva non fornisce che una
risposta insufficiente (cfr. Gv 9, 2). Il VT non intravede soluzione se non in
due direzioni. La malattia, quando talvolta colpisce i giusti, come Giobbe o
Tobia, può essere una prova provvidenziale destinata a dimostrare la loro
fedeltà (Tob 12, 13). Nel caso del giusto sofferente per eccellenza, il *servo
di Jahvè, essa assumerà un valore di *espiazione per le colpe dei peccatori (Is
53, 4 s).
II. LA GUARIGIONE
1. Il VT non vieta affatto il ricorso alle pratiche mediche:
Isaia le usa per guarire Ezechia (2 Re 20, 7), e Raffaele per curare Tobia (Tob
11, 8. 11 s). L’uso di taluni rimedi semplici è corrente (cfr. Is 1, 6; Ger 8,
22; Sap 7, 20) ed il Siracide fa anche un bell’elogio della professione medica (Eccli
38, 1-8. 12 s). Ciò che è vietato, sono le pratiche magiche legate ai culti
idolatrici (2 Re 1, 1-4), che contaminano sovente la stessa medicina (cfr. 2
Cron 16, 12).
2. Ma bisogna ricorrere soprattutto a Dio, perché egli è il
padrone della vita (Eccli 38, 9 ss. 14). È lui che colpisce e che guarisce (Deut
32, 39; cfr. Os 6, 1). Egli è il medico per eccellenza dell’uomo (Es 15, 26):
così l’angelo inviato per guarire Sara si chiama Raffaele (= «Dio guarisce») (Tob
3, 17). Gli ammalati si rivolgono perciò ai suoi rappresentanti, i sacerdoti (Lev
13, 49 ss; 14, 2 ss; cfr. Mt 8, 4) ed i profeti (1 Re 14, 1-13; 2 Re 4, 21; 8, 7
ss). *Confessando umilmente i loro peccati, implorano la guarigione come una
*grazia. Il salterio li presenta che espongono la loro miseria, implorano
l’aiuto di Dio, supplicano la sua onnipotenza e la sua misericordia (Sal 6; 38;
41; 88; 102...). Mediante la fiducia in lui si preparano a ricevere il favore
richiesto, che talvolta giunge loro sotto la forma di un *miracolo (1 Re 17,
17-24; 2 Re 4, 18-37; 5). In ogni modo esso ha valore di segno: Dio si è chinato
sull’umanità sofferente per alleviarne i mali.
3. Infatti la malattia, anche se ha un senso, rimane un male.
Perciò le promesse escatologiche. dei profeti prevedono la sua soppressione nel
mondo *nuovo in cui Dio porrà i suoi negli ultimi *tempi: non più infermi (Is
35, 5 s), non più sofferenza né lacrime (25, 8; 65, 19)... In un mondo liberato
dal peccato devono scomparire le conseguenze del peccato che pesano solidalmente
sulla nostra razza. Quando il *giusto sofferente avrà su di sé le nostre
malattie, noi saremo guariti in virtù delle sue piaghe (53, 4 s).
NUOVO TESTAMENTO
I. GESÙ DINANZI ALLA MALATTIA
1. Durante il suo ministero, Gesù trova ammalati sulla sua strada.
Senza interpretare la malattia in una prospettiva di retribuzione troppo stretta
(cfr. Gv 9, 2 s), egli vede in essa un male di cui soffrono gli uomini, una
conseguenza del peccato, un segno del potere di *Satana sugli uomini (Lc 13,
16). Ne prova pietà (Mt 20, 34), e questa pietà guida la sua azione. Senza
soffermarsi a distinguere ciò che è malattia naturale da ciò che è possessione
diabolica, «egli scaccia gli spiriti e guarisce coloro che sono ammalati» (Mt 8,
16 par.). Le due cose vanno di pari passo. Manifestano entrambe la sua potenza
(cfr. Lc 6, 19) ed hanno infine lo stesso senso: significano il trionfo di Gesù
su Satana e la instaurazione del *regno di Dio in terra, conformemente alle
Scritture (cfr. Mt 11, 5 par.). Non già che la malattia debba ormai sparire dal
mondo, ma la forza divina che infine la vincerà è fin d’ora in azione quaggiù.
Perciò, dinanzi a tutti gli ammalati che gli esprimono la loro fiducia (Mc 1,
40; Mt 8, 2-6 par.), Gesù non manifesta che una esigenza: credere, perché tutto
è possibile alla *fede (Mt 9, 28; Mc 5, 36 par.; 9, 23). La loro fede in lui
implica la fede nel *regno di Dio, ed è questa fede a salvarli (Mt 9, 22 par.;
15, 28; Mc 10, 52 par.).
2. I *miracoli di guarigione sono quindi in qualche misura
un’anticipazione dello stato di perfezione che l’umanità ritroverà infine nel
regno di Dio, conformemente alle profezie. Ma hanno pure un *significato
simbolico relativo al tempo attuale. La malattia è un simbolo della stato in cui
si trova l’uomo peccatore: spiritualmente, egli è cieco, sordo, paralitico...
Quindi la guarigione del malato è anche un simbolo: rappresenta la guarigione
spirituale che Gesù viene ad operare negli uomini. Egli rimette i peccati del
paralitico e, per dimostrare che ne ha il potere, lo guarisce (Mc 2, 1-12 par.).
Questa portata dei miracoli-segni è messa in rilievo soprattutto nel quarto
vangelo: la guarigione del paralitico di Bezatha significa l’opera di
vivificazione compiuta da Gesù (Gv 5, 1-9. 19-26), e quella del cieco nato fa
vedere in lui la *luce del mondo (Gv 9). I gesti che Gesù compie sugli ammalati
preludono così ai sacramenti cristiani. Egli infatti è venuto quaggiù come il
medico dei peccatori (Mc 2, 17 par.), un medico che, per togliere le infermità e
le malattie, le prende su di sé (Mt 8, 17 = Is 53, 4). Tale sarà di fatto il
senso della sua passione: Gesù parteciperà alla condizione dell’umanità
sofferente, per poter trionfare infine dei suoi mali.
II. GLI APOSTOLI E LA CHIESA DINANZI ALLA MALATTIA
1. Il segno del regno di Dio, costituito dalle guarigioni miracolose,
non è rimasto confinato nella vita terrena di Gesù. Egli aveva associato i suoi
apostoli, sin dalla loro prima missione, al suo potere di guarire le malattie
(Mt 10, 1). Al momento della missione definitiva promette loro una realizzazione
continua di questo segno per accreditare l’annunzio del vangelo (Mc 16, 17 s).
Perciò gli Atti notano a più riprese le guarigioni miracolose (Atti 3, 1 ss; 8,
7; 9, 32 ss; 14, 8 ss; 28, 8 s) che mostrano la potenza del *nome di Gesù e la
realtà della sua risurrezione. Così pure Paolo, tra i *carismi, ricorda quello
di guarigione (1 Cor 12, 9. 28. 30): questo segno permanente continua ad
accreditare la Chiesa di Gesù facendo vedere che lo Spirito Santo agisce in
essa. Tuttavia la grazia di Dio viene ordinariamente agli ammalati in un modo
meno spettacolare. Riprendendo un gesto degli apostoli (Mc 6, 13), i
«presbiteri» della Chiesa compiono su di essi, che pregano con fede e confessano
i loro peccati, *unzioni con olio nel nome del Signore; questa preghiera li
salva, perché i peccati sono loro rimessi ed essi possono sperare, se così piace
a Dio, la guarigione (Giac 5, 14 ss).
2. Questa guarigione non avviene tuttavia in modo infallibile,
come se fosse l’effetto magico della preghiera o del rito. Finché dura il mondo
presente, l’umanità deve continuare a portare le conseguenze del peccato. Ma
«prendendo su di sé le nostre malattie» al momento della sua passione, Gesù ha
dato loro un nuovo senso: come ogni sofferenza, esse hanno ormai un valore di
*redenzione. Paolo, che ne ha fatto l’esperienza a più riprese (Gal 4, 13; 2 Cor
1, 8 ss; 12, 7- 10), si sa che esse uniscono l’uomo a Cristo sofferente:
«Portiamo nei nostri corpi le sofferenze di morte di Gesù, affinché la vita di
Gesù sia anch’essa manifestata nel nostro corpo» (2 Cor 4, 10). Mentre Giobbe
non arrivava a comprendere il senso della sua prova, il cristiano si rallegra di
«completare nella sua carne ciò che manca alle prove di Cristo per il suo corpo,
che è la Chiesa» (Col 1, 24). Nell’attesa che giunga questo ritorno al *paradiso
dove gli uomini saranno guariti per sempre dai frutti dell’*albero della vita (Apoc
22, 2; cfr. Ez 47, 12), la malattia stessa è inserita, come la *sofferenza e
come la *morte, nell’ordine della *salvezza. Non che essa sia facile da portare:
rimane una *prova, ed è carità aiutare il malato a sopportarla, visitandolo e
consolandolo. «Portate le malattie di tutti», consiglia Ignazio di Antiochia. Ma
servire gli ammalati significa servire Gesù stesso nelle sue membra sofferenti:
«Ero ammalato e mi avete visitato», dirà nel giorno del giudizio (Mt 25, 36). Il
malato, nel mondo cristiano, non è più un maledetto dal quale ci si scosta (cfr.
Sal 38, 12; 41, 6-10; 88, 9); è l’immagine ed il segno di Cristo Gesù.
J. GIBLET e P. GRELOT
→ bene e male I 1 - calamità - demoni VT 1; NT 1 - imposizione delle mani NT -
lebbra - miracolo II 2 b - morte VT I 5 - olio - salvezza - sofferenza - unzione
II 1 - vecchiaia 1 - vita IV 1.
MALDICENZA (inizio)
→ labbra 1 - lingua 1 – parola umana I.
→ bene e male.
In ebraico, il
vocabolario della maledizione è ricco; esprime le reazioni violente di
temperamenti passionali: si maledice nell’ira (z`m), umiliando (‘rr),
disprezzando (qll), esecrando (qbb), giurando (‘lh). La Bibbia greca si ispira
soprattutto alla radice ara, che designa la preghiera, il voto, l’imprecazione,
ed evoca piuttosto il ricorso ad una forza superiore contro ciò che si maledice.
La maledizione chiama in gioco forze profonde, che trascendono l’uomo;
attraverso la potenza della parola pronunziata, che sembra sviluppare
automaticamente i suoi effetti funesti, la maledizione evoca la potenza
terribile del male e del *peccato, l’inesorabile logica che conduce dal male
alla sventura. Perciò la maledizione, nella sua forma piena, comporta due
termini strettamente legati: la causa o la condizione, che produce l’effetto:
«Perché hai fatto questo (se fai questo)... incorrerai in questa sventura». Non
si può maledire alla leggera, senza correre il rischio di scatenare sulla
propria persona la maledizione che s’invoca (cfr. Sal 109, 17). Per maledire
qualcuno, bisogna avere un *diritto sul suo essere profondo, quello
dell’autorità legale o paterna, quello della miseria o dell’ingiusta oppressione
(Sal 137, 8 s; cfr. Giob 31, 20. 38 s; Giac 5, 4), quello di Dio.
I. LA PREISTORIA: MALEDIZIONE SUL MONDO
La maledizione è presente sin dalle origini (Gen 3, 14. 17), ma in
contrappunto, poiché il motivo primario è la benedizione (1, 22. 28). La
maledizione è come l’eco invertita della *benedizione per eccellenza che è la
*parola creatrice di Dio. Quando il Verbo, luce, verità, vita, colpisce il
principe delle tenebre, padre della menzogna e della morte, la benedizione che
apporta rivela il rifiuto criminoso di *Satana e si cambia, a questo contatto,
in maledizione. Il peccato è un male che la parola non crea ma rivela e di cui
porta a compimento la sventura: la maledizione è già un *giudizio. Dio benedice
perché è il *Dio vivente, la fonte di *vita (Ger 2, 13). Il tentatore che lo
calunnia (Gen 3, 4 s) e trascina l’uomo nel suo peccato, lo trascina pure nella
sua maledizione: invece della *presenza divina, ecco l’esilio lontano da Dio (Gen
3, 23 s) e dalla sua *gloria (Rom 3, 23); invece della vita, ecco la *morte (Gen
3, 19). Tuttavia soltanto il grande responsabile, il demonio (Sap 2, 24), è
maledetto «per sempre» (Gen 3, 14 s). La donna continuerà a partorire, la terra
a produrre; la benedizione originale su ogni fecondità (3, 16-20) non viene
annullata, ma la maledizione stende su di lei, come un’ombra, *sofferenza,
*fatica e pena, agonia; la vita rimane la più forte, presagio della sconfitta
finale del maledetto (3, 15). Da Adamo ad Abramo, la maledizione si estende:
morte di cui l’uomo stesso diventa l’autore (Gen 4, 11; sul nesso maledizione
*sangue cfr. 4, 23 s; 9, 4 ss; Mt 27, 25); corruzione che sfocia nella
distruzione (Gen 6, 5-12) del *diluvio, dove l’*acqua, vita primordiale, diventa
abisso di morte. Tuttavia, nel bel mezzo della maledizione, Dio manda la sua
*consolazione, Noè, *primizia di una nuova umanità, cui la benedizione è
promessa per sempre (8, 17-22; 9, 1-17; 1 Piet 3, 20).
II. I PATRIARCHI: MALEDIZIONE SUI NEMICI DI ISRAELE
Mentre la maledizione distrugge *Babele e *disperde gli uomini collegati contro
Dio (Gen 11, 7), Dio suscita *Abramo per radunare tutti i popoli attorno a lui
ed alla sua discendenza, per loro benedizione o maledizione (12, 1 ss). Mentre
la benedizione strappa la stirpe eletta alla duplice maledizione del seno
*sterile (15, 5 s; 30, 1 s) e della *terra ostile (27, 27 s; 49, 11 s. 22-26),
la maledizione, che gli avversari della razza eletta chiamano su di sé, li
rigetta «lontano dalle pingui regioni... e dalla rugiada che cade dal cielo»
(27, 39); la maledizione diventa riprovazione, esclusione dall’unica
benedizione. «Maledetto chi ti maledice!»: il faraone (Es 12, 29-32), poi Balak
(Num 24, 9) ne fanno l’esperienza. Per colmo di ironia il faraone è ridotto a
supplicare i figli di Israele «ad invocare su di [lui] la benedizione» del loro
Dio (Es 12, 32).
III. LA LEGGE: MALEDIZIONE SU ISRAELE COLPEVOLE
Più progredisce la benedizione, più si rivela la maledizione.
1. La *legge svela a poco a poco il peccato (Rom 7, 7-13)
proclamando, accanto alle esigenze ed ai divieti, le conseguenze fatali della
loro violazione. Dal codice dell’alleanza alle liturgie grandiose del
Deuteronomio, le minacce di maledizione acquistano sempre maggior precisione ed
ampiezza tragica (Es 23, 21; Gios 24, 20; Deut 28; cfr. Lev 26, 14-39). La
benedizione è un mistero di *elezione, la maledizione è un mistero di rigetto:
gli eletti indegni sembrano respinti da una scelta (1 Sam 15, 23; 2 Re 17,
17-23; 21, 10-15) che tuttavia li concerne sempre (Am 3, 2).
2. I profeti, testimoni dell’*indurimento di Israele (Is 6, 9
s; Ab 2, 6-20), del suo accecamento dinanzi alla sventura imminente (Am 9, 10;
Is 28, 15; Mi 3, 11; cfr. Mt 3, 8 ss), sono costretti ad annunziare «la violenza
e la rovina» (Ger 20, 8), a ritornare continuamente al linguaggio della
maledizione (Am 2, 1-16; Os 4, 6; Is 9, 7 - 10, 4; Ger 23, 13 ss; Ez 11, 1-12.
13-21), a vederla colpire tutto Israele senza risparmiare nulla né nessuno: i
sacerdoti (Is 28, 7-13), i falsi profeti (Ez 13), i cattivi pastori (Ez 34,
1-10), il paese (Mi 1, 8-16), la città (Is 29, 1-10), il tempio (Ger 7, 1-15),
il palazzo (22, 5), i re (25, 18). Tuttavia la maledizione non è mai totale.
Talvolta, senza motivo apparente e senza transizione, in un sussulto di
tenerezza, la *promessa di salvezza succede alla minaccia (Os 2, 8. 11. 16; Is
6, 13), ma più spesso, nel bel mezzo della maledizione, come suo centro logico,
prorompe la benedizione (Is 1, 25 s; 28, 16 s; Ez 34, 1-16; 36, 2-12. 13-38). .
IV. GLI APPELLI DEI GIUSTI ALLA MALEDIZIONE
Da questo *resto, attraverso il quale Dio trasmette la benedizione di
Abramo, salgono a volte grida di maledizione, quelle di Geremia (Ger 11, 20; 12,
3; 20, 12) e dei salmisti (Sal 5, 11; 35, 4 ss; 83, 10-19; 109, 6-20; 137, 7
ss). Indubbiamente questi appelli alla vendetta, da cui ci sentiamo urtati come
se noi sapessimo *perdonare, implicano una parte di risentimento personale o
nazionalistico. Ma, una volta purificati, potranno essere ripresi nel NT, perché
non esprimono soltanto la miseria dell’umanità soggetta alla maledizione del
peccato, ma l’appello alla *giustizia di Dio, se esige necessariamente la
distruzione del peccato. Dio può respingere l’imprecazione che sgorga da un
oppresso il quale d’altra parte confessa il proprio peccato (Bar 3, 8; Dan 9,
11. 15)? Il servo rinuncia anche al diritto alla vendetta dell’innocente
perseguitato: «senza aprir bocca» (Is 53, 7), si è offerto per i nostri peccati
alla maledizione (53, 3 s); la sua intercessione rappresenterà per i peccatori
un pegno di salvezza, nell’attesa che venga la fine del peccato: allora «non ci
sarà più maledizione» (Zac 14, 11).
V. GESÙ CRISTO VINCITORE DELLA MALEDIZIONE
«Per coloro che sono in Cristo Gesù, non c’è più condanna» (Rom 8, 1)
né maledizione. Cristo, divenuto per noi «peccato» (2 Cor 5, 21) e
«maledizione», «ci ha riscattati dalla maledizione della legge» (Gal 3, 13) e ci
ha posti in possesso della benedizione e dello *Spirito di Dio. La Parola può
quindi inaugurare i tempi nuovi in cui nella bocca di Gesù, non è più
maledizione propriamente detta (gr. katara), ma la constatazione di una
condizione disgraziata (gr. onai) che viene ad associarsi alla *beatitudine (Lc
6, 20-26): ormai essa non rigetta, ma attira (Gv 12, 32); non disperde, ma
unifica (Ef 2, 16). Libera l’uomo dalla catena maledetta, Satana, peccato, ira,
morte, e gli permette di amare. Il Padre, che ha perdonato tutto nel suo Figlio,
può insegnare ai suoi figli come vincere la maledizione col *perdono (Rom 12,
14; 1 Cor 13, 5) e con l’amore (Mt 5, 44; Col 3, 13); il cristiano non può più
maledire (1 Piet 3, 9); al contrario del «maledetto chi ti maledice!» del VT, e
sull’esempio del Signore, deve «benedire coloro che lo maledicono» (Lc 6, 28).
Tuttavia la maledizione, vinta da Cristo, rimane una realtà, un destino non più
fatale come sarebbe stato senza di lui, ma ancora possibile. La manifestazione
suprema della benedizione porta anche al parossismo l’accanimento della
maledizione che progredisce sulle sue orme sin dalle origini. La maledizione,
approfittando degli ultimi giorni che le sono contati (Apoc 12, 12), scatena
tutta la sua virulenza nel momento in cui la *salvezza giunge a consumazione (8,
13). Di conseguenza il NT contiene ancora molte formule di maledizione;
l’Apocalisse può ad un tempo proclamare: «Non ci sarà più maledizione» (22, 3),
e lanciare la maledizione definitiva: «Fuori... tutti coloro che si compiacciono
di fare il male!» (22, 15), il dragone (12), la bestia ed il falso profeta (13),
le nazioni, Gog e Magog (20, 7), la prostituta (17), Babele (18), la morte e lo
sheol (20, 14), le tenebre (22, 5), il *mondo (Gv 16, 33) e le *potenze di
questo mondo (1 Cor 2, 6). Questa maledizione totale, un «fuori!» senza ricorso,
è proferita da Gesù Cristo. Ciò che la rende spaventosa è il fatto che non è in
lui né *vendetta passionale, né esigenza razionale del taglione; è più pura e
più terribile, lascia alla loro scelta coloro che si sono esclusi dall’*amore.
Non che Gesù sia venuto a maledire ed a condannare (Gv 3, 17; 2, 47); egli
apporta, al contrario, la benedizione. Durante la sua vita non ha mai maledetto
nessuno; indubbiamente non ha risparmiato le minacce più sinistre sui pasciuti
di questo mondo (Lc 6, 24 ss), sulle città incredule di Galilea (Mt 11, 21),
sugli scribi ed i farisei (Mt 23, 13-31), su «questa *generazione» nella quale
si concentrano tutti i peccati di Israele (23, 33-36), su «quell’uomo dal quale
il figlio dell’uomo è tradito» (26, 24), ma si tratta sempre di ammonizioni e di
profezie dolorose, mai dell’ira che si scatena. La parola propria di maledizione
non compare sulle labbra del figlio dell’uomo se non nel suo ultimo avvento:
«Lungi da me, maledetti!» (Mt 25, 41). Ed ancora ci previene che anche in quel
momento egli non cambierà comportamento: «Se qualcuno ascolta le mie parole e
non le osserva, non sono io che lo condanno... La parola che ho annunziato,
quella lo condannerà nell’ultimo giorno» (Gv 12, 47 s).
J. CORBON e J. GUILLET
→ anatema NT - benedizione - bene e male II 2 - bestemmia - bestie e
Bestia 2 - inferi e inferno VT II; NT I - ira B NT I 2, III 1 -
malattia-guarigione VT I 3 - ricchezza III 1 - sofferenza 0; VT II; NT I 2 -
terra VT I 3 - vendemmia.
→ cupidigia NT 2 - ricchezza III 2 - servire III 0.
→ apostoli - mediatore - missione.
→ albero 1 - fame e sete - nutrimento - pane - pasto.
→ apparizioni di Cristo 1 - fuoco VT I - giorno del Signore - gloria III - luce e tenebre VT I 2, II 2; NT I 3 - presenza di Dio VT II - risurrezione NT I 1.2 - rivelazione - segno - trasfigurazione – uragano.
La manna è il
cibo che Dio diede ad Israele durante la marcia nel deserto (Gios 5, 12);
l’importante non è tanto definirne la natura quanto coglierne il valore
simbolico; l’interpretazione del suo nome: «Che è questo?» (ebr. man hú: Es 16,
15) ne sottolinea il carattere misterioso: di fatto Dio vuole provare il suo
popolo, pur facendolo sussistere (16, 4. 28). Questo dono meraviglioso ha
suscitato nella tradizione numerosi commenti, di cui sono testimonianza i
racconti del Pentateuco (Es 16; Num 11, 4-9), i Salmi ed il libro della Sapienza
(Sap 16, 20-29); ha preparato in tal modo la rivelazione del vero pane del
cielo, di cui era l’annunzio e la figura (Gv 6, 21 s).
1. La manna e la prova del deserto.
- Di fronte alla condizione precaria in cui si trova nel deserto, il popolo
incredulo intima a Dio di agire: «Jahvè è in mezzo a noi, oppure no?» (Es 17,
7); Dio gli risponde manifestando la sua gloria, tra l’altro, con il dono della
manna (16, 7. 10 ss). La manna, a sua volta, è una questione che Dio pone al suo
popolo per *educarlo mettendolo alla *prova: «Riconoscerete finalmente che io
sono il vostro Dio, conformandovi ai miei ordini?» (cfr. 16, 4. 28). Dando ad
Israele questo mezzo di sussistenza, Dio di fatto gli notifica la sua *presenza
efficace (16, 12); e questo segno è così espressivo che si dovrà conservarne il
ricordo, ponendo nell’*arca un vaso di manna con le tavole della legge (16, 32
ss; cfr. 25, 21; Ebr 9, 4). Ora, ogni segno esige una risposta; il dono della
manna è accompagnato da prescrizioni destinate a provare la fede di Israele in
colui che la concede: bisogna raccoglierla giorno per giorno senza metterne in
serbo per il domani, eccetto la vigilia del *sabato in cui la raccolta si farà
per due giorni, allo scopo di rispettare il *riposo sabbatico; in tal modo la
manna è per il popolo il mezzo di dimostrare la sua *obbedienza a Dio e la sua
*fiducia nella sua parola (Es 16, 16-30). C’è di più: le focacce di manna
bollita, senza essere insipide (Num 11, 8), hanno sempre lo stesso gusto;
Israele se ne stanca e mormora, disconoscendo la prova e la sua lezione: invece
che sui soli cibi terreni (11, 4 ss), l’uomo deve fare assegnamento innanzitutto
su quelli che vengono dal cielo, sul misterioso nutrimento di cui la manna è il
simbolo: la *parola di Dio (Deut 8, 2 s).
2. La manna e l’attesa escatologica.
- Meditando il suo passato dinanzi a Dio nella preghiera, Israele canta il
beneficio della manna: «frumento e pane del cielo», «pane dei forti», degli
angeli che abitano in cielo (Sal 78, 23 ss; 105, 40; Neem 9, 15). Celebrando
questo dono miracoloso, i sapienti immaginano le qualità che deve avere un
*nutrimento celeste, quello che il creatore darà ai suoi figli nel banchetto
escatologico; a questo nutrimento, oggetto dell’attesa di Israele, pensa
l’autore della Sapienza, nel suo commento ispirato (midrash) dell’esodo. La
manna del futuro si adatterà al *gusto di ognuno ed ai *desideri dei figli di
Dio. Questi, gustandola, gusteranno ancora di più la dolcezza (cfr. *mitezza)
del creatore, che pone la creazione al servizio di coloro che credono in lui (Sap
16, 20 s. 25 s). L’Apocalisse parla di questa stessa manna, che è promessa a
coloro che la fede e la testimonianza avranno resi vincitori di Satana e del
mondo (Apoc 2, 17; cfr. 1 Gv 5, 4 s).
3. La manna ed il vero pane di Dio.
- Cristo, nel deserto, conferma vivendola la lezione del VT: «l’uomo non vive di
solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4, 14 par.; cfr.
Deut 8, 3). Rinnova questo insegnamento nutrendo il popolo di Dio con un *pane
miracoloso. Questo pane che sazia il popolo (Mt 14, 20; 15, 37 par.; cfr. Sal
78, 29) suscita un entusiasmo senza rapporto con la *fede che Gesù esige (Gv 6,
14 s); i discepoli non comprendono meglio della folla il senso del dono e del
miracolo; quanto agli increduli, Farisei e Sadducei, essi esigono in questo
momento «un segno che venga dal cielo» (Mt 16, 1-4 par.; cfr. Gv 6, 30 s; Sal
78, 24 s). Ora, il vero pane «venuto dal cielo» non è la manna che lasciava
morire, bensì Gesù stesso (Gv 6, 32 s) che si riceve mediante la fede (6,
35-50): è la sua *carne, data «per la *vita del mondo» (6, 51-58). Anche Paolo
vede questo «alimento spirituale» prefigurato dalla manna del deserto (1 Cor 10,
3 s). A buon diritto quindi la liturgia eucaristica riprende le immagini
bibliche che concernono la manna. Con la partecipazione al pane misterioso del
*pasto eucaristico, apparentemente sempre le stesso come la manna, il cristiano
risponde ad un segno di Dio ed attesta la propria fede nella sua parola discesa
dal cielo; perciò, fin d’ora, egli è «nutrito con il pane degli angeli, divenuto
il pane dei viandanti» (Lauda Sion), che soddisfa tutti i loro bisogni e
risponde a tutti i loro gusti, durante il nuovo *esodo del popolo di Dio; più
ancora, il credente è già vincitore nella lotta che deve sostenere durante il
suo viaggio, perché è già nutrito del pane di Dio stesso e vive della sua vita
eterna (Gv 6, 33. 54. 57 s; Apoc 2, 17).
M. F. LACAN
→ deserto VT I 2 - eucaristia III 2 - fame e sete VT 1 a - nutrimento II - pane
III.
→ braccio e mano.
→ culto NT III 3 - Gesù Cristo II 1 a - Signore NT - speranza NT IV.
A differenza dei
Fenici e dei Greci, gli Israeliti non erano un popolo di marinai. Le imprese
marittime di Salomone (1 Re 9, 26) e di Josafat (22, 49) non ebbero seguito. Fu
necessaria l’esperienza della *dispersione perché le «isole» entrassero
nell’orizzonte geografico di Israele (Is 41, 1; 49, 1) ed i Giudei si
abituassero ai lunghi viaggi marittimi (Giona 1, 3). Era cosa fatta all’epoca
del NT (Mt 23, 15) e Paolo, giudeo della dispersione, trovava naturale solcare
il Mediterraneo per annunziare il vangelo. Tuttavia, sin dall’epoca più lontana,
il mare figura nei testi biblici con un significato religioso determinato.
1. Dal mostro mitico alla creatura di Dio.
- Ogni uomo prova dinanzi al mare la sensazione di una potenza formidabile,
impossibile da dominare, terribile quando si scatena, minacciosa per i marinai (Sal
107, 23-30) come per le popolazioni rivierasche che è sempre sul punto di
sommergere (cfr. Gen 7, 11; 9, 11. 15). Questo mare, questo oceano cosmico che
circonda il continente, la mitologia mesopotamica lo personifica in forma di una
*bestia mostruosa; questo dragone, sotto il nome di Tiamat, rappresentava le
potenze caotiche e devastatrici che Marduk, il dio dell’ordine, doveva ridurre
all’impotenza per organizzare il cosmo. La mitologia di Ugarit opponeva del pari
Jam, il dio del mare, a Baal, in una lotta per la sovranità del mondo divino.
Nella Bibbia, invece, il mare è ridotto al grado di semplice creatura. Nel
racconto classico della *creazione Jahvè divide in due le acque dell’abisso (tehom)
come faceva Marduk per il corpo di Tiamat (Gen 1, 6 s). Ma l’immagine è
completamente smitizzata, perché non c’è più lotta tra il Dio onnipotente ed il
caos acqueo delle origini. Organizzando il mondo, Jahvè ha imposto alle acque,
una volta per sempre, un limite che esse non valicheranno più senza suo ordine (Gen
1, 9 s; Sal 104, 6-9; Prov 8, 27 ss). I libri sapienziali si compiacciono nel
descrivere quest’ordine del mondo in cui prende posto il mare, servendosi a tal
fine dei dati di una scienza elementare: la terra poggia sulle acque di un
abisso inferiore (Sal 24, 2), che attraverso ad essa risalgono per alimentare le
fonti (Gen 7, 11; 8, 2; Giob 38, 16; Deut 33, 13) e che comunicano con quelle
dell’oceano. In tal modo il mare è rimesso tra le creature al suo posto e lo si
invita, con tutte le altre, a celebrare il suo creatore (Sal 69, 35; Dan 3, 78).
2. Il simbolismo religioso del mare.
- In questa saldissima prospettiva dottrinale, gli autori sacri possono senza
alcun pericolo riprendere le antiche immagini mitiche private del loro veleno.
Il mare di bronzo (1 Re 7, 23 ss) introduce forse nel culto del tempio il
simbolismo cosmico dell’oceano primordiale, se è vero che ne è la
rappresentazione. Ma la Bibbia si serve piuttosto di un’altra categoria di
simboli. Le acque dell’abisso marino le offrono l’immagine più eloquente di un
pericolo mortale (Sal 69, 3), perché si pensa che il loro fondo sia vicino allo
sheol (Giona 2, 6 s). Infine un tanfo di forza malvagia, disordinata,
orgogliosa, continua a fluttuare attorno al mare, rappresentato ancora
all’occasione dalla figura delle bestie mitologiche. Simboleggia allora le
potenze avverse che Jahvè deve vincere per far trionfare il suo disegno. Queste
immagini epiche conoscono tre applicazioni. Innanzitutto, l’attività creatrice
di Dio è talvolta evocata poeticamente sotto i tratti di una lotta primordiale (Is
51, 9; Giob 7, 12; 38, 8- 11). Più spesso il simbolo è storicizzato. Così
l’esperienza storica dell’esodo, in cui Jahvè prosciugò il Mar Rosso per
tracciare una via al suo popolo (Es 14 - 15; Sal 77, 17. 20; 114, 3. 5), diventa
una vittoria divina sul dragone del grande abisso (Is 51, 10); così pure il
rumoreggiare delle nazioni pagane in rivolta contro Dio è assimilato al rumore
del mare (Is 5, 30; 17, 12). Infine, nelle apocalissi più recenti, le potenze
sataniche, che Dio affronterà in un ultimo combattimento, riprendono tratti
analoghi alla Tiamat babilonese: sono bestie che salgono dal grande abisso (Dan
7, 2-7). Ma il creatore, la cui sovranità (cfr. *re) cosmica ha saputo fin
dall’origine domare l’orgoglio del mare (Sal 65, 8; 89, 10; 93, 3 s), possiede
pure il dominio della storia in cui tutte le forze del disordine si agitano
invano.
3. Cristo ed il mare.
- Il simbolismo religioso del mare non è perso di vista nel NT. Ciò è sensibile
anche nei vangeli. Il mare rimane il luogo diabolico in cui vanno a precipitarsi
i porci indemoniati (Mc 5, 13 par.). Scatenato, continua a spaventare gli
uomini; ma di fronte ad esso Gesù manifesta la potenza divina che trionfa degli
elementi: viene verso i suoi camminando sul mare (Mc 6, 49 s; Gv 6, 19 s), od
ancora la calma con una parola che lo esorcizza: «Taci! Calmati!» (Mc 4, 39 s),
e da questo segno i discepoli riconoscono che c’è in lui una presenza sovrumana
(4, 41). Infine l’Apocalisse non si accontenta di mettere in rapporto con il
mare le potenze malvagie, che Cristo-Signore deve affrontare nel corso della
storia (Apoc 13, 1; 17, 1). Descrivendo la nuova creazione in cui la sua
sovranità si eserciterà pienamente, essa evoca un giorno straordinario in cui
«non ci sarà più mare» (21, 1). Il mare quindi sparirà in quanto abisso satanico
e forza del disordine. Ma sussisterà lassù quel mare di cristallo (4, 6) che si
estende a perdita d’occhio dinanzi al trono divino, simbolo di una pace luminosa
in un universo rinnovato.
J. DE FRAINE e P. GRELOT
→ acqua IV 2 - battesimo 1 1 - bestie e Bestia 1 - fuoco NT I 3 - sale 1.
Il posto
importante che la madre di Gesù occupa nella tradizione cristiana è già stato
abbozzato nella rivelazione scritturale. Se i Dodici hanno accentrato il loro
interesse sul ministero di Gesù, dal battesimo alla Pasqua (Atti 1, 22; 10, 37
ss; 13, 24 ss), lo hanno fatto perché non potevano che parlare dei fatti ai
quali avevano assistito e dovevano rispondere a ciò che più premeva alla
missione. Era normale che i racconti sull’infanzia di Gesù non comparissero se
non tardivamente; Marco li ignora, accontentandosi di ricordare due volte
soltanto la madre di Gesù (Mc 3, 31-35; 6, 3). Matteo li conosce, ma li accentra
su Giuseppe, il discendente di David che riceve i messaggi celesti (Mt 1, 20 s;
2, 13. 20. 22) e dà il nome di Gesù al figlio della vergine (1, 18-25). Con
Luca, Maria entra in piena luce; è lei che, alle origini del vangelo, occupa il,
primo posto, con una vera personalità; è lei che, alla nascita della Chiesa,
partecipa con i discepoli alla preghiera del cenacolo (Atti 1, 14). Infine
Giovanni inquadra la vita pubblica di Gesù tra due scene mariane (Gv 2, 1-12;
19, 25 ss): a Cana come sul calvario, Gesù definisce con autorità la funzione di
Maria dapprima come fedele, poi come madre dei suoi discepoli. Questa
progressiva presa di coscienza della funzione di Maria non dev’essere spiegata
semplicemente con motivi psicologici: riflette una conoscenza sempre più
profonda del mistero stesso di *Gesù, inseparabile dalla «*donna» dalla quale
volle nascere (Gal 4, 4). Alcuni titoli permettono di raccogliere i dati sparsi
nel NT.
I. LA FIGLIA DI SION
1. Maria appare dapprima simile alle sue contemporanee. Come
attestano le iscrizioni dell’epoca e le numerose Marie del NT, il suo *nome, già
portato dalla sorella di Mosè (Es 15, 20), era corrente all’epoca di Gesù.
Nell’aramaico di allora significa probabilmente «principessa», «signora».
Appoggiandosi su tradizioni palestinesi, Luca fa vedere in Maria una pia donna
ebrea, fedelmente sottomessa alla legge (Lc 2, 22. 27. 39), che esprime nei
termini stessi del VT le risposte che dà al messaggio divino (1, 38);
specialmente il suo Magnificat è un centone di salmi che si ispira
principalmente al cantico di Anna (1, 46-55; cfr. 1 Sam 2, 1-10).
2. Ma, sempre secondo Luca, Maria non è una semplice donna
ebrea. Nelle scene dell’annunciazione e della visitazione (Lc l, 26-56) egli
presenta Maria come la figlia di Sion, nel senso che questa espressione aveva
nel VT: la personificazione del *popolo di Dio. Il «rallegrati» dell’angelo (1,
28) non è un saluto usuale, evoca le *premesse della venuta del Signore nella
sua città santa (Sof 3, 14-17; Zac 9, 9). Il titolo «piena di grazia», oggetto
per eccellenza dell’amore divino, può evocare la sposa del cantico, una delle
figure più tradizionali del popolo eletto. Questi indizi letterari corrispondono
al posto che Maria occupa in queste scene: essa sola vi riceve, in nome della
*casa di Giacobbe, l’annuncio della salvezza; l’accetta e ne rende così
possibile il compimento. Infine, nel suo Magnificat, essa s’innalza presto oltre
la gratitudine personale (1, 46-49) per prestare la sua voce alla stirpe di
Abramo, nella riconoscenza e nella gioia (1, 50-55).
II. LA VERGINE
1. Il fatto della verginità di Maria nel concepimento
di Gesù è affermato da Mt 1, 18-23 e Lc 1, 26-38 (è suggerito in alcune antiche
versioni di Gv 1, 13: «Lui che né sangue né carne, ma Dio ha generato»). La
chiara indipendenza dei racconti di Mt e le induce a far risalire questo dato a
una tradizione più antica da cui entrambi dipendono.
2. Nell’ambiente palestinese, questo posto attribuito
alla verginità nell’evento messianico appare un fatto nuovo. Fino ad ora, la
Bibbia non ha attribuito valore religioso alla *verginità (Giud 11, 37 s). Gli
esseni di Qumrân si direbbero i primi Giudei che si impegnano nella continenza
in un’evidente preoccupazione di *purità legale.
3. Matteo si limita a vedere nel concepimento
verginale di Gesù la realizzazione dell’oracolo di Is 7, 14 (secondo il testo
greco).
4. Luca, invece, attribuisce grande importanza alla
verginità di Maria, e d’altronde in tutta la sua opera si interessa alla
continenza (Lc 2, 36; 14, 26; 18, 29) e alla verginità (Atti 21, 9). Riferisce,
certo, il matrimonio tra Maria e Giuseppe (Lc 1, 27; 2, 5), perché vi vede il
fondamento della legittimità messianica di Gesù (3, 23 ss). Però, la prima cosa
che dice della giovane sposa, è che è vergine (1, 27): secondo l’usanza
palestinese, il suo matrimonio dovette precedere di un buon lasso di tempo il
suo ingresso nella casa dello sposo (cfr. Mt 25, 1-13). La verginità di Maria al
momento dell’annunciazione è messa in rilievo dall’obbiezione che muove
all’angelo quando questi le annuncia che sarà la madre del messia: «Come potrà
avvenire se io non conosco uomo?» (Lc 1, 34). L’espressione «conoscere un uomo»
designa infatti abitualmente nella Bibbia i rapporti coniugali (Gen 4, 1. 17.
25; 19, 8; 24, 16 ...). Luca sottolinea quindi che nel momento in cui sta per
concepire Gesù, Maria è vergine. Luca vuol anche affermare che prima
dell’annunciazione Maria intendeva mantenere la verginità. A partire da S.
Agostino, sono stati in molti a pensarlo. Hanno tradotto la sua domanda
all’angelo parafrasandola: «poiché non intendo conoscere uomo», reputando questa
sfumatura necessaria a giustificare la domanda di Maria: essendo la sposa di un
figlio di David, le basta consumare il matrimonio per diventare la madre del
messia; se vi vede qualche difficoltà, è perché intende mantenere la verginità.
Questa interpretazione si basa tuttavia su un postulato discutibile: presuppone
che Maria sia stata sposata a Giuseppe senza il suo consenso. Soprattutto
misconosce l’esatto significato della domanda di Maria, che significa:
«attualmente, non ho rapporti coniugali». Luca in tal modo suggerisce che Maria
si rende conto di diventare madre immediatamente, come la madre di Sansone che
ha concepito nell’istante stesso in cui l’angelo le annunciava la sua maternità
(Giud 13, 5-8). Obbietta che il suo matrimonio non è stato ancora consumato. La
sua domanda induce l’angelo ad annunciarle il concepimento verginale di Gesù.
Questo le viene rivelato contemporaneamente alla filiazione divina di cui è il
segno. Lo Spirito di Dio, che ha presieduto alla creazione del mondo (Gen 1, 2),
inaugurerà nel concepimento di Gesù la creazione del mondo nuovo. Perciò, il
concepimento verginale di Luca appare un’esigenza della filiazione divina di
Gesù. E nell’annuncio della sua misteriosa maternità, Maria viene a conoscere la
propria vocazione verginale.
5. L’accenno ai fratelli di Gesù (Mc 3, 31 par.; 6, 3
par.; Gv 7, 3; Atti 1, 14; 1 Cor 9, 5; Gal 1, 19) ha indotto diversi critici a
pensare che Maria dopo la nascita di Gesù non abbia mantenuto la verginità.
Questa opinione, che non ha riscontro in nessun punto dell’antica tradizione
riguardante i riferimenti ai fratelli di Gesù, contrasta con parecchi testi
evangelici: Giacomo e Giuseppe, i fratelli di Gesù in Mt 13, 55 par.
sembrerebbero i figli di un’altra Maria (Mt 27, 56 par.); Gesù morendo affida la
madre a un discepolo (Gv 19, 26 s), il che sembra supporre che essa non abbia
altri figli. È, noto d’altra parte, che nel mondo semitico, il nome di *fratelli
è spesso attribuito a dei parenti o a degli alleati.
III. LA MADRE
A tutti i livelli della tradizione evangelica. Maria è innanzitutto «la madre di
Gesù». Parecchi testi la designano con questo semplice titolo (Mc 3, 31 s par.;
Lc 2, 48; Gv 2, 1-12; 19, 25 s), che definisce tutta la sua funzione nell’opera
della salvezza.
1. Questa maternità è volontaria. - Il racconto
dell’annunciazione lo fa chiaramente risaltare (Lc 1, 26-38). Dinanzi alla
*vocazione inattesa che l’angelo le annunzia, Luca mostra la vergine preoccupata
di capire a fondo la chiamata di Dio. L’angelo le rivela la sua concezione
verginale. Pienamente illuminata, Maria accetta; essa è la serva del Signore,
come Abramo, Mosè ed i profeti; come il loro, e più ancora, il suo *servizio è
libertà.
2. Quando Maria partorisce Gesù, il suo compito, come
per tutte le *madri, non fa che incominciare. Essa deve allevare Gesù. Con
Giuseppe, che condivide le sue responsabilità, porta il bambino al tempio per
presentarlo al Signore, per esprimere l’oblazione di cui la sua coscienza umana
non è ancora capace. Riceve per lui, da Simeone, l’annunzio della sua *missione
(Lc 2, 29-32. 34 s). Essa è per lui l’educatrice cosciente della sua autorità (Lc
2, 48) e Gesù le è sottomesso come a Giuseppe (Lc 2, 51).
3. Maria rimane madre quando Gesù giunge all’età adulta.
Si trova presso il figlio al momento delle separazioni dolorose (Mc 3, 21. 31;
Gv 19,25 ss). Ma il suo compito assume allora una forma nuova. Luca e Giovanni
lo fanno sentire nelle due tappe principali della maturazione di Gesù. A dodici
anni, israelita di pieno diritto, Gesù proclama ai genitori terreni che deve
occuparsi innanzitutto del culto del suo Padre celeste (Lc 2, 49). Quando inizia
la sua missione a Cana, le sue parole a Maria: «Che vuoi, o donna?» (Gv 2, 4)
non sono tanto quelle di un figlio, quanto quelle del responsabile del regno;
rivendica così la sua indipendenza di inviato di Dio. Ormai, per il tempo della
sua vita terrena, la madre scompare dietro la fedele (cfr. Mc 3, 32-35 par.; Lc
11, 27 s).
4. Questa spogliazione culmina sulla croce. Rivelando
a Maria il destino di Gesù, Simeone le aveva annunziato la spada che doveva
trafiggere la sua anima nella divisione di Israele e la prova della sua fede (Lc
2, 34 s). Sul Calvario si compie la sua maternità, come mostra Giovanni in una
scena in cui ogni tratto è significativo (Gv 19, 25 ss). Maria è ritta ai piedi
della croce. Gesù le rivolge ancora il solenne «donna» che connota la sua
autorità di Signore del regno. Indicando alla madre il discepolo presente: «Ecco
il tuo figlio», Gesù la chiama ad una nuova maternità, che sarà ormai la sua
funzione nel popolo di Dio. Forse Luca ha voluto suggerire questa missione di
Maria nella Chiesa mostrandola in preghiera con i Dodici, nell’attesa dello
Spirito (Atti 1, 14); questa maternità universale risponde almeno al suo
pensiero che ha visto in Maria la personificazione del popolo di Dio, la figlia
di Sion (Lc 1, 26- 55).
IV. LA PRIMA CREDENTE
Ben lungi dal far consistere la grandezza di Maria in lumi eccezionali, gli
evangelisti la fan vedere nella sua *fede, soggetta alle stesse oscurità, allo
stesso cammino di quella del più umile fedele (Lc 1, 45).
1. La rivelazione fatta a Maria.
- Fin dall’annunciazione Gesù si offre a Maria come oggetto della sua fede, e
questa fede è illuminata da messaggi che hanno radici negli oracoli del VT. Il
bambino si chiamerà *Gesù, sarà il Figlio dell’Altissimo, il figlio di David, il
*re di Israele, il Figlio di Dio. Alla presentazione al tempio, Maria sente gli
oracoli del servo di Dio applicati al figlio suo: luce delle nazioni e segno di
contraddizione. A queste poche parole esplicite bisogna aggiungere, benché i
testi non lo dicano, che Maria deve scoprire nella vita miserevole e silenziosa
di suo Figlio la povertà del messia. Quando Gesù parla alla madre, sono parole
che hanno il tono reciso degli oracoli profetici; Maria deve riconoscervi
l’indipendenza e l’autorità del figlio suo, la superiorità della fede sulla
maternità carnale.
2. La fedeltà di Maria.
- Luca ha avuto cura di annotare le reazioni di Maria dinanzi alle rivelazioni
divine: il suo turbamento (Lc 1, 29), la sua difficoltà (1, 34), il suo stupore
dinanzi all’oracolo di Simeone (2, 33), la sua incomprensione delle parole di
Gesù al tempio (2, 50). In presenza di un *mistero che supera ancora la sua
intelligenza, essa riflette sul messaggio (1, 29; 2, 33), ritorna continuamente
sull’evento misterioso, conservando i suoi ricordi, meditandoli nel suo cuore
(2, 19. 51). Attenta alla *parola di Dio, essa l’accoglie, anche se questa
sconvolge i suoi progetti e deve immergere Giuseppe nell’ansietà (Mt 1, 19 s).
Le sue risposte alle chiamate divine, visitazione, presentazione di Gesù al
tempio, sono altrettanti atti con cui Gesù agisce attraverso alla madre sua:
santifica il precursore, si offre al Padre suo. Fedele, Maria lo è nel silenzio,
quando il figlio suo entra nella vita pubblica; lo rimane fino alla croce.
3. Il Magnificat.
- Nel cantico di Maria, Luca trasmette una tradizione palestinese che cerca non
tanto di riferire le parole della Vergine quanto di esprimere il ringraziamento
della comunità. Ma Luca ne fa una preghiera di Maria (soprattutto col v. 48).
Secondo la forma classica di un salmo di ringraziamento e servendosi dei temi
tradizionali del salterio, Maria celebra un fatto nuovo il regno è presente.
Essa vi si rivela tutta al servizio del popolo di Dio. In lei e per mezzo di
lei, la salvezza è annunziata, la promessa è compiuta; nella sua *povertà si
realizza il mistero delle *beatitudini. La fede di Maria è la stessa del popolo
di Dio: una fede umile che si approfondisce continuamente attraverso oscurità e
prove, mediante la meditazione della salvezza, mediante il servizio generoso che
illumina a poco a poco lo sguardo del fedele (Gv 3, 2l; 7, 17; 8, 31 s). A
motivo di questa fede, attenta nel conservare la parola di Dio, Gesù stesso ha
proclamato beata colei che l’aveva portato nelle sue viscere (Lc 11, 27 s).
V. MARIA E LA CHIESA
I dati precedenti possono essere raggruppati e approfonditi in una
breve sintesi di teologia biblica.
1. La vergine.
- Maria, tipo del credente, chiamata alla salvezza nella fede dalla
grazia di Dio, redenta dal sacrificio del figlio suo come tutti i membri della
nostra razza, occupa nondimeno un posto a parte nella Chiesa. In lei non vediamo
il mistero della Chiesa vissuto pienamente da un’anima che accoglie la parola
divina con tutta la sua fede. La Chiesa è la *sposa di Cristo (Ef 5,32), una
sposa vergine (cfr. Apoc 21, 2) che Cristo stesso ha santificato purificandola (Ef
5, 25 ss). Ogni anima cristiana, che partecipa a questa vocazione, è «fidanzata
a Cristo come una vergine pura» (2 Cor 11, 2). Ora la fedeltà della Chiesa a
questa chiamata divina traspare in Maria per prima, e ciò nel modo più perfetto.
Questo è tutto il senso della *verginità a cui Dio l’ha invitata e che la
maternità non ha diminuita ma consacrata. In lei si rivela così, al livello
della storia, l’esistenza di questa Chiesa-vergine che, con il suo
atteggiamento, fa il contrario di Eva (cfr. 2 Cor 11, 3).
2. La madre.
- Maria inoltre, in rapporto a Gesù, si trova in una situazione
speciale che non appartiene a nessun altro membro della Chiesa. Essa è la *madre
di Gesù, e lo è volontariamente. Accetta di procreare il Figlio di Dio per il
popolo di Dio, e appunto questo popolo tutto essa rappresenta e impegna in
questa accettazione della salvezza propostale da Dio. Questa funzione permette
di assimilarla alla figlia di Sion (Sof 3, 14; cfr. Lc 1, 28), alla nuova
*Gerusalemme nella sua funzione materna. Se la nuova umanità è paragonabile ad
una *donna di cui Cristo capo è il primogenito (Apoc 12, 5), si può dimenticare
che un tale mistero si è compiuto concretamente in Maria, che questa donna e
questa madre non è un puro simbolo ma, grazie a Maria, ha avuto un’esistenza
personale? Anche su questo punto il legame di Maria e della Chiesa si afferma
con una forza tale che, dietro la donna strappata da Dio agli attacchi del
serpente (Apoc 12, 13-16), antitesi di Eva ingannata dallo stesso serpente (2
Cor 11, 3; Gen 3, 13), Maria si profila nello stesso tempo che la Chiesa, poiché
tale fu il suo compito nel disegno di salvezza. Perciò la tradizione ha visto a
buon diritto in Maria e nella Chiesa, congiuntamente, la «nuova Eva», così come
Gesù è il «nuovo *Adamo».
3. Il mistero di Maria.
- Per mezzo di questa connessione con il mistero della Chiesa, il mistero di
Maria si illumina nel miglior modo possibile, alla luce della Scrittura. Il
primo rivela chiaramente ciò che, nel secondo, fu vissuto in modo nascosto. Da
entrambe le parti, c’è un mistero di verginità, mistero nuziale in cui Dio è lo
sposo; da entrambe le parti, un mistero di maternità e di filiazione, in cui lo
Spirito Santo agisce (Lc 1, 35; Mt 1, 20; cfr. Rom 8, 15), prima nei confronti
di Cristo (Lc 1, 31; Apoc 12, 5), poi nei confronti delle membra del suo corpo (Gv
19, 26 s; Apoc 12, 17). Il mistero della verginità implica una purezza totale,
frutto della grazia di Cristo, che tocca l’essere alla sua radice, rendendolo
«santo ed immacolato» (Ef 5, 27): qui acquista il suo senso la concezione
immacolata di Maria. Il mistero della maternità implica un’unione totale al
mistero di Gesù, nella sua vita terrena fino alla prova ed alla croce (Lc 2, 35;
Gv 19, 25 s; cfr. Apoc 12, 13), nella sua gloria fino alla partecipazione alla
sua risurrezione (cfr. Apoc 21). Colei che fu «ripiena di grazia» da parte di
Dio (Lc 1, 28) rimane sul piano dei membri della Chiesa, «ripieni di grazia nel
diletto» (Ef 1, 6). Ma per la sua mediazione il Figlio di Dio, unico *mediatore,
si è fatto fratello di tutti gli uomini ed ha stabilito il suo legame organico
con essi, così come essi non lo raggiungono senza passare attraverso la Chiesa,
che è il suo corpo (Col 1, 18). L’atteggiamento dei cristiani nei confronti di
Maria è determinato da questo fatto fondamentale: perciò è in rapporto così
diretto con il loro atteggiamento nei confronti della Chiesa loro madre (cfr.
Sal 87, 5; Gv 19, 27).
A. GEORGE
→ Chiesa VI - donna NT 1.3 - gioia NT I 1 - madre I 4, II 2.3 - mediatore II 0.2
- umiltà IV - verginità NT 2.
Martire (gr.
màrtys) significa etimologicamente *testimone, sia che si tratti di una
testimonianza sul piano storico, o giuridico, o religioso. Ma nell’uso stabilito
dalla tradizione cristiana, il nome di martire si applica esclusivamente a colui
che offre la testimonianza del sangue. Quest’uso è già attestato nel NT (Atti
22, 20; Apoc 2, 13; 6,9; 17, 6): il martire è colui che dà la propria vita per
*fedeltà alla testimonianza resa a Gesù (cfr. Atti 7, 55-60).
1. Cristo martire.
- Gesù stesso è, a titolo eminente, il martire di Dio, e per conseguenza il tipo
del martire. Nel suo *sacrificio volontariamente accettato, egli dà
effettivamente la testimonianza suprema della sua fedeltà alla *missione
affidatagli dal Padre. Secondo S. Giovanni Gesù non ha soltanto conosciuto in
anticipo, ma ha accettato liberamente la morte come perfetto omaggio reso al
Padre (Gv 10, 18); e nel momento della condanna, proclama: «Io sono nato e sono
venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità» (18, 37; cfr. Apoc 1, 5;
3, 14). Nella passione di Gesù, S. Luca mette in rilievo i tratti che
caratterizzeranno ormai il martire: conforto della grazia divina nel momento
dell’angoscia (Lc 22,43); *silenzio e *pazienza dinanzi alle accuse ed agli
oltraggi (23, 9); innocenza riconosciuta da Pilato e da Erode (23, 4. 14 s. 22);
dimenticanza delle proprie sofferenze (23, 28; accoglienza fatta al ladrone
pentito (23, 43); perdono accordato a Pietro (22, 61) ed agli stessi persecutori
(22, 51; 23, 34). Più profondamente ancora, l’insieme del NT riconosce in Gesù
il *servo sofferente annunziato da Isaia. In questa prospettiva la passione di
Gesù appare come essenziale alla sua missione. Di fatto, come il servo deve
soffrire e morire «per giustificare moltitudini» (Is 53, 11), così Gesù deve
passare attraverso la morte «per apportare a moltitudini la redenzione dai
peccati» (Mt 20, 28 par.). Tale è il senso della «bisogna» che Gesù ripete a più
riprese: il disegno di salvezza di Dio passa attraverso la *sofferenza e la
*morte del suo testimone (Mt 16, 21 par.; 26, 54. 56; Lc 17, 25; 22, 37; 24, 7.
26. 44). D’altronde tutti i *profeti non sono forse stati perseguitati e messi a
morte (Mt 5, 12 par.; 23, 30 ss par.; Atti 7, 52; 1 Tess 2, 15; Ebr 11, 36 ss)?
Non può trattarsi di un incontro casuale; Gesù vi riconosce un piano divino che
trova in lui il suo compimento (Mt 23, 31 s). Perciò cammina «risolutamente»
verso Gerusalemme (Lc 9, 51), «perché non conviene che un profeta perisca fuori
di Gerusalemme» (13, 33). Questa passione fa di Gesù la vittima *espiatoria che
sostituisce tutte le vittime antiche (Ebr 9, 12 ss). Il fedele vi scopre la
legge del martirio: «Senza effusione di *sangue, non vi può essere *redenzione»
(Ebr 9, 22). Si comprende come *Maria, così strettamente associata alla passione
del figlio suo (Gv 19, 25; cfr. 2, 35) sia salutata più tardi come la regina dei
martiri cristiani.
2. Il martire cristiano.
- Il glorioso martirio di Cristo ha fondato la Chiesa: «Quando sarò
innalzato da terra, aveva detto Gesù, attirerò a me tutti gli uomini» (Gv 12,
32). La Chiesa, *corpo di Cristo, è chiamata a sua volta a dare a Dio la
*testimonianza del sangue per la salvezza degli uomini. La comunità ebraica
aveva già avuto i suoi martiri, specialmente all’epoca dei Maccabei (2 Mac 6 -
7). Ma nella Chiesa cristiana il martirio assume un senso nuovo, che Gesù stesso
rivela: è la piena imitazione di Cristo, la partecipazione perfetta alla sua
testimonianza ed alla sua opera di salvezza: «Il *servo non è maggiore del
padrone; se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi!» (Gv 51, 20). Ai
suoi tre intimi Gesù annunzia che lo seguiranno nella passione (Mc 10, 39 par.;
Gv 21, 18 ss); ed a tutti rivela che soltanto il seme che muore in terra porta
molto *frutto (Gv 12, 24). Così il martirio di Stefano - che evoca con tanta
forza la passione - determinò la prima espansione della Chiesa (Atti 8, 4 s; 11,
19) e la conversione di Paolo (22, 20). L’Apocalisse, infine, è veramente il
Libro dei Martiri, di coloro che sulle orme del Testimone fedele e veridico (Apoc
3, 14) hanno dato alla Chiesa e al mondo la testimonianza del loro sangue.
L’intero libro ne celebra la prova e la gloria, di cui la passione e la
glorificazione dei due testimoni del Signore sono il simbolo (Apoc 6, 9 s; 7,
14-17; 11, 11 s; 20, 4 ss).
C. AUGRAIN
→ confessione NT I - morte NT III 4 - persecuzione - processo III 3 -
prova-tentazione NT II - sangue NT 4 - testimonianza NT III 2.
VECCHIO
TESTAMENTO
I. IL MATRIMONIO NEL DISEGNO DEL CREATORE
I due racconti della creazione terminano con una scena su cui si fonda
l’istituzione del matrimonio. Nel racconto jahvista (Gen 2), l’intenzione divina
è espressa in questi termini: «Non è bene che l’uomo sia solo, gli farò un aiuto
ché sia simile a lui» (2, 18). L’uomo, superiore a tutti gli animali (2, 19 s),
non potrebbe trovare questo aiuto se non in colei che è «carne della sua carne
ed osso delle sue ossa» (2, 21 ss). Dio l’ha creata per lui; perciò, lasciando
padre e madre, egli si unisce ad essa con l’amore e diventano «una sola carne»
(2, 24). La *sessualità trova in tal modo il suo senso, manifestando nella carne
l’unità dei due esseri che Dio chiama ad aiutarsi vicendevolmente nell’amore
reciproco. Esente da ogni sentimento di vergogna nella integrità originale (2,
25), essa tuttavia sarà occasione di turbamento in conseguenza del peccato (3,
7), e la vita della coppia umana sarà ormai insidiata dalla *sofferenza e dalle
tentazioni passionali o dominatrici (3, 16). Ma nonostante questo, per la «madre
dei viventi» (3, 20), la *fecondità rimarrà un beneficio divino permanente (4,
1. 25 s). Il racconto sacerdotale (Gen 1) è meno carico di elementi drammatici.
L’uomo, creato ad immagine di Dio per dominare la terra e popolarla, è in realtà
la coppia (1, 26 s). Qui la fecondità appare come il fine stesso della
sessualità, che è cosa eccellente come tutta la creazione (1, 31). In tal modo
si afferma l’ideale divino dell’istituzione matrimoniale prima che il peccato
abbia corrotto il genere umano.
II. IL MATRIMONIO NEL POPOLO DI DIO
Quando Dio inizia l’educazione del suo popolo dandogli la *legge, l’istituzione
matrimoniale non è più al livello di questo ideale primitivo. Perciò la legge,
nella pratica, adatta parzialmente le sue esigenze alla durezza dei cuori (Mt
19, 8). La fecondità è considerata come il valore primordiale a cui il resto è
subordinato. Ma, assicurato questo punto, l’istituzione conserva la traccia di
costumi ancestrali molto lontani dal matrimonio-prototipo di Gen 1 - 2.
1. Amore coniugale e costrizione sociale.
- I testi antichi sono fortemente caratterizzati da una mentalità in
cui il bene della comunità prevale su quello degli individui, a cui impone le
sue leggi e le sue esigenze. I genitori sposano i loro figli senza consultarli (Gen
24, 2 ss; 29, 23; Tob 6, 13). Il gruppo esclude taluni matrimoni entro la
parentela (Lev 18, 6-19), o fuori della nazione (Deut 7, 1-4; Esd 9). Talune
unioni sono imposte dalla necessità di perpetuare la stirpe, come quella della
vedova senza figli con il parente più prossimo (levirato: Deut 25, 5-10; Gen 38,
7 ss; Rut 2, 20). Nonostante tutto, sotto queste apparenze di costrizione,
rimane ben viva la spontaneità dell’amore. Talvolta il cuore si accorda con
un’unione imposta (Gen 24, 62-67; Rut 3, 10); talvolta un uomo ed una donna si
uniscono perché si sono scelti (Gen 29, 15-20; 1 Sam 18, 20-26; 25, 40 ss), in
taluni casi contro la volontà dei genitori (Gen 26, 34 s; Giud 14, 1-10). Si
trovano focolari uniti da un profondo amore (1 Sam 1, 8), fedeltà che durano
liberamente oltre la morte (Giudit 16, 22). Nonostante la dote versata alla
famiglia della moglie (Gen 34, 12; Es 22, 15 s), ed il titolo di signore o di
proprietario che porta il marito (baal), la moglie non è semplicemente una
mercanzia che si compera e si vende. Essa si rivela capace di assumere
responsabilità, e può contribuire attivamente alla riputazione del marito (Prov
31, 10-31). Ed appunto l’amore di due persone libere, in un dialogo appassionato
che sfugge alla costrizione, viene presentato dal Cantico dei Cantici; anche se
è allegorico, e concerne l’amore di Dio e del suo popolo, il libro ne parla con
le parole e gli atteggiamenti che erano, al suo tempo, quelli dell’amore umano
(cfr. Cant 1, 12-17; 6, 4-8, 4).
2. Poligamia e monogamia.
- L’ideale della fecondità e la preoccupazione di avere una famiglia
potente fanno desiderare numerosissimi figli (cfr. Giud 8, 30; 12, 8; 2 Re 10,
1), il che porta naturalmente alla pratica della poligamia. L’autore jahvista,
il cui ideale era monogamico (Gen 2, 18-24), la stigmatizza quando ne
attribuisce l’origine ad una iniziativa del barbaro Lamec (4, 19). Tuttavia, in
tutta la Bibbia si incontra l’uso di avere due spose (1 Sam l, 2; cfr. Deut 21,
15) o di prendere concubine e mogli schiave (Gen 16, 2; 30, 3; Es 21, 7-11; Giud
19, 1; Deut 21, 10- 14). I re contraggono un gran numero di unioni per amore (2
Sam 11, 2 ss) o per interesse politico (1 Re 3, 1); compaiono così grandi harem
(1 Re 11, 3; 2 Cron 13, 21), dove il vero amore è impossibile (cfr. Est 2,
12-17). Ma anche l’attaccamento esclusivo non è raro, da Isacco (Gen 25, 19-28)
e Giuseppe (Gen 41, 50), fino a Giuditta (Giudit 8, 2-8) ed ai due Tobia (Tob
11, 5-15), passando per Ezechiele (Ez 24, 15-18) e Giobbe (Giob 2, 9 s). I
sapienziali evocano le gioie e le difficoltà di focolari monogamici (Prov 5,
15-20; 18, 22; 19, 13; Eccle 9, 9; Eccli 25, 13 - 26, 18), e nel Cantico dei
Cantici l’amore dei due sposi è evidentemente indiviso. Tutto ciò denota una
reale evoluzione nei costumi. All’epoca del NT la monogamia sarà la regola
corrente dei matrimoni ebraici.
3. Stabilità del matrimonio e fedeltà degli sposi.
- Ancora la preoccupazione di avere una discendenza ha potuto introdurre la
pratica del ripudio a motivo di *sterilità; ma la poligamia permetteva di
risolvere questa difficoltà (Gen 16). Disciplinando la pratica del divorzio, la
legge non precisa la «tara» che può permettere all’uomo di ripudiare la moglie (Deut
24, 1 s). Tuttavia dopo l’esilio i sapienti cantano la fedeltà verso «la sposa
della giovinezza» (Prov 5, 15-19) e fanno l’elogio della stabilità coniugale (Eccli
36 - 25 ss). Paragonando il patto (berît) matrimoniale con l’*alleanza (berît)
di Jahvè e di Israele, Malachia afferma persino che Dio «odia il ripudio» (Mal
2, 14 ss). Nonostante questo cammino verso un ideale più rigido, il giudaismo
contemporaneo del NT ammetterà ancora la possibilità del divorzio ed i dottori
discuteranno sulle cause che lo possono legittimare (cfr. Mt 19, 3). Per quanto
concerne la fedeltà coniugale, l’usanza (Gen 38, 24), sanzionata poi dalla legge
scritta (Deut 22, 22; Lev 20, 10), puniva con la morte ogni donna *adultera al
pari del suo complice. Ma questo divieto dell’adulterio (Es 20, 14) mirava
innanzitutto a far rispettare i diritti del marito, perché nulla vietava
formalmente all’uomo le relazioni con donne libere o prostitute: la pratica
della poligamia faceva ammettere più facilmente simili tolleranze. Ma, come si
tende alla monogamia, su questo punto si determina un progresso: l’adulterio
viene proibito anche per l’uomo (Giob 31, 9; Eccli 9, 5. 8. 9; 41, 22 ss). In
questi limiti, la pratica dell’adulterio è severamente denunciata dai profeti (Ez
18, 6), anche quando il colpevole è lo stesso re David (2 Sam 12). D’altronde i
sapienti mettono in guardia i giovani contro le seduzioni della donna sviata (Prov
5, 1-6; 7, 6-27; Eccli 26, 9-12), per formarli alla fedeltà coniugale.
4. L’ideale religioso del matrimonio.
- Benché il matrimonio sia innanzitutto materia di diritto civile ed i
testi antichi non facciano allusione ad un rito religioso, l’israelita sa bene
che Dio lo guida nella scelta della sposa (Gen 24, 42-52) e che Dio assume in
nome dell’alleanza i precetti che regolano il matrimonio (ad es. Lev 18). Il
decalogo, legge fondamentale di Israele, garantisce la santità dell’istituzione
(Es 20, 14; cfr. Prov 2, 17). Dopo l’esilio, il libro di Tobia presenta una
visione altamente spirituale del focolare preparato da Dio (Tob 3, 16), fondato
sotto il suo sguardo nella fede e nella preghiera (7, 11; 8, 4-9), secondo il
modello tracciato dalla Genesi (8, 6; cfr. Gen 2, 18), custodito dalla fedeltà
quotidiana alla legge (14, 8-13). Giunto a questo livello, l’ideale biblico del
matrimonio supera le imperfezioni sanzionate provvisoriamente dalla legge
mosaica.
NUOVO TESTAMENTO
La concezione del matrimonio nel NT è dominata dal paradosso stesso della vita
di Gesù: «nato da una donna» (Gal 4, 4; cfr. Lc 11, 27), con la sua vita di
Nazaret (Lc 2, 51 s) egli consacra la famiglia quale è stata preparata da tutto
il VT. Ma, nato da una madre vergine, vissuto egli stesso nella verginità, rende
testimonianza ad un valore superiore al matrimonio.
I. CRISTO ED IL MATRIMONIO
1. La nuova legge.
- Riferendosi esplicitamente, al di là della legge di Mosè, al disegno
creatore della Genesi, Gesù afferma il carattere assoluto del matrimonio e la
sua indissolubilità (Mt 19, 1-9): Dio stesso unisce l’uomo e la donna, dando
alla loro libera scelta una consacrazione che li trascende. Essi sono «una sola
*carne» dinanzi a lui; perciò il ripudio, tollerato «a motivo della durezza dei
cuori», dev’essere escluso nel regno di Dio, in cui il mondo ritorna alla sua
perfezione originale. L’eccezione del «caso di fornicazione» (Mt 19, 9) non ha
certamente di mira una giustificazione del divorzio (cfr. Mc 10, 11 s; Lc 16,
18; 1 Cor 7, 10 s); concerne o il rinvio di una sposa illegittima, oppure una
separazione cui non potrà far seguito un altro matrimonio. Di qui lo spavento
dei discepoli dinanzi al rigore della nuova legge: «Se questa è la condizione
dell’uomo nei confronti della donna, è meglio non sposarsi!» (Mt 19, 10). Questa
esigenza sui principi non esclude la misericordia verso gli uomini peccatori. A
più riprese Gesù incontra adultere o persone infedeli all’ideale dell’amore (Lc
7, 37; Gv 4, 18; 8, 3 ss; cfr. Mt 21, 31 s). Le accoglie, non per approvare la
loro condotta, ma per apportare loro una conversione ed un *perdono che
sottolineano il valore dell’ideale tradito (Gv 8, 11).
2. Il sacramento del matrimonio.
- Gesù non si accontenta di ricondurre l’istituzione del matrimonio a questa
perfezione primitiva che il peccato umano aveva oscurato. Gli dà un fondamento
nuovo che gli conferisce il suo significato religioso nel regno di Dio. Con la
nuova alleanza che fonda nel suo proprio sangue (Mt 26, 28), egli stesso diventa
lo *sposo della Chiesa. Per i cristiani, diventati con il battesimo templi dello
Spirito Santo (1 Cor 6, 19), il matrimonio è quindi «un grande mistero in
rapporto a Cristo ed alla Chiesa» (Ef 5, 32). La sottomissione della Chiesa a
Cristo e l’amore redentore di Cristo per la Chiesa, che egli ha salvato dandosi
per essa, sono così la regola vivente che gli sposi devono imitare; potranno
farlo, perché la grazia di redenzione tocca il loro stesso amore assegnandogli
il suo ideale (5, 21-33). La *sessualità umana, di cui bisogna valutare con
prudenza le esigenze normali (1 Cor 7, 1-6), è assunta ora in una realtà sacra
che la trasfigura.
II. MATRIMONIO E VERGINITÀ
«Non è bene che l’uomo sia solo», diceva Gen 2, 18. Nel regno di Dio instaurato
da Gesù appare un nuovo ideale. Per il regno, degli uomini si faranno «eunuchi
volontari» (Mt 19, 11 s). È il paradosso della *verginità cristiana. Fra il
tempo del VT, in cui la *fecondità era un dovere primario al fine di perpetuare
il popolo di Dio, e la parusia, in cui il matrimonio sarà abolito (Mt 22, 30
par.), due forme di vita coesistono nella Chiesa: quella del matrimonio, che il
mistero di Cristo e della Chiesa trasfigura, e quella del celibato consacrato,
che Paolo reputa la migliore (1 Cor 7, 8. 25-28). Non si tratta di disprezzare
il matrimonio (cfr. 7, 1), ma di vivere pienamente il mistero nuziale al quale
ogni cristiano partecipa già con il battesimo (2 Cor 11, 2): con l’unirsi al
Signore totalmente per non piacere che a lui solo (1 Cor 7, 32-35), si attesta
che la figura del mondo presente, alla quale l’istituzione matrimoniale è
correlativa, si avvia verso la fine (7, 31). In questa prospettiva l’ideale
sarebbe che «coloro che hanno moglie vivano come se non l’avessero» (7, 29) e
che le *vedove non si risposino. Ma tutto questo dipende in fin dei conti dal
Signore: si tratta di vocazioni diverse e complementari nell’ambito del *corpo
di Cristo: in questo, come negli altri campi, «ciascuno riceve da Dio il proprio
dono particolare, uno questo l’altro quello» (7, 7; cfr. Mi 19, 11).
C. WIÉNER
→ Adamo II 2 - adulterio 1 - amico 3 - carne I 2 - circoncisione VT 1 -
donna VT 2; NT 2 - fecondità - Maria II 4 - sessualità - Sposo-sposa - sterilità
- unità I, III - vedove 2 - verginità - veste I 1.
L’intervento di
Gionata per salvare David che Saul voleva uccidere (1 Sam 19, 1-7) è un
bell’esempio delle mediazioni umane che si incontrano sia nella storia biblica,
sia in quella di tutta l’umanità (1 Sam 25, 1-35; Est 7, 1-7; Atti 12, 20), e
che riescono talora a ristabilire relazioni che sono sul punto di guastarsi. Il
mediatore va da una parte all’altra, intercede presso la parte che minaccia a
favore della parte minacciata, ed apporta a questa la *pace - quando l’ottiene.
Così la legge di Israele prevedeva una mediazione arbitrale di questo genere tra
due parti di uguale potenza (Es 21, 22; Giob 9, 33). Fuori di questi casi di
conflitto, anche le relazioni umane normali possono richiedere l’intervento di
mediatori. Ma qui il termine è in un senso più lato: designa gli intermediari a
cui un capo affida missioni occasionali o funzioni permanenti presso dei suoi
subordinati. Per designare questi arbitri o intermediari, il VT ebraico non
possiede un termine corrispondente a «mediatore» (gr. mesìtes). Per quanto
riguarda i rapporti tra Dio e gli uomini, questo fenomeno di vocabolario è
significativo. Non era sorprendente vedere le antiche religioni non bibliche
interporre, tra l’umanità e degli dèi supremi, che non erano veramente
trascendenti, tutta una serie di divinità secondarie o di spiriti, e poi di
uomini (re, sacerdoti, ecc.) che erano più o meno dei mediatori o intercessori.
Il Dio di Israele è unico, solo nella sua assoluta trascendenza. Chi dunque
potrebbe essere mediatore tra queste due realtà senza misura comune: Dio e gli
uomini? come scriverà S. Paolo: «Non esiste mediatore dell’Unico» (Gal 3, 20).
D’altra parte, l’uomo biblico ha spesso vivissimo il sentimento della propria
responsabilità personale di fronte a Dio. Questo valeva già anche al tempo in
cui l’individuo era ancora profondamente immerso nel gruppo: «Se qualcuno pecca
contro Dio, diceva il vecchio Eli, chi può intercedere per lui?» (1 Sam 2, 25).
Quindi in tutta verità Giobbe può dire a Dio: «Non v’è nessuno tra noi (LXX:
mesìtes)» (Giob 9, 33). È quindi paradossale incontrare nel VT numerosi
mediatori, sia pure semplicemente, in senso lato, degli intermediari a cui Dio
affida una *missione presso gli uomini. Questo paradosso attesta che l’Unico,
lungi dal rinchiudersi nella solitudine, vuole entrare in rapporto con gli
uomini. In questa prospettiva, i mediatori che suscita preparano e prefigurano
la venuta di un Mediatore che, a sua volta, sarà unico. Nel NT, la
*riconciliazione di Dio con gli uomini viene realizzata da Gesù. Verbo (cfr.
*parola di Dio) divenuto *carne, Gesù può infatti parlare e agire nello stesso
tempo in nome di Dio e in nome degli uomini. Per la prima ed unica volta,
qualcuno merita allora, pienamente e nel senso più stretto, il titolo di
«mediatore (mesìtes) tra Dio e gli uomini» (1 Tim 2, 5; cfr. Ebr 8, 6; 9, 15;
12, 24).
I. I MEDIATORI NELL’ANTICA ALLEANZA
1. I mediatori storici.
- Abramo è colui per mezzo del quale «tutte le nazioni della terra si diranno
benedette» (Gen 12, 3); per mezzo suo, l’antenato benedetto da Dio, Israele
riceverà le *benedizioni della terra e della posterità. Secondo talune
tradizioni Abramo esercita la sua funzione di intercessore quando interviene in
favore del re pagano Abimelec (20, 7, 17 s) o di Sodoma (18, 22-32). *Mosè è
chiamato da Jahvè per liberare Israele, per stabilire la sua alleanza con esso,
per dargli la sua *legge e prescrivere il suo *culto. Responsabile del suo
popolo dinanzi al Signore, egli agisce come capo e legislatore in nome di Dio,
intercede sovente in suo favore (Es 32, 11-12. 31-34). Senza dubbio,
all’importanza della sua missione, egli deve il fatto di essere l’unico
personaggio nella Bibbia, insieme a Gesù, che venga chiamato mediatore (Gal 3,
19) - sia pure in senso lato. Dopo l’esodo, le funzioni svolte da Mosè sono
suddivise tra diverse persone: il *sacerdozio levitico è la stirpe eletta da Dio
per il servizio del culto e della legge. Nelle liturgie di Israele esso ricorda
al popolo le grandi azioni di Jahvè nella storia sacra, enuncia le sue esigenze,
fa discendere la sua benedizione (Num 6, 24-27). Presenta a Dio la lode e la
supplica della comunità e degli individui. Il *re succede ai Giudici ed è
investito dello stesso *spirito (Giud 6, 34; 1 Sam 10, 6; 16, 13). I profeti gli
rivelano la sua elezione a beneficio della stirpe (1 Sam 9 - 10; 16). Egli è
l’unto, il *messia di Jahvè che lo tratta come *figlio (2 Sam 7, 14; Sal 2, 7).
I suoi sudditi lo considerano come l’*angelo di Jahvè (2 Sam 14, 17). Dinanzi a
Dio egli rappresenta tutto il suo popolo e, benché non riceva il titolo di
sacerdote, esercita funzioni cultuali: porta l’efod, offre sacrifici, pronuncia
la preghiera in nome di Israele. Infine, poiché il Dio di Israele dirige tutta
la storia umana, alcuni profeti non si peritano di assegnare a re stranieri una
funzione nel disegno di Dio: Nabuchodonosor (Ger 27, 6), Ciro (Is 41, 2-5; 44,
28; 45, 1-6). A differenza del sacerdote e del re, la cui funzione è ereditaria,
il *profeta è suscitato da una vocazione personale. Jahvè interviene
direttamente nella sua vita per conferirgli la *missione. Prima di tutto egli
deve portare la *parola di Jahvè al popolo: le sue esigenze, il suo giudizio sul
peccato, le sue promesse per i fedeli. Il profeta, a sua volta, si sente
solidale coi suoi fratelli, ai quali Dio lo manda, ed intercede continuamente
per essi, come Samuele (1 Sam 7, 7-12; 12, 19- 23), Amos (7, 1-6), Geremia (15,
11; 18, 20; 42, 2... donde l’interdizione patetica di 7, 16; 11, 14; 14, 11...,
e la visione di Giuda Maccabeo: 2 Mac 15,13-16), ed infine Ezechiele (9, 8; 11,
13) che si considera addirittura come la sentinella posta da Dio per la
salvaguardia dei figli del suo popolo (33, 1-9; 3, 17-21). Così, lungo tutta la
storia di Israele, Dio fa sorgere uomini che pone quali responsabili del suo
popolo e che hanno il compito di assicurare il corso normale dell’alleanza. Le
relazioni personali tra Dio e gli individui non sono soppresse da queste
funzioni, che si collocano nella cornice del popolo per il quale vengono
esercitate le diverse mediazioni.
2. I mediatori escatologici.
- L’escatologia profetica trasferisce agli ultimi tempi parecchi elementi di
queste mediazioni storiche; le trascende persino, descrivendo misteriose figure
che annunciano a modo loro la mediazione di Gesù. Nelle evocazioni del nuovo
popolo si ritrovano diversi mediatori che svolgono una funzione analoga a quelli
del passato: ora il *messia-re, ora il *profeta annunziatore della salvezza (Is
61, 1 ss; Deut 18, 15 interpretato dalla tradizione giudaica), più raramente il
*sacerdote dei tempi nuovi (Zac 4, 14, elemento sviluppato nelle tradizioni di
Qumrân). In Is 40 - 55 il *servo di Dio è una figura ideale che sembra
personificare il *resto di Israele nella sua funzione di mediatore tra Dio e gli
uomini. È un profeta chiamato da Dio «per portare il diritto alle nazioni» (Is
42, 1), per radunare Israele disperso, per essere «la luce delle nazioni» (42,
6; 49, 5-6) e l’alleanza del popolo (42, 6; 49, 8), cioè per costituire il nuovo
popolo formato da Israele redento e dalle *nazioni convertite. La sua missione
non è più soltanto di predicare il messaggio della salvezza e di intercedere,
come facevano i profeti precedenti: egli ora deve «portare i peccati delle
moltitudini» ed intervenire nella loro redenzione con la sua propria *sofferenza
(Is 52, 14; 53, 12). Offrendo la propria vita in sacrificio d’*espiazione (Is
53, 10), appare con il rappresentante di un nuovo tipo di mediazione
sacerdotale. In Dan 7, 13. 18 il *figlio dell’uomo rappresenta innanzitutto il
«popolo dei santi» oppresso dalle potenze pagane prima di essere esaltato dal
giudizio di Dio. Infine regnerà sulle *nazioni (7, 14. 27), ed assicurerà in tal
modo il *regno di Dio nel mondo. Il rapporto tra questi diversi mediatori
escatologici non è fissato chiaramente dal VT. Soltanto il compimento delle
profezie in Gesù farà vedere come essi si confondano nella persona dell’unico
mediatore di salvezza.
3. I mediatori celesti.
- I pagani avevano avvertito da tempo l’insufficienza delle mediazioni umane;
perciò ricorrevano all’intervento celeste degli dèi inferiori. Israele rigetta
questo politeismo, ma la sua dottrina degli *angeli prepara il popolo di Dio
alla rivelazione del mediatore trascendente. Secondo un antico racconto,
Giacobbe vide in sogno a Bethel gli angeli del santuario stabilire il legame tra
cielo e terra (Gen 28, 12). Ora, dopo l’esilio, la dottrina degli angeli prende
uno sviluppo sempre più considerevole. Si descrivono quindi la loro
intercessione per Israele (Zac 1, 12 s), i loro interventi in suo favore (Dan
10, 13. 21; 12, 1), gli aiuti che portano ai fedeli (Dan 3, 49 s; 6, 23; 14,
34-39; Tobia), di cui presentano la preghiera dinanzi al Signore (Tob 12, 12).
Malachia descrive persino un misterioso messaggero, l’angelo dell’alleanza, la
cui venuta nel santuario inaugurerà la salvezza escatologica (Mal 3, 1-4). Qui
non si tratta più di una mediazione umana: attraverso quest’angelo enigmatico,
Dio stesso interviene per purificare il suo popolo e salvarlo.
II. IL MEDIATORE DELLA NUOVA ALLEANZA
Alle soglie del NT, Gabriele, mediatore celeste, inaugura fra l’uomo e Dio il
dialogo che prelude alla nuova *alleanza (Lc 1, 5-38). La risposta decisiva gli
è data da *Maria. Parlando in nome del suo popolo come «figlia di Sion», essa
accetta di diventare *madre del re-messia, Figlio di Dio. Giuseppe (Mt 1,
18-25), Elisabetta (Lc 1, 39-56), Simeone ed Anna (2,33-38), tutti coloro che
«attendevano la *consolazione di Israele», in seguito non hanno che da
accogliere «il salvatore» (2, 11) venuto per mezzo di essa. Così, attraverso ad
essa, l’umanità fa la conoscenza di Gesù e Gesù dell’umanità. Pur essendo il
Figlio (2, 41-50), egli è sottomesso alla sua volontà ed a quella di Giuseppe
(2, 51 s), fino al giorno in cui inaugurerà il suo ministero (Gv 2, 1-12).
1. L’unico mediatore.
- *Gesù Cristo è il mediatore della nuova alleanza (Ebr 9, 15; 12, 24)
tra Dio e l’umanità, migliore dell’antica (8, 6). Ormai per mezzo suo gli uomini
hanno accesso a Dio (7, 25). Questa verità è presente, in forme diverse,
dovunque nel NT. Gesù muore, risorge, riceve lo Spirito in nome ed a vantaggio
del resto di Israele e di tutti gli uomini. La sua mediazione rifluisce persino
sulla *creazione (Col 1, 16; Gv 1, 3) e sulla storia dell’antica alleanza (1
Piet 1, 11). Gesù è mediatore perché vi è stato chiamato dal Padre suo (Ebr 5,
5) ed ha risposto a questa chiamata (10, 7 ss), così come avveniva per i
mediatori del VT (cfr. 5, 4). Ma, nel caso suo, chiamata e risposta sono
collocate al centro del mistero del suo essere: egli, che era «il Figlio» (1, 2
s), «divenne partecipe del sangue e della carne» (2, 14) e divenne «*uomo egli
stesso» (1 Tim 2, 5). Appartiene in tal modo alle due parti che riconcilia in
sé. Il Figlio pone fine alle antiche mediazioni, realizzando la mediazione
escatologica. In lui, «discendenza di Abramo» (Gal 3, 16), Israele e le *nazioni
ereditano le *benedizioni promesse al padre del popolo di Dio (Gal 3, 15-18; Rom
4). Egli è il nuovo Mosè, guida di un nuovo esodo, mediatore della nuova
alleanza, capo del nuovo popolo di Dio, ma a titolo di Figlio e non più di servo
(Ebr 3, 1-6). È insieme il re, figlio di David (Mt 21, 4-9 par.), il servo di
Dio predetto da Isaia (Mt 12, 17-21), il profeta annunziatore della salvezza (Lc
4, 17-21), il figlio dell’uomo giudice dell’ultimo giorno (Mt 26, 64), l’angelo
dell’alleanza che purifica il tempio con la sua venuta (cfr. Lc 2, 22-35; Gv 2,
14-17). Opera una volta per sempre la liberazione, la salvezza, la redenzione
del suo popolo. Riunisce nella sua persona la regalità, il sacerdozio e la
profezia. È egli stesso la *parola di Dio. Nella storia delle mediazioni umane,
la sua venuta apporta quindi una novità radicale e definitiva: nel tempio «che
non è fatto dalla mano dell’uomo» (Ebr 9, 11), egli rimane mediatore «sempre
vivo per intercedere» a favore dei suoi fratelli (7, 25). Di fatto, come «Dio è
unico, così è unico il mediatore» (1 Tim 2, 5) dell’alleanza eterna.
2. L’unico mediatore e la sua Chiesa.
- Tuttavia il fatto che Cristo sia l’unico mediatore non pone fine alla funzione
degli uomini nella storia della salvezza. La mediazione di Gesù assume in terra
segni sensibili: sono gli uomini ai quali Gesù affida una funzione nei confronti
della sua Chiesa; Gesù associa in certo modo alla sua mediazione tutte le membra
del suo corpo. Già nella sua vita terrena Gesù chiama degli uomini a lavorare
con lui, a proclamare il vangelo, ad effettuare i segni che mostrano la presenza
del regno (Mt 10, 7 s par.); inviati prolungano in tal modo i primi atti della
sua mediazione. La *missione che egli affida loro, per il tempo che seguirà la
sua morte e la sua risurrezione, estenderà a tutto il mondo ed a tutti i secoli
futuri (Mt 28, 19 s) la mediazione che egli eserciterà invisibilmente. 1 suoi
*apostoli saranno responsabili della sua parola, della sua Chiesa, del
battesimo, dell’eucaristia, del perdono dei peccati. A partire dalla Pentecoste
egli stesso comunica alla sua Chiesa lo *Spirito che ha ricevuto dal Padre;
quindi «non c’è più che un solo corpo ed un solo spirito, come non c’è che un
solo Signore ed un solo Dio» (Ef 4, 4 ss). Ma per incorporare nuove membra a
questo corpo, bisogna che sia amministrato il battesimo (Atti 2, 38), e per
comunicare lo Spirito occorre l’*imposizione delle mani (8, 14-17). Lo Spirito
assicura la vita e la crescita del corpo di Cristo, distribuendo i *carismi. Tra
i beneficiari di questi carismi, gli uni assicurano servizi occasionali, gli
altri servizi permanenti che prolungano le funzioni degli stessi apostoli,
nell’organismo della Chiesa. Coloro che assicurano questi servizi non sono,
propriamente parlando, dei mediatori; lungi dall’esercitare una mediazione che
verrebbe ad aggiungersi a quella dell’unico mediatore, essi non sono che i mezzi
concreti mediante i quali egli vuol raggiungere tutti gli uomini. Una volta che
le membra del corpo di Cristo hanno raggiunto il loro capo nella gloria, questa
funzione evidentemente cessa. Ma allora, nei confronti dei membri della Chiesa,
che lottano ancora sulla terra, i cristiani vincitori svolgono una funzione di
altro tipo. Associati alla regalità (cfr. *re) del Mediatore (Apoc 2, 26 s; 3,
21; cfr. 12, 5; 19, 15), essi presentano a Dio le *preghiere dei santi della
terra (5, 8; 11, 18), che chiedono a Dio di accelerare l’ora della sua giustizia
(6, 9 ss; 8, 2-5; 9, 13). La vittoria finale sarà insieme quella «del sangue
dell’agnello e delle testimonianze dei martiri» (12, 11). Dall’ascensione alla
parusia Gesù non esercita quindi la sua regalità senza farvi partecipare il suo
popolo, che è ad un tempo presente sulla terra (12, 6; 14; 22, 17; cfr. 7, 1-8)
e già nella gloria (12, 1; 21, 2; cfr. 14, 1-5). Un posto particolare, in questo
esercizio della mediazione di Gesù risorto, è attribuito a *Maria. La sua
vocazione di madre in occasione della venuta sulla terra del Mediatore e il suo
intervento al momento del primo *segno compiuto da Gesù (Gv 2, 1-12) inducono a
chiedersi quale funzione invisibile essa possa svolgere nei confronti della
Chiesa. Nella Chiesa nascente, Maria appare come un membro tra gli altri, anche
se eminente (Atti 1, 14); non esercita nessuna funzione paragonabile a quella
degli apostoli o dei loro successori. Ma il Mediatore morendo le affida una
missione materna nei confronti dei suoi, rappresentati dal discepolo diletto (Gv
19, 26 s). Maria morendo avrebbe assolto questa missione? Non continua piuttosto
ad assolverla nell’invisibile? Maria è associata come tutti gli eletti alla
regalità e all’intercessione di Gesù; ma il NT suggerisce per lo meno che lo è a
un titolo speciale: come madre del «Figlio» e come «madre» dei suoi discepoli.
3. L’unico mediatore ed i mediatori celesti.
- Il mediatore è venuto da Dio e vi è ritornato; ciò lo avvicina
apparentemente ai mediatori celesti del VT. Questo accostamento portò taluni
cristiani, influenzati talora dalla gnosi pagana dell’Asia Minore, a mettere
Cristo e gli *angeli più o meno sullo stesso piano. Questi errori richiesero
delle messe a punto (Col 2, 18 s; Ebr 1, 4-14; cfr. Apoc 19, 10). Il mediatore è
«il capo» degli angeli (Col 2, 10), che i cristiani giudicheranno con lui (1 Cor
6, 3). Nel NT gli angeli continuano la loro funzione di intercessori e di
strumenti dei disegni di Dio (Ebr 1, 14; Apoc), ma lo fanno come «angeli del
figlio dell’uomo» (Mt 24, 30 s), l’unico mediatore.
CONCLUSIONE
- Le molteplici mediazioni a cui Dio ha dato luogo tra sé e il suo
popolo preparavano ed annunciavano la mediazione che il suo popolo avrebbe
esercitato tra lui e tutta l’umanità. Questa mediazione di Israele si realizza
nella mediazione di Cristo, unico Mediatore, solo nella insondabile grandezza
che gli proviene dal fatto di essere il Figlio. Tuttavia, capo del nuovo
Israele, egli esercita la propria mediazione con e mediante il suo corpo. Lungi
dall’annullarsi con la venuta del Figlio, il paradosso dei mediatori umani nella
storia della salvezza si afferma ancor di più. La ragione ultima di questo
paradosso è che l’Unico è amore (1 Gv 4, 8): volendo essere con gli uomini (Mt
1, 23; Apoc 21, 3) e condividere con essi la «natura divina» (2 Piet 1, 4), con
essi lavora già alla realizzazione del proprio disegno; tramite la *comunione di
uomini con uomini, fa dono della comunione con sé (1 Gv 1, 3).
A. A. VIARD e J. DUPLACY
→ alleanza VT III 2; NT II 2 - Dio NT I - Gesù Cristo II 1 b d - legge
- Maria V 3 - ministero 0 - Mosè 0.2 - pastore e gregge NT 1 - porta NT -
profeta VT 1 3 - re o - riconciliazione - sacerdozio.
Melchisedech,
nella Bibbia, appare il protettore di Abramo, predecessore di David e figura
anticipata di Gesù.
1. Melchisedech e Abramo (Gen 14).
- Melchisedech, *re e quindi sacerdote di Salem (che il Sal 76, 3 identifica con
*Gerusalemme) offre ad Abramo un pasto di *pane e *vino, rito d’alleanza (Gen
31, 44-46; Gios 9,12-15); pronuncia su Abramo una *benedizione; riceve da Abramo
un tributo, in cambio della sua protezione. Questi gesti vengono compiuti al
cospetto di ‘El ‘Eljôn, il *Dio altissimo, dio ancestrale dei clan semiti, che
Melchisedech considera almeno il Dio supremo, e Abramo l’unico Dio. La parte
principale viene qui svolta da Melchisedech, sacerdote non ebreo; di fronte a
lui, Abramo, antenato dei sacerdoti levitici, occupa un rango inferiore.
L’esegesi rabbinica cercherà di farlo dimenticare; l’esegesi cristiana se ne
ricorderà.
2. Melchisedech e David (Sal 110).
- Quando David si stabilisce a Gerusalemme, vi instaura una politica di
assimilazione. Il Sal 110 presenta il re israelita come il continuatore del
prestigioso Melchisedech. Jahvè ha giurato al suo *unto: in quanto re di
Gerusalemme «tu sei sacerdote per sempre, al modo di Melchisedech».
L’espressione, iperbolica per i messia effimeri, sarà vera per l’ultimo *Messia,
verso il quale, dopo l’esilio, il Sal 110 orienterà l’attesa di Israele. Quelli
che lo leggono sognano infatti di veder sorgere un salvatore che associ nella
propria persona *sacerdozio e regalità. C’erano stati dei profeti che avevano
annunciato che nei tempi futuri potere regio e potere sacerdotale sarebbero
stati associati (Ger 33, 14-22; Zac 3 - 6). Certuni rivendicarono la regalità
per il sommo sacerdote: questo fu una realtà per i Maccabei (1 Mac 10, 20. 65;
14, 41. 47); una speranza per i redattori giudaici dei «Testamenti dei Dodici
Patriarchi» (soprattutto Test. di Levi). Altri invece, fedeli all’orientamento
tracciato da Melchisedech e David, preferirono attribuire al futuro re il sommo
sacerdozio. In realtà, l’intima fusione tra una regalità purificata e un
sacerdozio autentico si realizzerà solo in Gesù Cristo.
3. Melchisedech e Gesù (Ebr 7; cfr. 5, 6-10; 6, 20).
- Gesù, uomo, discende non soltanto da Abramo, ma prima di tutto da *Adamo (Lc
3, 23-38). Secondo la lettera agli Ebrei, Gesù, sacerdote, esercita il
sacerdozio perfetto, che non si ricollega a quello di Levi (Gesù d’altronde è
della tribù di Giuda), ma realizza il sacerdozio regale del Messia davidico,
successore di Melchisedech (Sal 110). Già nella Genesi, questo sacerdote-re
appare superiore ai sacerdoti levitici, dato che ha visto i figli di Levi, nella
persona del loro antenato Abramo, inchinarsi rispettosamente davanti a lui,
riceverne la benedizione e pagargli tributo. D’altra parte, il personaggio, il
nome, i titoli di Melchisedech abbozzano in certo qual senso i caratteri di
Gesù. Apparso «senza principio né fine», prefigura il Cristo, sacerdote eterno.
Il suo nome Melchi-sedech significa: «il mio re è giustizia»; re di Salem è
quasi equivalente a re di šalôm, cioè re di *pace. Ora, Gesù non apporta forse
al mondo la giustizia e la pace? Il giuramento solenne del Sal 110 non riguarda
i sacerdoti levitici, peccatori, mortali e quindi molteplici, succedentisi da
una generazione all’altra, e ministri di un’alleanza superata; si rivolge al
re-sacerdote, al vero figlio di David, a Gesù, innocente, immortale e quindi
unico, ministro di una nuova alleanza definitiva, espressa per mezzo del pane e
del vino, come un tempo lo era stato il patto di Melchisedech. Melchisedech;
quindi, straniero rispetto a Israele, membro delle «nazioni», ma personaggio
religioso, «autodidatta della conoscenza di Dio» (Filone), potente amico di
Abramo, annesso da David, prefigurazione di Gesù, ha registrato una
straordinaria promozione. Ha il proprio nome nel rituale (consacrazione degli
altari), e nel messale romano (preghiera eucaristica). Rimane il testimone
dell’universalismo dei disegni di Dio, che, per condurci a Cristo, si è servito
non solo di Israele, ma anche delle nazioni.
P. É. BONNARD
→ Aronne 2 - benedizione II 3 - creazione VT I - Dio VT II 1 -
Gerusalemme VT I 1 - messia NT II 2 - nazioni VT II 2 b - pane II 2 - sacerdozio
VT 1 1.3; NT I 3.
Se si interrogasse la Bibbia sulla
memoria dell’uomo, si potrebbe trarne alcune annotazioni psicologiche, come il
ricordo di un beneficio (Gen 40, 14) o la dimenticanza dei consigli paterni (Tob
6, 16); ma ciò che qui ci interessa è il senso religioso della memoria, la sua
funzione nella relazione con Dio. La Bibbia parla della memoria di Dio per
l’uomo e della memoria dell’uomo per Dio. Ogni ricordo reciproco implica
avvenimenti passati in cui si era stati in relazione l’uno con l’altro;
richiamando questi avvenimenti, ha per effetto di rinnovare la relazione. Tale è
appunto il caso tra Dio e il suo popolo. La memoria biblica si riferisce ad
incontri avvenuti nel passato, nei quali si è stabilita l’alleanza. Ricordando
questi fatti primordiali, essa rafforza l’alleanza; porta a vivere 1’«oggi» con
l’intensità di presenza che deriva dall’alleanza. Il ricordo qui è tanto più
idoneo, in quanto si tratta di avvenimenti privilegiati che decidevano del
futuro e lo contenevano in anticipo. Soltanto il fedele ricordo del passato può
assicurare il buon orientamento del futuro.
1. La fioritura del ricordo
a) I fatti. - Il fatto primario è la *creazione, segno
sempre offerto all’uomo per ricordarsi di Dio (Eccli 42, 15 - 43, 33; Rom 1, 20
s). L’uomo stesso è più di un segno, è *immagine di Dio; perciò può ricordarsi
di lui. Le successive *alleanze di Dio con l’uomo (Noè, Abramo, Mosè, David),
procedettero dalla memoria di Dio: allora egli si è ricordato ed ha promesso di
ricordarsi (Gen 8, 1; 9, 15 ss; Es 2, 24; 2 Sam 7), per salvare (Gen 19, 29; Es
6, 5). Ed il fatto salvifico che orienterà per sempre la memoria del popolo di
Dio è la *Pasqua (Os 13, 4 ss).
b) Il ricordo dei fatti. - La memoria ha molti modi di
prolungare nel presente l’efficacia del passato. In ebraico, i sensi del verbo
zkr, nelle sue diverse forme, ne danno qualche idea: ricordarsi, rammentare,
menzionare, ma anche conservare ed invocare, sono altrettante azioni che
svolgono una delle funzioni più importanti nella vita spirituale e nella
liturgia. L’invocazione del nome è inseparabile dal ricordo della Pasqua (Es 20,
2), perché proprio rivelando il suo *nome Jahvè ha inaugurato la Pasqua (Es 3),
e la salvezza attuale che questa invocazione domanda (Sal 20, 8) è intesa come
il rinnovamento dei prodigi antichi (Sal 77; Gioe 3). Il *culto comporta anche
un aspetto di memoriale risvegliando il «ricordo della sua alleanza»; questa
espressione, cara alla tradizione sacerdotale, mette chiaramente in evidenza che
Dio si ricorda del suo popolo e il popolo deve ricordarsi di Dio nei riti
ciclici del culto (*feste, *sabato) o nei luoghi in cui si incontrano (*pietra,
*altare, *arca, *tenda,*tempio). Fondata sui fatti salvifici, la preghiera è
necessariamente immersa nel *ringraziamento, tonalità normale del ricordo
dinanzi a Dio (Es 15; Sal 136). La conservazione dei ricordi è assicurata dalla
trasmissione della *parola, orale o scritta (Es 12, 25 ss; 17, 14), specialmente
nei libri della *legge (Es 34, 27; Deut 31, 19 ss). La meditazione della legge è
allora nel fedele la forma correlativa del ricordo (Deut; Gios 1, 8);
quest’attenzione vigile dà accesso alla *sapienza (Prov 3, 1 ss). L’*obbedienza
ai comandamenti è, in definitiva, l’espressione autentica di questo ricordo che
consiste nel «custodire le vie di Jahvè» (Sal 119; Sap 6, 18; Is 26, 8).
2. Il dramma della dimenticanza.
- Ma proprio qui la memoria dell’uomo si rivela debole, mentre Dio non dimentica
né la sua parola, né il suo nome (Ger 1, 12; Ez 20, 14). Nonostante che il
Deuteronomio metta in guardia (Deut 4, 9; 8, 11; 9, 7): «Guardati dal
dimenticare Jahvè tuo Dio..., ricordati...», il popolo dimentica il suo Dio ed
ecco il suo peccato (Giud 8, 34; Ger 2, 13; Os 2, 15). Allora Dio, secondo la
logica dell’*amore, sembra dimenticare la sposa infedele, sventura che la
dovrebbe far ritornare (Os 4, 6; Mi 3,4; Ger 14, 9). Di fatto, ogni miseria
dovrebbe ravvivare nell’uomo il ricordo di Dio (2 Cron 15, 2 ss; Os 2, 9; 5,
15). Vi si aggiunge la predicazione profetica, che è un lungo «richiamo» (Mi 6,
3 ss; Ger 13, 22-25) destinato a rimettere il *cuore dell’uomo nello stato di
ricettività in cui Dio può realizzare la sua Pasqua (Ez 16, 63; Deut 8, 2 ss).
Il pentimento, oltre che ricordo delle colpe, è appello alla memoria di Dio (Ez
16, 61 ss; Neem 1, 7 ss), e, nel *perdono, Dio, la cui memoria è quella
dell’amore, si ricorda dell’alleanza (1 Re 21, 29; Ger 31, 20) e dimentica il
peccato (Ger 31, 34).
3. Dal ricordo all’attesa.
- Ed ecco il paradosso: la Pasqua, passata, è ancora futura. Il popolo si
ricorda di tutto ciò che Jahvè ha fatto per lui: il passato prova la fedeltà di
Dio. Ma il presente è deludente. Nel futuro quindi, in un «tempo che verrà» si
adempiranno le promesse già parzialmente realizzate. Fedeltà e delusione aprono
la coscienza del popolo di Dio alla prospettiva degli «ultimi tempi» decisivi.
Questa percezione vivissima del futuro attraverso il passato caratterizza la
memoria del popolo dopo il ritorno dall’esilio; c’è qui una specie di mutamento.
Il ricordo diventa attesa, e la memoria sfocia nell’immaginazione apocalittica.
Il caso tipico è quello di Ezechiele (40 - 48), seguito da Zaccaria, Daniele, il
quarto evangelista e l’autore dell’Apocalisse. Dal punto di vista della
comunità, il passato glorioso costituisce, in mezzo alla miseria presente, il
segno della liberazione (Is 63, 15-64, 11; Sal 77; 79; 80; 89). Dal punto di
vista personale, il *povero, in apparenza dimenticato da Dio (Sal 10, 12; 13,
2), deve sapere che è tuttavia presente al suo amore (Is 66, 2; Sal 9, 19). La
*prova ravviva la memoria (1 Mac 2, 51; Bar 4, 27), e ciò per prepararla al
nuovo evento (Is 43, 18 s).
4. Dalla presenza alla trasparenza.
a) Quando «Jahvè è presente» (Ez 48, 35; Mt 1, 23), la memoria coincide
con il presente, ed è il *compimento. Il ricordo delle *promesse e dell’alleanza
passa all’atto nell’evento di Cristo che ricapitola il *tempo (2 Cor 1, 20; Lc
1, 54. 72). In lui si risolve il dramma delle due dimenticanze con il ritorno
dell’uomo ed il perdono di Dio (Col 3, 13). Poiché, in Cristo, Dio è lì a
ricordarsi dell’uomo, l’uomo non deve più cercare Dio nel passato, ma oggi, in
Cristo (Gv 14, 6 s; 2 Cor 5, 16 s). *Gesù Cristo, infatti, è l’*uomo
definitivamente presente a Dio, e Dio definitivamente presente all’uomo. Il
Cristo-sacerdote ci fa accedere al Padre (Ef 2, 18; Ebr 10, 19) e il suo Spirito
ci mette in comunione con lui (Rom 8, 15-16. 26-27).
b) Ma il tempo non è ancora consumato e se Dio è ormai presente
in un’alleanza nuova ed eterna, l’uomo è spesso assente per il suo Dio ed ha
bisogno di ricordarsi. Per questo *Spirito «richiama» il mistero di Cristo, non
come un *libro, ma nell’attualità personale della parola vivente: la *tradizione
(Gv 14, 26; 16, 13). Lo Spirito realizza il mistero di Cristo nel suo corpo, non
come un semplice memoriale, ma nell’attualità sacramentale di questo corpo ad un
tempo risorto e presente al mondo (Lc 22, 19 s; 1 Cor 11, 24 ss): la liturgia.
Questa «ri-presentazione» della *Pasqua, proprio come nel VT, è ordinata
all’azione, alla vita: la memoria cristiana consiste nel «custodire le vie di
Jahvè», nel conservare il testamento del Signore, cioè nel rimanere nell’*amore
(Gv 13, 34; 15, 10 ss; 1 Gv 3, 24). Infine, ultimo accordo della memoria
dell’uomo con quella di Dio, quanto più lo Spirito compenetra la vita del
cristiano, tanto più lo rende vigilante, attento ai «segni dei tempi», testimone
che lascia trasparire la presenza attiva del Signore e rivela l’approssimarsi
del suo avvento (Apoc 3, 3; Fil 3, 13 s; 1 Tess 5, 1-10).
J. CORBON
→ Abramo II 1 - alleanza VT II 1; NT I - altare 1 - culto VT II; NT III 1 -
eucaristia I 1, III 3, IV 2, V 2 - Paradito 2 - pietra 2 - segno VT I, II -
tempo VT I 2, II 1; NT II 3.
L’uso biblico
della parola menzogna implica due sensi diversi, secondo che sono in causa i
rapporti dell’uomo con il suo prossimo od i suoi rapporti con Dio.
I. MENZOGNA NEI RAPPORTI CON IL PROSSIMO
1. Nel VT.
- Il divieto della menzogna nella legge all’origine ha di mira un concetto
sociale preciso: quello della falsa testimonianza nei processi (decalogo: Es 20,
16 e Deut 5, 20; ripreso in Es 23, 1 ss. 6 ss; Deut 19, 16-21; Lev 19, 11);
questa menzogna, detta sotto la fede del *giuramento, è inoltre una profanazione
del *nome di Dio (Lev 19, 12). Questo senso ristretto sussiste nell’insegnamento
morale dei profeti e dei sapienti (Prov 12, 17; Zac 8, 17). Ma il peccato di
menzogna vi è pure inteso in modo molto più largo: è il dolo, l’inganno, il
disaccordo tra il pensiero e la *lingua (Os 4, 2; 7, 1; Ger 9, 7; Nah 3, 1).
Tutto questo ha in orrore Jahvè (Prov 12, 22), che non può essere ingannato (Giob
13, 9); perciò il mentitore va incontro alla sua perdizione (Sal 5, 7; Prov 12,
19; Eccli 20, 25). Anche Giacobbe, l’astuto, che carpì la benedizione paterna,
fu a sua volta giocato dal suocero Labano (Gen 29, 15-30).
2. Nel NT
- Nel NT l’obbligo di una lealtà totale è formulato nettamente da Gesù: «Il
vostro linguaggio sia: sì, sì; no, no» (Mt 5, 37; Giac 5, 12), e Paolo ne fa la
sua regola di condotta (2 Cor 1, 17 s). Sono così ripresi gli insegnamenti del
VT, non senza ricevere una motivazione più profonda: «Non mentite gli uni agli
altri; vi siete spogliati dell’uomo vecchio e avete rivestito il nuovo» (Col 3,
9 s); «Ditevi la verità, perché siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4, 25). La
menzogna sarebbe un ritorno alla natura depravata; andrebbe contro la nostra
solidarietà in Cristo. Si comprende come, secondo gli Atti, Anania e Safira,
mentendo a Pietro, hanno mentito in realtà allo Spirito Santo (Atti 5, 1-11): la
prospettiva dei rapporti sociali è superata quando è in gioco la comunità
cristiana.
II. MENZOGNA NEI RAPPORTI CON DIO
1. Il disconoscimento del vero Dio.
- Jahvè è il *Dio di verità. Il disconoscerlo rivolgendosi agli *idoli
ingannatori costituisce la menzogna per eccellenza - non più quella delle
*labbra, ma quella della vita. Gli autori sacri fanno a gara nel denunziare
questa impostura, lanciando strofe ironiche (Ger 10, 1-16; Is 44, 9-20; Sal 115,
5 ss), aneddoti canzonatori (Dan 14), epiteti infamanti: nulla (Ger 10, 8),
orrore (4, 1), vanità (2, 5), impotenza (2, 11)... Ai loro occhi ogni
conversione suppone in primo luogo che si confessi il carattere menzognero degli
idoli che si sono serviti (16, 19). Così l’intende ancora Paolo quando sollecita
i pagani a staccarsi dagli idoli di menzogna (Rom 1, 25) per *servire il Dio
vivo e vero (1 Tess 1, 9).
2. Peccato di menzogna e vita religiosa.
a) Il VT conosce pure un modo più sottile di
disconoscere il vero Dio: fare della menzogna una abitudine costante nella vita.
Tale è il modo di agire degli *empi, nemici dell’uomo onesto: sono dei furbi (Eccli
5, 14) che hanno soltanto la menzogna in bocca (Sal 59, 13; Eccli 51, 2; Ger 9,
2); confidano nella menzogna (Os 10, 13), vi aderiscono fino a rifiutare di
convertirsi (Ger 8, 5), ed anche le loro conversioni apparenti sono menzognere
(3, 10). Inutile nutrire illusioni sull’uomo lasciato a se stesso: egli è
spontaneamente mentitore (Sal 116, 11). Al contrario, il vero fedele proscrive
la menzogna dalla sua vita per essere in comunione con il Dio di verità (Sal 15,
2 ss; 26, 4 s). Così farà negli ultimi tempi il *servo di Jahvè (Is 53, 9), al
pari dell’umile *resto che Dio lascerà allora al suo popolo (Sof 3, 13).
b) Il NT trova realizzato questo ideale in Cristo (1
Piet 2, 22). Perciò lo spogliarsi di ogni menzogna e una delle esigenze
principali della vita cristiana (1 Piet 2, 22). Con ciò non intendiamo soltanto
la menzogna delle labbra, ma quella che è inclusa in tutti i vizi (Apoc 21, 8):
gli eletti, compagni di Cristo, non l’hanno mai conosciuta (14, 5). Merita in
modo tutto speciale il nome di mentitore colui che disconosce la *verità divina
rivelata in Gesù: l’*anticristo, il quale nega che Gesù sia il Cristo (1 Gv 2,
22). In lui la menzogna non è più di ordine morale, è religiosa per essenza, al
pari di quella dell’idolatria.
3. I fautori di menzogna.
a) Ora, per precipitare gli uomini in questo universo
menzognero che si leva dinanzi a Dio in atto di sfida, esistono guide
ingannatrici a tutte le epoche. Il VT conosce *profeti di menzogna, di cui Dio
all’occasione si fa gioco (l Re 22, 19-23), ma che più spesso i veri profeti
denunziano in termini severi: così Geremia (5, 31; 23, 9-40; 28, 15 s; 29, 31
s), Ezechiele (13) e Zaccaria (13, 3). Invece della *parola di Dio, essi portano
al popolo messaggi alterati.
b) Nel NT Gesù denuncia allo stesso modo le guide cieche del
popolo ebraico (Mt 23, 16 ...). Questi *ipocriti, che rifiutano di credere in
lui, sono dei mentitori (Gv 8, 55). Preludono agli altri mentitori che
sorgeranno in tutti i secoli per staccare gli uomini dal vangelo: anticristi (1
Gv 2, 18-28), falsi apostoli (Apoc 2, 2), falsi profeti (Mt 7, 15), falsi messia
(Mt 24, 24; cfr. 2 Tess 2, 9), falsi dottori (2 Tim 4, 3 s; 2 Piet 2, 1 ss; cfr.
1 Tim 4, 1 s), senza contare i Giudei che impediscono la predicazione del
vangelo (1 Tess 2, 14 ss), ed i falsi fratelli, nemici del vero vangelo (Gal 2,
4)... Altrettanti fautori di menzogna che i cristiani devono affrontare, come
Paolo faceva per il mago Elimas (Atti 13, 8 ss).
III. SATANA, PADRE DELLA MENZOGNA
Il mondo è così diviso in due campi: quello del bene e quello del male, quello
della verità e quello della menzogna, nel duplice senso morale e religioso. Il
primo è concretamente quello di Dio. Anche il secondo ha un capo: *Satana,
l’antico serpente che seduce il mondo intero (Apoc 12, 9) dal giorno in cui
sedusse Eva (Gen 3, 13) e, separandola dall’albero della vita, fu «omicida fin
dall’inizio» (Gv 8,44). Egli spinge Anania e Safira a mentire allo Spirito Santo
(Atti 5, 3), ed il mago Elimas è suo «*figlio» (Atti 13, 10). Da lui dipendono i
Giudei increduli che rifiutano di credere in Gesù: essi sono i figli del
diavolo, mentitore e padre della menzogna (Gv 8, 41-44); perciò vogliono
uccidere Gesù, perché «ha detto loro la *verità» (Gv 8, 40). Egli suscita i
falsi dottori, nemici della verità evangelica (1 Tim 4, 2); e, per guerreggiare
contro i cristiani (Apoc 12, 17), dà i suoi poteri alla *bestia del mare,
l’impero «totalitario» alla bocca piena di bestemmie (13, 1-8); e la bestia
della terra, che si serve dei falsi profeti per ingannare gli uomini e far loro
adorare l’idolo menzognero, dipende ancora da lui (13, 11-17). L’asse del mondo
passa tra questi due campi, ed è necessario che i cristiani non si lascino
sedurre dalle astuzie del demonio al punto che la loro fede si corrompa (2 Cor
11, 3). Per rimanere nella verità essi devono quindi pregare Dio di liberarli
dal maligno (Mt 6, 13).
J. CAMBIER e P. GRELOT
→ anticristo NT 2 - cuore I 2 - delusione I 1 - demoni NT 2 - errore - idoli -
ipocrita - labbra 1 - lingua 1 - parola umana 1 - peccato IV 2 b - Satana I 2,
III - testimonianza VT I; NT I - verità.
→ deserto VT II 2 - miracolo - segno.
→ giustificazione II - giustizia - grazia IV - retribuzione.
→ angeli - fede NT II 2 - missione - parola di Dio VT I 2, III 1 – penitenza-conversione VT II; NT I - predicare - profeta VT II 2.3 - vangelo.
Come la *vendemmia, la messe significa
agli occhi del contadino il *frutto del suo *lavoro e la garanzia della sua
sussistenza annuale. Questo giudizio dato dalla natura sul lavoro dell’uomo può
anche significare il *giudizio di Dio.
I. LA GIOIA DEI MIETITORI
Il raccolto dell’orzo (aprile) e quello del grano (maggio) sono
l’occasione di feste popolari: di colle in colle si propaga il canto delle file
dei mietitori, che fa dimenticare la dura pena del lavoro con la falce sotto un
sole massacrante (Rut 2; Is 9, 2; Ger 31, 12; Sal 126, 6). In questa *gioia
Jahvè non è dimenticato: il raccolto è il segno ed il frutto della *benedizione
divina. A Dio che ha dato la *crescita (1 Cor 3, 6 s), è dovuto il
*ringraziamento (Sal 67, 7; 85, 13), che si esprime con la festa liturgica della
messe, la *Pentecoste, nel corso della quale sono offerte le *primizie del
raccolto (Es 23, 16; 34, 22), specialmente il primo covone (Lev 23, 10). Il
mietitore deve pure far partecipi gli altri della sua gioia, mostrandosi
liberale. La legge prescrive «di non mettere la museruola al bove che macina il
grano» (Deut 25, 4; 1 Cor 9, 9) e soprattutto di «non mietere il campo fino in
cima e di non raccogliere la spigolatura» (Lev 19, 9; Deut 24, 19), per serbare
la parte del povero e dello straniero. Questa liberalità permise a Booz di
incontrare e di sposare Rut la straniera, considerata come favola di David e del
messia (Rut 2, 15 ss; Mt 1, 5). Tuttavia questa gioia legittima e fraterna non
deve legare alla terra lo sguardo del contadino. Questo indubbiamente voleva
inculcare la legge sull’anno *sabbatico, che imponeva di lasciar riposare la
terra ogni sette anni (Lev 25, 4 s), invitando il contadino a ritornare ad una
vita pastorale ed a rimettersi maggiormente a Dio solo. È quel che Gesù precisa:
bisogna abbandonarsi al Padre celeste, come «i corvi che non seminano né
mietono» (Lc 12, 24 par.). Il contadino non porrà quindi la sua sicurezza e la
sua speranza nei granai pieni di grano, non accumulerà tesori per se stesso, ma
«in vista di Dio» che un giorno mieterà la sua anima (Lc 12, 16-21; cfr. Ger 17,
11).
II. LE MESSE E LE SEMINE
1. Il raccolto è frutto delle *semine. Tra l’uno e le altre c’è
corrispondenza in diversi gradi. Si raccoglie ciò che si è seminato (Gal 6, 7);
senza fatica non c’è messe (Prov 20, 4); «chi semina l’ingiustizia miete la
sventura» (Prov 22, 8); far semine di giustizia significa mietere un raccolto di
bontà (Os 10, 12 s). Tutto ciò significa che «Dio rende a ciascuno secondo il
frutto delle sue *opere» (Ger 17; 10). Inutile protestare dicendo come il servo
pigro: «Dio raccoglie dove non ha seminato» (Lc 19, 21), perché Dio, creando e
redimendo gli uomini, ha seminato la sua parola in tutti i cuori (Giac 1, 21; Mc
4, 20).
2. La messe, pur essendo in rapporto con le semine, si realizza
spesso in un clima spirituale diverso. «Coloro che seminano nelle lacrime e
mietono cantando» (Sal 126, 5). Differisce pure nella misura; indubbiamente «chi
semina scarsamente mieterà scarsamente, e chi semina con larghezza mieterà con
larghezza» (2 Cor 9, 6), ma, al modo di Dio sempre sovrabbondante nelle sue
opere, il raccolto supera il seme e può giungere sino al centuplo, come per
Isacco (Gen 26, 12) in favore della buona terra che accoglie la parola di Dio
(Mt 13, 8. 23 par.). 3. Infine, quantunque l’ideale sia di mietere ciò che si è
seminato (Is 37, 30), Dio ha distribuito i tempi delle semine e delle messi (Gen
8, 22; Ger 5, 24), per modo che l’uomo deve *pazientare mentre il seme matura
(Mc 4, 2 6-29), ma con piena fiducia, nonostante il proverbio: «Uno semina,
l’altro miete» (Gv 4, 37).
III. LA MESSE, GIUDIZIO DI DIO
Mietendo le opere degli uomini, Dio le *giudica secondo la sua
*giustizia. Questo giudizio, che avrà luogo alla fine dei tempi, è anticipato
dalla venuta di Cristo.
1. Nel giorno di Jahvè.
- La messe ha un duplice aspetto. La si raccoglie, ed è la *gioia; la
si taglia, la si batte sull’erba, la si calpesta con la slitta, infine si brucia
la paglia (Is 28, 27 s), ed è il *castigo. Dio, simile ad un mietitore, taglia,
schiaccia, vaglia quando punisce Israele (Is 17, 5; Ger 13, 24) o Babilonia (Ger
51, 2. 33). E quando la malizia degli uomini è giunta al colmo, bisogna «dar di
mano alla falce: la messe è matura» (Gioe 4, 13), quella del giudizio dei
popoli. Ma nello stesso tempo, per un contrasto radicale riflesso dagli oracoli
profetici, sopravviene l’annunzio della messe gioiosa, che succede da presso
alla fatica (Gioe 4, 18; Am 9, 13; Os 6, 11; Sal 126, 5 s).
2. Nei tempi messianici.
- Questo annunzio diventa realtà con la venuta di Gesù.
a) Il seminatore ed il mietitore. - Mentre, per il precursore,
Cristo è il vagliatore che netta la sua aia, separa il grano dalla pula (Mc 1,
12 par.), i cristiani vedono in Gesù ad un tempo il seminatore per eccellenza,
che sparge la parola nei cuori degli uomini (Mc 4, 3-9 par.), ed il mietitore
che mette la falce nel campo dove la messe è matura (4, 29). Non c’è da
attendere: «I campi sono bianchi per la messe...; il seminatore condivide così
la gioia del mietitore» (Gv 4, 35 s).
b) Gli operai della messe. - Se la messe è già matura, il
padrone chiama al lavoro (Mt 9, 38 par.). I discepoli, mandati nel mondo,
raccoglieranno il frutto del lavoro dei loro predecessori, soprattutto di Gesù
che ha pagato col suo sangue la moltiplicazione del grano di frumento. In questo
rimane vero il proverbio che distingue il seminatore ed i mietitori (Gv 4, 37).
Tuttavia gli stessi mietitori saranno «passati al vaglio» della *prova e della
*persecuzione (Lc 22, 31).
c) Nell’attesa della messe finale. - Se è vero che la nuova
*pentecoste inaugura la messe della Chiesa, essa tuttavia non terminerà che nel
*giorno del Signore, quando il *figlio dell’uomo metterà la falce nel raccolto
infine maturo (Apoc 14, 14 ss; Mc 4, 29). Fino a quel momento la zizzania rimane
mescolata al buon grano; la Chiesa, cui spetta giudicare e condannare il male,
non ha la missione di gettare il malvagio nel fuoco. Sarà il figlio dell’uomo a
mandare, alla fine dei tempi, i suoi angeli ad eseguire il *giudizio che egli
avrà pronunziato sulle opere degli uomini (Mt 13, 24-30. 36-43).
R. GIRARD
→ feste VT I - frutto - gioia VT I - giudizio VT II 2 - Pentecoste I 1 -
seminare - vendemmia.
MESSIA (inizio)
Messia, ricalcato
sull’ebraico e sull’aramaico, e Cristo, trascritto dal greco, significano
entrambi «unto». Questo appellativo all’epoca apostolica è divenuto il nome
proprio di Gesù ed ha assunto il contenuto degli altri titoli da lui
rivendicati. D’altronde esso sottolinea felicemente il legame profondo che
collegava la sua persona alla speranza millenaria del popolo ebraico, accentrata
sull’attesa del messia, figlio di David. Tuttavia gli usi della parola «unto»
nel VT e poi nel giudaismo non implicavano ancora la ricchezza di senso che il
NT ha dato alla parola Cristo.Bisogna risalire fino alle origini di questo
vocabolario per vedere quale trasformazione il NT gli ha fatto subire
proiettando su di esso la luce di una rivelazione insita nelle parole e nella
storia di Gesù.
VECCHIO TESTAMENTO
Nel VT il termine unto è stato applicato innanzitutto al re; ma ha designato
anche altre persone, specialmente i sacerdoti. Tuttavia il primo uso è quello
che ha lasciato più tracce nell’escatologia e nella speranza ebraiche.
I. DAL RE AL MESSIA REGALE
1. L’unto di Jahvè nella storia.
- In virtù dell’unzione con olio, che simboleggia la sua investitura da
parte dello *spirito di Dio (1 Sam 9, 16; 10, l. 10; 16, 13), il *re è
consacrato per una funzione che ne fa il luogotenente di Jahvè in Israele.
Questa consacrazione è un rito importante dell’incoronazione regale (cfr. Giud
9, 8). Perciò è ricordata per Saul (1 Sam 9 - 10) per David (2 Sam 2, 4; 5, 3),
per Salomone (1 Re 1, 39), e per quelli tra i suoi discendenti che salirono al
potere in un contesto di crisi politica (2 Re 11, 12; 23, 30). Il re diventa
così «l’unto di Jahvè» (2 Sam 19, 22; Lam 4, 20), cioè una persona sacra a cui
ogni fedele deve manifestare un rispetto religioso (1 Sam 24, 7. 11; 26, 9. 11.
16. 23; 2 Sam 1, 14. 16). A partire dal momento in cui l’oracolo di Natan ha
fissato la speranza di Israele sulla dinastia di *David (2 Sam 7, 12-16), ogni
re discendente da lui diventa a sua volta il «messia» attuale, per mezzo del
quale Dio vuole compiere i suoi disegni nei confronti del suo popolo.
2. L’unto di Jahvè nella preghiera.
- I salmi preesilici mettono in evidenza il posto di questo messia
regale nella vita di fede di Israele. L’unzione che egli ha ricevuto è il segno
di una preferenza divina (Sal 45, 8) e fa di lui il *figlio adottivo di Jahvè (Sal
2, 7; cfr. 2 Sam 7, 14). Egli quindi è sicuro della protezione di Dio (Sal 18,
51; 20, 7; 28, 8). La rivolta contro di lui è una follia (Sal 2, 2), perché Dio
non mancherà di intervenire per salvarlo (Ab 3, 13) e per «esaltare il suo
corno» (1 Sam 2, 10). Si prega tuttavia per lui (Sal 84, 10; 132, 10). Ma, in
base alle promesse fatte a David, si spera che Dio non mancherà mai di
perpetuarne la dinastia (Sal 132, 17). Grande perciò è la confusione degli
spiriti dopo la caduta di Gerusalemme, quando l’unto di Jahvè è prigioniero dei
pagani (Lam 4, 20): perché Dio ha rigettato in tal modo il suo messia, sì che
tutti i pagani lo oltraggiano (Sal 89, 39. 52)? L’umiliazione della dinastia
davidica è una prova per la fede, e questa prova sussiste anche dopo la
restaurazione postesilica. Di fatto, la speranza di ristabilimento dinastico
suscitata per un momento da Zorobabele è presto delusa: Zorobabele non sarà mai
incoronato (nonostante Zac 6, 9-14) e non ci sarà più messia regale a capo del
popolo giudaico.
3. L’unto di Jahvè nell’escatologia.
- I profeti, spesso severi con l’unto regnante che giudicavano
infedele, hanno orientato la speranza di Israele verso il *re futuro, al quale
d’altronde non danno mai il titolo di messia, Il messianismo regale si è
sviluppato dopo l’esilio partendo appunto dalle loro promesse. I salmi regali,
che un tempo parlavano dell’unto presente, sono ora cantati in una nuova
prospettiva che li mette in relazione con l’unto futuro, messia nel senso
stretto della parola. Ne descrivono in anticipo la gloria, le lotte (cfr. Sal
2), le vittorie, ecc... La speranza giudaica radicata in questi testi sacri è
estremamente viva all’epoca del NT, specialmente nella setta farisaica. L’autore
dei Salmi di Salomone (63 a. C.) fa voti per la venuta del messia figlio di
David (Sal Salom. 17; 18). Lo stesso tema è frequente nella letteratura
rabbinica. In tutti questi testi il messia è posto sullo stesso piano degli
antichi re di Israele. Il suo regno è inquadrato nelle istituzioni teocratiche,
ma lo si intende in un modo molto realistico che accentua l’aspetto politico
della sua funzione.
II. GLI ALTRI USI DELLA PAROLA «UNTO»
1. Gli «unti di Jahvè» in senso largo.
- L’unzione divina consacrava i re in vista di una *missione relativa al disegno
di Dio sul suo popolo. In un senso largo, metaforico, il VT parla talvolta di
unzione divina anche quando c’è soltanto una missione da compiere, soprattutto
se questa missione implica il dono dello spirito divino. Ciro, inviato da Dio
per liberare Israele dalla mano di Babilonia, è qualificato come unto di Jahvè (Is
45, 1), quasi che la sua consacrazione regale lo avesse preparato alla sua
missione provvidenziale. I *profeti non erano consacrati alla loro funzione con
un’unzione mediante olio; tuttavia Elia riceve l’ordine «di ungere Eliseo come
profeta al suo posto» (1 Re 19, 16): l’espressione si può spiegare col fatto che
egli gli trasmetterà «due terzi del suo *spirito» (2 Re 2, 9). Effettivamente
questa unzione dello spirito ricevuta dal profeta è espressa in Is 61, 1: essa
lo ha consacrato per annunziare la buona novella ai poveri. Ed anche i membri
del popolo di Dio, come «profeti di Jahvè», sono chiamati una volta i suoi unti
(Sal 105, 15; cfr. forse Sal 28, 8; Ab 3, 13). Ma tutti questi usi della parola
restano occasionali.
2. I sacerdoti-unti.
- Nessun testo anteriore all’esilio parla di unzione per i sacerdoti.
Ma dopo l’esilio il *sacerdozio vede aumentare il suo prestigio: ora che non c’è
più re, il sommo sacerdote diventa il capo della comunità. Ed allora, per
consacrarlo alla sua funzione, gli si conferisce l’unzione. I testi sacerdotali
posteriori, per sottolineare l’importanza del rito, lo fanno risalire fino ad
*Aronne (Es 29, 7; 30, 22-23; cfr. Sal 133, 2). D’altronde, in seguito,
l’unzione è estesa a tutti i sacerdoti (Es 28, 41; 30, 30; 40, 15). A partire da
quest’epoca il sommo sacerdote diventa il sacerdote-unto (Lev 4, 3. 5. 16; 2 Mac
1, 10), quindi un «messia» attuale com’era una volta il re (cfr. Dan 9, 25).
Prolungando taluni testi profetici che associavano strettamente regalità e
sacerdozio nell’escatologia (Ger 33, 14-18; Ez 45, 1-8; Zac 4, 1-14; 6, 13),
alcuni ambienti attendono persino, negli ultimi tempi, la venuta di due messia:
un messia-sacerdote, che avrà la preminenza, ed un messia-re incaricato dei
negozi temporali (Testamenti dei dodici patriarchi, Testi di Qumrân). Ma questa
forma particolare della speranza messianica sembra ristretta ai circoli essenici
caratterizzati da un’influenza sacerdotale preponderante.
3. Escatologia e messianismo.
- L’escatologia giudaica dà quindi un posto importante alla attesa del
messia: messia regale dovunque, messia sacerdotale in certi ambienti. Ma le
promesse scritturali non si riducono a questo messianismo nel senso stretto
della parola, legato sovente a sogni di restaurazione temporale. Esse annunziano
parimenti la instaurazione del *regno di Dio. Presentano anche l’artefice della
*salvezza sotto i tratti del *servo di Jahvè e del *figlio dell’uomo. La
coordinazione di tutti questi dati con l’attesa del messia (o dei messia) non si
realizza in modo chiaro e facile. Soltanto la venuta di Gesù dissiperà su questo
punto la ambiguità delle profezie.
NUOVO TESTAMENTO
I. GESÙ E L’ATTESA DEL MESSIA
1. Il titolo dato a Gesù.
- Colpiti dalla santità dall’autorità e dalla potenza di Gesù (cfr. Gv 7, 31), i
suoi uditori si domandano: «Non sarà lui il messia?» (Gv 4, 29; 7, 40 ss),
oppure, ed è la stessa cosa: «Che non sia costui il figlio di David?» (Mt 12,
23). E lo sollecitano a dichiararsi apertamente (Gv 10, 24). Dinanzi a questa
questione gli uomini si dividono (cfr. 7, 43). Da una parte le autorità
giudaiche decidono di scomunicare chiunque lo riconoscerà per il messia (9, 22).
Ma coloro che ricorrono al suo potere miracoloso lo invocano apertamente come
figlio di David (Mt 9, 27; 15, 22; 20, 30 s) e la sua messianità costituisce
l’oggetto di atti di fede espliciti: da parte dei primi discepoli, fin dal
giorno successivo al battesimo (Gv l, 41. 45. 49), da parte di Marta, nel
momento in cui egli si rivela come la risurrezione e la vita (11, 27). I
sinottici danno una particolare solennità all’atto di fede di Pietro: «Chi dite
voi che io sia?» - «Tu sei il messia» (Mc 8, 29). Questa *fede è autentica, ma
rimane imperfetta, perché il titolo di messia rischia ancora di essere inteso in
una prospettiva di regalità (cfr. *re) temporale (cfr. Gv 6, 15).
2. Atteggiamento di Gesù.
- Gesù quindi adotta un atteggiamento riservato a questo riguardo. Eccetto che
in Gv 4, 25 s (dove il termine traduce senza dubbio in linguaggio cristiano
un’espressione della fede samaritana), egli non si dà mai il titolo di messia.
Si lascia chiamare figlio di David, ma proibisce agli indemoniati di dichiarare
che egli è il messia (Lc 4, 41). Accetta le confessioni di fede, ma dopo quella
di Pietro raccomanda ai Dodici di non dire che concezione messianica dei suoi
discepoli. La sua carriera di messia incomincerà come quella del *servo
sofferente; *figlio dell’uomo, egli entrerà nella sua gloria attraverso il
sacrificio della sua vita (Mc 8, 31 par.; 9, 31 par.; 10, 33 s par.). I suoi
discepoli sono sconcertati, come lo saranno i Giudei quando egli parlerà loro
della «elevazione del figlio dell’uomo» (Gv 12, 34). Tuttavia, nel giorno delle
palme, Gesù si lascia intenzionalmente acclamare come il figlio di David (Mt 21,
9). Poi, nelle controversie con i farisei, sottolinea la superiorità del figlio
di David sul suo antenato, di cui è il Signore (Mt 22, 41-46 par.). Infine nel
suo processo religioso, il sommo sacerdote gli intima di dire se è il messia.
Gesù, senza respingere questo titolo, lo interpreta subito in una prospettiva
trascendente: egli è il figlio dell’uomo destinato a sedere alla destra di Dio
(Mt 26, 63 s). Ora questa confessione è fatta nel momento in cui incomincia la
passione, e d’altronde proprio essa causerà la sua condanna (26, 65 s). Perciò
il suo titolo di messia sarà particolarmente schernito (26, 68; Mc 15, 32; Lc
23, 35. 39), assieme al suo titolo di *re. Soltanto dopo la sua risurrezione i
discepoli potranno comprendere ciò che esso implica esattamente: «Non bisognava
forse che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc
24, 26). Evidentemente non si tratta più di gloria temporale, ma di ben altra
cosa: secondo le Scritture «il Cristo doveva morire e risorgere perché in suo
nome sia proclamata la conversione a tutte le nazioni in vista della remissione
dei peccati» (24, 46).
II. LA FEDE DELLA CHIESA IN GESÙ CRISTO
1. Gesù risorto è il Cristo.
- Alla luce di Pasqua, la Chiesa nascente attribuisce quindi a *Gesù questo
titolo di messia-Cristo, liberato ora da ogni equivoco. Le sue ragioni sono
apologetiche e teologiche. Bisogna far vedere ai Giudei che il Cristo, oggetto
della loro speranza, è venuto nella persona di Gesù. Questa dimostrazione poggia
su una teologia sicurissima che sottolinea la continuità delle due *alleanze e
vede nella seconda il *compimento della prima. Gesù appare così come il vero
figlio di David (cfr. Mt 1,1; Lc 1, 27; 2,4; Rom 1, 3; Atti 2, 29 s; 13, 23),
destinato fin dal concepimento a ricevere il trono di David suo padre (Lc 1,
32), per portare a termine la monarchia israelitica stabilendo sulla terra il
*regno di Dio. È stata la risurrezione ad intronizzarlo nella sua gloria regale:
ora che ha «ricevuto lo Spirito Santo, che è la promessa» (Atti 2, 33), «Dio lo
ha fatto Signore e Cristo» (2, 36). Ma questa gloria appartiene all’ordine della
nuova *creazione; la gloria temporale degli antichi unti di Jahvè non ne era che
una *figura lontana.
2. I titoli di Gesù Cristo.
- Dal quel momento il termine Cristo, unito indissolubilmente al nome
personale di *Gesù, conosce un prodigioso allargamento, perché tutti gli altri
titoli che definiscono Gesù si concentrano attorno ad esso. Colui che Dio ha
unto, è il suo santo *servo Gesù (Atti 4, 27), 1’*agnello immacolato descritto
da Is 53 (1 Piet 1, 19; cfr. 1 Cor 5, 7). Per questo era scritto che egli doveva
soffrire (Atti 3, 18; 17, 3; 26, 22 s) ed il Sal 2 descriveva in anticipo il
complotto delle nazioni «contro Jahvè e contro il suo messia» (Atti 4, 25 ss;
cfr. Sal 2, 1 s). Perciò il vangelo di Paolo è un annunzio del Cristo crocifisso
(1 Cor 1, 23; 2, 2), morto per gli empi (Rom 5, 6 ss), e la prima lettera di
Pietro si dilunga sulla passione del messia (1 Piet 1, 11; 2, 21; 3, 18; 4, 1.
13; 5, 1). Nel libro di Isaia la missione del servo era descritta come quella di
un *profeta perseguitato. Di fatto, la sola *unzione che Gesù abbia mai
rivendicato, è la unzione profetica dello Spirito (Lc 4, 16-22; cfr. Is 61, 1),
e Pietro, negli Atti, non manca di ricordare come «Dio ha unto Gesù con lo
Spirito Santo e la potenza» (Atti 10, 38). Alla vigilia della sua morte Gesù
proclamava la sua dignità di *figlio dell’uomo (Mt 26, 63 s). La predicazione
apostolica annunzia effettivamente il suo ritorno nell’ultimo giorno in qualità
di figlio dell’uomo per instaurare il nuovo mondo (Atti 1, 11; cfr. 3, 20 s; Mt
25, 31. 34), ed a questo titolo egli siede già alla destra di Dio (Atti 7, 55 s;
Apoc 1, 5. 12-16; 14, 14). Senza punto attribuirgli il messianismo sacerdotale
che il tardo giudaismo sognava, l’Apocalisse lo presenta con le vesti
sacerdotali (Apoc 1, 13) e la lettera agli Ebrei ne celebra il *sacerdozio
regale, sostituito definitivamente al sacerdozio figurativo di Aronne (Ebr 5,
5...; 7). Non si esita a dargli il titolo più alto, quello di *Signore (cfr.
Atti 2, 36): egli è «il Cristo Signore» (Lc 2, 11; 2 Cor 4, 5 s), «il nostro
Signore Gesù Cristo» (Atti 15, 26). Di fatto la sua risurrezione ha manifestato
con splendore che egli possiede una gloria più che umana: Cristo è il *Figlio di
Dio nel senso stretto della parola (Rom 1, 4), è Dio stesso (Rom 9, 5; 1 Gv 5,
20). Cristo non è più per lui un titolo tra altri, ma è diventato come il suo
nome proprio (usato senza articolo: 1 Cor 15, 12-23), che ricapitola tutti gli
altri. E coloro che egli ha salvato portano giustamente il nome di «cristiani»
(Atti 11, 26).
P. É. BONNARD e P. GRELOT
→ Aronne 1 - consolazione 1 - David 0.3 - disegno di Dio - figlio dell’uomo VT
II - figlio di Dio VT II; NT I 1 - Gesù Cristo - Giovanni Battista -
Melchisedech 2 - olio 2 - ora 2 - Pasqua I 6 c - pastore e gregge VT 2 - poveri
NT I - promesse II 4, III 1 - re - redenzione VT 2 - regno VT III; NT II 1, III
1 - resto VT 1 - sacerdozio VT III 2 - segno NT I 0.1 II 3 - servo di Dio III 1
- Signore NT 1 - spirito di Dio VT I 3; NT I 1.2 - trasfigurazione 1.2 - vino II
2 b - vittoria VT 3 a.
→ latte 2 - mitezza 1 - terra VT II 1.
Le parole «ministro» e «ministero»,
ricalcate sul latino della Volgata, corrispondono al greco diàkonos e diakonìa.
Queste due parole non appartengono al linguaggio religioso dei LXX, che le usano
raramente, in un senso profano (Est 1, 10; 6, 1-5). Nella Volgata, minister
traduce l’ebraico mešaret (cfr. Es 24,13: Giosuè, servo di Mosè), che può
designare i sacerdoti, ministri del culto (Is 61, 6; Ez 44, 11; Gioe 1, 9).
Tuttavia, già nel VT, la realtà di un ministero religioso svolto nel popolo di
Dio dai titolari di talune funzioni sacre è un fatto ben attestato: i *re, i
*profeti, i depositari del *sacerdozio sono *servi di Dio, che esercitano una
*mediazione tra lui ed il suo popolo. Così S. Paolo dirà che Mosè era ministro
della prima alleanza (2 Cor 3, 7. 9). Nel NT, Cristo è l’unico mediatore tra Dio
e gli uomini, l’unico sacerdote che offre il sacrificio della salvezza, l’unico
latore della *rivelazione perché è la *parola di Dio fatta carne. Ma nella
Chiesa da lui fondata viene esercitato un ministero di nuovo genere, che è al
servizio della sua parola e della sua grazia.
I. IL MINISTERO DELLA CHIESA
1. Il ministero dell’apostolato.
- Gesù ha insegnato ai suoi *apostoli a considerare la loro funzione
come un servizio: i capi delle nazioni vogliono essere considerati come
benefattori e padroni; ma essi, sul suo esempio, dovranno farsi i servi (diàkonos)
di tutti (Mc 10, 42 ss par.). Sono i suoi servi, ed a questo titolo promette
loro che entreranno con lui nella gloria del Padre (Gv 12, 26). Fin dall’inizio
degli Atti, l’apostolato è quindi considerato come un ministero (diakonìa: Atti
1, 17. 25), che Mattia è chiamato a svolgere con gli altri undici. La vocazione
di Paolo all’apostolato (Rom 1, 1) è pure una chiamata ad un ministero (1 Tim 1,
12; cfr. 2 Cor 4, 1), che in seguito Paolo si sforza di svolgere degnamente
(Atti 20, 24) e grazie al quale Dio porta la salvezza ai pagani (21, 19).
Cosciente di essere in tal modo ministro di Dio (2 Cor 6, 3 s) e ministro di
Cristo (11, 23), egli sente vivamente la grandezza di questa funzione, più
grande di quella dello stesso Mosè, perché è un servizio della nuova alleanza,
della giustizia, dello Spirito (3, 6-9), della riconciliazione (5, 18), del
vangelo (Col 1, 23; Ef 3, 7), della Chiesa (Col 1, 25).
2. Diversità di ministeri.
- Tuttavia nella Chiesa nascente il ministero va ben oltre l’esercizio
dell’apostolato propriamente detto. Il termine diakonìa è applicato innanzitutto
a servizi materiali necessari alla comunità, come il servizio delle mense (Atti
6, 1. 4; cfr. Lc 10, 40) e la colletta per i poveri di Gerusalemme (Atti 11, 29;
12, 25; Rom 15, 31; 1 Cor 16, 15; 2 Cor 8, 4; 9, 1. 12 s). Inoltre un ministero
è affidato al Archippo (Col 4, 17) e Timoteo (2 Tim 4, 5; il titolo di ministro
(diàkonos) è dato ad Apollo come a Paolo (1 Cor 3, 5), a Timoteo (1 Tess 3, 2; 1
Tim 4, 6), a Tichico (Col 4, 7; Ef 6, 21), ad Epafra (Col 1, 7), e persino ai
falsi apostoli giudaizzanti (2 Cor 11, 23). Ciò dimostra che nella Chiesa c’è
«diversità di ministeri» (1 Cor 12, 5), perché «lo Spirito diversifica i suoi
*carismi in vista dell’opera del ministero» (Ef 4, 12). Ogni «servizio» di
questo genere dev’essere effettuato sotto l’influsso dello Spirito (Rom 12, 7),
come un mandato ricevuto da Dio (1 Piet 4, 11). Resta da vedere in che
consistano questi «servizi». Le liste di *carismi presentate nelle lettere
mettono sempre in testa le funzioni relative alla parola di Dio (apostolo,
profeta, dottore, evangelista). Ma ciò non esclude la esistenza di uffici
propriamente pastorali, che la lettera agli Efesini menziona espressamente (Ef
4, 11).
II. IL MINISTERO GERARCHICO
1. Il NT ci fa assistere, sin dal tempo degli apostoli, alla
nascita di una gerarchia di governo che prolunga la loro azione. Tutte le
comunità giudaiche avevano a capo degli anziani (presbýteroi). Così pure i
missionari Paolo e Barnaba stabiliscono dovunque, nelle Chiese, dei presbiteri
che le dirigeranno (Atti 14, 23). In occasione dell’assemblea apostolica di
Gerusalemme, vediamo che ai Dodici si aggiungono i presbiteri della comunità
locale, che hanno alla loro testa Giacomo (15, 2. 4. 6. 22 s; 16, 4); e li si
ritroverà al ritorno di Paolo (21, 18). Così pure, nel corso del suo ultimo
viaggio, Paolo riceve a Mileto i presbiteri di Efeso (20, 17). Si vede così che,
già a quest’epoca, gli apostoli, direttamente o per mezzo dei loro inviati,
istituiscono in ogni città un collegio di presbiteri (Tito 1, 5), il cui
reclutamento è soggetto a regole precise e che sono costituiti nella loro
funzione mediante l’*imposizione delle mani (1 Tim 5, 17-22). Quest’ultimo
tratto mostra che il presbiterato richiede un carisma particolare dello Spirito
Santo: non e quindi una semplice funzione amministrativa. Effettivamente, nella
lettera di Giacomo, vediamo che i presbiteri pregano per gli ammalati e
conferiscono loro l’*unzione con olio (Giac 5, 14). Altrove è detto che essi
devono tenere la presidenza nell’assemblea cristiana (1 Tim 5, 17). Le allusioni
di Paolo ai presidenti (proistàmenos) si riferiscono quindi probabilmente ai
presbiteri (1 Tess 5, 12 s; cfr. Rom 12, 8), e così pure la menzione dei capi (bigoùmenos)
nella lettera agli Ebrei (Ebr 13, 7. 17. 24).
2. Ma la lettera ai Filippesi menziona pure affiancati episcopi
e diaconi (Fil 1, 1): c’è qui un embrione di gerarchia. Gli Atti vedono
probabilmente nei Sette che i Dodici hanno costituito per servire alle mense
(Atti 6, 1-6) i prototipi dei futuri diaconi; d’altronde essi entrano in
funzione, al pari dei presbiteri, mediante l’*imposizione delle mani (Atti 6,
6). Tuttavia il loro ministero va oltre il servizio materiale, perché predicano,
e Filippo è esplicitamente qualificato come evangelista (Atti 21, 8). Le lettere
pastorali stabiliscono regole per la scelta di questi diaconi (1 Tim 3, 8-13).
Si tratta allora di un ministero inferiore, di cui non è facile precisare le
funzioni. Quelle di Febe, diaconessa della Chiesa di Cencree (Rom 16, 1), non
sono necessariamente dello stesso ordine, perché le consegne di Paolo sulla
funzione delle *donne nelle assemblee cultuali (1 Cor 11, 1-16; 14, 33 s) sono
le più rigide. Quanto al gruppo delle *vedove, che costituisce oggetto di una
severa selezione, non si sa esattamente quali fossero i compiti ad esso affidati
(1 Tim 5, 9-15).
3. Essenzialmente gli episcopi, come indica il loro nome, sono
dei «sorveglianti» preposti alle comunità per vegliare su di esse. Un simile
compito non era ignoto al giudaismo: nella comunità di Qumrân, il mebaqqer
(«ispettore») aveva una funzione molto simile. Primitivamente sono i presbiteri
a «sorvegliare» in tal modo collegialmente ciascuna Chiesa, perché hanno la
missione di pascere il gregge di Dio (Atti 20, 28; 1 Piet 5, 2 s), ad immagine
di Cristo, modello dei *pastori (1 Piet 5, 4), pastore e sorvegliante delle
anime (1 Piet 2, 25). Ma nelle lettere pastorali si constata che in ciascuna
comunità c’è un solo episcopo, che dev’essere scelta con cura (1 Tim 3, 1-7), a
quanto pare, tra i presbiteri (Tito 1, 5-9). Egli senza dubbio svolge questa
funzione di pastore (cfr. Atti 20, 28 s), che Paolo annovera tra i carismi (Ef
4, 11) e che ricorda una delle responsabilità apostoliche (Gv 21, 15 ss; cfr. Mt
18, 12 ss). Gli inviati di Paolo, Tito e Timoteo,hanno *autorità sui presbiteri,
sui diaconi e sugli episcopi delle Chiese che sono loro affidate; hanno
responsabilità in materia di liturgia (1 Tim 2, 1-15) e di insegnamento
dottrinale (1 Tim 4, 6. 13-16; 6, 3). Ma su quest’ultimo punto ogni episcopo
esercita pure una sorveglianza nella sua giurisdizione (Tito 1, 9). Questa
delegazione delle funzioni di governo, devolute primitivamente agli apostoli, fa
vedere che l’organizzazione della Chiesa è in corso di evoluzione. Scomparsi gli
apostoli, essa si stabilizzerà in una gerarchia a tre gradi: un episcopo,
pastore e presidente della comunità, circondato da un presbiterato, assistito a
sua volta da diaconi. Il carisma necessario all’esercizio delle loro funzioni
sarà loro conferito, come precedentemente, dal rito dell’imposizione delle mani
(cfr. 2 Tim 1, 6).
4. Il titolo di sacerdoti non è mai dato a questi ministri
della nuova alleanza, come d’altronde non è dato agli apostoli. Ma il loro
ministero li pone al servizio del *sacerdozio di Gesù Cristo, solo sommo
sacerdote degli uomini. A questo titolo, dopo gli apostoli, essi sono gli
amministratori di Dio (Tito 1, 7), dei suoi misteri (1 Cor 4, 2), della sua
grazia (1 Piet 4, 10). Questa è la prospettiva nella quale si svilupperà l’idea
del sacerdozio cristiano, articolato in tre gradi gerarchici (vescovo,
sacerdoti, diaconi): identico per le sue funzioni al ministero descritto nel NT,
esercitato in virtù degli stessi poteri carismatici, esso deriverà in ultima
analisi dal ministero apostolico in ciò che questo aveva di trasmissibile.
P. GRELOT
→ apostoli II 1 - autorità VT II; NT II - carismi II 1.2 - Chiesa -
esortare - imposizione delle mani NT 2 - parola di Dio VT III 1; NT II 1 -
pastore e gregge NT 2 - predicare II 2 b - sacerdozio VT I 4; NT III - servire
III 2.
Non è raro che
dei cristiani considerino come superata la nozione stessa di miracolo e che
viceversa, altri si mostrino ghiotti di falsi prodigi. Questi eccessi opposti
hanno una fonte comune, alimentata da una certa apologetica per lungo tempo in
vigore: nei miracoli non si vedeva che una sfida alle leggi naturali,
dimenticando la loro funzione di *segni «adatti all’intelligenza di tutti». La
Bibbia riconosce dovunque la mano di Dio che manifesta ai suoi la sua potenza ed
il suo amore. L’universo creato, con il suo ordine fisso (Ger 31, 36 s), è
«prodigio» (Sal 89, 6) e «segno» (Sal 65, 9), al pari degli interventi
inconsueti di Dio nella storia; e questi, a loro volta, sono *creazione
rinnovata (Num 16, 30; Is 65, 18), anche se lo storico odierno li ritiene
ordinari e suscettibili di spiegazione. Ignorando le distinzioni moderne fra
azioni «provvidenziali», cause naturali eccezionalmente convergenti, azione
divina che si sostituisce al gioco degli agenti naturali o «cause seconde», la
Bibbia concentra lo sguardo del fedele sull’elemento essenziale, comune a tutte
le nostre categorie: il significato religioso dei fatti. Così, con gli occhi
della fede, S. Agostino riconosce, sia nella raccolta di una messe che nella
moltiplicazione dei pani, il segno dell’amore e del potere divini; se li
distingue, è soltanto a motivo dell’abitudine o dello stupore dei loro
rispettivi beneficiari. In questa prospettiva il particolare non ha l’importanza
che noi siamo portati a conferirgli: Così il fico sterile è seccato
«all’istante» (Mt 21, 19) od in seguito (Mc 11, 20)? Non ha importanza: conta
soltanto la lezione che l’atto simbolico nasconde.
I. IL MIRACOLO NEL VT
1. I fatti.
- Scartato il meraviglioso fittizio di taluni libri o sezioni di libri,
dipendente dal genere didattico (Giona, Tob, cornice drammatica di Giob, haggadà
di Dan 1-6, abbellimenti edificanti di 2 Mac ecc.), nonché i due prodigi
segnalati nella storia di Isaia (Is 37, 36 s; 38, 7 s), i miracoli appaiono
numerosi soltanto in due momenti fondamentali della storia sacra: con Mosè ed il
suo successore Giosuè, al momento della fondazione e della installazione del
popolo di Dio; con Elia ed il suo discepolo Eliseo, restauratori dell’alleanza
mosaica. La storicità sostanziale dei cicli di Elia e di Eliseo ammette
amplificazioni popolari (ad es. 2 Re 1, 9-16)che, da un ciclo all’altro,
acquistano in estensione e perdono sovente in qualità religiosa (ad es. 2 Re 2,
23 s; 6, 1-7). Questa stessa storicità sussiste ancora attraverso
l’amplificazione, certamente più estesa, che nel corso delle età hanno subito le
tradizioni delle dieci piaghe d’Egitto od i miracoli del deserto e della
conquista di Canaan. Coloro che le misero per iscritto, servendosi dei generi
letterari ai quali i lettori del loro tempo erano abituati, così facendo hanno
compilato tradizioni, sfruttato liberamente i racconti; ma non hanno mai perso
di vista il loro scopo religioso: far vedere la presenza protettrice del Dio
onnipotente (Gios 24, 17) all’alba della storia del popolo eletto. Perciò,
attraverso il modo epico che le caratterizza, queste tradizioni rimangono
fondamentali: riferiscono la nascita di Israele, prodigio per eccellenza, solo
degno, con la creazione (Is 65, 17), di essere paragonato alla novità
escatologica (Is 43, 16- 21).
2. Il miracolo, segno divino efficace.
a) Nei miracoli il VT fa vedere delle rivelazioni di Dio e dei
segni efficaci della sua salvezza. I termini che li designano indicano questa
funzione: sono «*segni» (ebr. ôtot, gr. semèia, ad es. Es 10, 1), «segni e
prodigi simbolici» (ebr. môftim, gr. térata, ad es. Deut 7, 19). Ora, l’uso di
questi termini trascende quello di miracolo, manifestando bene la dimensione di
segno o di simbolo che ogni prodigio religioso implica. Così la persona del
profeta può essere un segno, perché la sua esistenza simboleggia la *parola di
Dio che agisce attraverso i suoi rappresentanti (Is 8, 18; 20, 3; Ez 12, 6. 11;
24, 24. 27). I segni miracolosi apportano il loro appoggio a questa parola,
perché rivelano in atti concreti la salvezza proclamata dagli araldi di Dio, e
perché li accreditano come autentici messaggeri del Signore (Es 4, 1-5; 1 Re 18,
36 ss; Is 38, 7 s; Ger 44, 29 s). Questa subordinazione del miracolo alla parola
distingue i veri miracoli dai raggiri compiuti dai *maghi e dai falsi profeti (Es
7, 12 ...). Il valore del messaggio, manifestato specialmente dalla *preghiera
del taumaturgo (1 Re 18, 27 s. 36 s), è il segno primario, che decide della
realtà del miracolo (Deut 13, 2-6); questo non appoggia la parola se non dopo
essere stato giudicato per mezzo di essa.
b) Tra tutti i segni, i miracoli si distinguono per la loro
efficacia ed il loro carattere straordinario. Da una parte essi realizzano
abitualmente ciò che significano: tale è il caso del primo *esodo, cumulo di
prodigi mediante i quali Dio libera il suo popolo, o del nuovo esodo, che
manifesta l’efficacia della sua parola (Is 55, 11; cfr. v. 13). Dall’altra parte
queste *opere (Sal 77, 13; 145, 4) nonostante i fatti naturali che possono
implicare (pioggia, siccità...), superano per lo più ciò che l’uomo è uso a
vedere nell’universo e ciò che egli stesso può compiere. Perciò il miracolo è un
segno particolarmente rivelatore della *potenza di Dio; lo si chiama una
prodezza (Es 15, 11), una grande azione (gebûrah, Sal 106, 2), una grande cosa (Sal
106, 21), una cosa terribile (Es 34, 10), e soprattutto un prodigio (pele’, Es
15, 11; nifla’, Sal 106, 7). Quest’ultimo vocabolo designa realizzazioni
«impossibili» all’uomo - come traducono talvolta i LXX -, accessibili a Dio solo
(Sal 86, 10), che per loro mezzo manifesta la sua *gloria (Es 15, 1. 7; 16, 7;
Num 14, 22; Lev 10, 3), riflesso della sua *santità (Es 15, 11; Sal 77, 14; Lev
10, 3), cioè della sua trascendenza.
c) Ma la potenza divina non schiaccia che i peccatori (Deut 7,
17-20; Mi 7, 15 ss); per il popolo delle promesse (Deut 4, 37), i suoi prodigi
sono benefici, anche quando provano ed umiliano (8, 16), perché «Jahvè è amore
in tutte le sue opere» (Sal 145, 9). In definitiva quindi i miracoli sono i
segni efficaci ed i doni gratuiti (Deut 6, 10 ss; Gios 24, 11 ss) dell’*amore di
Jahvè (Sal 106, 7; 107, 8). Soltanto Gesù rivelerà pienamente l’universalità di
questo amore salvifico. Lo farà sia sottolineando la portata profetica dei
miracoli che egli stesso accorda ai pagani (Mt 8, 11 ss), sia spiegando la
portata dei miracoli compiuti anticamente da Elia ed Eliseo per una donna di
Sidone e per un siro (Lc 4, 25 ss).
3. Il miracolo nel suo rapporto con la fede.
- Oltre lo stupore che essi suscitano, i miracoli mirano a provocare ed a
confermare la *fede ed i sentimenti concomitanti: *fiducia, *ringraziamento e
*memoria (ad es. Sal 105, 5), *umiltà, *obbedienza, *timor di Dio, *speranza.
Accecano coloro che, come il faraone (Es 7, 13 ...), non attendono nulla da un
Dio ignoto. Ma colui che già conosce Dio e fa affidamento soltanto su di lui, vi
scopre l’opera potente dell’amore divino ed un suggello sulla missione
dell’inviato di Dio; allora, con uno stesso movimento, egli crede alla sua
parola, crede in Dio stesso (Num 14, 11). Di questa fede Israele ammira la
grandezza in *Abramo, che con essa ottenne la nascita umanamente impossibile di
un erede (Gen 15, 6; Rom 4, 18-22). Questa fede è alla base delle retrospettive
del Deut, dei profeti (ad es. Is 63, 7-14), dei salmisti (ad es. Sal 77;
105-107), dei sapienti (ad es. Sap 10 - 19), mostrando nei miracoli del tempo
del fidanzamento il pegno di nuovi benefici e facendo valere la loro portata
*educativa (ad es. Deut 8, 3; Sap 16, 21). Appunto la fede Jahvè alimenta
istituendo *feste come «memoriale delle sue meraviglie» (Sal 111, 4). Proprio
essa anima Isaia, quando soltanto un miracolo può salvare Giuda (Is 37, 34 s), e
*Maria, quando le è annunziata la concezione miracolosa (Lc 1, 45). Proprio
essa, invece, è mancata all’Israele del *deserto (Sal 78, 32), quando, reagendo
carnalmente alla *prova che Dio gli imponeva (Deut 8, 2; ecc.), «provò» a sua
volta Jahvè (Es 17, 2; Sal 95, 9), esigendo miracoli con arroganza; proprio essa
mancò ad Acaz, più sicuro delle sue alleanze che del Dio dei miracoli (Is 7,
12), ed a Zaccaria lo scettico (Lc 1, 18 ss). In tutti questi atteggiamenti è
dimenticata la padronanza di Dio sull’uomo, la sua potenza ed il suo amore
gratuito sono disconosciuti, la sua parola è messa in dubbio: il miracolo non e
stato veramente accolto come dono né scorto come segno.
II. NELLA VITA DI GESÙ
1. I fatti.
- «Rinnova i prodigi e compi altri miracoli!», implorava Ben Sira (Eccli
36, 5), esprimendo l’aspirazione di tutto Israele dopo l’esilio, deluso da un
ritorno meno brillante del nuovo esodo annunziato. Gesù viene a soddisfare
quest’attesa, pur scoraggiando il gusto del sensazionale e della rivincita che
essa implicava. Al contrario dei racconti dell’esodo, quelli evangelici
risalgono ai primi testimoni e sono molto sobri. Per ciò stesso, come per la
loro natura, per la mancanza di sforzo da parte di Gesù (mancanza compatibile
con l’uso pedagogico di formule, toccamenti, unzioni, procedimenti per tappe [Mc
8, 23 ss], che costituiscono l’azione simbolica), per una intenzionalità
religiosa ed un atteggiamento di *preghiera (esplicita [Gv 11, 41 s] o suggerita
[Mc 6, 41; 7, 34; 9, 9; 11, 24]) che esclude ogni *magia, per la difficoltà di
spiegare senza di essi la fede della Chiesa, per il loro inserimento nella trama
del vangelo, i miracoli che questo riferisce si distinguono radicalmente dai
prodigi inventati dai vangeli apocrifi, nonché da quelli che la leggenda
attribuisce a rabbini, a dèi (ad es. Esculapio) od a sapienti pagani (ad es.
Apollonio di Tiana), contemporanei delle origini cristiane. Ogni confronto
oggettivo fa risaltare il valore storico e religioso dei nostri testi. Gesù ha
«fatto segno» al suo popolo mediante fatti reali e realmente straordinari.
2. Segni efficaci della salvezza.
a) Con i suoi miracoli Gesù manifesta che il *regno messianico
annunziato dai profeti è giunto nella sua persona (Mt 11, 4 s); attira
l’attenzione su di sé e sulla buona novella del regno che egli incarna; suscita
un’ammirazione ed un timore religioso che inducono gli uomini a chiedersi chi
egli sia (Mt 8, 27; 9, 8; Lc 5, 8 ss). Con essi Gesù attesta sempre la sua
*missione e la sua dignità, si tratti del suo potere di rimettere i peccati (Mc
2, 5-12 par.), o della sua autorità sul sabato (Mc 3, 4 s par.; Lc 13, 15 s; 14,
3 ss), della sua messianità regale (Mt 14, 33; Gv 1, 49), del suo invio da parte
del Padre (Gv 10, 36), della potenza della fede in lui (Mt 8, 10-13; 15, 28
par.), con la riserva che impone la speranza giudaica di un *messia temporale e
nazionale (Mc 1, 44; 5, 43; 7, 36; 8, 26). Già in questo essi sono *segni, come
dirà S. Giovanni. Se provano la messianità e la divinità di Gesù, lo fanno
indirettamente, attestando che egli è veramente ciò che pretende di essere.
Perciò non devono essere isolati dalla sua *parola: vanno di pari passo con
l’*evangelizzazione dei *poveri (Mt 11, 5 par.). I titoli che Gesù dà a sé, i
poteri che rivendica, la salvezza che predica, le rinunzie che esige, ecco ciò
di cui i miracoli fanno vedere l’autenticità divina, a chi non rigetta a priori
la verità del messaggio (Is 16, 31). In tal modo questo è superiore ai miracoli,
come lascia capire la frase su Giona secondo Lc 11, 29-32. Esso si impone come
il segno primario e solo necessario (Gv 20, 29), per la ineguagliabile autorità
personale del suo araldo (Mt 7, 29) e per la sua qualità interna, costituita dal
fatto che, realizzando la rivelazione anteriore (Lc 16, 31; Gv 5, 46 s),
corrisponde negli uditori all’appello dello Spirito (Gv 14, 17. 26); proprio
esso, prima di essere confermato ed illustrato dai miracoli, li dovrà
distinguere dai falsi segni (Mc 13, 22 s; Mt 7, 22; cfr. 2 Tess 2, 9; Apoc 13,
13). Qui, come in Deut, «i miracoli discernono la dottrina, e la dottrina
discerne i miracoli» (Pascal).
b) I miracoli non apportano la loro attestazione dall’esterno,
come segni arbitrari ed ostentatori: realizzano in modo incoativo ciò che
significano, apportano il segno della *salvezza messianica che avrà il suo
termine nel regno escatologico; perciò i sinottici li chiamano *potenze (dynàmeis:
cfr. Mt 11, 20-23; 13, 54. 58; 14, 2). Con essi di fatto Gesù, mosso dalla sua
pietà umana (Lc 7, 13; Mt 20, 34; Mc 1, 41), ma più ancora dalla sua coscienza
di essere il *servo promesso (Mt 8, 17), fa effettivamente indietreggiare la
*malattia, la *morte, l’ostilità della natura contro l’uomo, in breve tutto il
disordine che ha la sua causa più o meno prossima nel *peccato (Gen 3, 16-19;
cfr. Mc 2, 5; Lc 13, 3 b e Lc 13, 2-3 a; Gv 9, 3), e che serve al dominio del
demonio sul mondo (Mt 13, 25; Ebr 2, 14 s). Perciò rifiuta di compiere per
Satana (4, 2-7), per i maldisposti (12, 38 ss; 16, 1-4), per i gelosi (Lc 4,
23), per i frivoli (23, 8 s), delle prodezze gratuite che non avrebbero
efficacia salvifica, ed è significativo che prodigi cosmici - dipendenti del
resto, a quanto pare, più dalle immagini profetiche che dalla storia (Atti 2, 19
s) - non siano segnalati che al momento in cui, sfidato a salvare se stesso
mediante un miracolo, egli muore per salvare tutti gli altri (Mt 27, 39-54; cfr.
1 Cor 1, 22 ss). I prodigi che sembra promettere in Mt 17, 20 par., non sono che
immagine della potenza della fede. Acquista così tutto il suo senso il nesso
frequentissimo tra *guarigioni ed esorcismi (Mt 8, 16; ecc.). La liberazione
degli indemoniati è un caso privilegiato di questa vittoria del «più forte» (Lc
11, 22) su Satana, che tutti i miracoli realizzano a modo loro. Essa mette Gesù
direttamente alle prese con l’avversario, in un duello che, incominciato nel
deserto (Mt 4, 1- 11 par.), avrà il suo episodio decisivo sulla croce (Lc 4, 13;
22, 3. 53) e non terminerà che nel giudizio universale (Apoc 20, 10), ma in cui
è già evidente la sconfitta diabolica (Mt 8, 29; Lc 10, 18). L’esorcismo è il
segno efficace per eccellenza della venuta del regno (Mt 12, 28).
3. Il miracolo e le fede.
a) La buona novella del regno, che Gesù predica e rivela
presente nella sua persona, dev’essere accolta con la *conversione e la *fede
(Mc 1, 15), che i miracoli e gli esorcismi di Gesù hanno quindi il compito di
produrre. Alla loro vista Corozain e Cafarnao avrebbero dovuto convertirsi e
credere (Mt 11, 20-24 par.). Giovanni vi insiste distinguendo diversi gradi di
fede (Gv 2, 11; 11, 15; 20, 30 s): al di là dei fragili entusiasmi (2, 23 ss; 4,
48) e delle adesioni interessate (6, 26), i «segni» portano normalmente a
riconoscere Gesù come inviato di Dio (3, 2; 9, 16; 10, 36), profeta (4, 19),
Cristo (7, 31), *figlio dell’uomo (9, 35-38). Fondarsi troppo su di essi per
credere, è segno di fede imperfetta (10, 38; 14, 11): la parola di Gesù, di una
veracità garantita dal disinteresse che deriva dal suo spirito finale (7, 16 ss;
12, 49 s), dovrebbe bastare, come bastò ai Samaritani (4, 41 s) ed all’ufficiale
regio (4, 50), come dovrà bastare a coloro che crederanno alla parola senza aver
toccato il risorto (20, 29). Ragione di più perché coloro che hanno «*visto» i
suoi miracoli (6, 36; 7, 3; 15, 24) e rifiutato di credere (7, 5; 12, 37) siano
inescusabili (9, 41; 15, 24).
b) Se molti rigettano la «*testimonianza» (Gv 5, 36) dei
miracoli, lo fanno perché accecati (9, 39; 12, 40) dall’ottusità spirituale (6,
15. 26), o dall’orgoglio legalista (5, 16; 7, 49. 52; 9, 16), dalla gelosia (12,
11), dalla falsa prudenza (11, 47 s). Non hanno quelle disposizioni di abbandono
e di apertura a Dio che costituiscono nei sinottici la *fede antecedente il
miracolo (Mc 5, 36; 9, 23; 10, 52; ecc.), e senza le quali Gesù è come impotente
(Mt 13, 58). come sarebbero capaci di interpretare i «segni dei tempi» (Mt 16,
3) quegli uomini che, come Israele nel deserto e poco dianzi Satana (4, 3-7),
non reclamano segni che «per mettere Gesù alla prova» (16, 1), e preferiscono
attribuire i suoi esorcismi al demonio piuttosto che riconoscergli una potenza
soprannaturale (Mc 3, 22. 29 s par.)? Per i cuori *induriti e chiusi alla parola
i segni che l’appoggiano sono indecifrabili. Questa *generazione non avrà altro
segno che quello di Giona (Mt 12, 39 s): Gesù prende appuntamento con i suoi
avversari per il giorno della sua risurrezione, cioè del segno più splendido, ma
anche il più facilmente contestabile da parte degli amatori di evidenza, poiché
i segni per appurarlo sono soltanto indiretti (sepolcro vuoto, apparizione a
qualche persona: cfr. Mt 28, 13 ss; Lc 24, 11). Ciò che sarà per la fede
l’appoggio supremo dev’essere prima la prova suprema.
III. NELLA CHIESA
1. I fatti.
- Questo segno della *risurrezione, vertice del nuovo esodo (Gv 13, 1),
dà alla Chiesa che ne nasce la chiave della storia antecedente, ed inaugura una
nuova serie di segni che devono condurre gli uomini alla fede che esso fonda ed
annunziare la risurrezione dei morti, pienezza della salvezza che procura (1 Cor
15, 20-28; Rom 4, 25).
2. Illuminazione pasquale del vangelo.
a) La risurrezione scopre alla Chiesa, che accorda loro un grande posto
nel suo kèrygma e nella sua catechesi, il pieno senso dei segni antecedenti.
Secondo il kèrygma, essi «accreditavano» Gesù (Atti 2, 22) e manifestavano la
sua bontà (10, 38): temi che i sinottici sviluppano, attestando il progresso
della riflessione della Chiesa, ciascuno nella sua linea propria. Nel triplice
racconto del fanciullo epilettico si sono scoperte, ad esempio, intenzioni
diverse: Lc 9, 37-43 racconta soprattutto un prodigio di bontà; Mt 17, 14-21 si
interessa alla trascendenza di Gesù ed alla parte che i discepoli ricevono della
sua potenza; Mc 9, 14-29 esalta il trionfo del padrone della vita su Satana,
nella cornice di un dramma che abbozza già il simbolismo giovanneo. E vi sono
casi ancora più netti della nuova profondità che ricevono in tal modo gli
episodi, alla luce di Pasqua: nell’intenzione degli autori bisogna certamente
comprendere nel suo senso più ricco la confessione di filiazione divina alla
quale portano i miracoli (Mt 14, 33; 27, 54), e contemplare l’abbozzo di realtà
ecclesiali in taluni di essi, ad es. 1’*eucaristia nella moltiplicazione dei
pani, l’apostolato nella pesca miracolosa (Lc 5, 1- 11).
b) Giovanni va ancora più lontano. Suggerisce che i «segni»,
realizzando l’antico esodo (Num 14, 22) ed anticipando «l’ora» del nuovo,
manifestavano già qualcosa della «*gloria» (Gv 2, 11; 11, 40) che si è rivelata
al momento della «elevazione» di Gesù (3, 14 s; 12, 32; cfr. 17, 5) e che è lo
splendore della potenza salvifica che emana dal Verbo incarnato (1, 14). Ognuno
di essi, collegato ad un discorso, mette in rilievo un aspetto di questa
potenza, che purifica, perdona, vivifica, illumina, risuscita (2, 6; 5, 14; 6,
35; 9, 5; 11, 25); parecchi simboleggiano anche i sacramenti (*battesimo,
*eucaristia...) che distribuiscono gli effetti di questa potenza nella Chiesa,
superando i segni antichi come la *manna (6, 32. 49 s). Più ancora, i miracoli
sono *opere che il Padre dà da realizzare al Figlio (5, 36) per manifestare
l’intima unità del Figlio e del Padre (5, 17; 10, 37 s; 14, 9 s). Contemplare i
segni efficaci della vita scaturita (19, 34) dal fianco di Cristo «elevato» come
il segno supremo (12, 33; cfr. 3, 14 = Num 21, 8: semèion), significa credere
che Gesù è Cristo, il Figlio di Dio che agisce nella Chiesa, e avere la vita in
suo nome (20, 30 s); significa contemplare la gioia comune del Padre e del
Figlio (11, 4) e mettersi così a livello delle relazioni trinitarie.
3. Il tempo dello Spirito.
a) Poiché Gesù è «con essi» (Mt 28, 20), non c’è da
meravigliarsi che gli *apostoli, dopo i diversi miracoli della *Pentecoste,
rinnovino i suoi atti salvifici (Atti 3, 1-10); del resto egli aveva loro
promesso questo potere, quasi istituzionale (Mc 16, 17 s), e li aveva esercitati
nel suo uso (Mt 10, 8). Le dynàmeis (Paolo) che essi operano manifestano
concretamente la *potenza salvifica (dynamis) di Gesù risorto (Atti 3, 6. 12.16;
cfr. Rom 1, 4), e portano gli uomini alla fede accreditando gli araldi della
parola evangelica (Mc 16, 20; 1 Cor 2, 4). Qui si afferma il legame necessario
dei miracoli con la parola, ed il duplice aspetto della loro finalità,
apologetica e salvifica. Qui si rivela la gerarchia dei segni: la qualità di
testimoni oculari (Ebr 2, 3 s), la costanza (2 Cor 12, 12), la sicurezza ed il
disinteresse (1 Tess 2, 2-12) dei missionari vanno di pari passo con «i segni ed
i prodigi», e distinguono dai falsi profeti gli autentici messaggeri di Dio
(Atti 8, 9-24; 13, 4-12); tutto è prodotto dalla forza dello *Spirito Santo (1
Tess 1, 5; 1 Cor 2, 4; Rom 15, 19).
b) All’inizio della Chiesa, lo Spirito accordava pure miracoli
alla *preghiera fiduciosa (cfr. Mt 21, 21 s; Giac 5, 16 ss) di taluni fedeli:
*carisma meraviglioso (Gv 14, 12), ma ordinato ai doni superiori di insegnamento
(1 Cor 12, 28 s), e in definitiva alla carità, meraviglia suprema della vita
cristiana (13, 2). Questo dono coesisteva con i sacramenti, che avevano in parte
la stessa funzione (cfr. Mc 6, 13; Giac 5, 13 ss), ma la cui efficacia
spirituale lasciava posto a segni che orientavano più direttamente lo spirito
verso la *risurrezione e la restaurazione completa della *creazione (Rom 8,
19-24; Apoc 21, 4). Così è ancora oggi. Certamente il mondo, per essere indotto
a credere, ha ormai il miracolo morale multiforme della Chiesa, visto
soprattutto nello splendore dei suoi santi, la cui *carità eroica ed unificante
è il segno più sicuro della presenza divina (Gv 13, 35; 17, 21). Ma anche
miracoli fisici, non meno che nel VT e nel NT, continuano ad indirizzare i
nostri sguardi verso la parola ed il regno definitivo, a suscitare la prima
conversione e le riconversioni (Mt 18, 3), a tradurre l’amore divino in atti
viventi. Oggi come ieri, questo linguaggio resta incompreso dallo spirito
orgoglioso o religioso; ma lo percepisce colui che, sapendo che «nulla è
impossibile a Dio» (Gen 18, 14 = Lc 1, 37), si apre alle esigenze della fede e
dell’amore, quando il contesto religioso del fatto indica Dio che «ha fatto
segno».
P. TERNANT
→ carismi - fede NT I 2, IV - gloria III 1 - magia 2 b -
malattia-guarigione - manna - mare 3 - opere NT I 2 - parola di Dio VT II 2; NT
I 1 - potenza V 1 - rivelazione NT III 1 b - salvezza VT I 1; NT I 2 a – segno.
→ fame e sete - misericordia - poveri.
Il linguaggio
corrente, determinato indubbiamente dal latino ecclesiastico, identifica la
misericordia con la compassione od il perdono. Questa identificazione,
quantunque valida, minaccia di velare la ricchezza concreta che Israele, in
virtù della sua esperienza, poneva nel termine. Per esso infatti la misericordia
si trova alla confluenza di due correnti di pensiero: la compassione e la
fedeltà. II primo termine ebraico (rahamîm) esprime l’attaccamento istintivo di
un essere ad un altro. Secondo i semiti questo sentimento ha sede nel seno
materno (rehem: 1 Re 3, 26), nelle viscere (rabamîm) - noi diremmo: il cuore -
di un padre (Ger 31, 20; Sal 103, 13), o di un fratello (Gen 43, 30): è la
*tenerezza; esso si traduce subito in atti: in compassione, in occasione di una
situazione tragica (Sal 106, 45), od in *perdono delle offese (Dam 9, 9). Il
secondo termine (hesed), tradotto ordinariamente in greco con una parola che
significa anch’essa misericordia (èleos), designa per sé la *pietà, relazione
che unisce due esseri ed implica *fedeltà. Per tale fatto la misericordia riceve
una base solida: non è più soltanto l’eco d’un istinto di bontà, che può
ingannarsi circa il suo oggetto e la sua natura, ma una bontà cosciente, voluta;
è anche risposta ad un dovere interiore, fedeltà a se stesso. Le traduzioni in
lingue moderne delle parole ebraiche e greche oscillano dalla misericordia
all’amore, passando attraverso la tenerezza, la pietà, la compassione, la
clemenza, la bontà e persino la *grazia (ebr. hen) che tuttavia ha un’accezione
molto più ampia. Nonostante questa varietà, non è impossibile definire la
concezione biblica della misericordia. Dall’inizio alla fine Dio manifesta la
sua tenerezza in occasione della miseria umana; l’uomo, a sua volta, deve
mostrarsi misericordioso verso il prossimo, ad imitazione del suo creatore.
VECCHIO TESTAMENTO
I. IL DIO DELLE MISERICORDIE
Quando l’uomo acquista coscienza di essere sventurato o peccatore,
allora gli si rivela, più o meno netto, il volto della misericordia infinita.
1. In soccorso al misero.
- Incessanti risuonano le grida del salmista: «Pietà di me, o Signore!»
(Sal 4, 2; 6, 3; 9, 14; 25, 16), oppure le proclamazioni di *ringraziamento:
«Rendete grazie a Jahvè, perché eterno è il suo amore (hesed)» (Sal 107, 1),
quella misericordia che egli non cessa di dimostrare nei confronti di coloro che
gridano a lui nella loro miseria, i naviganti in pericolo, ad esempio (Sal 107,
23), nei confronti dei «figli di *Adamo», Chiunque essi siano. Egli infatti si
presenta come il difensore del *povero, della vedova e dell’orfano: sono i suoi
privilegiati. Questa convinzione incrollabile degli uomini pii sembra trarre
origine dall’esperienza che fece Israele in occasione dell’*esodo. Quantunque il
termine misericordia non si trovi nel racconto del fatto, la liberazione
dall’Egitto è descritta come un atto della misericordia divina. La prime
tradizioni sulla vocazione di Mosè lo suggeriscono nettamente: «Ho visto la
miseria del mio popolo. Ho ascoltato le sue grida di aiuto... conosco le sue
angosce. Sono deciso a liberarlo» (Es 3, 7 s. 16 s). Più tardi, il redattore
sacerdotale spiegherà la decisione di Dio con la sua fedeltà all’alleanza (6,
5). Nella sua misericordia Dio non può sopportare la miseria del suo eletto; è
come se, contraendo alleanza con esso, egli ne avesse fatto un essere «della sua
stirpe» (cfr. Atti 17, 28 s): un istinto di tenerezza lo unisce a lui per
sempre.
2. La salvezza del peccatore.
- Ma che avverrà, se questo eletto si separa da lui col peccato? La
misericordia prevarrà ancora, purché egli non si *indurisca; infatti, sconvolto
dal *castigo che il peccato esige, Dio vuol salvare il peccatore. Così, in
occasione del peccato, l’uomo entra ancora più profondamente nel mistero della
tenerezza divina.
a) La rivelazione centrale. - Sul Sinai Mosè sente che
Dio rivela il fondo del suo essere. Il popolo eletto ha appena apostatato. Ma
Dio, dopo aver affermato che è libero di usare gratuitamente misericordia a chi
gli pare (Es 33, 19), proclama che, senza ledere la sua santità, la tenerezza
divina può trionfare del peccato: «Jahvè è un Dio di tenerezza (rahûm) e di
grazia (hanun), tardo all’ira e ricco di misericordia (hesed) e fedeltà (‘emet),
che conserva la sua misericordia (hesed) alla millesima generazione, sopporta
mancanza, trasgressione e peccato, ma, senza lasciarli impuniti, castiga la
colpa... fino alla terza ed alla quarta generazione» (Es 34, 6 s). Dio lascia
che le conseguenze si facciano sentire sul peccatore sino alla quarta
generazione, e ciò dimostra la serietà del peccato. Ma la sua misericordia,
conservata intatta fino alla millesima generazione, lo fa pazientare
all’infinito. Tale è il ritmo che segnerà le relazioni di Dio con il suo popolo
fino alla venuta del Figlio suo.
b) Misericordia e castigo. - Di fatto, lungo tutta la
storia sacra, Dio rivela che, se deve castigare il popolo che ha peccato, è
preso da commiserazione non appena esso grida a lui dal fondo della sua miseria.
Così il libro dei Giudici è scandito dal ritmo dell’*ira che si accende contro
l’infedele e della misericordia che gli manda un *salvatore (Giud 2, 18).
L’esperienza profetica darà a questa storia accenti stranamente umani. Osea
rivela che se Dio ha deciso di non usare più misericordia ad Israele (Os 1, 6) e
di castigarlo, il suo «cuore si rivolta in [lui], [le sue] viscere fremono» ed
egli decide di non dare corso all’ardore della sua ira (11, 8 s); perciò un
giorno la sposa infedele sarà nuovamente chiamata: «ha ricevuto misericordia» (ruhamah:
2, 3). Anche quando annunziano le peggiori catastrofi, i profeti conoscono la
tenerezza del cuore di Dio: «Efraim è dunque per me un figlio così caro, un
fanciullo così prediletto che, dopo ognuna delle mie minacce, io debba sempre
pensare a lui, le mie viscere si commuovano per lui, per lui trabocchi la mia
tenerezza?» (Ger 31, 20; cfr. Is 49, 14 s; 54, 7).
c) Misericordia e conversione. - Se Dio è così
sconvolto in se stesso dinanzi alla miseria cui il peccato porta, si è perché
desidera che il peccatore ritorni a lui, si *converta. Se conduce il suo popolo
nuovamente nel *deserto, si è perché vuole «parlargli al cuore» (Os 2, 16); dopo
l’*esilio si comprenderà che Jahvè, mediante il ritorno nella terra, vuole
simboleggiare il ritorno a lui, alla vita (Ger 12, 15; 33, 26; Ez 33, 11; 39,
25; Is 14, 1; 49, 13). Sì, Dio «non conserva sdegno eterno» (Ger 3, 12 s), ma
vuole che il peccatore riconosca la sua malizia; «il malvagio si converta a
Jahvè che avrà pietà di lui, al nostro Dio, perché egli perdona con abbondanza»
(Is 55, 7).
d) La chiamata del peccatore. - Israele conserva
quindi in fondo al cuore la convinzione di una misericordia che non ha nulla di
umano: «Egli ha colpito, fascerà le nostre piaghe» (Os 6, 1). «Qual è il Dio
come te, che tolga la colpa, perdoni il delitto, non persista nella sua ira per
sempre, ma si compiaccia nel fare grazia? Possa di nuovo aver pietà di noi,
mettere sotto i piedi le nostre colpe, gettare in fondo al mare tutti i nostri
peccati» (Mt 7, 18 s). Risuona così continuamente il grido del salmista, che il
Miserere riassume: «Pietà di me, secondo la tua bontà! Secondo la tua grande
tenerezza cancella il mio peccato» (Sal 51, 3).
3. Misericordioso verso ogni carne.
- Se la misericordia divina non conosce altri limiti che l’*indurimento
del peccatore (Is 9, 16; Ger 16, 5. 13), tuttavia per lungo tempo la si ritenne
come riservata al solo *popolo eletto. Ma alla fine Dio, con la sua sorprendente
larghezza, spazzò via questo resto di grettezza umana (cfr. già Os 11, 9). Dopo
l’esilio la lezione fu compresa. La storia di Giona è la satira dei cuori gretti
che non accettano la tenerezza immensa di Dio (Giona 4, 2). L’Ecclesiastico dice
chiaramente: «la pietà dell’uomo è per il suo *prossimo, ma la pietà del Signore
è per ogni carne» (Eccli 18, 13). Infine la tradizione unanime di Israele (cfr.
Es 34, 6; Nah 1, 3; Gioe 2, 13; Neem 9, 17; Sal 86, 15; 145, 8) è magnificamente
raccolta dal salmista, senza alcuna nota di particolarismo: «Jahvè è tenerezza e
grazia, tardo all’ira e ricco di misericordia; non per sempre contende, né in
eterno serba sdegno; non ci tratta secondo le nostre colpe... Com’è la tenerezza
di un padre per il suo figlio, così Jahvè è tenero per chi lo teme; egli conosce
il nostro impasto, ricorda che siamo polvere» (Sal 103, 8 ss. 13 s). «Beati
coloro che sperano in lui, perché egli avrà pietà di essi» (Is 30, 18), perché
«eterna è la sua misericordia» (Sal 136), perché in lui è la misericordia (Sal
130, 7).
II. «IO VOGLIO LA MISERICORDIA»
Se Dio è tenerezza, come non esigerebbe dalle sue creature la stessa tenerezza
reciproca? Ora, questo sentimento non è naturale all’uomo: homo homini lupus!
Ben lo sapeva David, che preferisce «cadere nelle mani di Jahvè, perché grande è
la sua misericordia, piuttosto che nelle mani degli uomini» (2 Sam 24, 14).
Anche su questo punto Dio educherà progressivamente il suo popolo. Egli condanna
i pagani che soffocano la misericordia (Am 1, 11). La sua volontà è che si
osservi il comandamento dell’*amore fraterno (cfr. Es 22, 26), di gran lunga
preferibile agli olocausti (Os 4, 2; 6, 6); che la pratica della *giustizia sia
coronata da un «tenero amore» (Mi 6, 8). Chi vuole veramente *digiunare deve
soccorrere il povero, la vedova e l’orfano, non sottrarsi a colui che è là sua
stessa *carne (Is 58, 6-11; Giob 31, 16-23). Certamente l’orizzonte *fraterno
rimane ancora limitato alla razza od alla fede (Lev 19, 18), ma l’esempio stesso
di Dio allargherà a poco a poco i cuori umani alle dimensioni del cuore di Dio:
«Io sono Dio, e non un uomo» (Os 11, 9; cfr. Is 55, 7). L’orizzonte si
allargherà soprattutto in virtù del comandamento di non soddisfare la propria
*vendetta, di non serbare rancore. Ma non sarà realmente chiarito se non con gli
ultimi libri sapienziali, che su questo punto abbozzano il messaggio di Gesù: il
*perdono dev’essere praticato verso «tutti» (Eccli 27, 30 - 28, 7).
NUOVO TESTAMENTO
I. IL VOLTO DELLA MISERICORDIA DIVINA
1. Gesù, «sommo sacerdote misericordioso» (Ebr 2, 17).
- Dovendo compiere il disegno divino, Gesù ha voluto «diventare simile in tutto
ai suoi fratelli», per esperimentare la stessa miseria di coloro che veniva a
salvare. Perciò tutti i suoi atti manifestano la misericordia divina, anche se
non sono così qualificati dagli evangelisti. Luca ha avuto una cura tutta
speciale di mettere in rilievo questo punto. I prediletti di Gesù sono i
«*poveri» (Lc 4, 18, 7, 22); i peccatori trovano in lui un «amico» (7, 34), che
non ha paura di frequentarli (5, 27. 30; 15, 1 s; 19, 7). La misericordia, che
Gesù testimoniava in modo generale alle folle (Mt 9, 36; 14, 14; 15, 32), in
Luca assume un volto più personale: concerne il «figlio unico» di una vedova (Lc
7, 13) od un determinato padre piangente (8, 42; 9, 38. 42). Gesù infine
testimonia una benevolenza particolare verso le *donne e gli *stranieri. In tal
modo l’universalismo è portato a *compimento: «ogni *carne vede la salvezza di
Dio» (3, 6). Se Gesù ha così compassione di tutti, si comprende come gli
afflitti si rivolgano a lui come a Dio stesso, ripetendo: «Kyrie eleison!» (Mt
15, 22; 17, 15; 20, 30 s).
2. Il cuore di Dio Padre.
- Di questo volto della misericordia divina che mostrava attraverso i
suoi atti, Gesù ha voluto dipingere per sempre i tratti. Ai peccatori, che si
vedevano esclusi dal regno di Dio dalla grettezza dei *farisei, proclama il
vangelo della misericordia infinita, nella linea diretta degli annunzi autentici
del VT. Coloro che rallegrano il cuore di Dio non sono gli uomini che si credono
giusti, ma i peccatori pentiti, paragonabili alla pecora od alla dramma perduta
e ritrovata (Lc 15, 7. 10); il *Padre spia il ritorno del figliol prodigo, e
quando lo scorge di lontano, è «mosso da compassione» e corre ad incontrarlo
(15, 20). Dio ha atteso a lungo, attende ancora con *pazienza Israele che non si
converte, come un fico sterile (13, 6-9).
3. La sovrabbondanza della misericordia.
- Dio dunque è il «Padre delle misericordie» (2 Cor 1, 3; Giac 5, 11), che
accordò la sua misericordia a Paolo (1 Cor 7, 25; 2 Cor 4, l; 1 Tim 1, 13) e la
promette a tutti i credenti (Mt 5, 7; 1 Tim 1, 2; 2 Tim 1, 2; Tito 1, 4; 2 Gv
3). Del compimento del disegno di misericordia nella *salvezza e nella *pace,
quale era annunziato dai cantici all’aurora del vangelo (Lc 1, 50. 54. 72. 78),
Paolo manifesta chiaramente l’ampiezza e la sovrabbondanza. Il culmine della
lettera ai Romani sta in questa rivelazione. Mentre i Giudei finivano per
disconoscere la misericordia divina, in quanto pensavano di procurarsi la
*giustizia con le loro *opere, con la loro pratica della *legge, Paolo dichiara
che anch’essi sono peccatori, e quindi anch’essi hanno bisogno della
misericordia mediante la giustizia della *fede. Di fronte ad essi i pagani, ai
quali Dio non aveva promesso nulla, sono a loro volta attratti nell’orbita
immensa della misericordia. Tutti devono quindi riconoscersi peccatori per
beneficiare tutti della misericordia: «Dio ha racchiuso tutti gli uomini nella
disobbedienza per fare a tutti misericordia» (Rom 11, 32).
II. «SIATE MISERICORDIOSI...»
La «*perfezione» che, secondo Mt 5, 48, Gesù esige dai suoi discepoli,
secondo Lc 6, 36 consiste nel dovere di essere misericordiosi «com’è
misericordioso il Padre vostro». È una condizione essenziale per entrare nel
regno dei cieli (Mt 5, 7), che Gesù riprende sull’esempio del profeta Osea (Mt
9, 13; 12, 7). Questa tenerezza deve rendermi *prossimo al misero che incontro
sulla mia strada, come il buon Samaritano (Lc 10, 30-37), pieno di pietà nei
confronti di colui che mi ha offeso (Mt 18, 23-35), perché Dio ha avuto pietà di
me (18, 32 s). Saremo quindi giudicati in base alla misericordia che avremo
esercitata, forse inconsciamente, nei confronti di Gesù in persona (Mt 25,
31-46). Mentre la mancanza di misericordia nei pagani scatena l’ira divina (Rom
1, 31), il cristiano deve amare e «simpatizzare» (Fil 2, 1), avere in cuore una
buona compassione (Ef 4, 32; 1 Piet 3, 8); non può «chiudere le sue viscere»
dinanzi ad un fratello che si trova nella necessità: 1’*amore di Dio non rimane
che in coloro che esercitano la misericordia (1 Gv 3, 17).
J. CAMBIER e X- LÉON DUFOUR
→ amore - elemosina - giustizia 0; B - grazia - indurimento I 2 b - ira
- ospitalità 1 - pastore e gregge - pazienza I VT - peccato IV 1 c d - perdono -
pietà VT 2 - retribuzione II 1 - tenerezza.
L’idea di una
missione divina non è del tutto estranea alle religioni non cristiane. Senza
parlare di Maometto, «inviato di Dio» che pretende di sostituire i profeti
biblici, la si incontra in qualche misura nel paganesimo greco. Epitteto si
considera come «l’inviato, l’ispettore, l’araldo degli dèi», «inviato dal dio
come esempio»: per rianimare negli uomini, col suo insegnamento e la sua
testimonianza, la scintilla divina che è in essi, egli ritiene d’aver ricevuto
missione dal cielo. Così pure, nell’ermetismo, l’iniziato ha la missione di
farsi «guida di coloro che ne sono degni, affinché, per la sua mediazione, il
genere umano sia salvato da Dio». Ma nella rivelazione biblica l’idea di
missione ha delle coordinate molto diverse. Essa si riferisce totalmente alla
storia della salvezza. Implica un appello positivo di Dio manifestato
esplicitamente in ciascun caso particolare. Si applica sia a collettività, come
ad individui. Connessa alle idee di *predestinazione e di vocazione, essa è resa
con un vocabolario che gravita attorno al Verbo «inviare».
VECCHIO TESTAMENTO
I. GLI INVIATI DI DIO
1. La missione divina si può cogliere al vivo soprattutto nel caso dei
*profeti (cfr. Ger 7, 25), il primo dei quali è *Mosè. «Io ti mando...»: questa
parola è al centro di ogni *vocazione profetica (cfr. Es 3, 10; Ger 1, 7; Ez 2,
3 s; 3, 4 s). Alla chiamata di Dio ciascuno risponde con il suo temperamento
personale: Isaia si offre («Eccomi, mandami», Is 6, 8); Geremia muove obiezioni
(Ger 1, 6); Mosè vuole segni che accreditino la sua missione (Es 3, 11 ss),
tenta di rifiutarla (4, 13), se ne lamenta amaramente (5, 22). Ma tutti in
definitiva obbediscono (cfr. Am 7, 14 s) - escluso il caso di Giona (Giona 1, 1
ss) che rifiuta la missione universalistica e si scandalizza della salvezza
delle *nazioni. Questa coscienza di una missione personale ricevuta da Dio è un
tratto essenziale del vero profeta. Lo distingue da coloro che dicono: «Parola
di Dio!» mentre Dio non li ha mandati, come quei profeti di menzogna contro cui
lotta Geremia (Ger 14, 14 s; 23, 21. 32; 28, 15; 29, 9). In un senso più largo
si può parlare anche di missione divina per tutti coloro che, nella storia del
popolo di Dio, svolgono una funzione provvidenziale; ma per riconoscere
l’esistenza di simili missioni, occorre la testimonianza di un profeta.
2. Tutte le missioni degli inviati divini sono relative al
*disegno di *salvezza. La maggior parte di esse sono in rapporto diretto con il
popolo di Israele. Ma ciò lascia sussistere la più grande diversità. I profeti
sono mandati per convertire i cuori, per annunziare castighi o fare promesse: la
loro funzione è strettamente legata alla *parola di Dio, che essi hanno
l’incarico di portare agli uomini. Altre missioni concernono più direttamente il
destino storico di Israele: Giuseppe è mandato per preparare l’accoglienza dei
figli di Giacobbe in Egitto (Gen 45, 5) e Mosè per farne uscire Israele (Es 3,
10; 7, 16; Sal 105, 26). Lo stesso vale per tutti i capi ed i liberatori del
popolo di Dio: Giosuè, i Giudici, David, i restauratori del giudaismo dopo
l’esilio, i capi della rivolta maccabaica... Anche se, a loro proposito, non
parlano esplicitamente di missione, gli storici sacri li ritengono evidentemente
come inviati divini, grazie ai quali il disegno di salvezza ha progredito verso
il suo termine. Anche i pagani possono, su questo punto, svolgere una funzione
provvidenziale: l’Assiria è mandata per castigare Israele infedele (Is 10, 6), e
Ciro per abbattere Babilonia e liberare i Giudei (Is 43, 14; 48, 14 s). La
storia sacra si edifica grazie all’incrociarsi di tutte queste missioni
particolari che concorrono allo stesso scopo.
II. LA MISSIONE DI ISRAELE
1. Bisogna anche parlare di una missione del popolo di Israele?
Certamente, se si pensa al legame stretto che esiste sempre tra missione e
*vocazione. La vocazione di Israele definisce la sua missione nel disegno di
Dio. Scelto tra tutte le nazioni, esso è il *popolo consacrato, il
popolosacerdote, incaricato del servizio di Jahvè (Es 19, 5 s). Non è detto che
svolga questa funzione in nome delle altre nazioni. Tuttavia, a misura che la
rivelazione si sviluppa, gli oracoli profetici intravedono il tempo in cui tutte
le *nazioni si uniranno ad esso per partecipare al culto del Dio unico (cfr. Is
2, 1 ss; 19, 21-25; 45, 20-25; 60): Israele è quindi chiamato a diventare il
popolofaro di tutta l’umanità. Così pure, se è depositario del disegno di
salvezza, lo è con la missione di farvi partecipare gli altri popoli: fin dalla
vocazione di Abramo, l’idea esisteva in germe (Gen 12, 3), e si precisa a mano a
mano che la rivelazione svela meglio le intenzioni di Dio.
2. A partire dall’esilio si constata che Israele ha preso più
chiara coscienza di questa missione. Sa di essere il *servo di Jahvè, da lui
inviato in qualità di messaggero (Is 41, 19). Dinanzi alle nazioni pagane è il
suo *testimone, incaricato di farlo conoscere come il Dio unico (43, 10. 12; 44,
8) e «di trasmettere al mondo la luce immortale della legge» (Sap 18, 4). La
vocazione nazionale sfocia qui nell’universalismo religioso. Non si tratta più
di dominare le nazioni pagane (Sal 47, 4), ma di convertirle. Perciò il popolo
di Dio si apre ai proseliti (Is 56, 3. 6 s). Uno spirito nuovo pervade la sua
letteratura ispirata: il libro di Giona considera il caso di una missione
profetica avente come beneficiari i pagani e, nel libro dei Proverbi, gli
inviati della *Sapienza divina invitano, a quanto pare, tutti gli uomini al suo
banchetto (Prov 9, 3 ss). Israele tende finalmente a diventare un popolo
missionario, specialmente nell’ambiente alessandrino dove i suoi libri sacri
sono tradotti in greco.
III. PRELUDI AL NUOVO TESTAMENTO
1. Il tema della missione divina si ritrova nella escatologia
profetica che prepara esplicitamente il NT. Missione del *servo che Jahvè
designa come «alleanza del popolo e *luce delle nazioni» (Is 42, 6 s; cfr. 49, 5
s). Missione del misterioso *profeta che Jahvè manda «a portare la buona novella
ai poveri» (Is 61, 1 s). Missione dell’enigmatico messaggero che sgombra la via
dinanzi a Dio (Mal 3, 1) e del novello Elia (Mal 3, 23). Missione dei pagani
convertiti che riveleranno la gloria di Jahvè ai loro fratelli di razza (Is 66,
18 s). Il NT farà vedere come queste Scritture devono compiersi.
2. Infine la teologia della *parola, della *sapienza e dello
*spirito personifica in modo sorprendente queste realtà divine e non esita a
parlare della loro missione. Dio manda la sua parola affinché eseguisca in terra
le sue volontà (Is 55, 11; Sal 107, 20; 147, 15; Sap 18, 14 ss); manda la sua
sapienza affinché assista l’uomo nei suoi lavori (Sap 9, 10); manda il suo
spirito affinché rinnovi la faccia della terra (Sal 104, 30; cfr. Ez 37, 9 s) e
faccia conoscere agli uomini la sua volontà (Sap 9, 17). Queste espressioni
preludono quindi al NT, che infatti le riprenderà per spiegare la missione del
Figlio di Dio, che è la sua parola e la sua sapienza, e quella del suo Spirito
Santo nella Chiesa.
NUOVO TESTAMENTO
I. LA MISSIONE DEL FIGLIO DI DIO
1. Dopo *Giovanni Battista, ultimo e maggiore dei profeti, messaggero
divino e novello Elia annunziato da Malachia (Mt 11, 9-14), *Gesù Cristo si
presenta agli uomini come l’inviato di Dio per eccellenza, lo stesso di cui
parlava il libro di Isaia (Lc 4, 17-21; cfr. Is 61, 1 s). La parabola dei
vignaioli omicidi sottolinea la continuità della sua missione con quella dei
profeti, ma connotando pure la differenza fondamentale dei due casi: dopo aver
mandato i suoi servi, il padre di famiglia manda infine il suo *figlio (Mc 12,
2-8 par.). Perciò, accogliendolo o rigettandolo, si accoglie o si rigetta colui
che lo ha mandato (Lc 9, 48; 10, 16 par.), cioè il *Padre stesso, che ha rimesso
tutto nelle sue mani (Mt 11, 27). Questa coscienza di una missione divina, che
lascia intravedere i rapporti misteriosi del Figlio e del Padre, si manifesta in
frasi caratteristiche: «lo sono stato mandato...», «Sono venuto...», «Il Figlio
dell’uomo è venuto...», per annunziare il *vangelo (Mc 1, 38 par.), per
*compiere la legge ed i profeti (Mt 5, 17), per portare il *fuoco sulla terra (Lc
12, 49), per portare non la pace ma la spada (Mt 10, 34 par.), per chiamare non
i giusti ma i peccatori (Mc 2, 17 par.), per cercare e salvare ciò che era
perduto (Lc 19, 10), per servire e dare la sua vita in riscatto (Mc 10, 45
par.)... Tutti gli aspetti dell’*opera redentrice compiuta da Gesù si
ricollegano in tal modo alla missione che egli ha ricevuto dal Padre, dalla
predicazione in Galilea al sacrificio della croce. Nel disegno del Padre, questa
missione conserva tuttavia un orizzonte limitato: Gesù è stato inviato solo per
le pecore sperdute della casa di Israele (Mt 15, 24). Sta di fatto che,
convertendosi, queste devono acquistare coscienza a propria volta della missione
provvidenziale di Israele: dare testimonianza di Dio e del suo regno di fronte a
tutte le nazioni del mondo.
2. Nel quarto vangelo, l’invio del Figlio da parte del Padre
ritorna come un ritornello, nel giro di tutti i discorsi (40 volte, ad es. 3,
17; 10, 36; 17, 18). Perciò il solo desiderio di Gesù è di «fare la *volontà di
colui che lo ha mandato» (4, 34; 6, 38 ss), di compiere le sue *opere (9, 4), di
dire ciò che ha appreso da lui (8, 26). Tra essi c’è una tale unità di vita (6,
57; 8, 16. 29) che l’atteggiamento assunto nei confronti di Gesù è una presa di
posizione nei confronti di Dio stesso (5, 23; 12, 44 s; 14, 24; 15, 21-24).
Quanto alla passione, consumazione della sua opera, Gesù vi vede il suo ritorno
a colui che lo ha mandato (7, 33; 16, 5; cfr. 17, 11). La fede che egli esige
dagli uomini è una fede nella sua missione (11, 42; 17, 8. 21. 23. 25); ciò
implica assieme la fede nel Figlio come inviato (6, 29) e la fede nel Padre che
lo manda (5, 24; 17, 3). Attraverso la missione del Figlio in terra si è quindi
rivelato agli uomini un aspetto essenziale del mistero intimo di Dio: l’Unico (Deut
6, 4; cfr. Gv 17, 3), mandando il Figlio suo, si è fatto conoscere come Padre.
3. Non fa meraviglia vedere che gli scritti apostolici danno un
posto centrale a questa missione del Figlio. Dio ha mandato il Figlio suo nella
*pienezza dei tempi per redimerci e conferirci l’adozione filiale (Gal 4, 4;
cfr. Rom 8, 15). Dio ha mandato il Figlio nel mondo come salvatore, come
propiziazione per i nostri peccati, affinché viviamo per mezzo suo: questa è la
prova suprema del suo amore per noi (1 Gv 4, 9 s. 14). Così Gesù è l’inviato per
eccellenza (Gv 9, 7), I’apòstolos della nostra professione di fede (Ebr 3, 1).
II. GLI INVIATI DEL FIGLIO
1. La missione di Gesù si prolunga con quella dei suoi inviati, i
Dodici, che per questo stesso motivo portano il nome di *apostoli. Già durante
la sua vita Gesù li manda innanzi a sé (cfr. Lc 10, 1) a predicare il vangelo ed
a guarire (Lc 9, 1 s par.), il che costituisce l’oggetto della sua missione
personale. Essi sono gli operai mandati dal padrone alla *messe (Mt 9, 38 par.;
cfr. Gv 4, 38); sono i *servi mandati dal re per condurre gli invitati alle
nozze del figlio suo (Mt 22, 3 par.). Non devono farsi nessuna illusione sul
destino che li attende: l’inviato non è maggiore di colui che lo manda (Gv 13,
16); come hanno trattato il padrone, così tratteranno i servi (Mt 10, 24 s).
Gesù li manda «come pecore in mezzo ai lupi» (10, 16 par.). Egli sa che la
«*generazione perversa» perseguiterà i suoi inviati e li metterà a morte (23, 34
par.). Ma ciò che sarà fatto loro, sarà fatto a lui stesso, e in definitiva al
Padre: «Chi ascolta voi, ascolta me, chi rigetta voi, rigetta me, e chi rigetta
me, rigetta colui che mi ha mandato» (Lc 10, 16); «Chi accoglie voi, accoglie
me, e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Gv 13, 20). Di fatto
la missione degli apostoli si collega nel modo più stretto a quella di Gesù:
«Come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (20, 21). Questa frase illumina
il senso profondo dell’invio finale dei Dodici in occasione delle *apparizioni
di Cristo risorto: «Andate...». Essi andranno dunque ad annunziare il vangelo
(Mc 16, 15), a reclutare *discepoli di tutte le nazioni (Mt 28, 19), a portare
dovunque la loro *testimonianza (Atti 1, 8). Così la missione del Figlio
raggiungerà effettivamente tutti gli uomini, grazie alla missione dei suoi
apostoli e della sua *Chiesa.
2. Questo appunto intende il libro degli Atti quando racconta
la *vocazione di Paolo. Riprendendo i termini classici delle vocazioni
profetiche, Cristo risorto dice al suo strumento eletto: «Va’ perché io ti
invierò lontano presso i pagani» (Atti 22, 21); e questa missione ai pagani si
inserisce nella linea esatta di quella del *servo di Jahvè (Atti 26, 17; cfr. Is
42, 7. 16). Infatti il servo è venuto nella persona di Gesù, e gli inviati di
Gesù portano a tutte le *nazioni il messaggio di salvezza che egli personalmente
aveva notificato soltanto alle «pecore perdute della casa di Israele» (Mt 15,
24). Di questa missione, ricevuta sulla strada di Damasco, Paolo si farà sempre
forte per giustificare il suo titolo di *apostolo (1 Cor 15, 8 s; Gal 1, 12).
Sicuro della sua estensione universale, egli porterà il vangelo ai pagani per
ottenere da essi l’*obbedienza della fede (Rom 1, 5) e magnificherà la missione
di tutti i messaggeri del vangelo (10, 14 s): non è forse grazie ad essa che
nasce nel cuore degli uomini la fede nella parola di Cristo (10, 17)? Al di là
della missione personale degli apostoli, tutta la *Chiesa nella sua funzione
missionaria si ricollega in tal modo alla missione del Figlio.
III. LA MISSIONE DELLO SPIRITO SANTO
1. Per compiere questa funzione missionaria gli apostoli ed i
predicatori del vangelo non sono lasciati alle loro sole forze umane; svolgono
il loro compito in virtù dello *Spirito Santo. Ora, per definire esattamente la
funzione dello Spirito, bisogna ancora parlare di missione, nel senso più
stretto della parola. Evocando la sua futura venuta, nel discorso dopo la cena,
Gesù precisava: «Il *Paraclito, lo Spirito Santo, che il Padre manderà in nome
mio, vi insegnerà tutte le cose» (Gv 14, 26); «Quando verrà il Paraclito, che io
vi manderò da presso il Padre, mi renderà testimonianza» (15, 26; cfr. 16, 7).
Il Padre ed il Figlio agiscono quindi congiuntamente per mandare lo Spirito.
Luca pone l’accento sull’azione di Cristo, poiché quella del Padre consiste
soprattutto nella promessa fatta, secondo la testimonianza delle Scritture:
«Manderò su di voi, dice Gesù, ciò che il Padre mio vi aveva promesso» (Lc 24,
49; cfr. Atti 1, 4; Ez 36, 27; Gioe 3, 1 s).
2. Tale è di fatto il senso della *Pentecoste, manifestazione
iniziale di questa missione dello Spirito che durerà finché durerà la Chiesa.
Dei Dodici lo Spirito fa i *testimoni di Gesù (Atti 1, 8). Egli è dato loro per
svolgere il loro compito di inviati (Gv 20, 21 s). In lui ormai *predicheranno
il vangelo (1 Piet 1, 12), come faranno i predicatori di tutti i tempi. Così la
missione dello Spirito è inerente al mistero stesso della Chiesa quando annunzia
la parola per svolgere il suo compito missionario. Essa è pure alla fonte della
santificazione degli uomini. Infatti se questi, nel battesimo, ricevono
l’adozione filiale, si è perché Dio manda nei loro cuori lo Spirito del suo
Figlio che grida: «Abba! Padre!» (Gal 4, 6). La missione dello Spirito diventa
così l’oggetto della esperienza cristiana. Termina in tal modo la rivelazione
del mistero di Dio: dopo il Figlio, parola e sapienza di Dio, lo Spirito si è
manifestato a sua volta come persona divina entrando nella storia degli uomini,
che trasforma internamente ad *immagine del Figlio di Dio.
J. PIERRON e P. GRELOT
→ apostoli - apparizioni di Cristo 2.4 c. 5.7 - autorità NT II 1 -
Chiesa III 2 b c - correre - elezione VT I 3 c - imposizione delle mani NT 2 -
insegnare NT II 1.2 - mediatore - 0 - nazioni VT IV 2; NT - parola di Dio VT III
1 - Pentecoste II 2 e - Pietro (S.) 1.3 - predicare II 2 a - preoccupazioni 1 -
profeta - testimonianza - visita NT 2 - vocazione I, II - volontà di Dio NT I 2.
MISTERO (inizio)
Il termine greco
mystèrion non appare nella Bibbia greca che in alcuni degli ultimi libri (Tob,
Giudit, Sap, Eccli, Dan, 2 Mac); ha come sfondo l’aramaico râz, che designa una
«cosa segreta» e corrisponde così all’ebraico classico sôd (i due termini
figurano fianco a fianco nei testi di Qumrân). Nel NT questa parola è già un
termine tecnico di teologia. Ma poiché era largamente usata nell’ambiente
ellenistico (filosofia, culti misterici, gnosi, *magia), è importante fissarne
con esattezza il senso per evitarne le interpretazioni inesatte.
VECCHIO TESTAMENTO
1. La rivelazione dei segreti di Dio.
- L’idea dei segreti di Dio è familiare ad Israele dal tempo dei
profeti. Questi segreti concernono specialmente il disegno di salvezza che Dio
realizza nella storia umana e che costituisce l’oggetto della *rivelazione: «Dio
fa qualche cosa senza rivelare il suo segreto (sôd) ai suoi servi i profeti?»
(Am 3, 7; cfr. Num 24, 4. 16). Questa dottrina classica pervade specialmente il
Deutero-Isaia: il destino storico di Israele risponde al piano divino rivelato
in anticipo dalla *parola profetica, e ciò assicura la venuta della *salvezza
alla fine dei *tempi (Is 41, 21-28). Questo è l’antecedente della nozione
tecnica e religiosa di «mistero», attestata parallelamente da Daniele e dal
libro della Sapienza.
2. Daniele ed il libro della Sapienza.
a) Il libro di Daniele è un’apocalisse, cioè una *rivelazione
dei «segreti» divini (râz: Dan 2, 18 s. 27 s. 47; 4, 6). Questi segreti non
sono, come in altre opere apocrife, quelli della creazione: concernono ciò che
si realizza nel tempo, sotto la forma di una storia continua, orientata verso
una fine; in altre parole: i misteri del *disegno di salvezza. Questi segreti
sono scritti in cielo, e si compiranno in modo infallibile; perciò Dio li può
rivelare in *sogni, in visioni, o mediante gli angeli (cfr. 2; 4; 5; 7; 8; 10 -
12). Nessuna sapienza umana potrebbe dare una simile conoscenza del futuro; ma
Dio è «il rivelatore dei misteri» (2, 28. 47). Egli fa conoscere in anticipo
«ciò che deve avvenire alla fine dei giorni» (2, 28); e se le sue rivelazioni
enigmatiche rimangono incomprensibili agli uomini, egli dà a qualche
privilegiato una *sapienza (cfr. 5, 11), uno *spirito straordinario, grazie ai
quali «nessun mistero li mette in imbarazzo» (4, 6). Ciò che egli in tal modo
rivela, sono i suoi *giudizi, che preludono alla *salvezza. Questo oggetto
d’altronde si trova incluso da lungo tempo nelle *Scritture profetiche: a
Daniele che scruta il libro di Geremia, l’arcangelo Gabriele rivela il
significato misterioso dell’oracolo delle settanta *settimane (Dan 9) che si
basa sul simbolismo dei *numeri. Le Scritture vi sono quindi trattate dallo
stesso modo dei sogni o delle visioni, che altrove traducono in simboli
enigmatici i disegni segreti di Dio.
b) Il libro della Sapienza non ignora la esistenza di «misteri»
nei culti del paganesimo (Sap 14, 15. 23). Ma, in accordo con il libro di
Daniele, applica il termine alle realtà trascendenti che sono l’oggetto della
rivelazione: i segreti di Dio nella rimunerazione dei giusti (2, 22), i segreti
relativi all’origine della *sapienza divina (6, 22). Questi misteri sono di
ordine soteriologico (il «mondo futuro», termine del disegno di salvezza) e
teologico (l’essere intimo di Dio). Corrispondono quindi a quelli di cui
trattano gli autori di apocalissi.
3 Il giudaismo extrabiblico.
a) Apocalissi apocrife. - Nella letteratura apocrifa si ritiene che
Enoch, al pari di Daniele, «conosca i segreti dei santi» (1 En 106, 19): egli ha
letto i libri del cielo dove sono scritti tutti gli avvenimenti del futuro, ed
ha appreso così il mistero del destino finale dei giusti (103, 2 ss) e dei
peccatori (104, 10). Il mistero quindi è qui la realizzazione escatologica del
*disegno di Dio, nozione che riterranno ancora le apocalissi di Esdra e di Baruc.
b) I testi di Qumrân annettono parimenti una grande importanza
alla conoscenza di questo «mistero futuro» che si compirà «nel giorno della
visita» e determinerà la sorte dei giusti e dei peccatori. Ne cercano la
descrizione delle Scritture profetiche, di cui il Maestro di Giustizia ha
fornito loro la spiegazione, perché «Dio gli ha fatto conoscere tutti i misteri
delle parole dei suoi servi i profeti» (cfr. Dan 9). Si tratta di una esegesi
ispirata che equivale ad una nuova rivelazione: «gli ultimi tempi saranno più
lunghi di quanto hanno predetto i profeti, perché i misteri di Dio sono
meravigliosi». Ma questa rivelazione è riservata a coloro che camminano «nella
perfezione della via»: rivelazione esoterica, che non dev’essere comunicata ai
malvagi, agli uomini di fuori.
NUOVO TESTAMENTO
L’INSEGNAMENTO DI GESÙ
I sinottici usano la parola mystèrion una sola volta; il vangelo di
Giovanni non l’usa mai. «A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; ma a
quelli che sono di fuori tutto è proposto in parabole» (Mc 4, 11 par.). Così
risponde Gesù ai discepoli che lo interrogano sul senso della parabola del
seminatore. Distingue nel suo uditorio coloro che possono capire il mistero, e
«coloro che sono di fuori», cui la durezza del cuore impedisce di comprendere,
secondo la frase di Isaia 6, 9 s (Mc 4, 12 par.). Per questi la venuta del regno
rimane un enigma, di cui l’insegnamento in *parabole non offre la chiave. Ma ai
discepoli, «il mistero è dato», e le parabole sono spiegate. Il mistero in
questione è quindi l’avvento del *regno, conformemente al disegno di Dio
attestato dalle profezie antiche: Gesù riprende qui un tema centrale delle
apocalissi giudaiche. La sua opera propria consiste nell’instaurare il regno
quaggiù e nel rivelare pienamente i segreti divini che lo concernono e che erano
«nascosti fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13, 35). Con lui termina la
*rivelazione, perché si compiono le *promesse: il mistero del regno è presente
quaggiù nella sua persona. Ma per ciò stesso l’umanità si scinde in due: i
discepoli l’accolgono; «quelli di fuori» le chiudono il cuore. La proclamazione
del mistero non è quindi esoterica (cfr. Mc 1, 15 par.; 4, 15 par.); tuttavia il
velo delle parabole non è tolto che per coloro che possono capire (cfr. Mt 13,
9. 43). Ed anche per questi entrare nel mistero non è opera di intelligenza
umana; è un dono di Dio.
II. L’INSEGNAMENTO DI S. PAOLO
Bisogna collocarsi nella stessa prospettiva - quella dell’apocalittica giudaica
- per comprendere gli usi della parola mystèrion in S. Paolo. Questa parola in
effetti suggerisce una realtà profonda, inesprimibile: apre uno spiraglio
sull’infinito. L’oggetto che designa non è altro che quello del *vangelo: la
realizzazione della *salvezza mediante la *morte e la *risurrezione di Cristo,
il suo inserimento nella storia mediante la proclamazione della *parola. Ma
questo oggetto è caratterizzato come un segreto divino, inaccessibile
all’intelligenza umana fuori della rivelazione (cfr. 1 Cor 14, 2). Il termine
conserva così la sua risonanza escatologica; ma si applica alle tappe successive
attraverso le quali si realizza la salvezza annunziata: la venuta in terra di
Gesù, il tempo della Chiesa, la consumazione dei secoli. Questo è il mistero la
cui conoscenza e contemplazione costituiscono in parte l’ideale di ogni
cristiano (Col 2, 2; Ef l, 15 s; 3, 18 s).
1. Lo sviluppo del mistero nel tempo.
- Nelle prime lettere (2 Tess, 1 Cor, Rom), sono intesi di volta in
volta questi diversi aspetti del mistero. C’è identità tra «l’annunzio del
mistero di Dio» (1 Cor 2, 1, secondo alcuni manoscritti) e la proclamazione del
vangelo (1, 17) di Gesù crocifisso (cfr. 1, 23; 2, 2). Tale è l’oggetto del
messaggio annunziato da Paolo ai Corinti, *scandalo per i giudei e *follia per i
greci, ma sapienza per coloro che credono (1, 23 s). Questa *sapienza divina che
assume forma di mistero (2, 7) era fino allora nascosta; nessuno dei principi di
questo mondo l’aveva riconosciuta (2, 8 s); ma essa ci è stata rivelata dallo
*Spirito, che scruta fin nelle profondità di Dio (2, 10 ss). Inaccessibile
all’uomo psichico lasciato alle sue sole forze naturali, essa è intelligibile
all’uomo spirituale a cui lo Spirito l’insegna (2, 15). Tuttavia soltanto ai
«perfetti» (cfr. 2, 6), e non ai neofiti (3, 1 s), l’apostolo, «dispensatore dei
misteri di Dio» (4, 1), può «esprimere con parole spirituali realtà spirituali»
(2, 13), in modo che comprendano tutti i doni di grazia (2, 12), racchiusi in
questo mistero. Il vangelo è dato a tutti, ma i cristiani sono chiamati ad
approfondirne progressivamente la conoscenza. Ora questo mistero, che
attualmente opera quaggiù per la salvezza dei credenti, è in lotta con un
«mistero di iniquità» (2 Tess 2, 7), cioè con l’azione di *Satana che culminerà
nella manifestazione dell’*anticristo. Il suo sviluppo nella storia avviene per
vie paradossali; così fu necessario l’*indurimento di una parte di Israele
affinché la massa dei pagani potesse essere salvata (Rom 11, 25): mistero della
incomprensibile sapienza divina (11, 33) che ha fatto volgere in bene la caduta
del popolo eletto. Alla fine del mistero Cristo trionferà, quando i morti
risorgeranno ed i vivi saranno trasformati per partecipare alla sua vita celeste
(1 Cor 15, 51 ss). Il «mistero di Dio» comprende tutta la storia sacra, dalla
venuta di Cristo in terra sino alla sua parusia. Il vangelo è «la rivelazione di
questo mistero, avvolto di *silenzio nei secoli eterni, ma oggi manifestato e,
per mezzo delle *Scritture che lo predicono, portato a conoscenza di tutte le
nazioni» (Rom 16, 25 s).
2. Il mistero di Cristo e della Chiesa.
- Nelle lettere della cattività (Col, Ef), l’attenzione di Paolo si
concentra sull’aspetto presente del «mistero di Dio» (Col 2, 2): il «mistero di
Cristo» (Col 4, 3; Ef 3, 4) che realizza la salvezza per mezzo della sua Chiesa.
Questo mistero era nascosto in Dio nei secoli (Col 1, 26; Ef 3, 9; cfr. 3, 5);
ma Dio lo ha manifestato (Col 1, 26), lo ha fatto conoscere (Ef 1, 9), lo ha
messo in luce (3, 9), lo ha *rivelato agli apostoli ed ai profeti, e
specialmente allo stesso Paolo (3, 4 s). Esso costituisce l’oggetto del vangelo
(3, 6; 6, 19). È l’ultima parola del *disegno di Dio, formato da lungo tempo per
essere realizzato nella pienezza dei *tempi: «ricondurre tutte le cose sotto un
solo capo, Cristo, sia le cose celesti che le terrestri» (1, 9 s).
L’apocalittica giudaica scrutava le meraviglie della creazione; la rivelazione
cristiana ne manifesta il segreto più intimo: in Cristo, nato avanti ogni
creatura, tutte le cose trovano la loro consistenza (Col 1, 15 ss) e tutte sono
*riconciliate (1, 20). L’apocalittica scrutava pure le vie di Dio nella storia
umana; la rivelazione cristiana le fa vedere che convergono verso Cristo, il
quale inserisce la salvezza nella storia, grazie alla sua Chiesa (Ef 3, 10):
ormai *giudei e pagani sono ammessi alla stessa eredità, membra dello stesso
*corpo, beneficiari della stessa promessa (3, 6). Proprio di questo mistero
Paolo è stato costituito ministro (3, 7 s). In esso tutto acquista un
significato misterioso, anche l’unione dell’uomo e della *donna, simbolo
dell’unione di Cristo e della Chiesa (5, 32). In esso sia i pagani che i giudei
trovano il principio della speranza (Col 1, 27). Quanto è grande questo «mistero
della fede» (1 Tim 3, 9), questo «mistero della pietà, manifestato nella carne,
giustificato nello Spirito, visto dagli angeli, proclamato in mezzo ai pagani,
creduto nel mondo, assunto nella gloria» (1 Tim 3, 16)! Una progressione
continua porta così dal mistero inteso dalle apocalissi giudaiche al «mistero
del *regno di Dio» rivelato da Gesù, ed infine al «mistero di Cristo» cantato
dall’apostolo delle genti. Questo mistero non ha nulla in comune con i culti
misterici dei Greci e delle religioni orientali, anche se Paolo occasionalmente
riprende qualcuno dei termini tecnici di cui queste si servivano, per meglio
opporre a questi aspetti particolari del «mistero d’iniquità» (cfr. 2 Tess 2, 7)
il vero mistero di salvezza, come altrove oppone alla falsa sapienza umana la
vera sapienza divina manifestata nella *croce di Cristo (cfr. 1 Cor 1, 17-25).
III. L’APOCALISSE DI S. GIOVANNI
Nell’Apocalisse la parola mystèrion designa a due riprese il
significato segreto dei simboli che vengono spiegati dal veggente (Apoc 1, 20) o
dall’angelo che gli parla (17, 7). Ma in due passi ritrova anche un senso
vicinissimo a quello che le dava S. Paolo. In fronte a *Babilonia la grande, che
rappresenta Roma, sta scritto un nome, un mistero (17, 5); e questo perché in
essa opera nella storia quel «mistero d’iniquità» che già Paolo denunziava (cfr.
2 Tess 2, 7). Infine nell’ultimo giorno, quando il settimo angelo suonerà la
tromba per annunziare il giudizio finale, «sarà compiuto il mistero di Dio, come
ne diede lieto annuncio ai suoi servi i profeti» (Apoc 10, 7; cfr. 1 Cor 15,
20-28). La Chiesa aspira a questa consumazione. Vive già nel mistero; ma,
inserita in mezzo al «mondo presente», essa è ancora divisa tra le potenze
divine e le potenze diaboliche. Verrà un giorno in cui le potenze diaboliche
saranno infine annientate (cfr. Apoc 20; 1 Cor 5, 26 s) ed essa entrerà nel
«mondo futuro». Allora sussisterà solo il mistero di Dio, in un universo
rinnovato (Apoc 21; cfr. 1 Cor 15, 28). Tale è il termine della rivelazione
cristiana.
B. RIGAUX e P. GRELOT
→ conoscere VT 4; NT 3 - croce I 2 - Dio NT II 3.4 - disegno di Dio -
incredulità II - nube - parabola - presenza di Dio VT II; NT II - regno NT II -
rivelazione - sapienza - segno - silenzio - sogni VT - Spirito di Dio 0 - vedere
- verità VT 3; NT 2.
«Mettetevi alla
mia scuola, perché io sono mite ed umile di cuore» (Mt 11, 29). Gesù, che così
parla, è la rivelazione suprema della mitezza di Dio (Mi 12, 18 ss); è la fonte
della nostra, quando proclama: «Beati i miti» (Mt 5, 4).
1. La mitezza di Dio.
- Il VT canta l’immensa e clemente bontà di Dio (Sal 31, 20; 86, 5), manifestata
nel suo governo dell’universo (Sap 8, 1; 15, 1), e ci invita a *gustarla (Sal
34, 9). Più dolci del miele sono la parola di Dio, la sua legge (Sal 119, 103;
19, 11; Ez 3, 3), la conoscenza della sua sapienza (Prov 24, 13; Eccli 24, 20) e
la fedeltà alla sua legge (Eccli 23, 27). Dio nutre il suo popolo con un *pane
che soddisfa tutti i gusti; rivela in tal modo la sua dolcezza (Sap 16, 20 s),
dolcezza che egli fa gustare al popolo di cui è lo sposo diletto (Cant 2, 3),
dolcezza che il Signore Gesù finisce di rivelarci (Tito 3, 4) e di farci gustare
(1 Piet 2, 3).
2. Mitezza ed *umiltà.
- Mosè è il modello della vera mitezza, *virtù che non è debolezza, ma
umile sottomissione a Dio, fondata sulla fede nel suo amore (Num 12, 3; Eccli
45, 4; 1, 27; cfr. Gal 5, 22 s). Questa umile mitezza caratterizza il «*resto»
che Dio salverà, ed il re che darà la pace a tutte le nazioni (Sof 3, 12; Zac 9,
9 s = Mt 21, 5). Questi miti, sottomessi alla sua parola (Giac 1, 20 ss), Dio li
dirige (Sal 25, 9), li sostiene (Sal 147, 6), li salva (Sal 76, 10); dà loro il
trono dei potenti (Eccli 10, 14) e fa loro godere la pace nella sua terra (Sal
37, 11 = Mt 5, 4).
3. Mitezza e carità.
- Colui che è docile a Dio, è mite verso gli uomini, specialmente verso
i poveri (Eccli 4, 8). La mitezza è il frutto dello Spirito (Gal 5, 23) ed il
segno della presenza della sapienza dall’alto (Giac 3, 13. 17). Sotto il suo
duplice aspetto di calma mansuetudine (gr. pràytes) e di indulgente moderazione
(gr. epieikeìa), la mitezza caratterizza Cristo (2 Cor 10, 1), i suoi discepoli
(Gal 6, 1; Col 3, 12; Ef 4, 2) ed i loro pastori (1 Tim 6, 11; 2 Tim 2, 25).
Essa è l’ornamento delle donne cristiane (1 Piet 3, 4) e fa la felicità dei loro
focolari (Eccli 36, 23). Il vero cristiano, anche nella persecuzione (1 Piet 3,
16), mostra a tutti una mitezza serena (Tito 3, 2; Fil 4, 5); attesta in tal
modo che il «giogo del Signore è dolce» (Mt 11, 30), essendo quello dell’amore.
C. SPICQ e M. F. LACAN
→ gustare - pazienza - poveri VT III; NT I - umiltà - violenza II - virtù e vizi
3.
→ apparizioni di Cristo 6 - creazione VT I - figura VT II 1.4 - re o - risurrezione VT I - tempo intr. 1.
→ ubriachezza 2 - vegliare - vino I - virtù e vizi.
→ umiltà.
→ regalità.
VECCHIO
TESTAMENTO
Per designare il mondo si usa correntemente l’espressione «cieli e terra» (Gen
1, 1); il termine tebel è applicato soltanto al mondo terrestre (ad es. Ger 51,
15); i libri di epoca greca parlano del kosmos (Sap 11, 17; 2 Mac 7, 9. 23)
mettendo in questo termine un contenuto specificamente biblico. Per il pensiero
greco, il kòsmos con le sue leggi, la sua bellezza, la sua perennità, il suo
ritorno eterno delle cose esprime effettivamente l’ideale di un ordine chiuso in
sé, che include l’uomo ed implica persino gli dèi: i quali non si distinguono
bene dagli elementi del mondo in questo panteismo virtuale o confessato. Del
tutto diversa è la concezione biblica, in cui le rappresentazioni cosmologiche e
cosmogoniche non costituiscono che un materiale secondario, posto al servizio di
un’affermazione religiosa essenziale: il mondo, creatura di Dio, acquista un
senso in funzione del suo disegno di salvezza, e proprio nella cornice di questo
disegno troverà pure il suo destino finale.
I. ORIGINI DEL MONDO
In contrasto con le mitologie mesopotamiche, egiziana, cananea, ecc., la
rappresentazione biblica delle origini del mondo conserva una grande sobrietà.
Non è più collocata sul piano del mito, storia divina accaduta prima del tempo;
al contrario, inaugura il *tempo. E questo perché tra *Dio ed il mondo c’è un
abisso, espresso dal verbo *creare (Gen 1, 1). Se la Genesi, appoggiata da altri
testi (Sal 8; 104; Prov 8, 22-31; Giob 38 s), evoca l’attività creatrice di Dio,
lo fa unicamente per sottolineare dei punti di fede: distinzione del mondo e del
Dio unico; dipendenza del mondo in rapporto al Dio sovrano, che «parla e le cose
sono» (Sal 33, 6-9), che con la sua *provvidenza governa le leggi della natura (Gen
8, 22); integrazione dell’universo nel *disegno di salvezza che ha l’*uomo come
centro. Questa cosmologia sacra, estranea alle preoccupazioni scientifiche come
alle speculazioni filosofiche, colloca così il mondo in rapporto all’uomo:
questi ne emerge per dominarlo (Gen 1, 28) ed a questo titolo lo trascina nel
suo stesso destino.
II. SIGNIFICATO DEL MONDO
Anche il significato attuale del mondo per la coscienza religiosa dell’uomo è
duplice.
1. Uscito dalle mani divine, il mondo continua a manifestare la
bontà di Dio. Dio, nella sua *sapienza, lo ha organizzato come una vera opera
d’arte, unita ed armoniosa (Prov 8, 22-31; Giob 28, 25 ss). Con ciò la sua
*potenza e la sua divinità si rendono in qualche modo sensibili (Sap 13, 3 ss),
perché la sua *grazia è talmente diffusa su tutte le sue *opere che la vista
dell’universo esaurisce le facoltà di ammirazione dell’uomo (Sal 8; 19, 1-7;
104).
2. Ma per l’uomo peccatore impegnato nella sua tragedia, il
mondo significa pure l’*ira di Dio, alla quale serve di strumento (Gen 3, 17 s):
colui che ha fatto le cose per il *bene e la felicità dell’uomo se ne serve pure
per il suo *castigo. Di qui le *calamità di ogni specie in cui la natura ingrata
si leva contro l’umanità, dal *diluvio alle piaghe di Egitto ed alle
*maledizioni che attendono Israele infedele (Deut 28, 15-46).
3. In questo duplice modo il mondo è associato attivamente alla
storia della *salvezza, ed in funzione di essa acquista il suo vero senso
religioso. Ciascuna delle creature che lo compongono possiede una specie di
ambivalenza, che il libro della Sapienza mette in rilievo: la stessa *acqua che
perdeva gli Egiziani assicurava la salvezza di Israele (Sap 11, 5-14). Se è vero
che il principio non può essere applicato meccanicamente, perché giusti e
peccatori vivono quaggiù in comunanza di destino, appare tuttavia un legame
misterioso tra il mondo e l’uomo. Al di là dei fenomeni ciclici che, alla nostra
scala, costituiscono il volto attuale del mondo, questo ha quindi una storia,
che ha avuto inizio prima dell’uomo per terminare a lui (Gen 1, 1 - 2, 4), e che
presentemente cammina parallelamente a quella dell’uomo per consumarsi nello
stesso punto finale.
III. DESTINO FINALE DEL MONDO
Portatore di una umanità sorta da esso per le sue radici corporali (Gen
2, 7; 3, 19), il mondo è di fatto incompiuto: spetta all’uomo perfezionarlo col
suo *lavoro dominandolo (l, 28) ed imprimendo su di esso il suo segno. Ma che
valore avrà l’umanizzazione del mondo, se l’uomo peccatore lo trascina di fatto
nel sito peccato? Perciò l’escatologia dei profeti non si occupa tanto di questo
divenire del mondo sotto il governo dell’uomo, quanto del termine -
necessariamente ambiguo - verso il quale cammina.
1. Al *giudizio finale che attende l’umanità, tutti gli
elementi del mondo saranno associati, come se l’ordine delle cose create
all’inizio venisse sconvolto da un repentino ritorno al caos (Ger 4, 23-26). Di
qui le immagini della terra che scricchiola (Is 24, 19 s), degli astri che si
oscurano (Is 13, 10; Gioe 2, 10; 4, 15): il vecchio universo sarà trascinato nel
cataclisma in cui sarà inghiottita un’umanità colpevole...
2. Ma, come al di là del giudizio degli uomini si prepara la
loro *salvezza per pura grazia divina, così si prepara pure per il mondo una
rinnovazione profonda che i testi evocano come una *nuova creazione: Dio creerà
«cieli nuovi ed una terra nuova» (Is 65, 17; 66, 22); e la descrizione di questo
mondo rinnovato è fatta con le immagini che servivano anche per il *paradiso
primitivo.
3. Mondo presente e mondo futuro. - Come prolungamento
di questi annunci misteriosi, il giudaismo contemporaneo del NT si raffigurava
il termine della storia umana come un passaggio dal mondo (o dal secolo)
presente al mondo (od al secolo) futuro. Il mondo presente è quello in cui siamo
da quando, per l’invidia del demonio (ed il peccato dell’uomo), la *morte vi ha
fatto il suo ingresso (Sap 2, 24). Il mondo futuro è quello che apparirà quando
Dio verrà a stabilire il suo *regno. Allora le realtà del mondo presente,
purificate come l’uomo stesso, ritroveranno la loro perfezione primitiva: ad
immagine delle realtà celesti, esse saranno veramente trasfigurate.
NUOVO TESTAMENTO
Il NT usa abbondantemente il termine greco kosmos. Ma il significato che gli
conferisce risulta da tutta l’elaborazione effettuata nel VT e già assunta nella
traduzione greca.
I. AMBIGUITÀ DEL MONDO
1. È vero che il mondo così designato rimane fondamentalmente la
creatura eccellente che Dio ha fatto alle origini (Atti 17, 24) mediante
l’attività del suo Verbo (Gv 1, 3. 10; cfr. Ebr 1, 2; Col 1, 16). Questo mondo
continua a rendere testimonianza a Dio (Atti 14, 17; Rom 1, 19 s). Sarebbe
tuttavia un errore stimarlo troppo, perché l’uomo lo supera di molto in valore
vero: che gli servirebbe conquistare il mondo intero se perdesse se stesso (Mt
16, 26)?
2. Ma c’è di più: nel suo stato attuale, questo mondo, solidale
con l’uomo peccatore, è di fatto in potere di *Satana. Il *peccato vi è entrato
all’inizio della storia e, con il peccato, la morte (Rom 5, 12). Per tal fatto è
diventato debitore della giustizia divina (3, 19), perché è solidale con il
mistero del male che agisce in terra. Il suo elemento più visibile è costituito
dagli uomini che levano la loro volontà ribelle contro Dio e contro il suo
Cristo (Gv 3, 18 s; 7, 7; 15, 18 s; 17, 9. 14...). Dietro di essi si profila un
capo invisibile: Satana, il principe di dio di questo secolo (2 Cor 4, 4).
*Adamo, stabilito capo del mondo dalla volontà del suo creatore, ha consegnato
nelle mani di Satana la sua persona ed il suo regno; da allora il mondo è in
potere del maligno (1 Gv 5, 19), che ne comunica la potenza e la gloria a chi
vuole (Lc 4, 6). Mondo di tenebre, governato dagli spiriti del male (Ef 6, 12);
mondo ingannatore, i cui elementi costitutivi pesano sull’uomo e lo
asserviscono, fin nella stessa economia antica (Gal 4, 3. 9; Col 2, 8. 15). Lo
spirito di questo mondo, incapace di gustare i segreti ed i doni di Dio (1 Cor
2, 12), si oppone allo Spirito di Dio, proprio come lo spirito dell’*anticristo
che agisce nel mondo (1Gv 4, 3). La *sapienza di questo mondo, basata sulle
speculazioni del pensiero umano separato da Dio, è convinta da Dio di *follia (1
Cor 1, 20). La *pace che dà il mondo, fatta di prosperità materiale e di
sicurezza fallace, non è che un simulacro della vera pace che Cristo solo può
dare (Gv 14, 27): il suo effetto ultimo è una *tristezza che produce la morte (2
Cor 7, 10). Attraverso a tutto questo si rivela il *peccato del mondo (Gv 1,
29), massa di odio e di incredulità accumulata fin dalle origini, pietra di
inciampo per chi vorrebbe entrare nel regno di Dio: guai al mondo a motivo degli
*scandali (Mi 18, 7)! Perciò il mondo non può offrire all’uomo nessun valore
sicuro: la sua figura passa (1 Cor 7, 31), e così pure le sue concupiscenze (1
Gv 2, 16). Il tragico del nostro destino proviene dal fatto che, per nascita,
noi apparteniamo a questo mondo.
II. GESÙ ED IL MONDO
Ora «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unico» (Gv 3, 16). Questo
è il paradosso con cui incomincia per il mondo una nuova storia che presenta due
aspetti complementari: la vittoria di Gesù sul mondo malvagio governato da
Satana, l’inaugurazione in lui del mondo rinnovato che le promesse profetiche
annunciavano.
1. Gesù, vincitore del mondo.
- Questo primo punto è messo in pieno rilievo dal quarto vangelo: «Egli era nel
mondo, ed il mondo fu fatto per mezzo suo, ed il mondo non lo ha conosciuto» (Gv
1, 10). Tale è il riassunto della carriera terrena di Gesù. Gesù non è del mondo
(8, 23; 17, 14), e neppure il suo regno (18, 36); ha la sua *potenza da Dio (Mt
28, 10), e non dal principe di questo mondo (Lc 4, 5-8), perché questi non ha
alcun potere su di lui (Gv 14, 30). Perciò il mondo lo odia (15, 18), tanto più
che egli ne è la luce (9, 5), gli apporta la vita (6, 33), viene per salvarlo
(12, 47). *Odio folle, che domina apparentemente il dramma evangelico e provoca
alla fine la condanna a morte di Gesù (cfr. 1 Cor 2, 7 s). Ma in questo stesso
istante la situazione si capovolge: ed allora è il *giudizio del mondo e la
caduta del suo principe (Gv 12, 31), è la *vittoria di Cristo sul mondo malvagio
(16, 33). Infatti Gesù accettando con un atto supremo di amore la misteriosa
*volontà del Padre (14, 31), ha «lasciato il mondo» (16, 28) per ritornare al
Padre, dove siede ormai nella gloria (17, 1. 5), e di dove dirige la storia (Apoc
5, 9).
2. Il mondo rinnovato.
- Con ciò stesso Gesù ha realizzato il fine per cui era venuto in terra:
morendo, ha «tolto il peccato del mondo» (Gv 1, 29), ha dato la sua carne «per
la vita del mondo» (6, 51). Ed il mondo, creatura di Dio caduta sotto il giogo
di Satana, è stato riscattato dalla sua *schiavitù. E’ stato lavato dal *sangue
di Gesù: Terra, ponius, astra, mundus, quo lavantur flumine! Egli, nel quale
tutte le cose erano state create (Col 1, 16), è stato stabilito dalla sua
risurrezione capo e *testa della *nuova creazione: Dio ha posto tutto sotto i
suoi piedi (Ef 1, 20 ss), *riconciliando in lui tutti gli esseri e ricostituendo
l’*unità di un universo diviso (Col 1, 20). In questo mondo nuovo la *luce e la
*vita circolano ormai in abbondanza: sono date a tutti coloro che hanno *fede in
Gesù. Tuttavia il mondo presente non ha ancora avuto termine. La grazia di
*redenzione agisce in un universo *sofferente. La vittoria di Cristo non sarà
completa che il giorno della sua manifestazione in *gloria, quando consegnerà
tutte le cose al Padre suo (1 Cor 15, 25-28). Fino allora l’universo rimane in
attesa di un parto doloroso (Rom 8, 19...): quello dell’*uomo nuovo nella sua
piena statura (Ef 4, 13), quello di un mondo nuovo che succede definitivamente
all’antico (Apoc 21, 4 s).
III. IL CRISTIANO ED IL MONDO
In rapporto al mondo i cristiani si trovano nella stessa situazione complessa in
cui si trovava Cristo durante il suo passaggio in terra. Non sono del mondo (Gv
15 19; 17, 16); e tuttavia sono nel mondo (17, 11), e Gesù non prega il Padre di
ritrarneli, ma soltanto di custodirli dal maligno (17, 15). La loro separazione
nei confronti del mondo malvagio lascia intatto il loro compito positivo nei
confronti del mondo da redimere (cfr. 1 Cor 5, 10).
1. Separati dal mondo.
- Anzitutto separazione: il cristiano deve custodirsi immacolato dal
mondo (Giac 1, 27); non deve amare il mondo (1 Gv 2, 15), perché l’amicizia per
il mondo è inimicizia contro Dio (Giac 4, 4) e porta ai peggiori abbandoni (2
Tim 4, 10). Evitando di modellarsi sul secolo presente (Rom 12, 2), rinunzierà
quindi alle concupiscenze che ne definiscono lo spirito (1 Gv 2, 16). In una
parola, il mondo sarà un *crocifisso per lui ed egli per il mondo (Gal 6, 14):
se ne servirà come se non se ne servisse (1 Cor 7, 29 ss). Distacco profondo,
che evidentemente non esclude un uso dei beni di questo mondo conforme alle
esigenze della carità fraterna (1 Gv 3, 17): tale è la *santità che è richiesta
al cristiano.
2. Testimoni di Cristo dinanzi al mondo.
- Ma da un altro lato, ecco la missione positiva del cristiano dinanzi
al mondo attualmente *prigioniero del peccato. Come Cristo vi è venuto per
rendere testimonianza alla verità (Gv 18, 37), così il cristiano è inviato nel
mondo (17, 18) per rendere una *testimonianza che è quella di Cristo stesso (1
Gv 4, 17). L’esistenza cristiana, che è tutto l’opposto di una manifestazione
spettacolare alla quale Gesù stesso si è rifiutato (Gv 7, 3 s; 14, 22; cfr. Mt
4, 5 ss), rivelerà agli uomini il vero volto di Dio (cfr. Gv 17, 21. 23). Vi si
aggiungerà la testimonianza della parola. Infatti i *predicatori del vangelo
hanno ricevuto l’ordine di annunziarlo al mondo intero (Mc 14, 9; 16, 15): vi
brilleranno come altrettanti luminari (Fil 2, 15). Ma il mondo si leverà contro
di essi, come già contro Gesù (Gv 15, 18), cercando di riconquistare coloro che
fossero sfuggiti alla sua corruzione (2 Piet 2, 19 s). In questa *guerra
inevitabile l’arma della lotta e della vittoria sarà la *fede (1 Gv 5, 4 s): la
nostra fede condannerà il mondo (Ebr 11, 7; Gv 15, 22). Per nulla stupito di
essere *odiato ed incompreso (1 Gv 3, 13; Mt 10, 14 par.) ed anche *perseguitato
dal mondo (Gv 15, 18 ss), il cristiano è confortato dal *Paraclito, lo Spirito
di verità, inviato in terra per confondere il mondo: lo Spirito attesta nel
cuore del fedele che il mondo commette peccato rifiutando di credere in Gesù,
che la causa di Gesù è giusta poiché egli è presso il Padre ed il principe di
questo mondo è già condannato (16, 8-11). Benché il mondo non lo veda né lo
conosca (14, 17), questo Spirito rimarrà nel fedele, e lo farà trionfare degli
*anticristi (1 Gv 4, 4 ss). Ed a poco a poco, grazie alla testimonianza, quelli,
tra gli uomini, il cui destino non è definitivamente legato al mondo,
riprenderanno posto nell’universo redento che ha Cristo per capo.
3. In attesa dell’ultimo giorno.
- Finché durerà il secolo presente, non c’è da sperare che questa
tensione tra il mondo ed i cristiani sparisca. Fino al *giorno della separazione
definitiva, sudditi del regno e sudditi del maligno rimarranno mescolati come la
zizzania ed il grano nel campo di Dio, che è il mondo (Mt 13, 38 ss). Ma fin
d’ora incomincia ad operarsi il *giudizio nel segreto dei cuori (Gv 3, 18-21);
avrà soltanto più da esser reso pubblico, nel giorno in cui Dio giudicherà il
mondo (Rom 3, 6) associando i suoi fedeli alla sua attività di giudice (1 Cor 6,
2). Allora il mondo presente sparirà in modo definitivo, conformemente agli
oracoli profetici, mentre l’umanità rigenerata troverà la *gioia di un universo
rimesso a nuovo (cfr. Apoc 21).
C. LESQUIVIT e P. GRELOT
→ astri - cielo I - creazione - generazione 2 - Gesù Cristo II 1 d - giudeo II -
missione - odio I 1; III 1.2 - peccato IV 2 - persecuzione - preoccupazioni -
prova-tentazione VT I 3; NT I - riconciliazione II 1 - tempo VT I - terra - uomo
I 1 b - vittoria NT.
Nella maggior
parte delle religioni, il monte, probabilmente a motivo della sua altezza e del
mistero di cui si circonda, viene considerato come il punto in cui il cielo
incontra la terra. Molti sono i paesi che hanno il loro monte santo, dove il
mondo fu creato, dove abitano gli dèi, donde viene la salvezza. La Bibbia ha
conservato queste credenze, ma le ha purificate; con il VT, il monte non è che
una creatura tra le altre: così Jahvè è senza dubbio il «Dio dei monti» (senso
probabile di El-Shaddaj), ma anche il Dio delle valli (1 Re 20, 23. 28); con
Cristo, Sion cessa di essere «l’ombelico del mondo» (Ez 38, 12), perché Dio non
vuole più essere adorato su questo o quel monte, ma in spirito e verità (Gv 4,
20-24).
I. LA CREATURA DI DIO
1. Stabilità.
- Gli uomini passano, i monti rimangono. Questa esperienza fa vedere facilmente
nei monti un simbolo della *giustizia fedele di Dio (Sal 36, 7); quelli che
conobbero i patriarchi sono persino chiamati «colli eterni» (Gen 49, 26; Deut
33, 15). Ma queste creature, per quanto mirabili, non devono tuttavia essere
divinizzate: «Prima che i monti fossero nati, da sempre tu sei *Dio» (Sal 90, 2;
cfr. Prov 8, 25). Il creatore che «pesò i monti con la stadera ed i colli con la
bilancia» (Is 40, 12) è colui che li «tiene saldi con la sua *forza» (Sal 65,
7); li sposta a piacer suo (Giob 9, 5) e dà lo stesso potere al più umile dei
credenti (Mt 17, 20; cfr. 1 Cor 13, 2). Tutti quindi proclamino: «O voi, monti e
colli, benedite il Signore!» (Dan 3, 75; Sal 148, 9).
2. Potenza.
- Alto sopra le pianure che le calamità sovente devastano, il monte offriva già
un rifugio a Lot in pericolo (Gen 19; 17), ed attira ancora il giusto
perseguitato che pensa di rifugiarvisi come l’uccello (Sal 11, 1; cfr. Ez 7, 16;
Mt 24, 16). Ma questo giusto deve stare attento: levando gli occhi ai monti, da
Jahvè solo, creatore del cielo e della terra, otterrà l’aiuto (Sal 121, 1 s;
cfr. Ger 3, 23). Diversamente confiderebbe in una creatura, che, puro simbolo di
*potenza (Dan 2, 35. 45), diventerebbe allora simbolo dell’*orgoglio, come la
superba *Babilonia dominatrice del mondo (Ger 51, 25). Ogni altura deve essere
umiliata, Dio solo esaltato (Is 2, 12-15).
3. Dinanzi a Dio.
- «Nel tuo *nome il Tabor e 1’Hermon esultano» (Sal 89, 13). Quando il
Signore *visita la terra, i monti prorompano quindi in grida di gioia (Is 44,
23) e saltellino dinanzi alle sue grandi opere (Sal 29, 6), lascino scorrere sui
loro fianchi il *vino nuovo e maturi il frumento fino alla loro vetta (Am 9, 13;
Sal 72, 16)! Ma si aspettino anche di essere livellati (Is 45, 2; 49, 11; Bar 5,
7; Lc 3, 5). Potranno allora offrire un rifugio valido nel giorno dell’*ira (Os
10, 8; Lc 21, 21; 23, 30; Apoc 6, 14 ss)? «Guardai, ed ecco che tremano» (Ger 4,
24) fumano a contatto con colui che può consumarli con il *fuoco (Sal 104, 32;
Deut 32, 22); sotto i suoi passi (Mi 1, 4), dinanzi alla sua *faccia (Is 63,
19), essi fondono come cera (Sal 97, 5), scorrono (Giud 5, 5); «i monti eterni
esplodono» (Ab 3, 6), sprofondano (Ez 38, 20), spariscono alla fine dei tempi (Apoc
6, 14; 16, 20).
II. I MONTI PRIVILEGIATI
Benché votati ad una trasformazione totale, come tutta la *creazione, taluni
monti furono riservati ad una funzione duratura e gloriosa.
1. Luogo di rivelazione per eccellenza «il monte di
Dio», od Horeb, nel Sinai, è una terra santa dove Mosè ebbe la vocazione (Es
30,1. 5), che Dio rese sacra con il dono della sua legge (Es 24, 12-18) e con la
presenza della sua *gloria (24, 16). Là ancora salirà *Elia (l Re 19, 8), che
voleva sentire Dio parlargli, scopo inteso indubbiamente anche dai profeti che
amano sostare e pregare in vetta ai monti: Mosè sul Sinai (Es 17, 9 s), Elia od
Eliseo sul monte Carmelo (1 Re 18, 42; 2 Re 1, 9; 4, 25).
2. Soprattutto luogo di culto, il monte, alto sopra il
suolo, permette di incontrare il Signore. Il sacrificio non deve forse compiersi
su una piccola altura (*altare) (Es 24, 4 s)? Benedizione e maledizione devono
essere pronunziate dai monti Garizim ed Hebal (Deut 11, 29; Gios 8, 30- 35).
Anche l’arca, di ritorno dai Filistei, è deposta su una collina (1 Sam 7, 1).
Eredi di una venerabile tradizione, Gedeone (Giud 6, 26), Samuele (1 Sam 9, 12),
Salomone (1 Re 3, 4) od Elia (1 Re 18, 19 s), sacrificano tutti con il popolo
sulle «alture» (1 Re 3, 2). I riti cananei, che in tal modo venivano ripresi,
erano applicati a Jahvè, solo Dio; ma la dispersione delle altura presentava il
pericolo d’idolatria (Ger 2, 20; 3, 23). Si procedette perciò a centralizzare il
*culto in un luogo unico (Deut 12, 2-9). Ecco quindi il monte che l’uomo non ha
affatto costruito per dare la scalata al cielo (Gen 11), il colle dallo slancio
superbo, che Dio ha scelto tra i monti scoscesi (Sal 48, 2 s; 68, 17). Mentre
gli altri monti possono cadere nel mare (Sal 46, 3), Sion è un rifugio sicuro (Gioe
3, 5), incrollabile (Sal 125, 1). L’uomo quindi non deve dire: «Darò la scalata
ai cieli, drizzerò il mio trono sopra le stelle di Dio, salirò in vetta alle
nubi nere, rassomiglierò all’Altissimo» (Is 14, 13 s), perché cadrebbe nelle
profondità dell’abisso. Dio in persona ha «stabilito il suo re in Sion, suo
monte santo» (Sal 2, 6), nel luogo stesso in cui Abramo sacrificò il figlio (2
Cron 3, 1), il monte Moria. Su questo monte santo, ricco di tanti ricordi
divini, il fedele deve salire (Sal 24, 3) cantando i «cantici delle salite» (Sal
120 - 134), e ritornare continuamente (Sal 43, 3), nella speranza di *rimanervi
per sempre con il Signore (Sal 15, 1; 74, 2).
3. Alla fine dei tempi, che diventano questi luoghi
consacrati da Dio stesso? Nella letteratura escatologica il Sinai non trova più
posto; non è più che il luogo antico, dove furono date «le parole di vita» (Atti
7, 38) e donde Dio parti per raggiungere il suo vero santuario, Sion (Sal 68, 16
ss). A differenza del Sinai che scompare nel passato, il monte Sion conserva di
fatto un valore escatologico. «Il monte della casa di Jahvè sarà stabilito sulla
cima dei monti ed innalzato al di sopra dei colli. Vi affluiranno tutte le
*nazioni... Venite! Saliamo al monte di Jahvè» (Is 2, 2 s), a questo monte santo
(11, 9; Dan 9, 16). Jahvè vi diventerà re (Is 24, 23), vi preparerà un grande
banchetto (25, 6-10) per i *dispersi infine radunati (27, 13; 66, 20), ed anche
per gli *stranieri (56, 6 s). Infatti, mentre il paese sarà trasformato in
pianura, *Gerusalemme sarà sovraesaltata pur rimanendo al suo posto (Zac 14,
10), e tutti dovranno «salirvi» per sempre (14, 16 ss).
III. CRISTO ED I MONTI
1. Nella vita di Gesù i monti sono diversamente
considerati dai sinottici. Essi si accordano nel fare vedere che Gesù amava
ritirarsi sul monte per pregare (Mt 14, 23 par.; Lc 6, 12; 9, 28), e la
*solitudine *desertica (cfr. Lc 15, 4 = Mt 18, 12) che vi cerca è senza dubbio
un rifugio contro la pubblicità rumorosa (cfr. Gv 6, 15). S’accordano parimenti
nell’ignorare il monte Sion e nel menzionare il monte degli Ulivi, nonché il
monte della trasfigurazione, ma in una prospettiva diversa. Per Matteo, il luogo
privilegiato delle manifestazioni dei salvatore sono i monti di Galilea. La vita
di Gesù è inquadrata da due scene sul monte: all’inizio, Satana offre a Gesù il
potere su tutto il mondo (Mt 4, 8); alla fine Gesù conferisce ai suoi discepoli
il potere che ha ricevuto dal Padre (28, 16). Tra queste due scene, sempre su
questo o quel monte Gesù ammaestra la folla (5, 1), guarisce gli sventurati e dà
loro un pane meraviglioso (15, 29...), infine appare trasfigurato (17, 1 s). Ora
nessuno di questi monti porta un nome preciso, come se il discepolo di Gesù si
fosse premunito contro la tentazione di piantare per sempre la sua tenda su
qualcuno di essi; soltanto la *memoria ne deve restare viva nei «testimoni
oculari della sua maestà»: le Scritture si compirono sul «monte santo» (2 Piet
1, 16-19). Gesù non fissa il suo messaggio ad un luogo della terra, ma alla sua
persona. Per Luca, la «salita» a Gerusalemme rappresenta la *via della gloria
attraverso la croce; non si tratta più semplicemente del pellegrinaggio che il
pio israelita compie (Lc 2, 42), ma della solenne salita che abbraccia un’epoca
della vita di Gesù (9, 51 - 21, 38; cfr. 18, 31). Ignorando i monti della
Galilea che sentirono i discorsi e videro i prodigi di Gesù, Luca concentra la
sua attenzione sul monte degli Ulivi. Non ricorda che Gesù vi faccia il discorso
escatologico (Mt 24, 3 = Mc 13, 3), ma per lui, là termina la salita a
Gerusalemme (Lc 19, 29), di là, conformemente alla tradizione apocalittica (Zac
14, 3 s), il Signore doveva partire alla conquista del mondo: vi è acclamato
solennemente (Lc 19, 37), ma vi si reca anche per agonizzare (22, 39) e, infine,
per salire al cielo (Atti 1, 12). Se è ancora menzionato un monte preciso,
sembra lo sia soltanto per insegnare ad «innalzare gli occhi» al *cielo, o
meglio verso colui che, secondo la teologia giovannea, è stato «innalzato» da
terra (Gv 3, 13 s; 9, 37).
2. Gli altri scritti del NT non presentano un
insegnamento unificato sui monti privilegiati del VT. Il Sinai è assimilato
dalla polemica paolina alla casa di schiavitù (Gal 4, 24 ss) o serve di antitesi
al monte Sion al quale presentemente è possibile accostarsi (Ebr 12, 18. 22).
Nello stesso senso l’Apocalisse presenta l’agnello che alla fine dei tempi sta
ritto sul monte Sion (Apoc 14, 1); ma altrove fa una critica radicale di questo
santo luogo: il monte non è più, come nella visione di Ezechiele, il luogo su
cui sembra costruita la città (Ez 40, 2), ma è soltanto un osservatorio donde si
contempla la *Gerusalemme che discende dal cielo (Apoc 21, 10).
X. LÉON DUFOUR
→ ascensione I - Gerusalemme VT I 2 - trasfigurazione 2.
→ bene e male - carne II –giustizia - legge - retribuzione III 2 - virtù e vizi.
→ deserto VT I 2 - incredulità.
VECCHIO
TESTAMENTO
I. PRESENZA DELLA MORTE
1. L’esperienza della morte.
- Tutti fanno l’esperienza della morte. Lungi dal distoglierne lo
sguardo per rifugiarsi in sogni illusori, la rivelazione biblica, a qualunque
stadio la si esamini, comincia col guardarla lucidamente in faccia: morte delle
persone care, che, una volta scambiati gli *addii (Gen 49), provoca l’angoscia
in coloro che restano (Gen 50, l; 2 Sam 19, 1...); morte che ciascuno deve
considerare per se stesso, perché anch’egli «*vedrà la morte» (Sal 89, 49; Lc 2,
26; Gv 8, 51), «*gusterà la morte» (Mt 16, 28 par.; Gv 8, 52; Ebr 2, 9).
Pensiero amaro per colui che fruisce dei beni dell’esistenza, ma prospettiva
desiderabile per colui che la vita opprime (cfr. Eccli 41, 1 s): mentre Ezechia
piange sulla sua morte imminente (2 Re 20, 2 s), Giobbe la invoca a gran voce (Giob
6, 9; 7, 15).
2. L’oltretomba.
- Il defunto «non è più» (Sal 39, 14; Giob 7, 8. 21; 7, 10): prima impressione
di inesistenza, perché l’oltretomba sfugge alle prese dei viventi. Nelle
credenze primitive, conservate a lungo dal VT, la morte non è tuttavia un
annientamento totale. Mentre il *corpo è deposto in una fossa sotterranea,
qualcosa del defunto, un’*ombra, sussiste nello šeol. Ma questi *inferi sono
concepiti in modo molto rudimentale: un buco spalancato, un pozzo profondo, un
luogo di silenzio (Sal 115, 17), di perdizione, di tenebre, di dimenticanza (Sal
88, 12 s; Giob 17, 13). Ivi tutti i morti radunati partecipano alla stessa
misera sorte (Giob 3, 13-19; Is 14, 9 s), anche se vi sono gradi nella loro
ignominia (Ez 32, 17-32): sono consegnati alla polvere (Giob 17, 16; Sal 22, 16;
30, 10) ed ai vermi (Is 14, 11; Giob 17, 14). La loro esistenza non è più che un
*sonno (Sal 13, 4; Dan 12, 2): non c’è più speranza, conoscenza di Dio,
esperienza dei suoi miracoli, lode da innalzargli (Sal 6, 6; 30, 10; 88, 12 s;
115, 7; ls 38, 18). Dio stesso dimentica i morti (88, 6). E una volta passate le
*porte dello sheol (Giob 38, 17; cfr. Sap 16, 13), non c’è più ritorno (Giob 10,
21 s). Tale è la prospettiva desolante che la morte apre all’uomo per il giorno
in cui dev’essere «riunito ai suoi padri» (Gen 49, 29). Qui le immagini non
fanno che dare una forma concreta ad impressioni spontanee che sono universali
ed a cui si limitano ancora molti dei nostri contemporanei. Se il VT è rimasto a
questo livello di credenze sino ad un’epoca tarda, è segno che, a differenza
della religione egiziana e dello spiritualismo greco, ha rifiutato di
svalorizzare la vita terrena per rivolgere le sue speranze verso un’immortalità
immaginaria. Ha atteso che la rivelazione illuminasse coi suoi mezzi propri il
mistero dell’oltretomba.
3. Il culto dei morti.
- I riti funebri sono un fatto universale: fin dalla lontana preistoria, l’uomo
ci tiene ad onorare i suoi morti ed a rimanere in contatto con essi. Il VT
conserva l’essenziale di queste tradizioni secolari: atti di lutto che
manifestano il dolore dei vivi (2 Sam 3, 31; Ger 16, 6); seppellimento rituale
(1 Sam 31, 12 s; Tob 2, 4-8), perché è una maledizione non ricevere *sepoltura (Deut
21, 23; 1 Re 14, 11; Ger 16, 4); cura dei sepolcri, che tocca così da vicino la
pietà familiare (Gen 23; 49, 29-32; 50, 12 s); pasti funebri (Ger 16, 7), e
persino offerte sulle tombe dei defunti (Tob 4, 17), benché siano deposte
«dinanzi a bocche chiuse» (Eccli 30, 18). Tuttavia la rivelazione impone già dei
limiti a queste usanze, che nei popoli vicini sono legate a credenze
superstiziose: di qui il divieto delle incisioni rituali (Lev 19, 28; Deut 14,
1), e soprattutto la proscrizione della necromanzia (Lev 19, 31; 20, 27; Deut
18, 11), tentazione grave in un tempo in cui la *magia era fiorente e si
praticava l’evocazione dei morti (cfr. Odissea) come oggi ci si dedica allo
spiritismo (1 Sam 28; 2 Re 21, 6). Nel VT non c’è dunque, a rigore, culto dei
morti come c’era pressa gli Egiziani: l’assenza di luce sull’oltretomba aiutò
certamente gli Israeliti a guardarsene.
4. La morte, destino dell’uomo.
- La morte è la sorte comune degli uomini, «la via di tutta la terra» (1 Re 2,
2; cfr. 2 Sam 14, 14; Eccli 8, 7). Ponendo fine alla vita di ciascuno, essa
appone un sigillo sulla sua fisionomia: morte dei patriarchi «sazi di giorni» (Gen
25, 7; 35, 29), morte misteriosa di Mosè (Deut 34), morte tragica di Saul (1 Sam
31)... Ma dinanzi a questa necessità ineluttabile, come non sentire che la vita,
così ardentemente desiderata, è soltanto un *bene fragile e fuggitivo? È
un’*ombra, un soffio, un nulla (Sal 39, 5 ss; 89, 48 s; 90; Giob 14, 1-12; Sap
2, 2 s); è una vanità, poiché la sorte finale di tutti è identica (Eccle 3; Sal
49, 8 ...), anche quella dei re (Eccli 10, 10)! Constatazione malinconica da cui
nasce talvolta, dinanzi a questo destino obbligatorio, una rassegnazione priva
di illusioni (2 Sam 12, 23; 14, 14). Tuttavia la vera sapienza va più lontano;
accetta la morte come un decreto divino (Eccli 41, 4), che sottolinea l’umiltà
della condizione umana di fronte al Dio immortale: chi è polvere ritorna alla
polvere (Gen 3, 19).
5. Il potere della morte.
- Nonostante tutto, l’uomo vivente sente nella morte una forza nemica.
Spontaneamente le dà un volto e la personifica. È il pastore funebre che chiude
gli uomini negli inferi (Sal 49, 15); penetra nelle case per falciare i bambini
(Ger 9, 20). Certamente nel VT riveste pure la figura dell’angelo sterminatore,
esecutore delle *vendette divine (Es 12, 23; 2 Sam 24, 16; 2 Re 19, 35), nonché
quella della *parola divina che stermina gli avversari di Dio (Sap 18, 15 s). Ma
questa fornitrice degli inferi insaziabili (cfr. Prov 27, 20) ha piuttosto i
tratti di una potenza dal basso, di cui ogni *malattia ed ogni pericolo fanno
presentire il subdolo avvicinarsi. Perciò l’ammalato si vede già «annoverato tra
i morti» (Sal 88, 4 ss); l’uomo in pericolo è circondato dalle *acque della
morte, dai torrenti di Belial, dalle reti dello sheol (Sal 18, 5 s; 69, 15 s;
116, 3; Giona 2, 4-7). La morte e lo sheol non sono quindi soltanto realtà
dell’al di là; sono *potenze in azione quaggiù - e guai a chi cade sotto i loro
artigli! Che è infine la vita, se non una lotta angosciosa dell’uomo alle prese
con la morte?
II. SENSO DELLA MORTE
1. Origine della morte.
- Poiché l’esperienza della morte risveglia nell’uomo simili risonanze,
è impossibile ridurla ad un semplice fenomeno naturale di cui l’osservazione
oggettiva esaurirebbe tutto il contenuto. La morte non può essere spogliata di
significato. Contraddicendo con violenza al nostro desiderio di vivere, essa
pesa su di noi come un *castigo; perciò, istintivamente, vediamo in essa la
sanzione del *peccato. Di questa intuizione comune alle religioni antiche, il VT
fa una ferma dottrina che sottolinea il significato religioso di un’esperienza
amarissima: la giustizia vuole che l’empio perisca (Giob 18, 5-21; Sal 37, 20.
28. 36; 73, 27); l’anima che pecca deve morire (Ez 18, 20). Ora questo principio
fondamentale illumina già il fatto enigmatico della presenza della morte
quaggiù: all’origine, la sentenza di morte non è stata pronunziata contro gli
uomini se non dopo il peccato di *Adamo, nostro primo padre (Gen 2, 17; 3, 19).
Dio infatti non ha creato la morte (Sap 1, 13); aveva creato l’uomo per
l’incorruttibilità, e la morte non è entrata nel mondo che per l’invidia del
*demonio (Sap 2, 23 s). Il potere che essa ha su di noi riveste quindi un valore
di segno: manifesta la presenza del peccato in terra.
2. La via della morte.
- Una volta scoperto questo legame tra il peccato e la morte, tutto un aspetto
della nostra esistenza rivela il suo vero volto. Non soltanto il peccato è un
male perché è contrario alla nostra natura ed alla volontà divina; ma inoltre è
per noi, concretamente, la «*via della morte». Tale è l’insegnamento dei
sapienti: chi persegue il male va verso la morte (Prov 11, 19); chi si lascia
sedurre dalla signora *follia, cammina verso le valli dello sheol (7, 27; 9,
18). Già gli inferi dilatano la loro gola per inghiottire i peccati (Is 5, 14),
come Korakh ed i suoi seguaci che vi discesero vivi (Num 16, 30...; Sal 55, 16).
L’*empio è quindi su una strada sdrucciolevole (Sal 73, 18 s). Virtualmente è
già un morto, perché con la morte ha fatto un patto ed è caduto in suo potere (Sap
1, 16); perciò la sua sorte finale sarà di diventare un oggetto di obbrobrio tra
i morti, in eterno (Sap 4, 19). Questa legge del governo provvidenziale non è
senza ripercussioni pratiche nella vita di Israele: i colpevoli dei peccati più
gravi devono essere puniti di morte (Lev 20, 8-21; 24, 14-23). Nel caso dei
peccatori la morte è quindi qualcosa di diverso da un destino naturale:
privazione del bene più caro che Dio abbia dato all’uomo, la *vita, essa prende
l’aspetto di una dannazione.
3. L’enigma della morte dei giusti.
- Ma che dire allora della morte dei *giusti? Che i peccati di un padre siano
puniti con la morte dei suoi figli, è ancora in certo modo comprensibile, se si
tiene conto della solidarietà umana (2 Sam 12, 14 ...; cfr. Es 20, 5). Ma se è
vero che ciascuno paga per se stesso (cfr. Ez 18), come giustificare la morte
degli innocenti? Apparentemente Dio fa perire allo stesso modo il giusto ed il
colpevole (Giob 9, 22; Eccle 7, 15; Sal 49, 11): la loro morte ha ancora un
senso? Qui la fede del VT urta contro un enigma. Per risolverlo, bisognerà che
si chiarisca il mistero dell’al di là.
III. LA LIBERAZIONE DALLA MORTE
1. Dio salva l’uomo dalla morte. - Non è in potere dell’uomo *salvare
se stesso dalla morte: occorre la grazia di *Dio, che solo è per natura il
*vivente. Quando perciò il potere della morte si manifesta sull’uomo, in
qualsiasi modo, egli non può che rivolgere a Dio un appello (Sal 6, 5; 13, 4;
116, 3). Allora, se è giusto, può nutrire la speranza che Dio «non abbandonerà
la sua anima allo sheol» (Sal 16, 10), «libererà la sua anima dagli artigli
dello sheol» (Sal 49, 16). Una volta guarito o salvato dal pericolo, renderà
grazie a Dio per averlo liberato dalla morte (Sal 18, 17; 30; Giona 2, 7; Is 38,
17), perché appunto di una tale *liberazione avrà fatto l’esperienza concreta.
Ancor prima che le prospettive della sua fede abbiano superato i limiti della
vita presente, egli saprà così che la *potenza divina prevale su quella della
morte e dello sheol: primo germe di una *speranza che si evolverà infine in una
prospettiva di immortalità. 2. Conversione e liberazione dalla morte. - Questa
liberazione dalla morte nella cornice della vita presente Dio d’altronde non
l’accorda in modo capriccioso. Occorrono strette condizioni. Il peccatore muore
per il suo peccato; e Dio non trova gusto nella sua morte: preferisce che si
*converta e viva (Ez 8, 33; 33, 11). Se con la malattia egli pone l’uomo in
pericolo di morte, lo fa per correggerlo: una volta che si sarà convertito dal
suo peccato, Dio lo strapperà alla fossa infernale (Giob 33, 19-30). Di qui
l’importanza della predicazione *profetica che, invitando l’uomo a convertirsi,
cerca di *salvare la sua anima dalla morte (Ez 3,18-21; cfr. Giac 5, 20). Lo
stesso vale per l’*educatore che corregge il bambino per ritrarlo dal male (Prov
23, 13 s). Dio solo libera gli uomini dalla morte, ma non senza una cooperazione
umana. 3. La liberazione definitiva dalla morte. - Tuttavia la speranza di
essere liberati dalla morte sarebbe vana se non superasse i confini della vita
terrena; di qui l’angoscia di Giobbe ed il pessimismo dell’Ecclesiaste. Ma, in
epoca tarda, la rivelazione del VT vede più lontano. Annunzia un trionfo supremo
di Dio sulla morte, una liberazione definitiva dell’uomo strappato al suo
potere. Quando instaurerà il suo regno escatologico, Dio distruggerà per sempre
questa morte che non aveva fatta alle origini (Is 25, 8). Allora, per
partecipare al suo *regno, i giusti che dormono nella polvere degli inferi
*risusciteranno per la vita eterna, mentre gli altri rimarranno nell’eterno
orrore dello sheol (Dan 12, 2; cfr. Is 26, 19). In questa nuova prospettiva gli
inferi finiscono per diventare il luogo della dannazione eterna, il nostro
*inferno. Viceversa, l’oltretomba si illumina. Già i salmisti formulavano la
speranza che Dio li avrebbe liberati per sempre dal potere dello sheol (Sal 16,
10; 49, 16). Questo desiderio diventa ora realtà. Al pari di Enoch rapito senza
aver visto la morte (Gen 5, 24; cfr. Ebr 11, 4), i giusti saranno rapiti dal
Signore che li prenderà nella sua gloria (Sap 4, 7...; 5, 1-3. 15). Perciò, già
in terra, la loro *speranza è piena d’immortalità (Sap 3, 4). Ci si spiega come,
animati da una simile fede, i martiri dei tempi maccabaici abbiano potuto
affrontare eroicamente il supplizio (2 Mac 7, 9. 14. 23. 33; cfr. 14, 46) mentre
Giuda Maccabeo, nello stesso pensiero, inaugurava la preghiera per i morti (2
Mac 12, 43 ss). Più che la vita presente, conta ormai la vita eterna. 4.
Fecondità della morte dei giusti. - D’altronde la rivelazione, ancor prima di
aprire a tutti simili prospettive, aveva illuminato di nuova luce l’enigma della
morte dei giusti, attestandone la fecondità. Il fatto che il *giusto per
eccellenza, il *servo di Jahvè, sia colpito a morte e «strappato via dalla terra
dei viventi», non è privo di significato: la sua morte è un *sacrificio
*espiatorio offerto volontariamente per i peccati degli uomini; con essa si
compie il *disegno di Dio (Is 53, 8-12). Si svela così in anticipo il tratto più
misterioso dell’economia della *salvezza, che la storia di Gesù porrà in atto.
NUOVO TESTAMENTO
Nel NT le linee maestre della rivelazione precedente convergono verso il mistero
della morte di Cristo. Qui tutta la storia umana appare come un gigantesco
dramma di vita e di morte: fino a Cristo e senza di lui. C’era il regno della
morte; Cristo viene e, con la sua morte, trionfa della morte stessa; da questo
istante la morte cambia senso per la nuova umanità che muore con Cristo per
vivere con lui eternamente.
I. IL REGNO DELLA MORTE
1. Richiamo alle origini.
- Il dramma ha avuto inizio alle origini. Per la colpa di un solo uomo, il primo
padre del genere umano, il *peccato è entrato nel mondo, e con il peccato la
morte (Rom 5, 12. 17; 1 Cor 15, 21). Da allora tutti gli uomini «muoiono in
*Adamo» (15, 22), cosicché la morte regna sul mondo (Rom 5, 14). Questo
sentimento della presenza della morte, che il VT esprimeva in modo così forte,
corrispondeva dunque ad una realtà oggettiva, e dietro il regno universale della
morte si profila quello di *Satana, il «principe di questo mondo», «omicida» fin
dall’origine (Gv 8, 44).
2. L’umanità sotto il potere della morte.
- Ciò che conferisce forza a questo potere della morte è il peccato: esso è il
«pungiglione della morte» (1 Cor 15, 56 = Os 13, 14), perché la morte è il suo
frutto, il suo termine, il suo salario (Rom 6, 16. 21. 23). Ma lo stesso peccato
ha nell’uomo un complice: la concupiscenza (7, 7); essa fa nascere il peccato,
che a sua volta genera la morte (Giac 1, 15); in altre parole: la *carne è
quella il cui *desiderio è la morte e che fruttifica per la morte (Rom 7, 5; 8,
6); con ciò il nostro corpo, creatura di Dio, è diventato «corpo di morte» (7,
24). Invano, nel dramma del mondo, la *legge è entrata in scena per opporre una
barriera a questi strumenti della morte che operano in noi; il peccato ne ha
preso occasione per sedurci e procurarci più sicuramente la morte (7, 7-13).
Dando la conoscenza del peccato (3, 20) senza la forza di trionfarne,
condannando inoltre il peccatore a morte in modo esplicito (cfr. 5, 13 s), la
legge è diventata «la forza del peccato» (1 Cor 15, 56). Perciò il ministero di
questa legge, in se stessa santa e spirituale (Rom 7, 12. 14), ma semplice
lettera che non conferiva la potenza dello *Spirito, è stato di fatto un
ministero di morte (2 Cor 3, 7). Senza Cristo l’umanità era quindi immersa
nell’*ombra della morte (Mt 4, 16; Lc 1, 79; cfr. Is 9, 1); perciò la morte fu,
in ogni tempo, una delle componenti della sua storia, e rimane una delle
*calamità che Dio invia sul mondo peccatore (Apoc 6, 8; 8, 9; 18, 8). Di qui il
carattere tragico della nostra condizione: per sé, noi siamo abbandonati senza
remissione al potere della morte. Come potrà quindi realizzarsi nei fatti la
prospettiva di speranza dischiusa dalle Scritture?
II. IL DUELLO TRA CRISTO E LA MORTE
1. Cristo assume la nostra morte.
- Le promesse delle Scritture si realizzano grazie a Cristo. Per
liberarci dal potere della morte, egli ha voluto anzitutto far sua la nostra
condizione mortale. La sua morte non è stata un caso. Egli l’ha annunziata ai
discepoli per prevenire lo *scandalo che poteva suscitare in loro (Mc 8, 31
par.; 9, 31 par.; 10, 34 par.; Gv 12, 33; 18, 32); l’ha desiderata come il
*battesimo che lo avrebbe immerso nelle acque infernali (Lc 12, 50; Mc 10, 38;
cfr. Sal 18, 5). Se si è turbato dinanzi ad essa (Gv 12, 27; 13, 21; Mc 14, 33
par.), come si era turbato dinanzi al sepolcro di Lazzaro (Gv 11, 33. 38), se ha
supplicato il Padre che lo poteva preservare dalla morte (Ebr 5, 7; Lc 22, 42;
Gv 12, 27), ha infine accettato questo *calice amaro (Mc 10, 38 par.; 14, 30
par.; Gv 18, 11). Per fare la *volontà del Padre (Mc 14, 36 par.), è stato
«*obbediente sino alla morte» (Fil 2, 8). E questo perché era necessario che
egli «*compisse le Scritture» (Mt 26, 54): non era forse egli stesso il *servo
annunziato da Isaia, il *giusto annoverato tra i malfattori (Lc 22, 37; cfr. Is
53, 12)? Effettivamente, quantunque Pilato non abbia trovato in lui nulla che
meritasse la sentenza capitale (Lc 23, 15. 22; Atti 3, 13; 13, 28), egli accettò
che la sua morte avesse l’apparenza di un *castigo richiesto dalla legge (Mt 26,
66 par.). E questo perché, «nato sotto la legge» (Gal 4, 4) ed avendo preso «una
carne simile alla carne di peccato» (Rom 8, 3), era solidale con il suo popolo e
con tutta la razza umana. «Dio l’aveva fatto peccato per noi» (2 Cor 5, 21; cfr.
Gal 3, 13), per modo che il castigo meritato dal peccato umano doveva ricadere
su di lui. Perciò morendo tolse ogni potere al peccato (Rom 6, 10): benché
innocente, assunse sino alla fine la condizione dei peccatori, «*gustando la
morte» come essi tutti (Ebr 2, 8 s; cfr. 1 Tess 4, 14; Rom 8, 34) e discendendo
con essi «agli inferi». Ma recandosi così «dai morti», egli apportava la buona
novella che la vita sarebbe stata loro restituita (1 Piet 3, 19; 4, 6).
2. Cristo muore per noi.
- Di fatto la morte di Cristo era *feconda, come la morte del granello di
frumento gettato nel solco (Gv 12, 24-32). Imposta apparentemente come un
castigo del peccato, essa in realtà era un *sacrificio espiatorio (Ebr 9; cfr.
Is 53, 10). Cristo, realizzando alla lettera, ma in altro senso, la profezia
involontaria di Caifa, è morto «per il popolo» (Gv 11, 50 s; 18, 14) e non
soltanto per il suo popolo, ma «per tutti gli uomini» (2 Cor 5, 14 s). È morto
«per noi» (1 Tess 5, 10), mentre eravamo peccatori (Rom 5, 6 ss), dandoci in tal
modo il segno supremo di amore (5, 7; Gv 15, 13; 1 Gv 4, 10). Per noi: non al
nostro posto, ma a nostro beneficio; infatti, morendo «per i nostri peccati» (1
Cor 15, 3; 1 Piet 3, 18), ci ha *riconciliati con Dio mediante la sua morte (Rom
5, 10) cosicché possiamo ricevere 1’*eredità promessa (Ebr 9, 15 s).
3. Cristo trionfa della morte.
- Donde viene che la morte di Cristo abbia potuto avere questa
efficacia salutare? Dal fatto che, avendo affrontato la vecchia nemica del
genere umano, ne ha trionfato. Già durante la sua vita trasparivano i segni di
questa *vittoria futura, quando richiamava i morti alla vita (Mt 9, 18-25 par.;
Lc 7, 14 s; Gv 11): nel *regno di Dio che egli inaugurava, la morte
indietreggiava dinanzi a colui che era «la risurrezione e la vita» (Gv 11, 25).
Infine, l’ha affrontata nel suo stesso regno, e l’ha vinta nel momento in cui
essa credeva di vincerlo. Negli inferi egli è penetrato da padrone per uscirne a
suo piacere, «avendo ricevuto la chiave della morte e dell’Ade» (Apoc l, 18). E
poiché aveva sofferto la morte, Dio lo ha coronato di gloria (Ebr 2, 9). Si è
realizzata per lui la *risurrezione dei morti annunziata dalle Scritture (1 Cor
15, 4); egli è diventato «il primogenito di tra i morti» (Col l, 18; Apoc l, 5).
Ora, «liberato da Dio dagli orrori dell’Ade» (Atti 2, 24) e dalla corruzione
infernale (Atti 2, 31), è chiaro che la morte ha perso su di lui ogni potere
(Rom 6, 9); per ciò stesso, colui che aveva il potere della morte, cioè il
demonio, si è visto ridotto all’impotenza (Ebr 2, 14). Fu il primo atto della
vittoria di Cristo. «La morte e la vita si affrontano in un duello prodigioso.
Il Signore della vita morì; vivo, regna» (Sequenza di Pasqua). A partire da
questo momento fu mutato il rapporto fra gli uomini e la morte; infatti Cristo
vincitore illumina ormai «coloro che sedevano nell’ombra della morte» (Lc 1,
79); li ha liberati da quella «legge del peccato e della morte» di cui fino
allora erano *schiavi (Rom 8, 2; cfr. Ebr 2, 15). Infine, al termine dei tempi,
il suo trionfo avrà una splendida consumazione nella *risurrezione universale.
Allora la morte sarà distrutta per sempre, «ingoiata nella vittoria» (1 Cor 15,
26. 54 ss). Infatti la morte e l’Ade dovranno allora restituire le loro prede,
dopo di che saranno gettati con Satana nel lago di fuoco e di zolfo, il che è la
seconda morte (Apoc 20, 10. 13 s). Tale sarà il trionfo finale di Cristo: «O
morte, sarò la tua morte; inferno, sarò il tuo morso» (Antifona delle Lodi del
Sabato Santo).
III. IL CRISTIANO DINANZI ALLA MORTE
1. Morire con Cristo.
- Cristo, prendendo la nostra natura, non ha soltanto assunto la nostra
morte per farsi partecipe della nostra condizione di peccatori. Capo della nuova
umanità, nuovo *Adamo (1 Cor 15, 45; Rom 5, 14), egli ci conteneva tutti in sé
quando è morto sulla croce. Per tale fatto, nella sua morte, «tutti sono morti»
in certo modo (2 Cor 5, 14). Tuttavia bisogna che questa morte diventi una
realtà effettiva per ciascuno di essi. Questo è il senso del *battesimo, la cui
efficacia sacramentale ci unisce a Cristo in croce: «battezzati nella morte di
Cristo», siamo «sepolti con lui nella morte», «configurati alla sua morte» (Rom
6, 3 ss; Fil 3, 10). Ormai siamo dei morti, la cui vita è nascosta in Dio con
Cristo (Col 3, 3). Morte misteriosa, che è l’aspetto negativo della grazia di
*salvezza. Infatti, ciò a cui in tal modo moriamo, è tutto l’ordine delle cose
per mezzo del quale il regno della morte si manifestava quaggiù: moriamo al
peccato (Rom 6, 11), all’*uomo vecchio (6, 6), alla *carne (1 Piet 3, 18), al
*Corpo (Rom 6, 6; 8, 10), alla *legge (Gal 2, 19), a tutti gli elementi del
*mondo (Col 2, 20)… 2. Dalla morte alla vita. - Questa morte con Cristo è
quindi, in realtà, una morte alla morte. Quando eravamo prigionieri del peccato,
proprio allora eravamo morti (Col 2, 13; cfr. Apoc 3, 1). Ora siamo dei vivi,
«risorti da morte» (Rom 6, 13) e «liberati dalle opere morte» (Ebr 6, 1; 9, 14).
Come ha detto Cristo: chi ascolta la sua parola, passa dalla morte alla vita (Gv
5, 24); chi crede in lui, non ha nulla da temere dalla morte: quand’anche fosse
morto, vivrà (Gv 11, 25). Tale è la posta della *fede. Viceversa, colui che non
crede, morrà nei suoi peccati (Gv 8, 21. 24), il *profumo di Cristo diventa per
lui odore di morte (2 Cor 2, 16). Il dramma dell’umanità alle prese con la morte
si svolge così nella vita di ciascuno; dalla nostra scelta dinanzi a Cristo ed
al vangelo dipende per noi la sua conclusione: per gli uni, la vita eterna
perché, dice Gesù, «chi osserva la mia parola non vedrà mai la morte» (Gv 8,
51); per gli altri, l’orrore della «seconda morte» (Apoc 2, 11; 20, 14; 21, 8).
3. Morire ogni giorno.
- Tuttavia la nostra unione alla morte di Cristo, realizzata sacramentalmente
nel battesimo, dev’essere ancora attualizzata nella nostra vita di tutti i
giorni. Questo è il senso dell’ascesi, mediante la quale «mortifichiamo», cioè:
«facciamo morire» in noi le opere del corpo (Rom 8, 13), le nostre membra
terrene con le loro passioni (Col 3, 5). Questo è pure il senso di tutto ciò che
manifesta in noi la potenza della morte naturale; infatti la morte ha mutato
senso dopo che Cristo ne ha fatto uno strumento di salvezza. Se l’apostolo di
Cristo, nella sua debolezza, appare agli uomini come un morente (2 Cor 6, 9), se
è continuamente in pericolo di morte (Fil 1, 20; 2 Cor 1, 9 s; 11, 23), se
«muore ogni giorno» (1 Cor 15, 31), ciò non costituisce più un segno di
sconfitta: egli porta in sé la mortalità di Cristo, affinché la vita di Gesù si
manifesti pure nel suo corpo; è consegnato alla morte a motivo di Gesù, perché
la vita di Gesù sia manifestata nella sua carne mortale; quando la morte compie
la sua opera in lui, la vita opera nei fedeli (2 Cor 4, 10 ss). Questa morte
quotidiana attualizza quindi quella di Gesù e ne prolunga la fecondità nel suo
corpo che è la Chiesa.
4. Dinanzi alla morte corporale.
- Nella stessa prospettiva la morte corporale assume per il cristiano un nuovo
senso. Non è più soltanto un destino inevitabile al quale ci si rassegna, un
decreto divino che si accetta, una condanna in cui si incorre per effetto del
peccato. Il cristiano «muore per il Signore» come aveva vissuto per lui (Rom 14,
7 s; cfr. Fil 1, 20). E se muore *martire di Cristo, versando il suo sangue in
*testimonianza, la sua morte è una libagione che ha valore di *sacrificio agli
occhi di Dio (Fil 2, 17; 1 Tim 4, 6). Questa morte, mediante la quale egli
«glorifica Dio» (Gv 21, 19), gli merita la corona di vita (Apoc 2, 10; 12, 11).
Da necessità angosciosa essa è quindi diventata oggetto di *beatitudine: «Beati
coloro che muoiono nel Signore! Si riposino ormai dalle loro fatiche!» (Apoc 14,
13). La morte dei giusti è un ingresso nella *pace (Sap 3, 3), nel riposo
eterno, nella *luce senza fine. Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux
perpetua luceat eis! La speranza di immortalità e di risurrezione che si faceva
strada nel VT ha trovato ora, nel mistero di Cristo, la sua salda base. Infatti,
non soltanto l’unione alla sua morte ci fa vivere attualmente di una *vita
nuova, ma ci dà la sicurezza che «colui che ha risuscitato Cristo Gesù di tra i
morti, darà pure la vita ai nostri corpi mortali» (Rom 8, 11). Allora, con la
risurrezione, entreremo in un mondo nuovo dove «non ci sarà più morte» (Apoc 21,
4); o meglio, per gli eletti risorti con Cristo, non ci sarà «seconda morte» (Apoc
20, 6; cfr. 2, 11): questa sarà riservata ai reprobi, al demonio, alla morte,
all’Ade (Apoc 21, 8; cfr. 20, 10. 14). Perciò, per il cristiano, morire è in
definitiva un guadagno, perché Cristo è la sua vita (Fil 1, 21). La condizione
presente, che lo lega al suo *corpo mortale, è per lui opprimente: preferirebbe
lasciarla per andare a dimorare presso il Signore (2 Cor 5, 8); ha fretta di
indossare la *veste di *gloria dei risorti, affinché ciò che c’è in lui di
mortale sia assorbito dalla vita (2 Cor 5, 1-4; cfr. 1 Cor 15, 51-53). Desidera
andarsene per essere con Cristo (Fil 1, 23).
P. GRELOT
→ acqua II 2, IV 2 - addii - angoscia - battesimo IV 1.4 - bene e male
I 1.4 - calamità - castighi 1 - cenere - corpo - corpo di Cristo I 2, II 1 -
croce - eucaristia - Gesù Cristo 13. II 1 b - inferi e inferno - ira B VT I 1 –
liberazione-libertà III 2 b - malattia-guarigione 0 - maledizione I - martire -
notte VT 3 - ombra I - peccato I 2 - persecuzione - profeta VT II 4 - redenzione
NT 2. 3.4 - riposo II 2 - risurrezione - sacrificio NT I, II 1 - seminare I 2 b
- sepoltura - sofferenza - sonno - tristezza VT l; NT 1 - uomo II 1 c -
vecchiaia 1 - vita.
→ croce II - morte III 3.
Per Israele, Mosè
è il *profeta senza pari (Deut 34, 10 ss) per mezzo del quale Dio ha liberato il
suo popolo, ha suggellato con esso l’alleanza (Es 24, 8), gli ha rivelato la sua
legge (Es 24, 3; cfr. 34, 27). con Gesù egli è il solo a cui il NT dia il titolo
di *mediatore. Ma, mentre per la mediazione di Mosè (Gal 3, 19), suo servo
fedele (Ebr 3, 5), Dio ha dato la legge al solo popolo di Israele, per la
mediazione di Gesù Cristo, suo figlio (Ebr 3, 6), salva tutti gli uomini (1 Tim
2, 4 ss): la legge ci è stata data da Mosè, la grazia e la verità ci sono venute
da Gesù Cristo (Gv 1, 17). Questo parallelismo tra Mosè e Gesù mette in evidenza
la differenza tra i due Testamenti.
1. Il servo e l’amico di Dio.
- La vocazione di Mosè è il punto terminale di una lunga preparazione
provvidenziale. Nato da una razza oppressa (Es 1, 8-22), Mosè deve alla figlia
del faraone oppressore non soltanto di essere «salvato dalle acque» e di
sopravvivere (2, 1-10), ma di ricevere un’educazione che lo prepara alla sua
funzione di capo (Atti 7, 21 s). Tuttavia né la sapienza, né la potenza, né la
riputazione così acquisite (cfr. Es 11, 3), bastano a fare di lui il liberatore
del suo popolo. Egli urta anche contro la cattiva volontà dei suoi (Es 2, 11-15;
Atti 7, 26 ss) e deve fuggire nel deserto. Qui riceve la *vocazione: Jahvè gli
appare, gli rivela ad un tempo il suo *nome ed il suo *disegno di *salvezza, gli
fa conoscere la sua *missione e gli dà la forza per compierla (Es 3, 1-15): Dio
sarà con lui (3, 12). Invano l’eletto si rifiuta: «Chi sono io?...» (3, 11).
L’*umiltà, che a tutta prima lo fa esitare dinanzi ad un compito così pesante
(4, 10-13), glielo farà poi svolgere con una mitezza senza pari attraverso le
opposizioni dei suoi (Num 12, 3. 13). Quantunque la sua fede abbia conosciuto un
momento di debolezza (20, 10), Dio lo dichiara il suo servo più fedele (12, 7 s)
e lo tratta da *amico (Es 33, 11); per una grazia insigne gli rivela, se non la
sua *gloria, almeno il suo nome (33,17-23). Parlandogli così dalla nube, lo
accredita come capo del suo popolo (19, 9; 33, 8 ss).
2. Il liberatore ed il mediatore dell’alleanza.
- Il primo atto della sua missione di capo è la *liberazione del suo popolo.
Mosè deve porre termine all’oppressione che impedisce ad Israele di rendere un
culto al Dio che il faraone rifiuta di riconoscere (Es 4, 22 s; 5, 1-18). Ma per
questo, Dio deve «mostrare la sua mano potente», colpendo sempre più duramente
gli Egiziani: Mosè è l’artefice di queste *calamità che manifestano il *giudizio
divino. Al momento dell’ultima piaga, sempre sotto gli ordini di Mosè, ripieno
della sapienza di Dio (Sap 10, 16-20), Israele celebra la *Pasqua. Poi «per mano
di Mosè» (Sal 77, 21) il popolo di Dio è liberato dagli Egiziani che lo
inseguono: Israele attraversa il mare che sommerge gli inseguitori (Es 14).
Allora è raggiunta la prima meta dell’*esodo: al Sinai Mosè offre il sacrificio
che fa di Israele il *popolo di Dio (13, 4 ss), suggellando la sua *alleanza con
lui (24, 3-8; cfr. Ebr 9, 18 ss). Al popolo dell’alleanza sono aggregati tutti
coloro che sono stati battezzati in Mosè. (1 Cor 10, 2), cioè coloro che,
avendolo seguito, hanno attraversato il mare, guidati dalla *nube, ed hanno
esperimentato la *salvezza. Mosè, «loro capo e redentore» (Atti 7, 35),
prefigura in tal modo Cristo, mediatore di un’alleanza nuova e migliore (Ebr 8,
6; 9, 14 s), redentore che libera dal peccato coloro che sono battezzati nel suo
nome (Atti 2, 38; 5, 31).
3. Il profeta, legislatore e intercessore.
- Capo del popolo dell’alleanza, Mosè gli parla in nome di Dio (Es 19,
6 ss; 20, 19; Deut 5, 1-5), come ogni vero profeta, è la bocca di Dio (Deut 18,
13- 20). Rivela a Israele la *legge divina e gli insegna come conformarvi la sua
condotta (Es 18, 19 s; 20, 1-17 par.). Lo esorta alla fedeltà verso il Dio unico
e trascendente che è sempre con esso (Deut 6) e che, per amore, lo ha scelto e
salvato gratuitamente (Deut 7, 7 ss). La sua funzione di profeta consiste nel
custodire l’alleanza e nell’*educare un popolo ribelle (Os 12, 14). L’esercizio
di questa missione fa pure di lui il primo dei *servi di Dio perseguitati (cfr.
Atti 7, 52 s). Egli se ne lamenta talvolta con Dio: «Ho forse concepito io
questo popolo perché tu mi dica: portalo sul tuo seno come la nutrice porta il
bambino che allatta?... Il compito è troppo pesante per me» (Num 11, 12 ss). Un
giorno, oppresso dall’infedeltà del suo popolo (Num 20, 10 ss; Sal 106, 33),
lascerà incrinarsi la sua fede e la sua *mitezza, tuttavia così profonde (Eccli
45, 4; Ebr 11, 24-29), e ne sarà castigato (Deut 3, 26; 4, 21). Mosè, come
profeta, intercede per il suo popolo con cui è solidale; è ammirevole
specialmente nella sua funzione di intercessore; con la sua *preghiera assicura
ad Israele la *vittoria sui nemici (Es 17, 9-13) e gli ottiene il perdono dei
peccati (32, 11-14; Num 14, 13-20; 21, 7 ss). Lo salva così dalla morte,
contenendo l’*ira divina (Sal 106, 23). «Perdona il loro peccato... diversamente
cancellami dal tuo libro!» (Es 32, 31 s). Mediante quest’ardente carità egli
delinea i tratti del *servo sofferente che intercederà per i peccatori portando
le loro colpe (Is 53, 12). Prefigura pure il «profeta simile a lui», di cui
annunzia la venuta (Deut 18, 15-18); Stefano ricorderà questo annunzio (Atti 7,
37) e Pietro ne proclamerà la realizzazione in Gesù (Atti 3, 22 s). A questo
«profeta» per eccellenza (Gv 1, 21; 6, 14), Mosè rende testimonianza nella
Scrittura (Gv 5, 46; Lc 24, 27); perciò si trova al suo fianco al momento della
trasfigurazione (Lc 9, 30 s). Ma Cristo, nuovo Mosè, supera la legge portandola
a compimento (Mt 5, 17), perché ne è la fine (Rom 10, 4): avendo compiuto tutto
ciò che stava scritto di lui nella legge di Mosè, egli è risuscitato dal Padre
suo per dare lo Spirito Santo agli uomini (Lc 24, 44-49).
4. Mosè e la gloria di Dio.
- In Cristo si rivela presentemente la *gloria (Gv 1, 14), un riflesso della
quale illuminava il volto di Mosè dopo i suoi incontri con Dio (Es 34, 29-35).
Il popolo dell’antica alleanza non poteva sopportare lo splendore di questo
riflesso che tuttavia era passeggero (2 Cor 3, 7); perciò Mosè si poneva un velo
sul volto. Per Paolo questo velo simboleggia l’accecamento dei Giudei, che,
leggendo Mosè, non lo comprendono e non si convertono a Cristo da lui annunziato
(2 Cor 3, 13 ss). Infatti coloro che credono veramente a Mosè, credono a Cristo
(Gv 5, 45 ss) ed il loro volto, come quello di Mosè, riflette la gloria del
Signore che li trasforma a sua immagine (2 Cor 3, 18). In cielo i redenti
canteranno «il cantico di Mosè, servo di Dio, ed il cantico dell’agnello» (Apoc
15, 3; cfr. Es 15), l’unico cantico pasquale dell’unico salvatore di cui Mosè fu
la *figura.
R. MOTTE e M.F. LACAN
→ alleanza - amico 1 - amore I VT 1 - arca d’alleanza II - Aronne 1 -
elezione VT I 3 c - faccia 4 - fede VT I - fuoco VT I 1, II 2 - Giosuè 1 - Jahvè
- legge - mediatore I 1 - mitezza 2 - preghiera I 1 - profeta - servo di Dio I -
trasfigurazione 2 - vedere VT I 1 - vocazione 0, I.