MADRE - MOSÈ - DIZIONARIO DI TEOLOGIA BIBLICA

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M: MADRE - MOSÈ

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  ................. LUIS MARTINEZ FERNANDEZ

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    MADRE (inizio)

    Dando la vita, la madre occupa un posto speciale nell’esistenza ordinaria degli uomini ed anche nella storia della salvezza.
    I. LA MADRE DEGLI UOMINI
    Colei che dà la vita deve essere amata, ma l’amore che le si porta deve anche essere trasfigurato, talvolta fino al sacrificio, sull’esempio di ciò che fece Gesù.
    1. L’appello alla fecondità.
    - Adamo, chiamando «Eva» la sua donna, ne indicava la vocazione ad essere «la madre dei viventi» (Gen 3, 20). La Genesi racconta in seguito come questa vocazione si compie, e a volte nonostante le circostanze più sfavorevoli. Così Sara ricorre ad uno stratagemma (16 1 s), le figlie di Lot ad un incesto (19, 30-38), Rachele al ricatto: «Dammi dei figli, oppure muoio», grida al proprio marito; ma Giacobbe confessa che non può mettersi al posto di Dio (30, 1 s). Di fatto Dio solo, che ha posto nel cuore della donna il desiderio imperioso di essere madre, è colui che apre e chiude il seno materno: egli solo può trionfare della *sterilità (1 Sam 1, 2 - 2, 5).
    2. La madre al focolare.
    - La donna, divenuta madre, esulta. Eva giubila al suo primo parto: «Ho acquistato un uomo con il favore di Jahvè» (Gen 4, 1), giubilo che perpetuerà il *nome di Caino (dall’ebr. qanah: «acquistare»). Così pure «Isacco» ricorda il riso di Sara al momento di questa nascita (Gen 21, 6), e «Giuseppe» la speranza che Rachele ha di avere ancora un altro figlio (30, 24). Con la sua maternità, la donna non entra soltanto nella storia della vita, ma suscita nel suo sposo un attaccamento più forte (Gen 29, 34). Infine, come proclama il decalogo, essa deve essere rispettata dai figli, al pari del padre (Es 20, 12): le mancanze nei suoi riguardi meritano lo stesso castigo (Es 21, 17; Lev 20, 9; Deut 21, 18-21). I sapienziali, a loro volta, insistono sul dovere del rispetto verso la madre (Prov 19, 26; 20, 20; 23, 22; Eccli 3, 1-16), aggiungendo che la si deve ascoltare e seguirne le istruzioni (Prov 1, 8).
    3. La regina-madre.
    - Una posizione speciale sembra competere alla madre del *re che sola, a differenza della sposa, fruisce di un onore particolare presso il principe regnante. Era chiamata la «grande signora», come Betsabea (1 Re 15, 13 e 2, 19) o la madre del re Asa (2 Cron 15, 16)od Atalia (2 Re 11, 1 s). Quest’uso potrebbe illuminare l’apparizione della maternità nella cornice del messianismo regale; e non è senza interesse segnalare la funzione della madre di Gesù, divenuta nella pietà «Nostra Signora».
    4. Il senso profondo della maternità.
    - Con la venuta di Cristo, il dovere della pietà filiale non è soppresso, ma perfezionato: la catechesi apostolica lo conserva nettamente (Col 3, 20 s; Ef 6, 1- 4); Gesù lancia fulmini contro i farisei che lo eludono sotto vani pretesti cultuali (Mt 15, 4-9 par.). Ma ormai, per amore verso Gesù, bisogna saper superare la *pietà filiale, perfezionandola con la pietà verso Dio stesso. Egli è venuto «a separare la figlia dalla madre» (Mt 10, 35), e promette il centuplo a chi avrà lasciato per lui il padre o la madre (Mt 19, 29). Per essere degni di lui, bisogna essere capaci di «*odiare il padre e la madre» (Lc 14, 26), cioè di amare Gesù più dei genitori (Mt 10, 37). Gesù stesso dà l’esempio di questo sacrificio dei legami materni. Nel tempio, a dodici anni, rivendica nei confronti della madre il diritto di occuparsi delle cose del Padre suo (Lc 2, 49 s). A Cana, pur accordando infine ciò che la madre domanda, Gesù le fa comprendere che essa non deve più intervenire presso di lui, sia perché 1’*ora del suo ministero pubblico è suonata, sia perché l’ora della croce non è ancora venuta (Gv 2, 4). Ma se Gesù in tal modo stabilisce le distanze nei confronti della madre non lo fa perché disconosca la vera grandezza di *Maria; al contrario, la rivela nella fede che manifesta. «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?», ed indica con la mano i suoi discepoli (Mt 12, 48 ss); alla donna, che ammirava la maternità carnale di Maria, fa capire che essa è la fedele per eccellenza, ascoltando la parola di Dio e mettendola in pratica (Lc 11, 27 s). Gesù estende questa maternità di ordine spirituale a tutti i suoi discepoli quando, dall’alto della croce, dirà a colui che ama: «Ecco la tua madre» (Gv 19, 26 s).
    II. LA MADRE NELLA STORIA DELLA SALVEZZA
    Le caratteristiche della madre vengono usate metaforicamente per esprimere un atteggiamento divino, o una realtà d’ordine messianico, o ancora la fecondità della Chiesa.
    1. Tenerezza e sapienza divina.
    - In Dio c’è una tale pienezza di *vita che Israele gli dà i nomi di *padre e di madre. Per esprimere la *misericordiosa *tenerezza di Dio, si usa rahamim che designa le viscere materne ed evoca la commozione viscerale che la donna prova per i suoi figli (Sal 25, 6; 116, 5). Come una madre, Dio ci consola (Is 66, 13), e quand’anche se ne trovasse una che dimenticasse il figlio delle sue viscere, egli non dimenticherà mai Israele (49, 15) come Gesù che voleva radunare i figli di Gerusalemme (Lc 13, 34). La *sapienza, che è la *parola di Dio incaricata di compiere i suoi disegni (Sap 18, 14 s) uscendo dalla sua stessa bocca (Eccli 24, 3), si rivolge ai suoi figli come una madre (Prov 8 - 9), raccomandando loro le sue istruzioni, nutrendoli col *pane dell’intelligenza, dissetandoli con la sua *acqua (Eccli 15, 2 ss). I suoi figli le renderanno giustizia (Lc 7, 35), riconoscendo in Gesù colui che svolge la sua funzione: «Chi viene a me, non avrà mai fame, chi crede in me, non avrà mai sete» (Gv 6, 35; cfr. 8, 47).
    2. La madre del messia.
    - Già il protovangelo annunzia che la donna, la cui posterità schiaccerà la testa del serpente, è madre (Gen 3, 15). Poi, nei racconti in cui si vede Dio trionfare della *sterilità, le donne che hanno dato ai patriarchi una posterità prefigurano da lungi la *verginemadre. Questa concezione verginale è annunciata nelle profezie dell’Emmanuel (Is 7, 14) e di colei che deve partorire (Mi 5, 2); in ogni caso gli evangelisti vi hanno riconosciuto la profezia compiuta in Gesù Cristo (Mt 1, 23; Lc 1, 35 s).
    3. La madre dei popoli.
    - *Gerusalemme è la città-madre per eccellenza (cfr. 2 Sam 20, 19), quella da cui gli abitanti traggono nutrimento e protezione. Da essa soprattutto derivano la *giustizia e la *conoscenza di Jahvè. Come Rebecca, alla quale si augura di moltiplicarsi in migliaia di miriadi (Gen 24, 60), essa diventerà la madre di tutti i *popoli: «A Sion ognuno dice: “Madre”, perché in essa ognuno è nato» (Sal 87, 5), sia che appartengano ad Israele oppure alle *nazioni. Dopo il castigo che l’ha allontanata dal suo sposo, eccola nuovamente felice: «Lancia grida di gioia, o sterile che non partorivi... perché sono più numerosi i figli della derelitta che i figli di colei che ha uno sposo» (Is 54, 1; Gal 4, 22-30). Verso di essa si slanciano «come colombe verso il loro colombaio» tutti i popoli della terra (Is 2, 1-5; 60, 1-8). Ma Gerusalemme, ripiegandosi su se stessa, rigettando Cristo, è stata infedele a questa maternità spirituale (Lc 19, 41-44), ed i suoi figli potranno rivolgersi contro di essa per rimproverarglielo (cfr. Os 2, 4). Perciò essa sarà soppiantata da un’altra Gerusalemme, quella di lassù che è veramente la nostra madre (Gal 4, 26), che discende dal cielo, da presso Dio (Apoc 21, 2). Questa nuova città è la Chiesa che genera i suoi figli alla vita di figli di Dio; è anche ogni comunità cristiana in particolare (2 Gv 1). Essa è destinata a dare a Cristo la *pienezza del suo *corpo, ed a radunare nell’Israele spirituale tutti i popoli (Ef 4, 13). Partecipando a questa maternità, gli apostoli sono gli strumenti di questa fecondità, piena di gioia attraverso il dolore (cfr. Gv 16, 20 ss). Paolo dice ai suoi cari Galati che li partorisce fino a che Cristo sia formato in essi (Gal 4, 19), e ricorda ai Tessalonicesi che li ha circondati di cure come una madre che nutre i suoi figli (1 Tess 2, 7 s). Ma questa maternità non ha valore se non in virtù di quella della *donna che è continuamente nei dolori e nella gioia del parto, figura dietro la quale si profilano tutte le madri, - da Eva, madre dei viventi, alla Chiesa, madre dei credenti, passando attraverso la madre di Gesù, Maria, madre nostra (Apoc 12 ).
    A. NÉGRIER e X. LÉON-DUFOUR
    → Chiesa VI - donna - educazione I 1 - fecondità - Gerusalemme VT III 3 - latte 1 - Maria III - misericordia 0 - Spososposa - sterilità - tenerezza - verginità NT 2.

    MAESTRO (inizio)

    → autorità - discepolo - educazione - insegnare - obbedienza - Signore.

    MAGIA (inizio)

    l. Magia e maghi.
    - Di fronte a un mondo che lo schiaccia, a degli esseri che gli incutono paura o che desidera dominare, l’uomo cerca di acquisire un potere che oltrepassi le sue sole forze e che lo renda padrone della divinità, e per ciò stesso del proprio destino. Se i metodi oggi sono mutati, la tendenza e il desiderio di dominare l’ignoto rimangono radicati nel cuore dell’uomo e portano a pratiche analoghe. Divinazione (ebr. qsm: Ez 31, 26) e stregoneria (ebr. ksf: Mi 5, 11; Nah 3, 4; gr. farmakìa: Deut 18, 10; cfr. Sap 12, 4; Apoc 18, 23), ecco 1’«arte magica» (magikè tèchne: Sap 17, 7), da non confondere con la scienza astrologica dei «magi» (Mt 2, 1-12). Alla pratica magica si ricollegano gli incantesimi (Sal 58, 6; Ger 8, 17; Eccle 10, 11), l’uso dei nodi e dei legami (Ez 13, 17-23), il «malocchio» che incanta (Sap 4, 12; cfr. 2, 24; Gal 3, 1), ecc. Ebrei e Giudei sono stati in contatto con gli Egiziani e i Caldei, maghi (Es 7 - 9; Is 47, 12 s), indovini (Gen 41, 8. 24; Is 44, 25) sapienti e stregoni (Es 7, 11): la magia è attestata in tutti i paesi, Israele compreso. Un caso tipico viene raccontato diffusamente: quello della pitonessa di Endor, che evoca i mani di Samuele per annunciare a Saul la sua tragica morte (1 Sam 28, 3-25). Si segnalano inoltre i sortilegi di Gezabele (2 Re 9, 22), le pratiche superstiziose dei re Achaz (16, 3) e Manasse (21, 6), che Giosia combatte (23, 24). In genere i fatti vengono riferiti per dimostrare la superiorità di Jahvè, o, più tardi, del Signore. Gesù sulle forze oscure che la magia e la divinazione si sforzano di mobilitare.
    2. Lotta contro la magia.
    - Con questo infatti, vengono promulgate delle leggi e tramandati dei ricordi che portano a conoscenza il giudizio della rivelazione divina su questo punto importante.
    a) Interdetti. - I tre grandi codici mosaici proibiscono la magia sotto pena di morte (Lev 19; Deut 18; Es 23). Si proibiscono a questo scopo pratiche come gli intrugli magici (Deut 22, 5. 11; Lev 19, 19), per esempio il rito cananeo consistente nel far cuocere un capretto nel latte di sua madre (Es 23, 19; 34, 26; Deut 14, 21). Vengono respinti con abbominio i sacrifici di bambini (Deut 18), soprattutto nei riti di fondazione (1 Re 16, 34), di preservazione (2 Re 3, 27) o di iniziazione (Sap 12, 3 ss). Infine sono molti gli interdetti riguardanti il *sangue, perché bere il sangue significherebbe appropriarsi della potenza vitale riservata a Dio solo (Gen 9, 4; Lev 3, 17; Atti 15, 29). Queste pratiche vengono puramente e semplicemente associate all’*idolatria (Gal 5, 20; Apoc 21, 8).
    b) In molti racconti, i maghi vengono confusi in virtù della potenza divina. Così Giuseppe trionfa degli indovini (Gen 41), Mosè dei maghi d’Egitto (Es 7, 10-13. 19-23; 8, 1-3. 12-15; 9, 8-12). Balaam è costretto con la sua asina a servire Jahvè e il popolo ebraico (Num 22, 24). Daniele confonde i saggi caldei (Dan 2; 4; 5; 14). Narrazioni analoghe, che si propongono di edificare partendo da qualche ricordo e servendosi eventualmente anche di apporti leggendari, come quelle riguardanti Jannes e Jambres (2 Tim 3, 8), si trovano anche nel NT: Simon mago si rivolge umilmente a Pietro (Atti 8, 9-24), Bar-Jesus-Elimas è ridotto al silenzio da Paolo (13, 6-11), come pure la pitonessa di Filippi (16, 16 ss) o gli esorcisti giudei di Efeso (19, 13-20). Sta di fatto che i *miracoli e le *profezie consentono di far a meno delle pratiche magiche, perché rendono Dio presente in modo certo (Deut 18, 9-22; cfr. Num 23, 23); viceversa, gli stregoni sviano dal servizio del vero Dio (Deut 13, 2-6), i fabbricanti di prodigi falsificano la dottrina (Mt 24, 34; Apoc 16, 12-16...). Così i profeti lottano vigorosamente contro i maghi delle nazioni (Is 19, 1 ss; 44, 25; 47, 12 s; Ger 27, 9; Ez 21, 34). La tentazione della magia è grande, e in certo qual modo Gesù ha voluto subirla. Satana lo invita a servirsi dei poteri divini per saziare la fame e sbalordire i Giudei; ma Gesù si rifiuta di ricevere da lui il potere sul mondo: «Adorerai il Signore tuo Dio e a lui solo renderai un culto» (Mt 4, 1-11).
    c) Pratiche magiche e rituale. - È certo che il rituale del VT ha desunto certe pratiche, in origine magiche, però purificandole: era un modo per subordinarle al culto del vero Dio. Perciò, mentre viene interdetto l’uso profano del sangue, il sacerdote, in nome di Dio, compie con il sangue i riti della *espiazione (Lev 17, 11) e dell’*alleanza (Es 24, 8); il sangue deve coprire la voce dei peccati che gridano a Dio (Ger 17, 1; Lev 4). Ripreso in questo nuovo contesto, il rito ha cambiato significato. Tuttavia, se un rito diventa superstizioso, alla fine viene abolito: si distrugge il serpente di bronzo divenuto oggetto di culto idolatrico (2 Re 18, 4). L’uso stesso del *nome divino, inizialmente lasciato a tutto il popolo (perché, a differenza degli dèi egiziani, Jahvè non teme l’influenza degli stregoni), finisce per essere riservato al sacerdote (Num 6, 27). È noto attraverso i papiri greci d’Egitto che gli antichi maghi non esitavano a farne uso, pronunciando così il nome di Dio invano (cfr. Es 20, 7 LXX). L’uomo, creato libero e padrone di scegliere Dio, da Dio riceve pure il dominio sul mondo; non ha bisogno quindi di ricorrere alla magia, quest’arte ibrida che cerca di fondere artificiosamente religione e scienza esoterica, ma non riesce che a parodiare la natura e a corrompere gli effetti della fede.
    X- LÉON-DUFOUR
    → Egitto 1 - idoli - malattia-guarigione 0; VT II 1 - miracolo I 2 a, II 1 - mistero 0 - morte VT I 3 - nome VT 4 - parola umana 1 - potenza III 2 - rivelazione VT I 1 - segno VT II 3; NT II 4.

    MALATTIA - GUARIGIONE (inizio)

    La malattia, con il suo corteo di sofferenze, pone un problema agli uomini di tutti i tempi. La loro risposta dipende dall’idea che essi si fanno del mondo in cui vivono e delle forze che li dominano. Nell’Oriente antico si considerava la malattia come un flagello causato da spiriti malefici o mandato da divinità irritate da una colpa cultuale. Per ottenere la guarigione si praticavano esorcismi destinati a scacciare i *demoni, e si implorava il perdono degli dèi mediante suppliche e sacrifici; la letteratura babilonese conserva formulari delle due specie. Perciò la medicina dipendeva innanzitutto dai sacerdoti; per una parte, rimaneva vicina alla *magia. Bisognerà attendere lo spirito osservatore dei Greci per vederla svilupparsi in modo autonomo come una scienza positiva. Partendo da questo stato di cose, la rivelazione biblica lascia da parte l’aspetto scientifico del problema; considera esclusivamente il significato religioso della malattia e della guarigione nel disegno di salvezza. Tanto più che attraverso la malattia si manifesta già il potere della *morte sull’uomo (cfr. 1 Cor 11, 28-32); deve quindi avere un significato analogo.
    VECCHIO TESTAMENTO
    I. LA MALATTIA
    1. La salute suppone una pienezza di forza vitale; la malattia è concepita innanzitutto come uno stato di debolezza e di fiaccbezza (Sal 38, 11). Al di là di questa constatazione empirica, le osservazioni mediche sono molto sommarie; si limitano a ciò che si vede: affezioni della pelle, ferite e fratture, febbre ed agitazione (così nei salmi di ammalati: Sal 6; 32; 38; 39; 88; 102). La classificazione delle diverse affezioni rimane vaga (ad es. per la *lebbra). Le cause naturali non sono neppur ricercate, ad eccezione di quelle che sono ovvie: le ferite, una caduta (2 Sam 4, 4), la *vecchiaia, di cui Qohelet descrive con tetro umorismo la decadenza (Eccle 12, 1-6; cfr. Gen 27, 1; 1 Re 1, 1-4; e per contrasto Deut 34, 7). Di fatto, per l’uomo religioso l’essenziale è altrove: che significa la malattia per colui che ne è colpito?
    2. In un mondo in cui tutto dipende dalla causalità divina, la malattia non fa eccezione; è impossibile non vedervi una percossa di Dio che colpisce l’uomo (Es 4, 6; Giob 16, 12 ss; 19, 21; Sal 39, 11 s). Sempre in dipendenza da Dio, vi si può riconoscere anche l’intervento di esseri superiori all’uomo: l’*angelo sterminatore (2 Sam 24, 15 ss; 2 Re 19, 35; cfr. Es 12, 23), i flagelli personificati (Sal 91, 5 s), *Satana (Giob 2, 7)... Nel giudaismo postesilico l’attenzione si rivolgerà sempre più all’azione dei *demoni, spiriti malefici, di cui la malattia permette di intravedere l’influsso sul mondo in cui viviamo. Ma perché questo influsso diabolico, perché questa presenza del male quaggiù, se Dio è il padrone assoluto?
    3. Con un movimento spontaneo il senso religioso dell’uomo stabilisce un legame tra la malattia ed il *peccato. La rivelazione biblica non vi contraddice; precisa soltanto le condizioni in cui questo legame dev’essere inteso. Dio ha creato l’uomo per la felicità (cfr. Gen 2). La malattia, come tutti gli altri mali umani, è contraria a questa intenzione profonda; non è entrata nel mondo se non come una conseguenza del peccato (cfr. Gen 3, 16-19). È uno dei segni dell’*ira di Dio contro un mondo peccatore (cfr. Es 9, 1-12). Comporta in particolare questo significato nella cornice della dottrina dell’*alleanza: è una delle maledizioni principali che colpiranno il popolo di Dio infedele (Deut 28, 21 s. 27 ss. 35). L’esperienza della malattia deve quindi avere il risultato di affinare nell’uomo la coscienza del peccato. Si constata effettivamente che ciò avviene nei salmi di supplica: la domanda di guarigione è sempre accompagnata da una confessione delle colpe (Sal 38, 2-6; 39, 9-12; 107, 17). Si pone tuttavia la questione di sapere se ogni malattia ha come causa i peccati personali di colui che ne è colpito. Qui la dottrina è più imprecisa. Il ricorso al principio della responsabilità collettiva non fornisce che una risposta insufficiente (cfr. Gv 9, 2). Il VT non intravede soluzione se non in due direzioni. La malattia, quando talvolta colpisce i giusti, come Giobbe o Tobia, può essere una prova provvidenziale destinata a dimostrare la loro fedeltà (Tob 12, 13). Nel caso del giusto sofferente per eccellenza, il *servo di Jahvè, essa assumerà un valore di *espiazione per le colpe dei peccatori (Is 53, 4 s).
    II. LA GUARIGIONE
    1. Il VT non vieta affatto il ricorso alle pratiche mediche: Isaia le usa per guarire Ezechia (2 Re 20, 7), e Raffaele per curare Tobia (Tob 11, 8. 11 s). L’uso di taluni rimedi semplici è corrente (cfr. Is 1, 6; Ger 8, 22; Sap 7, 20) ed il Siracide fa anche un bell’elogio della professione medica (Eccli 38, 1-8. 12 s). Ciò che è vietato, sono le pratiche magiche legate ai culti idolatrici (2 Re 1, 1-4), che contaminano sovente la stessa medicina (cfr. 2 Cron 16, 12).
    2. Ma bisogna ricorrere soprattutto a Dio, perché egli è il padrone della vita (Eccli 38, 9 ss. 14). È lui che colpisce e che guarisce (Deut 32, 39; cfr. Os 6, 1). Egli è il medico per eccellenza dell’uomo (Es 15, 26): così l’angelo inviato per guarire Sara si chiama Raffaele (= «Dio guarisce») (Tob 3, 17). Gli ammalati si rivolgono perciò ai suoi rappresentanti, i sacerdoti (Lev 13, 49 ss; 14, 2 ss; cfr. Mt 8, 4) ed i profeti (1 Re 14, 1-13; 2 Re 4, 21; 8, 7 ss). *Confessando umilmente i loro peccati, implorano la guarigione come una *grazia. Il salterio li presenta che espongono la loro miseria, implorano l’aiuto di Dio, supplicano la sua onnipotenza e la sua misericordia (Sal 6; 38; 41; 88; 102...). Mediante la fiducia in lui si preparano a ricevere il favore richiesto, che talvolta giunge loro sotto la forma di un *miracolo (1 Re 17, 17-24; 2 Re 4, 18-37; 5). In ogni modo esso ha valore di segno: Dio si è chinato sull’umanità sofferente per alleviarne i mali.
    3. Infatti la malattia, anche se ha un senso, rimane un male. Perciò le promesse escatologiche. dei profeti prevedono la sua soppressione nel mondo *nuovo in cui Dio porrà i suoi negli ultimi *tempi: non più infermi (Is 35, 5 s), non più sofferenza né lacrime (25, 8; 65, 19)... In un mondo liberato dal peccato devono scomparire le conseguenze del peccato che pesano solidalmente sulla nostra razza. Quando il *giusto sofferente avrà su di sé le nostre malattie, noi saremo guariti in virtù delle sue piaghe (53, 4 s).
    NUOVO TESTAMENTO
    I. GESÙ DINANZI ALLA MALATTIA
    1.
    Durante il suo ministero, Gesù trova ammalati sulla sua strada. Senza interpretare la malattia in una prospettiva di retribuzione troppo stretta (cfr. Gv 9, 2 s), egli vede in essa un male di cui soffrono gli uomini, una conseguenza del peccato, un segno del potere di *Satana sugli uomini (Lc 13, 16). Ne prova pietà (Mt 20, 34), e questa pietà guida la sua azione. Senza soffermarsi a distinguere ciò che è malattia naturale da ciò che è possessione diabolica, «egli scaccia gli spiriti e guarisce coloro che sono ammalati» (Mt 8, 16 par.). Le due cose vanno di pari passo. Manifestano entrambe la sua potenza (cfr. Lc 6, 19) ed hanno infine lo stesso senso: significano il trionfo di Gesù su Satana e la instaurazione del *regno di Dio in terra, conformemente alle Scritture (cfr. Mt 11, 5 par.). Non già che la malattia debba ormai sparire dal mondo, ma la forza divina che infine la vincerà è fin d’ora in azione quaggiù. Perciò, dinanzi a tutti gli ammalati che gli esprimono la loro fiducia (Mc 1, 40; Mt 8, 2-6 par.), Gesù non manifesta che una esigenza: credere, perché tutto è possibile alla *fede (Mt 9, 28; Mc 5, 36 par.; 9, 23). La loro fede in lui implica la fede nel *regno di Dio, ed è questa fede a salvarli (Mt 9, 22 par.; 15, 28; Mc 10, 52 par.).
    2. I *miracoli di guarigione sono quindi in qualche misura un’anticipazione dello stato di perfezione che l’umanità ritroverà infine nel regno di Dio, conformemente alle profezie. Ma hanno pure un *significato simbolico relativo al tempo attuale. La malattia è un simbolo della stato in cui si trova l’uomo peccatore: spiritualmente, egli è cieco, sordo, paralitico... Quindi la guarigione del malato è anche un simbolo: rappresenta la guarigione spirituale che Gesù viene ad operare negli uomini. Egli rimette i peccati del paralitico e, per dimostrare che ne ha il potere, lo guarisce (Mc 2, 1-12 par.). Questa portata dei miracoli-segni è messa in rilievo soprattutto nel quarto vangelo: la guarigione del paralitico di Bezatha significa l’opera di vivificazione compiuta da Gesù (Gv 5, 1-9. 19-26), e quella del cieco nato fa vedere in lui la *luce del mondo (Gv 9). I gesti che Gesù compie sugli ammalati preludono così ai sacramenti cristiani. Egli infatti è venuto quaggiù come il medico dei peccatori (Mc 2, 17 par.), un medico che, per togliere le infermità e le malattie, le prende su di sé (Mt 8, 17 = Is 53, 4). Tale sarà di fatto il senso della sua passione: Gesù parteciperà alla condizione dell’umanità sofferente, per poter trionfare infine dei suoi mali.
     II. GLI APOSTOLI E LA CHIESA DINANZI ALLA MALATTIA
    1.
    Il segno del regno di Dio, costituito dalle guarigioni miracolose, non è rimasto confinato nella vita terrena di Gesù. Egli aveva associato i suoi apostoli, sin dalla loro prima missione, al suo potere di guarire le malattie (Mt 10, 1). Al momento della missione definitiva promette loro una realizzazione continua di questo segno per accreditare l’annunzio del vangelo (Mc 16, 17 s). Perciò gli Atti notano a più riprese le guarigioni miracolose (Atti 3, 1 ss; 8, 7; 9, 32 ss; 14, 8 ss; 28, 8 s) che mostrano la potenza del *nome di Gesù e la realtà della sua risurrezione. Così pure Paolo, tra i *carismi, ricorda quello di guarigione (1 Cor 12, 9. 28. 30): questo segno permanente continua ad accreditare la Chiesa di Gesù facendo vedere che lo Spirito Santo agisce in essa. Tuttavia la grazia di Dio viene ordinariamente agli ammalati in un modo meno spettacolare. Riprendendo un gesto degli apostoli (Mc 6, 13), i «presbiteri» della Chiesa compiono su di essi, che pregano con fede e confessano i loro peccati, *unzioni con olio nel nome del Signore; questa preghiera li salva, perché i peccati sono loro rimessi ed essi possono sperare, se così piace a Dio, la guarigione (Giac 5, 14 ss).
    2. Questa guarigione non avviene tuttavia in modo infallibile, come se fosse l’effetto magico della preghiera o del rito. Finché dura il mondo presente, l’umanità deve continuare a portare le conseguenze del peccato. Ma «prendendo su di sé le nostre malattie» al momento della sua passione, Gesù ha dato loro un nuovo senso: come ogni sofferenza, esse hanno ormai un valore di *redenzione. Paolo, che ne ha fatto l’esperienza a più riprese (Gal 4, 13; 2 Cor 1, 8 ss; 12, 7- 10), si sa che esse uniscono l’uomo a Cristo sofferente: «Portiamo nei nostri corpi le sofferenze di morte di Gesù, affinché la vita di Gesù sia anch’essa manifestata nel nostro corpo» (2 Cor 4, 10). Mentre Giobbe non arrivava a comprendere il senso della sua prova, il cristiano si rallegra di «completare nella sua carne ciò che manca alle prove di Cristo per il suo corpo, che è la Chiesa» (Col 1, 24). Nell’attesa che giunga questo ritorno al *paradiso dove gli uomini saranno guariti per sempre dai frutti dell’*albero della vita (Apoc 22, 2; cfr. Ez 47, 12), la malattia stessa è inserita, come la *sofferenza e come la *morte, nell’ordine della *salvezza. Non che essa sia facile da portare: rimane una *prova, ed è carità aiutare il malato a sopportarla, visitandolo e consolandolo. «Portate le malattie di tutti», consiglia Ignazio di Antiochia. Ma servire gli ammalati significa servire Gesù stesso nelle sue membra sofferenti: «Ero ammalato e mi avete visitato», dirà nel giorno del giudizio (Mt 25, 36). Il malato, nel mondo cristiano, non è più un maledetto dal quale ci si scosta (cfr. Sal 38, 12; 41, 6-10; 88, 9); è l’immagine ed il segno di Cristo Gesù.
    J. GIBLET e P. GRELOT
    → bene e male I 1 - calamità - demoni VT 1; NT 1 - imposizione delle mani NT - lebbra - miracolo II 2 b - morte VT I 5 - olio - salvezza - sofferenza - unzione II 1 - vecchiaia 1 - vita IV 1.

    MALDICENZA (inizio)

    → labbra 1 - lingua 1 – parola umana I.

    MALE (inizio)

    → bene e male.

    MALEDIZIONE (inizio)

    In ebraico, il vocabolario della maledizione è ricco; esprime le reazioni violente di temperamenti passionali: si maledice nell’ira (z`m), umiliando (‘rr), disprezzando (qll), esecrando (qbb), giurando (‘lh). La Bibbia greca si ispira soprattutto alla radice ara, che designa la preghiera, il voto, l’imprecazione, ed evoca piuttosto il ricorso ad una forza superiore contro ciò che si maledice. La maledizione chiama in gioco forze profonde, che trascendono l’uomo; attraverso la potenza della parola pronunziata, che sembra sviluppare automaticamente i suoi effetti funesti, la maledizione evoca la potenza terribile del male e del *peccato, l’inesorabile logica che conduce dal male alla sventura. Perciò la maledizione, nella sua forma piena, comporta due termini strettamente legati: la causa o la condizione, che produce l’effetto: «Perché hai fatto questo (se fai questo)... incorrerai in questa sventura». Non si può maledire alla leggera, senza correre il rischio di scatenare sulla propria persona la maledizione che s’invoca (cfr. Sal 109, 17). Per maledire qualcuno, bisogna avere un *diritto sul suo essere profondo, quello dell’autorità legale o paterna, quello della miseria o dell’ingiusta oppressione (Sal 137, 8 s; cfr. Giob 31, 20. 38 s; Giac 5, 4), quello di Dio.
    I. LA PREISTORIA: MALEDIZIONE SUL MONDO
    La maledizione è presente sin dalle origini (Gen 3, 14. 17), ma in contrappunto, poiché il motivo primario è la benedizione (1, 22. 28). La maledizione è come l’eco invertita della *benedizione per eccellenza che è la *parola creatrice di Dio. Quando il Verbo, luce, verità, vita, colpisce il principe delle tenebre, padre della menzogna e della morte, la benedizione che apporta rivela il rifiuto criminoso di *Satana e si cambia, a questo contatto, in maledizione. Il peccato è un male che la parola non crea ma rivela e di cui porta a compimento la sventura: la maledizione è già un *giudizio. Dio benedice perché è il *Dio vivente, la fonte di *vita (Ger 2, 13). Il tentatore che lo calunnia (Gen 3, 4 s) e trascina l’uomo nel suo peccato, lo trascina pure nella sua maledizione: invece della *presenza divina, ecco l’esilio lontano da Dio (Gen 3, 23 s) e dalla sua *gloria (Rom 3, 23); invece della vita, ecco la *morte (Gen 3, 19). Tuttavia soltanto il grande responsabile, il demonio (Sap 2, 24), è maledetto «per sempre» (Gen 3, 14 s). La donna continuerà a partorire, la terra a produrre; la benedizione originale su ogni fecondità (3, 16-20) non viene annullata, ma la maledizione stende su di lei, come un’ombra, *sofferenza, *fatica e pena, agonia; la vita rimane la più forte, presagio della sconfitta finale del maledetto (3, 15). Da Adamo ad Abramo, la maledizione si estende: morte di cui l’uomo stesso diventa l’autore (Gen 4, 11; sul nesso maledizione *sangue cfr. 4, 23 s; 9, 4 ss; Mt 27, 25); corruzione che sfocia nella distruzione (Gen 6, 5-12) del *diluvio, dove l’*acqua, vita primordiale, diventa abisso di morte. Tuttavia, nel bel mezzo della maledizione, Dio manda la sua *consolazione, Noè, *primizia di una nuova umanità, cui la benedizione è promessa per sempre (8, 17-22; 9, 1-17; 1 Piet 3, 20).
    II. I PATRIARCHI: MALEDIZIONE SUI NEMICI DI ISRAELE
    Mentre la maledizione distrugge *Babele e *disperde gli uomini collegati contro Dio (Gen 11, 7), Dio suscita *Abramo per radunare tutti i popoli attorno a lui ed alla sua discendenza, per loro benedizione o maledizione (12, 1 ss). Mentre la benedizione strappa la stirpe eletta alla duplice maledizione del seno *sterile (15, 5 s; 30, 1 s) e della *terra ostile (27, 27 s; 49, 11 s. 22-26), la maledizione, che gli avversari della razza eletta chiamano su di sé, li rigetta «lontano dalle pingui regioni... e dalla rugiada che cade dal cielo» (27, 39); la maledizione diventa riprovazione, esclusione dall’unica benedizione. «Maledetto chi ti maledice!»: il faraone (Es 12, 29-32), poi Balak (Num 24, 9) ne fanno l’esperienza. Per colmo di ironia il faraone è ridotto a supplicare i figli di Israele «ad invocare su di [lui] la benedizione» del loro Dio (Es 12, 32).
    III. LA LEGGE: MALEDIZIONE SU ISRAELE COLPEVOLE
    Più progredisce la benedizione, più si rivela la maledizione.
    1. La *legge svela a poco a poco il peccato (Rom 7, 7-13) proclamando, accanto alle esigenze ed ai divieti, le conseguenze fatali della loro violazione. Dal codice dell’alleanza alle liturgie grandiose del Deuteronomio, le minacce di maledizione acquistano sempre maggior precisione ed ampiezza tragica (Es 23, 21; Gios 24, 20; Deut 28; cfr. Lev 26, 14-39). La benedizione è un mistero di *elezione, la maledizione è un mistero di rigetto: gli eletti indegni sembrano respinti da una scelta (1 Sam 15, 23; 2 Re 17, 17-23; 21, 10-15) che tuttavia li concerne sempre (Am 3, 2).
    2. I profeti, testimoni dell’*indurimento di Israele (Is 6, 9 s; Ab 2, 6-20), del suo accecamento dinanzi alla sventura imminente (Am 9, 10; Is 28, 15; Mi 3, 11; cfr. Mt 3, 8 ss), sono costretti ad annunziare «la violenza e la rovina» (Ger 20, 8), a ritornare continuamente al linguaggio della maledizione (Am 2, 1-16; Os 4, 6; Is 9, 7 - 10, 4; Ger 23, 13 ss; Ez 11, 1-12. 13-21), a vederla colpire tutto Israele senza risparmiare nulla né nessuno: i sacerdoti (Is 28, 7-13), i falsi profeti (Ez 13), i cattivi pastori (Ez 34, 1-10), il paese (Mi 1, 8-16), la città (Is 29, 1-10), il tempio (Ger 7, 1-15), il palazzo (22, 5), i re (25, 18). Tuttavia la maledizione non è mai totale. Talvolta, senza motivo apparente e senza transizione, in un sussulto di tenerezza, la *promessa di salvezza succede alla minaccia (Os 2, 8. 11. 16; Is 6, 13), ma più spesso, nel bel mezzo della maledizione, come suo centro logico, prorompe la benedizione (Is 1, 25 s; 28, 16 s; Ez 34, 1-16; 36, 2-12. 13-38). .
    IV. GLI APPELLI DEI GIUSTI ALLA MALEDIZIONE
    Da questo *resto, attraverso il quale Dio trasmette la benedizione di Abramo, salgono a volte grida di maledizione, quelle di Geremia (Ger 11, 20; 12, 3; 20, 12) e dei salmisti (Sal 5, 11; 35, 4 ss; 83, 10-19; 109, 6-20; 137, 7 ss). Indubbiamente questi appelli alla vendetta, da cui ci sentiamo urtati come se noi sapessimo *perdonare, implicano una parte di risentimento personale o nazionalistico. Ma, una volta purificati, potranno essere ripresi nel NT, perché non esprimono soltanto la miseria dell’umanità soggetta alla maledizione del peccato, ma l’appello alla *giustizia di Dio, se esige necessariamente la distruzione del peccato. Dio può respingere l’imprecazione che sgorga da un oppresso il quale d’altra parte confessa il proprio peccato (Bar 3, 8; Dan 9, 11. 15)? Il servo rinuncia anche al diritto alla vendetta dell’innocente perseguitato: «senza aprir bocca» (Is 53, 7), si è offerto per i nostri peccati alla maledizione (53, 3 s); la sua intercessione rappresenterà per i peccatori un pegno di salvezza, nell’attesa che venga la fine del peccato: allora «non ci sarà più maledizione» (Zac 14, 11).
    V. GESÙ CRISTO VINCITORE DELLA MALEDIZIONE
    «Per coloro che sono in Cristo Gesù, non c’è più condanna» (Rom 8, 1) né maledizione. Cristo, divenuto per noi «peccato» (2 Cor 5, 21) e «maledizione», «ci ha riscattati dalla maledizione della legge» (Gal 3, 13) e ci ha posti in possesso della benedizione e dello *Spirito di Dio. La Parola può quindi inaugurare i tempi nuovi in cui nella bocca di Gesù, non è più maledizione propriamente detta (gr. katara), ma la constatazione di una condizione disgraziata (gr. onai) che viene ad associarsi alla *beatitudine (Lc 6, 20-26): ormai essa non rigetta, ma attira (Gv 12, 32); non disperde, ma unifica (Ef 2, 16). Libera l’uomo dalla catena maledetta, Satana, peccato, ira, morte, e gli permette di amare. Il Padre, che ha perdonato tutto nel suo Figlio, può insegnare ai suoi figli come vincere la maledizione col *perdono (Rom 12, 14; 1 Cor 13, 5) e con l’amore (Mt 5, 44; Col 3, 13); il cristiano non può più maledire (1 Piet 3, 9); al contrario del «maledetto chi ti maledice!» del VT, e sull’esempio del Signore, deve «benedire coloro che lo maledicono» (Lc 6, 28). Tuttavia la maledizione, vinta da Cristo, rimane una realtà, un destino non più fatale come sarebbe stato senza di lui, ma ancora possibile. La manifestazione suprema della benedizione porta anche al parossismo l’accanimento della maledizione che progredisce sulle sue orme sin dalle origini. La maledizione, approfittando degli ultimi giorni che le sono contati (Apoc 12, 12), scatena tutta la sua virulenza nel momento in cui la *salvezza giunge a consumazione (8, 13). Di conseguenza il NT contiene ancora molte formule di maledizione; l’Apocalisse può ad un tempo proclamare: «Non ci sarà più maledizione» (22, 3), e lanciare la maledizione definitiva: «Fuori... tutti coloro che si compiacciono di fare il male!» (22, 15), il dragone (12), la bestia ed il falso profeta (13), le nazioni, Gog e Magog (20, 7), la prostituta (17), Babele (18), la morte e lo sheol (20, 14), le tenebre (22, 5), il *mondo (Gv 16, 33) e le *potenze di questo mondo (1 Cor 2, 6). Questa maledizione totale, un «fuori!» senza ricorso, è proferita da Gesù Cristo. Ciò che la rende spaventosa è il fatto che non è in lui né *vendetta passionale, né esigenza razionale del taglione; è più pura e più terribile, lascia alla loro scelta coloro che si sono esclusi dall’*amore. Non che Gesù sia venuto a maledire ed a condannare (Gv 3, 17; 2, 47); egli apporta, al contrario, la benedizione. Durante la sua vita non ha mai maledetto nessuno; indubbiamente non ha risparmiato le minacce più sinistre sui pasciuti di questo mondo (Lc 6, 24 ss), sulle città incredule di Galilea (Mt 11, 21), sugli scribi ed i farisei (Mt 23, 13-31), su «questa *generazione» nella quale si concentrano tutti i peccati di Israele (23, 33-36), su «quell’uomo dal quale il figlio dell’uomo è tradito» (26, 24), ma si tratta sempre di ammonizioni e di profezie dolorose, mai dell’ira che si scatena. La parola propria di maledizione non compare sulle labbra del figlio dell’uomo se non nel suo ultimo avvento: «Lungi da me, maledetti!» (Mt 25, 41). Ed ancora ci previene che anche in quel momento egli non cambierà comportamento: «Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, non sono io che lo condanno... La parola che ho annunziato, quella lo condannerà nell’ultimo giorno» (Gv 12, 47 s).
    J. CORBON e J. GUILLET
    → anatema NT - benedizione - bene e male II 2 - bestemmia - bestie e Bestia 2 - inferi e inferno VT II; NT I - ira B NT I 2, III 1 - malattia-guarigione VT I 3 - ricchezza III 1 - sofferenza 0; VT II; NT I 2 - terra VT I 3 - vendemmia.

    MAMMONA (inizio)

    → cupidigia NT 2 - ricchezza III 2 - servire III 0.

    MANDARE (inizio)

    → apostoli - mediatore - missione.

    MANGIARE (inizio)

    → albero 1 - fame e sete - nutrimento - pane - pasto.

    MANIFESTAZIONE (inizio)

    → apparizioni di Cristo 1 - fuoco VT I - giorno del Signore - gloria III - luce e tenebre VT I 2, II 2; NT I 3 - presenza di Dio VT II - risurrezione NT I 1.2 - rivelazione - segno - trasfigurazione – uragano.

    MANNA (inizio)

    La manna è il cibo che Dio diede ad Israele durante la marcia nel deserto (Gios 5, 12); l’importante non è tanto definirne la natura quanto coglierne il valore simbolico; l’interpretazione del suo nome: «Che è questo?» (ebr. man hú: Es 16, 15) ne sottolinea il carattere misterioso: di fatto Dio vuole provare il suo popolo, pur facendolo sussistere (16, 4. 28). Questo dono meraviglioso ha suscitato nella tradizione numerosi commenti, di cui sono testimonianza i racconti del Pentateuco (Es 16; Num 11, 4-9), i Salmi ed il libro della Sapienza (Sap 16, 20-29); ha preparato in tal modo la rivelazione del vero pane del cielo, di cui era l’annunzio e la figura (Gv 6, 21 s).
    1. La manna e la prova del deserto.
    - Di fronte alla condizione precaria in cui si trova nel deserto, il popolo incredulo intima a Dio di agire: «Jahvè è in mezzo a noi, oppure no?» (Es 17, 7); Dio gli risponde manifestando la sua gloria, tra l’altro, con il dono della manna (16, 7. 10 ss). La manna, a sua volta, è una questione che Dio pone al suo popolo per *educarlo mettendolo alla *prova: «Riconoscerete finalmente che io sono il vostro Dio, conformandovi ai miei ordini?» (cfr. 16, 4. 28). Dando ad Israele questo mezzo di sussistenza, Dio di fatto gli notifica la sua *presenza efficace (16, 12); e questo segno è così espressivo che si dovrà conservarne il ricordo, ponendo nell’*arca un vaso di manna con le tavole della legge (16, 32 ss; cfr. 25, 21; Ebr 9, 4). Ora, ogni segno esige una risposta; il dono della manna è accompagnato da prescrizioni destinate a provare la fede di Israele in colui che la concede: bisogna raccoglierla giorno per giorno senza metterne in serbo per il domani, eccetto la vigilia del *sabato in cui la raccolta si farà per due giorni, allo scopo di rispettare il *riposo sabbatico; in tal modo la manna è per il popolo il mezzo di dimostrare la sua *obbedienza a Dio e la sua *fiducia nella sua parola (Es 16, 16-30). C’è di più: le focacce di manna bollita, senza essere insipide (Num 11, 8), hanno sempre lo stesso gusto; Israele se ne stanca e mormora, disconoscendo la prova e la sua lezione: invece che sui soli cibi terreni (11, 4 ss), l’uomo deve fare assegnamento innanzitutto su quelli che vengono dal cielo, sul misterioso nutrimento di cui la manna è il simbolo: la *parola di Dio (Deut 8, 2 s).
    2. La manna e l’attesa escatologica.
    - Meditando il suo passato dinanzi a Dio nella preghiera, Israele canta il beneficio della manna: «frumento e pane del cielo», «pane dei forti», degli angeli che abitano in cielo (Sal 78, 23 ss; 105, 40; Neem 9, 15). Celebrando questo dono miracoloso, i sapienti immaginano le qualità che deve avere un *nutrimento celeste, quello che il creatore darà ai suoi figli nel banchetto escatologico; a questo nutrimento, oggetto dell’attesa di Israele, pensa l’autore della Sapienza, nel suo commento ispirato (midrash) dell’esodo. La manna del futuro si adatterà al *gusto di ognuno ed ai *desideri dei figli di Dio. Questi, gustandola, gusteranno ancora di più la dolcezza (cfr. *mitezza) del creatore, che pone la creazione al servizio di coloro che credono in lui (Sap 16, 20 s. 25 s). L’Apocalisse parla di questa stessa manna, che è promessa a coloro che la fede e la testimonianza avranno resi vincitori di Satana e del mondo (Apoc 2, 17; cfr. 1 Gv 5, 4 s).
    3. La manna ed il vero pane di Dio.
    - Cristo, nel deserto, conferma vivendola la lezione del VT: «l’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4, 14 par.; cfr. Deut 8, 3). Rinnova questo insegnamento nutrendo il popolo di Dio con un *pane miracoloso. Questo pane che sazia il popolo (Mt 14, 20; 15, 37 par.; cfr. Sal 78, 29) suscita un entusiasmo senza rapporto con la *fede che Gesù esige (Gv 6, 14 s); i discepoli non comprendono meglio della folla il senso del dono e del miracolo; quanto agli increduli, Farisei e Sadducei, essi esigono in questo momento «un segno che venga dal cielo» (Mt 16, 1-4 par.; cfr. Gv 6, 30 s; Sal 78, 24 s). Ora, il vero pane «venuto dal cielo» non è la manna che lasciava morire, bensì Gesù stesso (Gv 6, 32 s) che si riceve mediante la fede (6, 35-50): è la sua *carne, data «per la *vita del mondo» (6, 51-58). Anche Paolo vede questo «alimento spirituale» prefigurato dalla manna del deserto (1 Cor 10, 3 s). A buon diritto quindi la liturgia eucaristica riprende le immagini bibliche che concernono la manna. Con la partecipazione al pane misterioso del *pasto eucaristico, apparentemente sempre le stesso come la manna, il cristiano risponde ad un segno di Dio ed attesta la propria fede nella sua parola discesa dal cielo; perciò, fin d’ora, egli è «nutrito con il pane degli angeli, divenuto il pane dei viandanti» (Lauda Sion), che soddisfa tutti i loro bisogni e risponde a tutti i loro gusti, durante il nuovo *esodo del popolo di Dio; più ancora, il credente è già vincitore nella lotta che deve sostenere durante il suo viaggio, perché è già nutrito del pane di Dio stesso e vive della sua vita eterna (Gv 6, 33. 54. 57 s; Apoc 2, 17).
    M. F. LACAN
    → deserto VT I 2 - eucaristia III 2 - fame e sete VT 1 a - nutrimento II - pane III.

    MANO (inizio)

    → braccio e mano.

    MARANA THA (inizio)

    → culto NT III 3 - Gesù Cristo II 1 a - Signore NT - speranza NT IV.

    MARE (inizio)

    A differenza dei Fenici e dei Greci, gli Israeliti non erano un popolo di marinai. Le imprese marittime di Salomone (1 Re 9, 26) e di Josafat (22, 49) non ebbero seguito. Fu necessaria l’esperienza della *dispersione perché le «isole» entrassero nell’orizzonte geografico di Israele (Is 41, 1; 49, 1) ed i Giudei si abituassero ai lunghi viaggi marittimi (Giona 1, 3). Era cosa fatta all’epoca del NT (Mt 23, 15) e Paolo, giudeo della dispersione, trovava naturale solcare il Mediterraneo per annunziare il vangelo. Tuttavia, sin dall’epoca più lontana, il mare figura nei testi biblici con un significato religioso determinato.
    1. Dal mostro mitico alla creatura di Dio.
    - Ogni uomo prova dinanzi al mare la sensazione di una potenza formidabile, impossibile da dominare, terribile quando si scatena, minacciosa per i marinai (Sal 107, 23-30) come per le popolazioni rivierasche che è sempre sul punto di sommergere (cfr. Gen 7, 11; 9, 11. 15). Questo mare, questo oceano cosmico che circonda il continente, la mitologia mesopotamica lo personifica in forma di una *bestia mostruosa; questo dragone, sotto il nome di Tiamat, rappresentava le potenze caotiche e devastatrici che Marduk, il dio dell’ordine, doveva ridurre all’impotenza per organizzare il cosmo. La mitologia di Ugarit opponeva del pari Jam, il dio del mare, a Baal, in una lotta per la sovranità del mondo divino. Nella Bibbia, invece, il mare è ridotto al grado di semplice creatura. Nel racconto classico della *creazione Jahvè divide in due le acque dell’abisso (tehom) come faceva Marduk per il corpo di Tiamat (Gen 1, 6 s). Ma l’immagine è completamente smitizzata, perché non c’è più lotta tra il Dio onnipotente ed il caos acqueo delle origini. Organizzando il mondo, Jahvè ha imposto alle acque, una volta per sempre, un limite che esse non valicheranno più senza suo ordine (Gen 1, 9 s; Sal 104, 6-9; Prov 8, 27 ss). I libri sapienziali si compiacciono nel descrivere quest’ordine del mondo in cui prende posto il mare, servendosi a tal fine dei dati di una scienza elementare: la terra poggia sulle acque di un abisso inferiore (Sal 24, 2), che attraverso ad essa risalgono per alimentare le fonti (Gen 7, 11; 8, 2; Giob 38, 16; Deut 33, 13) e che comunicano con quelle dell’oceano. In tal modo il mare è rimesso tra le creature al suo posto e lo si invita, con tutte le altre, a celebrare il suo creatore (Sal 69, 35; Dan 3, 78).
    2. Il simbolismo religioso del mare.
    - In questa saldissima prospettiva dottrinale, gli autori sacri possono senza alcun pericolo riprendere le antiche immagini mitiche private del loro veleno. Il mare di bronzo (1 Re 7, 23 ss) introduce forse nel culto del tempio il simbolismo cosmico dell’oceano primordiale, se è vero che ne è la rappresentazione. Ma la Bibbia si serve piuttosto di un’altra categoria di simboli. Le acque dell’abisso marino le offrono l’immagine più eloquente di un pericolo mortale (Sal 69, 3), perché si pensa che il loro fondo sia vicino allo sheol (Giona 2, 6 s). Infine un tanfo di forza malvagia, disordinata, orgogliosa, continua a fluttuare attorno al mare, rappresentato ancora all’occasione dalla figura delle bestie mitologiche. Simboleggia allora le potenze avverse che Jahvè deve vincere per far trionfare il suo disegno. Queste immagini epiche conoscono tre applicazioni. Innanzitutto, l’attività creatrice di Dio è talvolta evocata poeticamente sotto i tratti di una lotta primordiale (Is 51, 9; Giob 7, 12; 38, 8- 11). Più spesso il simbolo è storicizzato. Così l’esperienza storica dell’esodo, in cui Jahvè prosciugò il Mar Rosso per tracciare una via al suo popolo (Es 14 - 15; Sal 77, 17. 20; 114, 3. 5), diventa una vittoria divina sul dragone del grande abisso (Is 51, 10); così pure il rumoreggiare delle nazioni pagane in rivolta contro Dio è assimilato al rumore del mare (Is 5, 30; 17, 12). Infine, nelle apocalissi più recenti, le potenze sataniche, che Dio affronterà in un ultimo combattimento, riprendono tratti analoghi alla Tiamat babilonese: sono bestie che salgono dal grande abisso (Dan 7, 2-7). Ma il creatore, la cui sovranità (cfr. *re) cosmica ha saputo fin dall’origine domare l’orgoglio del mare (Sal 65, 8; 89, 10; 93, 3 s), possiede pure il dominio della storia in cui tutte le forze del disordine si agitano invano.
    3. Cristo ed il mare.
    - Il simbolismo religioso del mare non è perso di vista nel NT. Ciò è sensibile anche nei vangeli. Il mare rimane il luogo diabolico in cui vanno a precipitarsi i porci indemoniati (Mc 5, 13 par.). Scatenato, continua a spaventare gli uomini; ma di fronte ad esso Gesù manifesta la potenza divina che trionfa degli elementi: viene verso i suoi camminando sul mare (Mc 6, 49 s; Gv 6, 19 s), od ancora la calma con una parola che lo esorcizza: «Taci! Calmati!» (Mc 4, 39 s), e da questo segno i discepoli riconoscono che c’è in lui una presenza sovrumana (4, 41). Infine l’Apocalisse non si accontenta di mettere in rapporto con il mare le potenze malvagie, che Cristo-Signore deve affrontare nel corso della storia (Apoc 13, 1; 17, 1). Descrivendo la nuova creazione in cui la sua sovranità si eserciterà pienamente, essa evoca un giorno straordinario in cui «non ci sarà più mare» (21, 1). Il mare quindi sparirà in quanto abisso satanico e forza del disordine. Ma sussisterà lassù quel mare di cristallo (4, 6) che si estende a perdita d’occhio dinanzi al trono divino, simbolo di una pace luminosa in un universo rinnovato.
    J. DE FRAINE e P. GRELOT
    → acqua IV 2 - battesimo 1 1 - bestie e Bestia 1 - fuoco NT I 3 - sale 1.

    MARIA (inizio)

    Il posto importante che la madre di Gesù occupa nella tradizione cristiana è già stato abbozzato nella rivelazione scritturale. Se i Dodici hanno accentrato il loro interesse sul ministero di Gesù, dal battesimo alla Pasqua (Atti 1, 22; 10, 37 ss; 13, 24 ss), lo hanno fatto perché non potevano che parlare dei fatti ai quali avevano assistito e dovevano rispondere a ciò che più premeva alla missione. Era normale che i racconti sull’infanzia di Gesù non comparissero se non tardivamente; Marco li ignora, accontentandosi di ricordare due volte soltanto la madre di Gesù (Mc 3, 31-35; 6, 3). Matteo li conosce, ma li accentra su Giuseppe, il discendente di David che riceve i messaggi celesti (Mt 1, 20 s; 2, 13. 20. 22) e dà il nome di Gesù al figlio della vergine (1, 18-25). Con Luca, Maria entra in piena luce; è lei che, alle origini del vangelo, occupa il, primo posto, con una vera personalità; è lei che, alla nascita della Chiesa, partecipa con i discepoli alla preghiera del cenacolo (Atti 1, 14). Infine Giovanni inquadra la vita pubblica di Gesù tra due scene mariane (Gv 2, 1-12; 19, 25 ss): a Cana come sul calvario, Gesù definisce con autorità la funzione di Maria dapprima come fedele, poi come madre dei suoi discepoli. Questa progressiva presa di coscienza della funzione di Maria non dev’essere spiegata semplicemente con motivi psicologici: riflette una conoscenza sempre più profonda del mistero stesso di *Gesù, inseparabile dalla «*donna» dalla quale volle nascere (Gal 4, 4). Alcuni titoli permettono di raccogliere i dati sparsi nel NT.
    I. LA FIGLIA DI SION
    1. Maria appare dapprima simile alle sue contemporanee. Come attestano le iscrizioni dell’epoca e le numerose Marie del NT, il suo *nome, già portato dalla sorella di Mosè (Es 15, 20), era corrente all’epoca di Gesù. Nell’aramaico di allora significa probabilmente «principessa», «signora». Appoggiandosi su tradizioni palestinesi, Luca fa vedere in Maria una pia donna ebrea, fedelmente sottomessa alla legge (Lc 2, 22. 27. 39), che esprime nei termini stessi del VT le risposte che dà al messaggio divino (1, 38); specialmente il suo Magnificat è un centone di salmi che si ispira principalmente al cantico di Anna (1, 46-55; cfr. 1 Sam 2, 1-10).
    2. Ma, sempre secondo Luca, Maria non è una semplice donna ebrea. Nelle scene dell’annunciazione e della visitazione (Lc l, 26-56) egli presenta Maria come la figlia di Sion, nel senso che questa espressione aveva nel VT: la personificazione del *popolo di Dio. Il «rallegrati» dell’angelo (1, 28) non è un saluto usuale, evoca le *premesse della venuta del Signore nella sua città santa (Sof 3, 14-17; Zac 9, 9). Il titolo «piena di grazia», oggetto per eccellenza dell’amore divino, può evocare la sposa del cantico, una delle figure più tradizionali del popolo eletto. Questi indizi letterari corrispondono al posto che Maria occupa in queste scene: essa sola vi riceve, in nome della *casa di Giacobbe, l’annuncio della salvezza; l’accetta e ne rende così possibile il compimento. Infine, nel suo Magnificat, essa s’innalza presto oltre la gratitudine personale (1, 46-49) per prestare la sua voce alla stirpe di Abramo, nella riconoscenza e nella gioia (1, 50-55).
    II. LA VERGINE
    1. Il fatto della verginità di Maria nel concepimento di Gesù è affermato da Mt 1, 18-23 e Lc 1, 26-38 (è suggerito in alcune antiche versioni di Gv 1, 13: «Lui che né sangue né carne, ma Dio ha generato»). La chiara indipendenza dei racconti di Mt e le induce a far risalire questo dato a una tradizione più antica da cui entrambi dipendono.
    2. Nell’ambiente palestinese, questo posto attribuito alla verginità nell’evento messianico appare un fatto nuovo. Fino ad ora, la Bibbia non ha attribuito valore religioso alla *verginità (Giud 11, 37 s). Gli esseni di Qumrân si direbbero i primi Giudei che si impegnano nella continenza in un’evidente preoccupazione di *purità legale.
    3. Matteo si limita a vedere nel concepimento verginale di Gesù la realizzazione dell’oracolo di Is 7, 14 (secondo il testo greco).
    4. Luca, invece, attribuisce grande importanza alla verginità di Maria, e d’altronde in tutta la sua opera si interessa alla continenza (Lc 2, 36; 14, 26; 18, 29) e alla verginità (Atti 21, 9). Riferisce, certo, il matrimonio tra Maria e Giuseppe (Lc 1, 27; 2, 5), perché vi vede il fondamento della legittimità messianica di Gesù (3, 23 ss). Però, la prima cosa che dice della giovane sposa, è che è vergine (1, 27): secondo l’usanza palestinese, il suo matrimonio dovette precedere di un buon lasso di tempo il suo ingresso nella casa dello sposo (cfr. Mt 25, 1-13). La verginità di Maria al momento dell’annunciazione è messa in rilievo dall’obbiezione che muove all’angelo quando questi le annuncia che sarà la madre del messia: «Come potrà avvenire se io non conosco uomo?» (Lc 1, 34). L’espressione «conoscere un uomo» designa infatti abitualmente nella Bibbia i rapporti coniugali (Gen 4, 1. 17. 25; 19, 8; 24, 16 ...). Luca sottolinea quindi che nel momento in cui sta per concepire Gesù, Maria è vergine. Luca vuol anche affermare che prima dell’annunciazione Maria intendeva mantenere la verginità. A partire da S. Agostino, sono stati in molti a pensarlo. Hanno tradotto la sua domanda all’angelo parafrasandola: «poiché non intendo conoscere uomo», reputando questa sfumatura necessaria a giustificare la domanda di Maria: essendo la sposa di un figlio di David, le basta consumare il matrimonio per diventare la madre del messia; se vi vede qualche difficoltà, è perché intende mantenere la verginità. Questa interpretazione si basa tuttavia su un postulato discutibile: presuppone che Maria sia stata sposata a Giuseppe senza il suo consenso. Soprattutto misconosce l’esatto significato della domanda di Maria, che significa: «attualmente, non ho rapporti coniugali». Luca in tal modo suggerisce che Maria si rende conto di diventare madre immediatamente, come la madre di Sansone che ha concepito nell’istante stesso in cui l’angelo le annunciava la sua maternità (Giud 13, 5-8). Obbietta che il suo matrimonio non è stato ancora consumato. La sua domanda induce l’angelo ad annunciarle il concepimento verginale di Gesù. Questo le viene rivelato contemporaneamente alla filiazione divina di cui è il segno. Lo Spirito di Dio, che ha presieduto alla creazione del mondo (Gen 1, 2), inaugurerà nel concepimento di Gesù la creazione del mondo nuovo. Perciò, il concepimento verginale di Luca appare un’esigenza della filiazione divina di Gesù. E nell’annuncio della sua misteriosa maternità, Maria viene a conoscere la propria vocazione verginale.
    5. L’accenno ai fratelli di Gesù (Mc 3, 31 par.; 6, 3 par.; Gv 7, 3; Atti 1, 14; 1 Cor 9, 5; Gal 1, 19) ha indotto diversi critici a pensare che Maria dopo la nascita di Gesù non abbia mantenuto la verginità. Questa opinione, che non ha riscontro in nessun punto dell’antica tradizione riguardante i riferimenti ai fratelli di Gesù, contrasta con parecchi testi evangelici: Giacomo e Giuseppe, i fratelli di Gesù in Mt 13, 55 par. sembrerebbero i figli di un’altra Maria (Mt 27, 56 par.); Gesù morendo affida la madre a un discepolo (Gv 19, 26 s), il che sembra supporre che essa non abbia altri figli. È, noto d’altra parte, che nel mondo semitico, il nome di *fratelli è spesso attribuito a dei parenti o a degli alleati.
    III. LA MADRE
    A tutti i livelli della tradizione evangelica. Maria è innanzitutto «la madre di Gesù». Parecchi testi la designano con questo semplice titolo (Mc 3, 31 s par.; Lc 2, 48; Gv 2, 1-12; 19, 25 s), che definisce tutta la sua funzione nell’opera della salvezza.
    1. Questa maternità è volontaria. - Il racconto dell’annunciazione lo fa chiaramente risaltare (Lc 1, 26-38). Dinanzi alla *vocazione inattesa che l’angelo le annunzia, Luca mostra la vergine preoccupata di capire a fondo la chiamata di Dio. L’angelo le rivela la sua concezione verginale. Pienamente illuminata, Maria accetta; essa è la serva del Signore, come Abramo, Mosè ed i profeti; come il loro, e più ancora, il suo *servizio è libertà.
    2. Quando Maria partorisce Gesù, il suo compito, come per tutte le *madri, non fa che incominciare. Essa deve allevare Gesù. Con Giuseppe, che condivide le sue responsabilità, porta il bambino al tempio per presentarlo al Signore, per esprimere l’oblazione di cui la sua coscienza umana non è ancora capace. Riceve per lui, da Simeone, l’annunzio della sua *missione (Lc 2, 29-32. 34 s). Essa è per lui l’educatrice cosciente della sua autorità (Lc 2, 48) e Gesù le è sottomesso come a Giuseppe (Lc 2, 51).
    3. Maria rimane madre quando Gesù giunge all’età adulta. Si trova presso il figlio al momento delle separazioni dolorose (Mc 3, 21. 31; Gv 19,25 ss). Ma il suo compito assume allora una forma nuova. Luca e Giovanni lo fanno sentire nelle due tappe principali della maturazione di Gesù. A dodici anni, israelita di pieno diritto, Gesù proclama ai genitori terreni che deve occuparsi innanzitutto del culto del suo Padre celeste (Lc 2, 49). Quando inizia la sua missione a Cana, le sue parole a Maria: «Che vuoi, o donna?» (Gv 2, 4) non sono tanto quelle di un figlio, quanto quelle del responsabile del regno; rivendica così la sua indipendenza di inviato di Dio. Ormai, per il tempo della sua vita terrena, la madre scompare dietro la fedele (cfr. Mc 3, 32-35 par.; Lc 11, 27 s).
    4. Questa spogliazione culmina sulla croce. Rivelando a Maria il destino di Gesù, Simeone le aveva annunziato la spada che doveva trafiggere la sua anima nella divisione di Israele e la prova della sua fede (Lc 2, 34 s). Sul Calvario si compie la sua maternità, come mostra Giovanni in una scena in cui ogni tratto è significativo (Gv 19, 25 ss). Maria è ritta ai piedi della croce. Gesù le rivolge ancora il solenne «donna» che connota la sua autorità di Signore del regno. Indicando alla madre il discepolo presente: «Ecco il tuo figlio», Gesù la chiama ad una nuova maternità, che sarà ormai la sua funzione nel popolo di Dio. Forse Luca ha voluto suggerire questa missione di Maria nella Chiesa mostrandola in preghiera con i Dodici, nell’attesa dello Spirito (Atti 1, 14); questa maternità universale risponde almeno al suo pensiero che ha visto in Maria la personificazione del popolo di Dio, la figlia di Sion (Lc 1, 26- 55).
    IV. LA PRIMA CREDENTE
    Ben lungi dal far consistere la grandezza di Maria in lumi eccezionali, gli evangelisti la fan vedere nella sua *fede, soggetta alle stesse oscurità, allo stesso cammino di quella del più umile fedele (Lc 1, 45).
    1. La rivelazione fatta a Maria.
    - Fin dall’annunciazione Gesù si offre a Maria come oggetto della sua fede, e questa fede è illuminata da messaggi che hanno radici negli oracoli del VT. Il bambino si chiamerà *Gesù, sarà il Figlio dell’Altissimo, il figlio di David, il *re di Israele, il Figlio di Dio. Alla presentazione al tempio, Maria sente gli oracoli del servo di Dio applicati al figlio suo: luce delle nazioni e segno di contraddizione. A queste poche parole esplicite bisogna aggiungere, benché i testi non lo dicano, che Maria deve scoprire nella vita miserevole e silenziosa di suo Figlio la povertà del messia. Quando Gesù parla alla madre, sono parole che hanno il tono reciso degli oracoli profetici; Maria deve riconoscervi l’indipendenza e l’autorità del figlio suo, la superiorità della fede sulla maternità carnale.
    2. La fedeltà di Maria.
    - Luca ha avuto cura di annotare le reazioni di Maria dinanzi alle rivelazioni divine: il suo turbamento (Lc 1, 29), la sua difficoltà (1, 34), il suo stupore dinanzi all’oracolo di Simeone (2, 33), la sua incomprensione delle parole di Gesù al tempio (2, 50). In presenza di un *mistero che supera ancora la sua intelligenza, essa riflette sul messaggio (1, 29; 2, 33), ritorna continuamente sull’evento misterioso, conservando i suoi ricordi, meditandoli nel suo cuore (2, 19. 51). Attenta alla *parola di Dio, essa l’accoglie, anche se questa sconvolge i suoi progetti e deve immergere Giuseppe nell’ansietà (Mt 1, 19 s). Le sue risposte alle chiamate divine, visitazione, presentazione di Gesù al tempio, sono altrettanti atti con cui Gesù agisce attraverso alla madre sua: santifica il precursore, si offre al Padre suo. Fedele, Maria lo è nel silenzio, quando il figlio suo entra nella vita pubblica; lo rimane fino alla croce.
    3. Il Magnificat.
    - Nel cantico di Maria, Luca trasmette una tradizione palestinese che cerca non tanto di riferire le parole della Vergine quanto di esprimere il ringraziamento della comunità. Ma Luca ne fa una preghiera di Maria (soprattutto col v. 48). Secondo la forma classica di un salmo di ringraziamento e servendosi dei temi tradizionali del salterio, Maria celebra un fatto nuovo il regno è presente. Essa vi si rivela tutta al servizio del popolo di Dio. In lei e per mezzo di lei, la salvezza è annunziata, la promessa è compiuta; nella sua *povertà si realizza il mistero delle *beatitudini. La fede di Maria è la stessa del popolo di Dio: una fede umile che si approfondisce continuamente attraverso oscurità e prove, mediante la meditazione della salvezza, mediante il servizio generoso che illumina a poco a poco lo sguardo del fedele (Gv 3, 2l; 7, 17; 8, 31 s). A motivo di questa fede, attenta nel conservare la parola di Dio, Gesù stesso ha proclamato beata colei che l’aveva portato nelle sue viscere (Lc 11, 27 s).
    V. MARIA E LA CHIESA
    I dati precedenti possono essere raggruppati e approfonditi in una breve sintesi di teologia biblica.
    1. La vergine.
    - Maria, tipo del credente, chiamata alla salvezza nella fede dalla grazia di Dio, redenta dal sacrificio del figlio suo come tutti i membri della nostra razza, occupa nondimeno un posto a parte nella Chiesa. In lei non vediamo il mistero della Chiesa vissuto pienamente da un’anima che accoglie la parola divina con tutta la sua fede. La Chiesa è la *sposa di Cristo (Ef 5,32), una sposa vergine (cfr. Apoc 21, 2) che Cristo stesso ha santificato purificandola (Ef 5, 25 ss). Ogni anima cristiana, che partecipa a questa vocazione, è «fidanzata a Cristo come una vergine pura» (2 Cor 11, 2). Ora la fedeltà della Chiesa a questa chiamata divina traspare in Maria per prima, e ciò nel modo più perfetto. Questo è tutto il senso della *verginità a cui Dio l’ha invitata e che la maternità non ha diminuita ma consacrata. In lei si rivela così, al livello della storia, l’esistenza di questa Chiesa-vergine che, con il suo atteggiamento, fa il contrario di Eva (cfr. 2 Cor 11, 3).
    2. La madre.
    - Maria inoltre, in rapporto a Gesù, si trova in una situazione speciale che non appartiene a nessun altro membro della Chiesa. Essa è la *madre di Gesù, e lo è volontariamente. Accetta di procreare il Figlio di Dio per il popolo di Dio, e appunto questo popolo tutto essa rappresenta e impegna in questa accettazione della salvezza propostale da Dio. Questa funzione permette di assimilarla alla figlia di Sion (Sof 3, 14; cfr. Lc 1, 28), alla nuova *Gerusalemme nella sua funzione materna. Se la nuova umanità è paragonabile ad una *donna di cui Cristo capo è il primogenito (Apoc 12, 5), si può dimenticare che un tale mistero si è compiuto concretamente in Maria, che questa donna e questa madre non è un puro simbolo ma, grazie a Maria, ha avuto un’esistenza personale? Anche su questo punto il legame di Maria e della Chiesa si afferma con una forza tale che, dietro la donna strappata da Dio agli attacchi del serpente (Apoc 12, 13-16), antitesi di Eva ingannata dallo stesso serpente (2 Cor 11, 3; Gen 3, 13), Maria si profila nello stesso tempo che la Chiesa, poiché tale fu il suo compito nel disegno di salvezza. Perciò la tradizione ha visto a buon diritto in Maria e nella Chiesa, congiuntamente, la «nuova Eva», così come Gesù è il «nuovo *Adamo».
    3. Il mistero di Maria.
    - Per mezzo di questa connessione con il mistero della Chiesa, il mistero di Maria si illumina nel miglior modo possibile, alla luce della Scrittura. Il primo rivela chiaramente ciò che, nel secondo, fu vissuto in modo nascosto. Da entrambe le parti, c’è un mistero di verginità, mistero nuziale in cui Dio è lo sposo; da entrambe le parti, un mistero di maternità e di filiazione, in cui lo Spirito Santo agisce (Lc 1, 35; Mt 1, 20; cfr. Rom 8, 15), prima nei confronti di Cristo (Lc 1, 31; Apoc 12, 5), poi nei confronti delle membra del suo corpo (Gv 19, 26 s; Apoc 12, 17). Il mistero della verginità implica una purezza totale, frutto della grazia di Cristo, che tocca l’essere alla sua radice, rendendolo «santo ed immacolato» (Ef 5, 27): qui acquista il suo senso la concezione immacolata di Maria. Il mistero della maternità implica un’unione totale al mistero di Gesù, nella sua vita terrena fino alla prova ed alla croce (Lc 2, 35; Gv 19, 25 s; cfr. Apoc 12, 13), nella sua gloria fino alla partecipazione alla sua risurrezione (cfr. Apoc 21). Colei che fu «ripiena di grazia» da parte di Dio (Lc 1, 28) rimane sul piano dei membri della Chiesa, «ripieni di grazia nel diletto» (Ef 1, 6). Ma per la sua mediazione il Figlio di Dio, unico *mediatore, si è fatto fratello di tutti gli uomini ed ha stabilito il suo legame organico con essi, così come essi non lo raggiungono senza passare attraverso la Chiesa, che è il suo corpo (Col 1, 18). L’atteggiamento dei cristiani nei confronti di Maria è determinato da questo fatto fondamentale: perciò è in rapporto così diretto con il loro atteggiamento nei confronti della Chiesa loro madre (cfr. Sal 87, 5; Gv 19, 27).
    A. GEORGE
    → Chiesa VI - donna NT 1.3 - gioia NT I 1 - madre I 4, II 2.3 - mediatore II 0.2 - umiltà IV - verginità NT 2.

    MARTIRE (inizio)

    Martire (gr. màrtys) significa etimologicamente *testimone, sia che si tratti di una testimonianza sul piano storico, o giuridico, o religioso. Ma nell’uso stabilito dalla tradizione cristiana, il nome di martire si applica esclusivamente a colui che offre la testimonianza del sangue. Quest’uso è già attestato nel NT (Atti 22, 20; Apoc 2, 13; 6,9; 17, 6): il martire è colui che dà la propria vita per *fedeltà alla testimonianza resa a Gesù (cfr. Atti 7, 55-60).
    1. Cristo martire.
    - Gesù stesso è, a titolo eminente, il martire di Dio, e per conseguenza il tipo del martire. Nel suo *sacrificio volontariamente accettato, egli dà effettivamente la testimonianza suprema della sua fedeltà alla *missione affidatagli dal Padre. Secondo S. Giovanni Gesù non ha soltanto conosciuto in anticipo, ma ha accettato liberamente la morte come perfetto omaggio reso al Padre (Gv 10, 18); e nel momento della condanna, proclama: «Io sono nato e sono venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità» (18, 37; cfr. Apoc 1, 5; 3, 14). Nella passione di Gesù, S. Luca mette in rilievo i tratti che caratterizzeranno ormai il martire: conforto della grazia divina nel momento dell’angoscia (Lc 22,43); *silenzio e *pazienza dinanzi alle accuse ed agli oltraggi (23, 9); innocenza riconosciuta da Pilato e da Erode (23, 4. 14 s. 22); dimenticanza delle proprie sofferenze (23, 28; accoglienza fatta al ladrone pentito (23, 43); perdono accordato a Pietro (22, 61) ed agli stessi persecutori (22, 51; 23, 34). Più profondamente ancora, l’insieme del NT riconosce in Gesù il *servo sofferente annunziato da Isaia. In questa prospettiva la passione di Gesù appare come essenziale alla sua missione. Di fatto, come il servo deve soffrire e morire «per giustificare moltitudini» (Is 53, 11), così Gesù deve passare attraverso la morte «per apportare a moltitudini la redenzione dai peccati» (Mt 20, 28 par.). Tale è il senso della «bisogna» che Gesù ripete a più riprese: il disegno di salvezza di Dio passa attraverso la *sofferenza e la *morte del suo testimone (Mt 16, 21 par.; 26, 54. 56; Lc 17, 25; 22, 37; 24, 7. 26. 44). D’altronde tutti i *profeti non sono forse stati perseguitati e messi a morte (Mt 5, 12 par.; 23, 30 ss par.; Atti 7, 52; 1 Tess 2, 15; Ebr 11, 36 ss)? Non può trattarsi di un incontro casuale; Gesù vi riconosce un piano divino che trova in lui il suo compimento (Mt 23, 31 s). Perciò cammina «risolutamente» verso Gerusalemme (Lc 9, 51), «perché non conviene che un profeta perisca fuori di Gerusalemme» (13, 33). Questa passione fa di Gesù la vittima *espiatoria che sostituisce tutte le vittime antiche (Ebr 9, 12 ss). Il fedele vi scopre la legge del martirio: «Senza effusione di *sangue, non vi può essere *redenzione» (Ebr 9, 22). Si comprende come *Maria, così strettamente associata alla passione del figlio suo (Gv 19, 25; cfr. 2, 35) sia salutata più tardi come la regina dei martiri cristiani.
    2. Il martire cristiano.
    - Il glorioso martirio di Cristo ha fondato la Chiesa: «Quando sarò innalzato da terra, aveva detto Gesù, attirerò a me tutti gli uomini» (Gv 12, 32). La Chiesa, *corpo di Cristo, è chiamata a sua volta a dare a Dio la *testimonianza del sangue per la salvezza degli uomini. La comunità ebraica aveva già avuto i suoi martiri, specialmente all’epoca dei Maccabei (2 Mac 6 - 7). Ma nella Chiesa cristiana il martirio assume un senso nuovo, che Gesù stesso rivela: è la piena imitazione di Cristo, la partecipazione perfetta alla sua testimonianza ed alla sua opera di salvezza: «Il *servo non è maggiore del padrone; se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi!» (Gv 51, 20). Ai suoi tre intimi Gesù annunzia che lo seguiranno nella passione (Mc 10, 39 par.; Gv 21, 18 ss); ed a tutti rivela che soltanto il seme che muore in terra porta molto *frutto (Gv 12, 24). Così il martirio di Stefano - che evoca con tanta forza la passione - determinò la prima espansione della Chiesa (Atti 8, 4 s; 11, 19) e la conversione di Paolo (22, 20). L’Apocalisse, infine, è veramente il Libro dei Martiri, di coloro che sulle orme del Testimone fedele e veridico (Apoc 3, 14) hanno dato alla Chiesa e al mondo la testimonianza del loro sangue. L’intero libro ne celebra la prova e la gloria, di cui la passione e la glorificazione dei due testimoni del Signore sono il simbolo (Apoc 6, 9 s; 7, 14-17; 11, 11 s; 20, 4 ss).
    C. AUGRAIN
    → confessione NT I - morte NT III 4 - persecuzione - processo III 3 - prova-tentazione NT II - sangue NT 4 - testimonianza NT III 2.

    MATRIMONIO (inizio)

    VECCHIO TESTAMENTO 
    I. IL MATRIMONIO NEL DISEGNO DEL CREATORE
    I due racconti della creazione terminano con una scena su cui si fonda l’istituzione del matrimonio. Nel racconto jahvista (Gen 2), l’intenzione divina è espressa in questi termini: «Non è bene che l’uomo sia solo, gli farò un aiuto ché sia simile a lui» (2, 18). L’uomo, superiore a tutti gli animali (2, 19 s), non potrebbe trovare questo aiuto se non in colei che è «carne della sua carne ed osso delle sue ossa» (2, 21 ss). Dio l’ha creata per lui; perciò, lasciando padre e madre, egli si unisce ad essa con l’amore e diventano «una sola carne» (2, 24). La *sessualità trova in tal modo il suo senso, manifestando nella carne l’unità dei due esseri che Dio chiama ad aiutarsi vicendevolmente nell’amore reciproco. Esente da ogni sentimento di vergogna nella integrità originale (2, 25), essa tuttavia sarà occasione di turbamento in conseguenza del peccato (3, 7), e la vita della coppia umana sarà ormai insidiata dalla *sofferenza e dalle tentazioni passionali o dominatrici (3, 16). Ma nonostante questo, per la «madre dei viventi» (3, 20), la *fecondità rimarrà un beneficio divino permanente (4, 1. 25 s). Il racconto sacerdotale (Gen 1) è meno carico di elementi drammatici. L’uomo, creato ad immagine di Dio per dominare la terra e popolarla, è in realtà la coppia (1, 26 s). Qui la fecondità appare come il fine stesso della sessualità, che è cosa eccellente come tutta la creazione (1, 31). In tal modo si afferma l’ideale divino dell’istituzione matrimoniale prima che il peccato abbia corrotto il genere umano.
    II. IL MATRIMONIO NEL POPOLO DI DIO
    Quando Dio inizia l’educazione del suo popolo dandogli la *legge, l’istituzione matrimoniale non è più al livello di questo ideale primitivo. Perciò la legge, nella pratica, adatta parzialmente le sue esigenze alla durezza dei cuori (Mt 19, 8). La fecondità è considerata come il valore primordiale a cui il resto è subordinato. Ma, assicurato questo punto, l’istituzione conserva la traccia di costumi ancestrali molto lontani dal matrimonio-prototipo di Gen 1 - 2.
    1. Amore coniugale e costrizione sociale.
    - I testi antichi sono fortemente caratterizzati da una mentalità in cui il bene della comunità prevale su quello degli individui, a cui impone le sue leggi e le sue esigenze. I genitori sposano i loro figli senza consultarli (Gen 24, 2 ss; 29, 23; Tob 6, 13). Il gruppo esclude taluni matrimoni entro la parentela (Lev 18, 6-19), o fuori della nazione (Deut 7, 1-4; Esd 9). Talune unioni sono imposte dalla necessità di perpetuare la stirpe, come quella della vedova senza figli con il parente più prossimo (levirato: Deut 25, 5-10; Gen 38, 7 ss; Rut 2, 20). Nonostante tutto, sotto queste apparenze di costrizione, rimane ben viva la spontaneità dell’amore. Talvolta il cuore si accorda con un’unione imposta (Gen 24, 62-67; Rut 3, 10); talvolta un uomo ed una donna si uniscono perché si sono scelti (Gen 29, 15-20; 1 Sam 18, 20-26; 25, 40 ss), in taluni casi contro la volontà dei genitori (Gen 26, 34 s; Giud 14, 1-10). Si trovano focolari uniti da un profondo amore (1 Sam 1, 8), fedeltà che durano liberamente oltre la morte (Giudit 16, 22). Nonostante la dote versata alla famiglia della moglie (Gen 34, 12; Es 22, 15 s), ed il titolo di signore o di proprietario che porta il marito (baal), la moglie non è semplicemente una mercanzia che si compera e si vende. Essa si rivela capace di assumere responsabilità, e può contribuire attivamente alla riputazione del marito (Prov 31, 10-31). Ed appunto l’amore di due persone libere, in un dialogo appassionato che sfugge alla costrizione, viene presentato dal Cantico dei Cantici; anche se è allegorico, e concerne l’amore di Dio e del suo popolo, il libro ne parla con le parole e gli atteggiamenti che erano, al suo tempo, quelli dell’amore umano (cfr. Cant 1, 12-17; 6, 4-8, 4).
    2. Poligamia e monogamia.
    - L’ideale della fecondità e la preoccupazione di avere una famiglia potente fanno desiderare numerosissimi figli (cfr. Giud 8, 30; 12, 8; 2 Re 10, 1), il che porta naturalmente alla pratica della poligamia. L’autore jahvista, il cui ideale era monogamico (Gen 2, 18-24), la stigmatizza quando ne attribuisce l’origine ad una iniziativa del barbaro Lamec (4, 19). Tuttavia, in tutta la Bibbia si incontra l’uso di avere due spose (1 Sam l, 2; cfr. Deut 21, 15) o di prendere concubine e mogli schiave (Gen 16, 2; 30, 3; Es 21, 7-11; Giud 19, 1; Deut 21, 10- 14). I re contraggono un gran numero di unioni per amore (2 Sam 11, 2 ss) o per interesse politico (1 Re 3, 1); compaiono così grandi harem (1 Re 11, 3; 2 Cron 13, 21), dove il vero amore è impossibile (cfr. Est 2, 12-17). Ma anche l’attaccamento esclusivo non è raro, da Isacco (Gen 25, 19-28) e Giuseppe (Gen 41, 50), fino a Giuditta (Giudit 8, 2-8) ed ai due Tobia (Tob 11, 5-15), passando per Ezechiele (Ez 24, 15-18) e Giobbe (Giob 2, 9 s). I sapienziali evocano le gioie e le difficoltà di focolari monogamici (Prov 5, 15-20; 18, 22; 19, 13; Eccle 9, 9; Eccli 25, 13 - 26, 18), e nel Cantico dei Cantici l’amore dei due sposi è evidentemente indiviso. Tutto ciò denota una reale evoluzione nei costumi. All’epoca del NT la monogamia sarà la regola corrente dei matrimoni ebraici.
    3. Stabilità del matrimonio e fedeltà degli sposi.
    - Ancora la preoccupazione di avere una discendenza ha potuto introdurre la pratica del ripudio a motivo di *sterilità; ma la poligamia permetteva di risolvere questa difficoltà (Gen 16). Disciplinando la pratica del divorzio, la legge non precisa la «tara» che può permettere all’uomo di ripudiare la moglie (Deut 24, 1 s). Tuttavia dopo l’esilio i sapienti cantano la fedeltà verso «la sposa della giovinezza» (Prov 5, 15-19) e fanno l’elogio della stabilità coniugale (Eccli 36 - 25 ss). Paragonando il patto (berît) matrimoniale con l’*alleanza (berît) di Jahvè e di Israele, Malachia afferma persino che Dio «odia il ripudio» (Mal 2, 14 ss). Nonostante questo cammino verso un ideale più rigido, il giudaismo contemporaneo del NT ammetterà ancora la possibilità del divorzio ed i dottori discuteranno sulle cause che lo possono legittimare (cfr. Mt 19, 3). Per quanto concerne la fedeltà coniugale, l’usanza (Gen 38, 24), sanzionata poi dalla legge scritta (Deut 22, 22; Lev 20, 10), puniva con la morte ogni donna *adultera al pari del suo complice. Ma questo divieto dell’adulterio (Es 20, 14) mirava innanzitutto a far rispettare i diritti del marito, perché nulla vietava formalmente all’uomo le relazioni con donne libere o prostitute: la pratica della poligamia faceva ammettere più facilmente simili tolleranze. Ma, come si tende alla monogamia, su questo punto si determina un progresso: l’adulterio viene proibito anche per l’uomo (Giob 31, 9; Eccli 9, 5. 8. 9; 41, 22 ss). In questi limiti, la pratica dell’adulterio è severamente denunciata dai profeti (Ez 18, 6), anche quando il colpevole è lo stesso re David (2 Sam 12). D’altronde i sapienti mettono in guardia i giovani contro le seduzioni della donna sviata (Prov 5, 1-6; 7, 6-27; Eccli 26, 9-12), per formarli alla fedeltà coniugale.
    4. L’ideale religioso del matrimonio.
    - Benché il matrimonio sia innanzitutto materia di diritto civile ed i testi antichi non facciano allusione ad un rito religioso, l’israelita sa bene che Dio lo guida nella scelta della sposa (Gen 24, 42-52) e che Dio assume in nome dell’alleanza i precetti che regolano il matrimonio (ad es. Lev 18). Il decalogo, legge fondamentale di Israele, garantisce la santità dell’istituzione (Es 20, 14; cfr. Prov 2, 17). Dopo l’esilio, il libro di Tobia presenta una visione altamente spirituale del focolare preparato da Dio (Tob 3, 16), fondato sotto il suo sguardo nella fede e nella preghiera (7, 11; 8, 4-9), secondo il modello tracciato dalla Genesi (8, 6; cfr. Gen 2, 18), custodito dalla fedeltà quotidiana alla legge (14, 8-13). Giunto a questo livello, l’ideale biblico del matrimonio supera le imperfezioni sanzionate provvisoriamente dalla legge mosaica.
    NUOVO TESTAMENTO
    La concezione del matrimonio nel NT è dominata dal paradosso stesso della vita di Gesù: «nato da una donna» (Gal 4, 4; cfr. Lc 11, 27), con la sua vita di Nazaret (Lc 2, 51 s) egli consacra la famiglia quale è stata preparata da tutto il VT. Ma, nato da una madre vergine, vissuto egli stesso nella verginità, rende testimonianza ad un valore superiore al matrimonio.
    I. CRISTO ED IL MATRIMONIO
    1. La nuova legge.
    - Riferendosi esplicitamente, al di là della legge di Mosè, al disegno creatore della Genesi, Gesù afferma il carattere assoluto del matrimonio e la sua indissolubilità (Mt 19, 1-9): Dio stesso unisce l’uomo e la donna, dando alla loro libera scelta una consacrazione che li trascende. Essi sono «una sola *carne» dinanzi a lui; perciò il ripudio, tollerato «a motivo della durezza dei cuori», dev’essere escluso nel regno di Dio, in cui il mondo ritorna alla sua perfezione originale. L’eccezione del «caso di fornicazione» (Mt 19, 9) non ha certamente di mira una giustificazione del divorzio (cfr. Mc 10, 11 s; Lc 16, 18; 1 Cor 7, 10 s); concerne o il rinvio di una sposa illegittima, oppure una separazione cui non potrà far seguito un altro matrimonio. Di qui lo spavento dei discepoli dinanzi al rigore della nuova legge: «Se questa è la condizione dell’uomo nei confronti della donna, è meglio non sposarsi!» (Mt 19, 10). Questa esigenza sui principi non esclude la misericordia verso gli uomini peccatori. A più riprese Gesù incontra adultere o persone infedeli all’ideale dell’amore (Lc 7, 37; Gv 4, 18; 8, 3 ss; cfr. Mt 21, 31 s). Le accoglie, non per approvare la loro condotta, ma per apportare loro una conversione ed un *perdono che sottolineano il valore dell’ideale tradito (Gv 8, 11).
    2. Il sacramento del matrimonio.
    - Gesù non si accontenta di ricondurre l’istituzione del matrimonio a questa perfezione primitiva che il peccato umano aveva oscurato. Gli dà un fondamento nuovo che gli conferisce il suo significato religioso nel regno di Dio. Con la nuova alleanza che fonda nel suo proprio sangue (Mt 26, 28), egli stesso diventa lo *sposo della Chiesa. Per i cristiani, diventati con il battesimo templi dello Spirito Santo (1 Cor 6, 19), il matrimonio è quindi «un grande mistero in rapporto a Cristo ed alla Chiesa» (Ef 5, 32). La sottomissione della Chiesa a Cristo e l’amore redentore di Cristo per la Chiesa, che egli ha salvato dandosi per essa, sono così la regola vivente che gli sposi devono imitare; potranno farlo, perché la grazia di redenzione tocca il loro stesso amore assegnandogli il suo ideale (5, 21-33). La *sessualità umana, di cui bisogna valutare con prudenza le esigenze normali (1 Cor 7, 1-6), è assunta ora in una realtà sacra che la trasfigura.
    II. MATRIMONIO E VERGINITÀ
    «Non è bene che l’uomo sia solo», diceva Gen 2, 18. Nel regno di Dio instaurato da Gesù appare un nuovo ideale. Per il regno, degli uomini si faranno «eunuchi volontari» (Mt 19, 11 s). È il paradosso della *verginità cristiana. Fra il tempo del VT, in cui la *fecondità era un dovere primario al fine di perpetuare il popolo di Dio, e la parusia, in cui il matrimonio sarà abolito (Mt 22, 30 par.), due forme di vita coesistono nella Chiesa: quella del matrimonio, che il mistero di Cristo e della Chiesa trasfigura, e quella del celibato consacrato, che Paolo reputa la migliore (1 Cor 7, 8. 25-28). Non si tratta di disprezzare il matrimonio (cfr. 7, 1), ma di vivere pienamente il mistero nuziale al quale ogni cristiano partecipa già con il battesimo (2 Cor 11, 2): con l’unirsi al Signore totalmente per non piacere che a lui solo (1 Cor 7, 32-35), si attesta che la figura del mondo presente, alla quale l’istituzione matrimoniale è correlativa, si avvia verso la fine (7, 31). In questa prospettiva l’ideale sarebbe che «coloro che hanno moglie vivano come se non l’avessero» (7, 29) e che le *vedove non si risposino. Ma tutto questo dipende in fin dei conti dal Signore: si tratta di vocazioni diverse e complementari nell’ambito del *corpo di Cristo: in questo, come negli altri campi, «ciascuno riceve da Dio il proprio dono particolare, uno questo l’altro quello» (7, 7; cfr. Mi 19, 11).
    C. WIÉNER
    → Adamo II 2 - adulterio 1 - amico 3 - carne I 2 - circoncisione VT 1 - donna VT 2; NT 2 - fecondità - Maria II 4 - sessualità - Sposo-sposa - sterilità - unità I, III - vedove 2 - verginità - veste I 1.

    MEDIATORE (inizio)

    L’intervento di Gionata per salvare David che Saul voleva uccidere (1 Sam 19, 1-7) è un bell’esempio delle mediazioni umane che si incontrano sia nella storia biblica, sia in quella di tutta l’umanità (1 Sam 25, 1-35; Est 7, 1-7; Atti 12, 20), e che riescono talora a ristabilire relazioni che sono sul punto di guastarsi. Il mediatore va da una parte all’altra, intercede presso la parte che minaccia a favore della parte minacciata, ed apporta a questa la *pace - quando l’ottiene. Così la legge di Israele prevedeva una mediazione arbitrale di questo genere tra due parti di uguale potenza (Es 21, 22; Giob 9, 33). Fuori di questi casi di conflitto, anche le relazioni umane normali possono richiedere l’intervento di mediatori. Ma qui il termine è in un senso più lato: designa gli intermediari a cui un capo affida missioni occasionali o funzioni permanenti presso dei suoi subordinati. Per designare questi arbitri o intermediari, il VT ebraico non possiede un termine corrispondente a «mediatore» (gr. mesìtes). Per quanto riguarda i rapporti tra Dio e gli uomini, questo fenomeno di vocabolario è significativo. Non era sorprendente vedere le antiche religioni non bibliche interporre, tra l’umanità e degli dèi supremi, che non erano veramente trascendenti, tutta una serie di divinità secondarie o di spiriti, e poi di uomini (re, sacerdoti, ecc.) che erano più o meno dei mediatori o intercessori. Il Dio di Israele è unico, solo nella sua assoluta trascendenza. Chi dunque potrebbe essere mediatore tra queste due realtà senza misura comune: Dio e gli uomini? come scriverà S. Paolo: «Non esiste mediatore dell’Unico» (Gal 3, 20). D’altra parte, l’uomo biblico ha spesso vivissimo il sentimento della propria responsabilità personale di fronte a Dio. Questo valeva già anche al tempo in cui l’individuo era ancora profondamente immerso nel gruppo: «Se qualcuno pecca contro Dio, diceva il vecchio Eli, chi può intercedere per lui?» (1 Sam 2, 25). Quindi in tutta verità Giobbe può dire a Dio: «Non v’è nessuno tra noi (LXX: mesìtes)» (Giob 9, 33). È quindi paradossale incontrare nel VT numerosi mediatori, sia pure semplicemente, in senso lato, degli intermediari a cui Dio affida una *missione presso gli uomini. Questo paradosso attesta che l’Unico, lungi dal rinchiudersi nella solitudine, vuole entrare in rapporto con gli uomini. In questa prospettiva, i mediatori che suscita preparano e prefigurano la venuta di un Mediatore che, a sua volta, sarà unico. Nel NT, la *riconciliazione di Dio con gli uomini viene realizzata da Gesù. Verbo (cfr. *parola di Dio) divenuto *carne, Gesù può infatti parlare e agire nello stesso tempo in nome di Dio e in nome degli uomini. Per la prima ed unica volta, qualcuno merita allora, pienamente e nel senso più stretto, il titolo di «mediatore (mesìtes) tra Dio e gli uomini» (1 Tim 2, 5; cfr. Ebr 8, 6; 9, 15; 12, 24).
    I. I MEDIATORI NELL’ANTICA ALLEANZA
    1. I mediatori storici.
    - Abramo è colui per mezzo del quale «tutte le nazioni della terra si diranno benedette» (Gen 12, 3); per mezzo suo, l’antenato benedetto da Dio, Israele riceverà le *benedizioni della terra e della posterità. Secondo talune tradizioni Abramo esercita la sua funzione di intercessore quando interviene in favore del re pagano Abimelec (20, 7, 17 s) o di Sodoma (18, 22-32). *Mosè è chiamato da Jahvè per liberare Israele, per stabilire la sua alleanza con esso, per dargli la sua *legge e prescrivere il suo *culto. Responsabile del suo popolo dinanzi al Signore, egli agisce come capo e legislatore in nome di Dio, intercede sovente in suo favore (Es 32, 11-12. 31-34). Senza dubbio, all’importanza della sua missione, egli deve il fatto di essere l’unico personaggio nella Bibbia, insieme a Gesù, che venga chiamato mediatore (Gal 3, 19) - sia pure in senso lato. Dopo l’esodo, le funzioni svolte da Mosè sono suddivise tra diverse persone: il *sacerdozio levitico è la stirpe eletta da Dio per il servizio del culto e della legge. Nelle liturgie di Israele esso ricorda al popolo le grandi azioni di Jahvè nella storia sacra, enuncia le sue esigenze, fa discendere la sua benedizione (Num 6, 24-27). Presenta a Dio la lode e la supplica della comunità e degli individui. Il *re succede ai Giudici ed è investito dello stesso *spirito (Giud 6, 34; 1 Sam 10, 6; 16, 13). I profeti gli rivelano la sua elezione a beneficio della stirpe (1 Sam 9 - 10; 16). Egli è l’unto, il *messia di Jahvè che lo tratta come *figlio (2 Sam 7, 14; Sal 2, 7). I suoi sudditi lo considerano come l’*angelo di Jahvè (2 Sam 14, 17). Dinanzi a Dio egli rappresenta tutto il suo popolo e, benché non riceva il titolo di sacerdote, esercita funzioni cultuali: porta l’efod, offre sacrifici, pronuncia la preghiera in nome di Israele. Infine, poiché il Dio di Israele dirige tutta la storia umana, alcuni profeti non si peritano di assegnare a re stranieri una funzione nel disegno di Dio: Nabuchodonosor (Ger 27, 6), Ciro (Is 41, 2-5; 44, 28; 45, 1-6). A differenza del sacerdote e del re, la cui funzione è ereditaria, il *profeta è suscitato da una vocazione personale. Jahvè interviene direttamente nella sua vita per conferirgli la *missione. Prima di tutto egli deve portare la *parola di Jahvè al popolo: le sue esigenze, il suo giudizio sul peccato, le sue promesse per i fedeli. Il profeta, a sua volta, si sente solidale coi suoi fratelli, ai quali Dio lo manda, ed intercede continuamente per essi, come Samuele (1 Sam 7, 7-12; 12, 19- 23), Amos (7, 1-6), Geremia (15, 11; 18, 20; 42, 2... donde l’interdizione patetica di 7, 16; 11, 14; 14, 11..., e la visione di Giuda Maccabeo: 2 Mac 15,13-16), ed infine Ezechiele (9, 8; 11, 13) che si considera addirittura come la sentinella posta da Dio per la salvaguardia dei figli del suo popolo (33, 1-9; 3, 17-21). Così, lungo tutta la storia di Israele, Dio fa sorgere uomini che pone quali responsabili del suo popolo e che hanno il compito di assicurare il corso normale dell’alleanza. Le relazioni personali tra Dio e gli individui non sono soppresse da queste funzioni, che si collocano nella cornice del popolo per il quale vengono esercitate le diverse mediazioni.
    2. I mediatori escatologici.
    - L’escatologia profetica trasferisce agli ultimi tempi parecchi elementi di queste mediazioni storiche; le trascende persino, descrivendo misteriose figure che annunciano a modo loro la mediazione di Gesù. Nelle evocazioni del nuovo popolo si ritrovano diversi mediatori che svolgono una funzione analoga a quelli del passato: ora il *messia-re, ora il *profeta annunziatore della salvezza (Is 61, 1 ss; Deut 18, 15 interpretato dalla tradizione giudaica), più raramente il *sacerdote dei tempi nuovi (Zac 4, 14, elemento sviluppato nelle tradizioni di Qumrân). In Is 40 - 55 il *servo di Dio è una figura ideale che sembra personificare il *resto di Israele nella sua funzione di mediatore tra Dio e gli uomini. È un profeta chiamato da Dio «per portare il diritto alle nazioni» (Is 42, 1), per radunare Israele disperso, per essere «la luce delle nazioni» (42, 6; 49, 5-6) e l’alleanza del popolo (42, 6; 49, 8), cioè per costituire il nuovo popolo formato da Israele redento e dalle *nazioni convertite. La sua missione non è più soltanto di predicare il messaggio della salvezza e di intercedere, come facevano i profeti precedenti: egli ora deve «portare i peccati delle moltitudini» ed intervenire nella loro redenzione con la sua propria *sofferenza (Is 52, 14; 53, 12). Offrendo la propria vita in sacrificio d’*espiazione (Is 53, 10), appare con il rappresentante di un nuovo tipo di mediazione sacerdotale. In Dan 7, 13. 18 il *figlio dell’uomo rappresenta innanzitutto il «popolo dei santi» oppresso dalle potenze pagane prima di essere esaltato dal giudizio di Dio. Infine regnerà sulle *nazioni (7, 14. 27), ed assicurerà in tal modo il *regno di Dio nel mondo. Il rapporto tra questi diversi mediatori escatologici non è fissato chiaramente dal VT. Soltanto il compimento delle profezie in Gesù farà vedere come essi si confondano nella persona dell’unico mediatore di salvezza.
    3. I mediatori celesti.
    - I pagani avevano avvertito da tempo l’insufficienza delle mediazioni umane; perciò ricorrevano all’intervento celeste degli dèi inferiori. Israele rigetta questo politeismo, ma la sua dottrina degli *angeli prepara il popolo di Dio alla rivelazione del mediatore trascendente. Secondo un antico racconto, Giacobbe vide in sogno a Bethel gli angeli del santuario stabilire il legame tra cielo e terra (Gen 28, 12). Ora, dopo l’esilio, la dottrina degli angeli prende uno sviluppo sempre più considerevole. Si descrivono quindi la loro intercessione per Israele (Zac 1, 12 s), i loro interventi in suo favore (Dan 10, 13. 21; 12, 1), gli aiuti che portano ai fedeli (Dan 3, 49 s; 6, 23; 14, 34-39; Tobia), di cui presentano la preghiera dinanzi al Signore (Tob 12, 12). Malachia descrive persino un misterioso messaggero, l’angelo dell’alleanza, la cui venuta nel santuario inaugurerà la salvezza escatologica (Mal 3, 1-4). Qui non si tratta più di una mediazione umana: attraverso quest’angelo enigmatico, Dio stesso interviene per purificare il suo popolo e salvarlo.
    II. IL MEDIATORE DELLA NUOVA ALLEANZA
    Alle soglie del NT, Gabriele, mediatore celeste, inaugura fra l’uomo e Dio il dialogo che prelude alla nuova *alleanza (Lc 1, 5-38). La risposta decisiva gli è data da *Maria. Parlando in nome del suo popolo come «figlia di Sion», essa accetta di diventare *madre del re-messia, Figlio di Dio. Giuseppe (Mt 1, 18-25), Elisabetta (Lc 1, 39-56), Simeone ed Anna (2,33-38), tutti coloro che «attendevano la *consolazione di Israele», in seguito non hanno che da accogliere «il salvatore» (2, 11) venuto per mezzo di essa. Così, attraverso ad essa, l’umanità fa la conoscenza di Gesù e Gesù dell’umanità. Pur essendo il Figlio (2, 41-50), egli è sottomesso alla sua volontà ed a quella di Giuseppe (2, 51 s), fino al giorno in cui inaugurerà il suo ministero (Gv 2, 1-12).
    1. L’unico mediatore.
    - *Gesù Cristo è il mediatore della nuova alleanza (Ebr 9, 15; 12, 24) tra Dio e l’umanità, migliore dell’antica (8, 6). Ormai per mezzo suo gli uomini hanno accesso a Dio (7, 25). Questa verità è presente, in forme diverse, dovunque nel NT. Gesù muore, risorge, riceve lo Spirito in nome ed a vantaggio del resto di Israele e di tutti gli uomini. La sua mediazione rifluisce persino sulla *creazione (Col 1, 16; Gv 1, 3) e sulla storia dell’antica alleanza (1 Piet 1, 11). Gesù è mediatore perché vi è stato chiamato dal Padre suo (Ebr 5, 5) ed ha risposto a questa chiamata (10, 7 ss), così come avveniva per i mediatori del VT (cfr. 5, 4). Ma, nel caso suo, chiamata e risposta sono collocate al centro del mistero del suo essere: egli, che era «il Figlio» (1, 2 s), «divenne partecipe del sangue e della carne» (2, 14) e divenne «*uomo egli stesso» (1 Tim 2, 5). Appartiene in tal modo alle due parti che riconcilia in sé. Il Figlio pone fine alle antiche mediazioni, realizzando la mediazione escatologica. In lui, «discendenza di Abramo» (Gal 3, 16), Israele e le *nazioni ereditano le *benedizioni promesse al padre del popolo di Dio (Gal 3, 15-18; Rom 4). Egli è il nuovo Mosè, guida di un nuovo esodo, mediatore della nuova alleanza, capo del nuovo popolo di Dio, ma a titolo di Figlio e non più di servo (Ebr 3, 1-6). È insieme il re, figlio di David (Mt 21, 4-9 par.), il servo di Dio predetto da Isaia (Mt 12, 17-21), il profeta annunziatore della salvezza (Lc 4, 17-21), il figlio dell’uomo giudice dell’ultimo giorno (Mt 26, 64), l’angelo dell’alleanza che purifica il tempio con la sua venuta (cfr. Lc 2, 22-35; Gv 2, 14-17). Opera una volta per sempre la liberazione, la salvezza, la redenzione del suo popolo. Riunisce nella sua persona la regalità, il sacerdozio e la profezia. È egli stesso la *parola di Dio. Nella storia delle mediazioni umane, la sua venuta apporta quindi una novità radicale e definitiva: nel tempio «che non è fatto dalla mano dell’uomo» (Ebr 9, 11), egli rimane mediatore «sempre vivo per intercedere» a favore dei suoi fratelli (7, 25). Di fatto, come «Dio è unico, così è unico il mediatore» (1 Tim 2, 5) dell’alleanza eterna.
    2. L’unico mediatore e la sua Chiesa.
    - Tuttavia il fatto che Cristo sia l’unico mediatore non pone fine alla funzione degli uomini nella storia della salvezza. La mediazione di Gesù assume in terra segni sensibili: sono gli uomini ai quali Gesù affida una funzione nei confronti della sua Chiesa; Gesù associa in certo modo alla sua mediazione tutte le membra del suo corpo. Già nella sua vita terrena Gesù chiama degli uomini a lavorare con lui, a proclamare il vangelo, ad effettuare i segni che mostrano la presenza del regno (Mt 10, 7 s par.); inviati prolungano in tal modo i primi atti della sua mediazione. La *missione che egli affida loro, per il tempo che seguirà la sua morte e la sua risurrezione, estenderà a tutto il mondo ed a tutti i secoli futuri (Mt 28, 19 s) la mediazione che egli eserciterà invisibilmente. 1 suoi *apostoli saranno responsabili della sua parola, della sua Chiesa, del battesimo, dell’eucaristia, del perdono dei peccati. A partire dalla Pentecoste egli stesso comunica alla sua Chiesa lo *Spirito che ha ricevuto dal Padre; quindi «non c’è più che un solo corpo ed un solo spirito, come non c’è che un solo Signore ed un solo Dio» (Ef 4, 4 ss). Ma per incorporare nuove membra a questo corpo, bisogna che sia amministrato il battesimo (Atti 2, 38), e per comunicare lo Spirito occorre l’*imposizione delle mani (8, 14-17). Lo Spirito assicura la vita e la crescita del corpo di Cristo, distribuendo i *carismi. Tra i beneficiari di questi carismi, gli uni assicurano servizi occasionali, gli altri servizi permanenti che prolungano le funzioni degli stessi apostoli, nell’organismo della Chiesa. Coloro che assicurano questi servizi non sono, propriamente parlando, dei mediatori; lungi dall’esercitare una mediazione che verrebbe ad aggiungersi a quella dell’unico mediatore, essi non sono che i mezzi concreti mediante i quali egli vuol raggiungere tutti gli uomini. Una volta che le membra del corpo di Cristo hanno raggiunto il loro capo nella gloria, questa funzione evidentemente cessa. Ma allora, nei confronti dei membri della Chiesa, che lottano ancora sulla terra, i cristiani vincitori svolgono una funzione di altro tipo. Associati alla regalità (cfr. *re) del Mediatore (Apoc 2, 26 s; 3, 21; cfr. 12, 5; 19, 15), essi presentano a Dio le *preghiere dei santi della terra (5, 8; 11, 18), che chiedono a Dio di accelerare l’ora della sua giustizia (6, 9 ss; 8, 2-5; 9, 13). La vittoria finale sarà insieme quella «del sangue dell’agnello e delle testimonianze dei martiri» (12, 11). Dall’ascensione alla parusia Gesù non esercita quindi la sua regalità senza farvi partecipare il suo popolo, che è ad un tempo presente sulla terra (12, 6; 14; 22, 17; cfr. 7, 1-8) e già nella gloria (12, 1; 21, 2; cfr. 14, 1-5). Un posto particolare, in questo esercizio della mediazione di Gesù risorto, è attribuito a *Maria. La sua vocazione di madre in occasione della venuta sulla terra del Mediatore e il suo intervento al momento del primo *segno compiuto da Gesù (Gv 2, 1-12) inducono a chiedersi quale funzione invisibile essa possa svolgere nei confronti della Chiesa. Nella Chiesa nascente, Maria appare come un membro tra gli altri, anche se eminente (Atti 1, 14); non esercita nessuna funzione paragonabile a quella degli apostoli o dei loro successori. Ma il Mediatore morendo le affida una missione materna nei confronti dei suoi, rappresentati dal discepolo diletto (Gv 19, 26 s). Maria morendo avrebbe assolto questa missione? Non continua piuttosto ad assolverla nell’invisibile? Maria è associata come tutti gli eletti alla regalità e all’intercessione di Gesù; ma il NT suggerisce per lo meno che lo è a un titolo speciale: come madre del «Figlio» e come «madre» dei suoi discepoli.
    3. L’unico mediatore ed i mediatori celesti.
    - Il mediatore è venuto da Dio e vi è ritornato; ciò lo avvicina apparentemente ai mediatori celesti del VT. Questo accostamento portò taluni cristiani, influenzati talora dalla gnosi pagana dell’Asia Minore, a mettere Cristo e gli *angeli più o meno sullo stesso piano. Questi errori richiesero delle messe a punto (Col 2, 18 s; Ebr 1, 4-14; cfr. Apoc 19, 10). Il mediatore è «il capo» degli angeli (Col 2, 10), che i cristiani giudicheranno con lui (1 Cor 6, 3). Nel NT gli angeli continuano la loro funzione di intercessori e di strumenti dei disegni di Dio (Ebr 1, 14; Apoc), ma lo fanno come «angeli del figlio dell’uomo» (Mt 24, 30 s), l’unico mediatore.
    CONCLUSIONE
    - Le molteplici mediazioni a cui Dio ha dato luogo tra sé e il suo popolo preparavano ed annunciavano la mediazione che il suo popolo avrebbe esercitato tra lui e tutta l’umanità. Questa mediazione di Israele si realizza nella mediazione di Cristo, unico Mediatore, solo nella insondabile grandezza che gli proviene dal fatto di essere il Figlio. Tuttavia, capo del nuovo Israele, egli esercita la propria mediazione con e mediante il suo corpo. Lungi dall’annullarsi con la venuta del Figlio, il paradosso dei mediatori umani nella storia della salvezza si afferma ancor di più. La ragione ultima di questo paradosso è che l’Unico è amore (1 Gv 4, 8): volendo essere con gli uomini (Mt 1, 23; Apoc 21, 3) e condividere con essi la «natura divina» (2 Piet 1, 4), con essi lavora già alla realizzazione del proprio disegno; tramite la *comunione di uomini con uomini, fa dono della comunione con sé (1 Gv 1, 3).
    A. A. VIARD e J. DUPLACY
    → alleanza VT III 2; NT II 2 - Dio NT I - Gesù Cristo II 1 b d - legge - Maria V 3 - ministero 0 - Mosè 0.2 - pastore e gregge NT 1 - porta NT - profeta VT 1 3 - re o - riconciliazione - sacerdozio.

    MELCHISEDECH (inizio)

    Melchisedech, nella Bibbia, appare il protettore di Abramo, predecessore di David e figura anticipata di Gesù.
    1. Melchisedech e Abramo (Gen 14).
    - Melchisedech, *re e quindi sacerdote di Salem (che il Sal 76, 3 identifica con *Gerusalemme) offre ad Abramo un pasto di *pane e *vino, rito d’alleanza (Gen 31, 44-46; Gios 9,12-15); pronuncia su Abramo una *benedizione; riceve da Abramo un tributo, in cambio della sua protezione. Questi gesti vengono compiuti al cospetto di ‘El ‘Eljôn, il *Dio altissimo, dio ancestrale dei clan semiti, che Melchisedech considera almeno il Dio supremo, e Abramo l’unico Dio. La parte principale viene qui svolta da Melchisedech, sacerdote non ebreo; di fronte a lui, Abramo, antenato dei sacerdoti levitici, occupa un rango inferiore. L’esegesi rabbinica cercherà di farlo dimenticare; l’esegesi cristiana se ne ricorderà.
    2. Melchisedech e David (Sal 110).
    - Quando David si stabilisce a Gerusalemme, vi instaura una politica di assimilazione. Il Sal 110 presenta il re israelita come il continuatore del prestigioso Melchisedech. Jahvè ha giurato al suo *unto: in quanto re di Gerusalemme «tu sei sacerdote per sempre, al modo di Melchisedech». L’espressione, iperbolica per i messia effimeri, sarà vera per l’ultimo *Messia, verso il quale, dopo l’esilio, il Sal 110 orienterà l’attesa di Israele. Quelli che lo leggono sognano infatti di veder sorgere un salvatore che associ nella propria persona *sacerdozio e regalità. C’erano stati dei profeti che avevano annunciato che nei tempi futuri potere regio e potere sacerdotale sarebbero stati associati (Ger 33, 14-22; Zac 3 - 6). Certuni rivendicarono la regalità per il sommo sacerdote: questo fu una realtà per i Maccabei (1 Mac 10, 20. 65; 14, 41. 47); una speranza per i redattori giudaici dei «Testamenti dei Dodici Patriarchi» (soprattutto Test. di Levi). Altri invece, fedeli all’orientamento tracciato da Melchisedech e David, preferirono attribuire al futuro re il sommo sacerdozio. In realtà, l’intima fusione tra una regalità purificata e un sacerdozio autentico si realizzerà solo in Gesù Cristo.
    3. Melchisedech e Gesù (Ebr 7; cfr. 5, 6-10; 6, 20).
    - Gesù, uomo, discende non soltanto da Abramo, ma prima di tutto da *Adamo (Lc 3, 23-38). Secondo la lettera agli Ebrei, Gesù, sacerdote, esercita il sacerdozio perfetto, che non si ricollega a quello di Levi (Gesù d’altronde è della tribù di Giuda), ma realizza il sacerdozio regale del Messia davidico, successore di Melchisedech (Sal 110). Già nella Genesi, questo sacerdote-re appare superiore ai sacerdoti levitici, dato che ha visto i figli di Levi, nella persona del loro antenato Abramo, inchinarsi rispettosamente davanti a lui, riceverne la benedizione e pagargli tributo. D’altra parte, il personaggio, il nome, i titoli di Melchisedech abbozzano in certo qual senso i caratteri di Gesù. Apparso «senza principio né fine», prefigura il Cristo, sacerdote eterno. Il suo nome Melchi-sedech significa: «il mio re è giustizia»; re di Salem è quasi equivalente a re di šalôm, cioè re di *pace. Ora, Gesù non apporta forse al mondo la giustizia e la pace? Il giuramento solenne del Sal 110 non riguarda i sacerdoti levitici, peccatori, mortali e quindi molteplici, succedentisi da una generazione all’altra, e ministri di un’alleanza superata; si rivolge al re-sacerdote, al vero figlio di David, a Gesù, innocente, immortale e quindi unico, ministro di una nuova alleanza definitiva, espressa per mezzo del pane e del vino, come un tempo lo era stato il patto di Melchisedech. Melchisedech; quindi, straniero rispetto a Israele, membro delle «nazioni», ma personaggio religioso, «autodidatta della conoscenza di Dio» (Filone), potente amico di Abramo, annesso da David, prefigurazione di Gesù, ha registrato una straordinaria promozione. Ha il proprio nome nel rituale (consacrazione degli altari), e nel messale romano (preghiera eucaristica). Rimane il testimone dell’universalismo dei disegni di Dio, che, per condurci a Cristo, si è servito non solo di Israele, ma anche delle nazioni.
    P. É. BONNARD
    → Aronne 2 - benedizione II 3 - creazione VT I - Dio VT II 1 - Gerusalemme VT I 1 - messia NT II 2 - nazioni VT II 2 b - pane II 2 - sacerdozio VT 1 1.3; NT I 3.

    MEMORIA (inizio)

    Se si interrogasse la Bibbia sulla memoria dell’uomo, si potrebbe trarne alcune annotazioni psicologiche, come il ricordo di un beneficio (Gen 40, 14) o la dimenticanza dei consigli paterni (Tob 6, 16); ma ciò che qui ci interessa è il senso religioso della memoria, la sua funzione nella relazione con Dio. La Bibbia parla della memoria di Dio per l’uomo e della memoria dell’uomo per Dio. Ogni ricordo reciproco implica avvenimenti passati in cui si era stati in relazione l’uno con l’altro; richiamando questi avvenimenti, ha per effetto di rinnovare la relazione. Tale è appunto il caso tra Dio e il suo popolo. La memoria biblica si riferisce ad incontri avvenuti nel passato, nei quali si è stabilita l’alleanza. Ricordando questi fatti primordiali, essa rafforza l’alleanza; porta a vivere 1’«oggi» con l’intensità di presenza che deriva dall’alleanza. Il ricordo qui è tanto più idoneo, in quanto si tratta di avvenimenti privilegiati che decidevano del futuro e lo contenevano in anticipo. Soltanto il fedele ricordo del passato può assicurare il buon orientamento del futuro.
    1. La fioritura del ricordo
    a) I fatti. - Il fatto primario è la *creazione, segno sempre offerto all’uomo per ricordarsi di Dio (Eccli 42, 15 - 43, 33; Rom 1, 20 s). L’uomo stesso è più di un segno, è *immagine di Dio; perciò può ricordarsi di lui. Le successive *alleanze di Dio con l’uomo (Noè, Abramo, Mosè, David), procedettero dalla memoria di Dio: allora egli si è ricordato ed ha promesso di ricordarsi (Gen 8, 1; 9, 15 ss; Es 2, 24; 2 Sam 7), per salvare (Gen 19, 29; Es 6, 5). Ed il fatto salvifico che orienterà per sempre la memoria del popolo di Dio è la *Pasqua (Os 13, 4 ss).
    b) Il ricordo dei fatti. - La memoria ha molti modi di prolungare nel presente l’efficacia del passato. In ebraico, i sensi del verbo zkr, nelle sue diverse forme, ne danno qualche idea: ricordarsi, rammentare, menzionare, ma anche conservare ed invocare, sono altrettante azioni che svolgono una delle funzioni più importanti nella vita spirituale e nella liturgia. L’invocazione del nome è inseparabile dal ricordo della Pasqua (Es 20, 2), perché proprio rivelando il suo *nome Jahvè ha inaugurato la Pasqua (Es 3), e la salvezza attuale che questa invocazione domanda (Sal 20, 8) è intesa come il rinnovamento dei prodigi antichi (Sal 77; Gioe 3). Il *culto comporta anche un aspetto di memoriale risvegliando il «ricordo della sua alleanza»; questa espressione, cara alla tradizione sacerdotale, mette chiaramente in evidenza che Dio si ricorda del suo popolo e il popolo deve ricordarsi di Dio nei riti ciclici del culto (*feste, *sabato) o nei luoghi in cui si incontrano (*pietra, *altare, *arca, *tenda,*tempio). Fondata sui fatti salvifici, la preghiera è necessariamente immersa nel *ringraziamento, tonalità normale del ricordo dinanzi a Dio (Es 15; Sal 136). La conservazione dei ricordi è assicurata dalla trasmissione della *parola, orale o scritta (Es 12, 25 ss; 17, 14), specialmente nei libri della *legge (Es 34, 27; Deut 31, 19 ss). La meditazione della legge è allora nel fedele la forma correlativa del ricordo (Deut; Gios 1, 8); quest’attenzione vigile dà accesso alla *sapienza (Prov 3, 1 ss). L’*obbedienza ai comandamenti è, in definitiva, l’espressione autentica di questo ricordo che consiste nel «custodire le vie di Jahvè» (Sal 119; Sap 6, 18; Is 26, 8).
    2. Il dramma della dimenticanza.
    - Ma proprio qui la memoria dell’uomo si rivela debole, mentre Dio non dimentica né la sua parola, né il suo nome (Ger 1, 12; Ez 20, 14). Nonostante che il Deuteronomio metta in guardia (Deut 4, 9; 8, 11; 9, 7): «Guardati dal dimenticare Jahvè tuo Dio..., ricordati...», il popolo dimentica il suo Dio ed ecco il suo peccato (Giud 8, 34; Ger 2, 13; Os 2, 15). Allora Dio, secondo la logica dell’*amore, sembra dimenticare la sposa infedele, sventura che la dovrebbe far ritornare (Os 4, 6; Mi 3,4; Ger 14, 9). Di fatto, ogni miseria dovrebbe ravvivare nell’uomo il ricordo di Dio (2 Cron 15, 2 ss; Os 2, 9; 5, 15). Vi si aggiunge la predicazione profetica, che è un lungo «richiamo» (Mi 6, 3 ss; Ger 13, 22-25) destinato a rimettere il *cuore dell’uomo nello stato di ricettività in cui Dio può realizzare la sua Pasqua (Ez 16, 63; Deut 8, 2 ss). Il pentimento, oltre che ricordo delle colpe, è appello alla memoria di Dio (Ez 16, 61 ss; Neem 1, 7 ss), e, nel *perdono, Dio, la cui memoria è quella dell’amore, si ricorda dell’alleanza (1 Re 21, 29; Ger 31, 20) e dimentica il peccato (Ger 31, 34).
    3. Dal ricordo all’attesa.
    - Ed ecco il paradosso: la Pasqua, passata, è ancora futura. Il popolo si ricorda di tutto ciò che Jahvè ha fatto per lui: il passato prova la fedeltà di Dio. Ma il presente è deludente. Nel futuro quindi, in un «tempo che verrà» si adempiranno le promesse già parzialmente realizzate. Fedeltà e delusione aprono la coscienza del popolo di Dio alla prospettiva degli «ultimi tempi» decisivi. Questa percezione vivissima del futuro attraverso il passato caratterizza la memoria del popolo dopo il ritorno dall’esilio; c’è qui una specie di mutamento. Il ricordo diventa attesa, e la memoria sfocia nell’immaginazione apocalittica. Il caso tipico è quello di Ezechiele (40 - 48), seguito da Zaccaria, Daniele, il quarto evangelista e l’autore dell’Apocalisse. Dal punto di vista della comunità, il passato glorioso costituisce, in mezzo alla miseria presente, il segno della liberazione (Is 63, 15-64, 11; Sal 77; 79; 80; 89). Dal punto di vista personale, il *povero, in apparenza dimenticato da Dio (Sal 10, 12; 13, 2), deve sapere che è tuttavia presente al suo amore (Is 66, 2; Sal 9, 19). La *prova ravviva la memoria (1 Mac 2, 51; Bar 4, 27), e ciò per prepararla al nuovo evento (Is 43, 18 s).
    4. Dalla presenza alla trasparenza.
    a)
    Quando «Jahvè è presente» (Ez 48, 35; Mt 1, 23), la memoria coincide con il presente, ed è il *compimento. Il ricordo delle *promesse e dell’alleanza passa all’atto nell’evento di Cristo che ricapitola il *tempo (2 Cor 1, 20; Lc 1, 54. 72). In lui si risolve il dramma delle due dimenticanze con il ritorno dell’uomo ed il perdono di Dio (Col 3, 13). Poiché, in Cristo, Dio è lì a ricordarsi dell’uomo, l’uomo non deve più cercare Dio nel passato, ma oggi, in Cristo (Gv 14, 6 s; 2 Cor 5, 16 s). *Gesù Cristo, infatti, è l’*uomo definitivamente presente a Dio, e Dio definitivamente presente all’uomo. Il Cristo-sacerdote ci fa accedere al Padre (Ef 2, 18; Ebr 10, 19) e il suo Spirito ci mette in comunione con lui (Rom 8, 15-16. 26-27).
    b) Ma il tempo non è ancora consumato e se Dio è ormai presente in un’alleanza nuova ed eterna, l’uomo è spesso assente per il suo Dio ed ha bisogno di ricordarsi. Per questo *Spirito «richiama» il mistero di Cristo, non come un *libro, ma nell’attualità personale della parola vivente: la *tradizione (Gv 14, 26; 16, 13). Lo Spirito realizza il mistero di Cristo nel suo corpo, non come un semplice memoriale, ma nell’attualità sacramentale di questo corpo ad un tempo risorto e presente al mondo (Lc 22, 19 s; 1 Cor 11, 24 ss): la liturgia. Questa «ri-presentazione» della *Pasqua, proprio come nel VT, è ordinata all’azione, alla vita: la memoria cristiana consiste nel «custodire le vie di Jahvè», nel conservare il testamento del Signore, cioè nel rimanere nell’*amore (Gv 13, 34; 15, 10 ss; 1 Gv 3, 24). Infine, ultimo accordo della memoria dell’uomo con quella di Dio, quanto più lo Spirito compenetra la vita del cristiano, tanto più lo rende vigilante, attento ai «segni dei tempi», testimone che lascia trasparire la presenza attiva del Signore e rivela l’approssimarsi del suo avvento (Apoc 3, 3; Fil 3, 13 s; 1 Tess 5, 1-10).
    J. CORBON
    → Abramo II 1 - alleanza VT II 1; NT I - altare 1 - culto VT II; NT III 1 - eucaristia I 1, III 3, IV 2, V 2 - Paradito 2 - pietra 2 - segno VT I, II - tempo VT I 2, II 1; NT II 3.

    MENZOGNA (inizio)

    L’uso biblico della parola menzogna implica due sensi diversi, secondo che sono in causa i rapporti dell’uomo con il suo prossimo od i suoi rapporti con Dio.
    I. MENZOGNA NEI RAPPORTI CON IL PROSSIMO
    1. Nel VT.
    - Il divieto della menzogna nella legge all’origine ha di mira un concetto sociale preciso: quello della falsa testimonianza nei processi (decalogo: Es 20, 16 e Deut 5, 20; ripreso in Es 23, 1 ss. 6 ss; Deut 19, 16-21; Lev 19, 11); questa menzogna, detta sotto la fede del *giuramento, è inoltre una profanazione del *nome di Dio (Lev 19, 12). Questo senso ristretto sussiste nell’insegnamento morale dei profeti e dei sapienti (Prov 12, 17; Zac 8, 17). Ma il peccato di menzogna vi è pure inteso in modo molto più largo: è il dolo, l’inganno, il disaccordo tra il pensiero e la *lingua (Os 4, 2; 7, 1; Ger 9, 7; Nah 3, 1). Tutto questo ha in orrore Jahvè (Prov 12, 22), che non può essere ingannato (Giob 13, 9); perciò il mentitore va incontro alla sua perdizione (Sal 5, 7; Prov 12, 19; Eccli 20, 25). Anche Giacobbe, l’astuto, che carpì la benedizione paterna, fu a sua volta giocato dal suocero Labano (Gen 29, 15-30).
    2. Nel NT
    - Nel NT l’obbligo di una lealtà totale è formulato nettamente da Gesù: «Il vostro linguaggio sia: sì, sì; no, no» (Mt 5, 37; Giac 5, 12), e Paolo ne fa la sua regola di condotta (2 Cor 1, 17 s). Sono così ripresi gli insegnamenti del VT, non senza ricevere una motivazione più profonda: «Non mentite gli uni agli altri; vi siete spogliati dell’uomo vecchio e avete rivestito il nuovo» (Col 3, 9 s); «Ditevi la verità, perché siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4, 25). La menzogna sarebbe un ritorno alla natura depravata; andrebbe contro la nostra solidarietà in Cristo. Si comprende come, secondo gli Atti, Anania e Safira, mentendo a Pietro, hanno mentito in realtà allo Spirito Santo (Atti 5, 1-11): la prospettiva dei rapporti sociali è superata quando è in gioco la comunità cristiana.
     II. MENZOGNA NEI RAPPORTI CON DIO
    1. Il disconoscimento del vero Dio.
    - Jahvè è il *Dio di verità. Il disconoscerlo rivolgendosi agli *idoli ingannatori costituisce la menzogna per eccellenza - non più quella delle *labbra, ma quella della vita. Gli autori sacri fanno a gara nel denunziare questa impostura, lanciando strofe ironiche (Ger 10, 1-16; Is 44, 9-20; Sal 115, 5 ss), aneddoti canzonatori (Dan 14), epiteti infamanti: nulla (Ger 10, 8), orrore (4, 1), vanità (2, 5), impotenza (2, 11)... Ai loro occhi ogni conversione suppone in primo luogo che si confessi il carattere menzognero degli idoli che si sono serviti (16, 19). Così l’intende ancora Paolo quando sollecita i pagani a staccarsi dagli idoli di menzogna (Rom 1, 25) per *servire il Dio vivo e vero (1 Tess 1, 9).
    2. Peccato di menzogna e vita religiosa.
    a) Il VT conosce pure un modo più sottile di disconoscere il vero Dio: fare della menzogna una abitudine costante nella vita. Tale è il modo di agire degli *empi, nemici dell’uomo onesto: sono dei furbi (Eccli 5, 14) che hanno soltanto la menzogna in bocca (Sal 59, 13; Eccli 51, 2; Ger 9, 2); confidano nella menzogna (Os 10, 13), vi aderiscono fino a rifiutare di convertirsi (Ger 8, 5), ed anche le loro conversioni apparenti sono menzognere (3, 10). Inutile nutrire illusioni sull’uomo lasciato a se stesso: egli è spontaneamente mentitore (Sal 116, 11). Al contrario, il vero fedele proscrive la menzogna dalla sua vita per essere in comunione con il Dio di verità (Sal 15, 2 ss; 26, 4 s). Così farà negli ultimi tempi il *servo di Jahvè (Is 53, 9), al pari dell’umile *resto che Dio lascerà allora al suo popolo (Sof 3, 13).
    b) Il NT trova realizzato questo ideale in Cristo (1 Piet 2, 22). Perciò lo spogliarsi di ogni menzogna e una delle esigenze principali della vita cristiana (1 Piet 2, 22). Con ciò non intendiamo soltanto la menzogna delle labbra, ma quella che è inclusa in tutti i vizi (Apoc 21, 8): gli eletti, compagni di Cristo, non l’hanno mai conosciuta (14, 5). Merita in modo tutto speciale il nome di mentitore colui che disconosce la *verità divina rivelata in Gesù: l’*anticristo, il quale nega che Gesù sia il Cristo (1 Gv 2, 22). In lui la menzogna non è più di ordine morale, è religiosa per essenza, al pari di quella dell’idolatria.
    3. I fautori di menzogna.
    a) Ora, per precipitare gli uomini in questo universo menzognero che si leva dinanzi a Dio in atto di sfida, esistono guide ingannatrici a tutte le epoche. Il VT conosce *profeti di menzogna, di cui Dio all’occasione si fa gioco (l Re 22, 19-23), ma che più spesso i veri profeti denunziano in termini severi: così Geremia (5, 31; 23, 9-40; 28, 15 s; 29, 31 s), Ezechiele (13) e Zaccaria (13, 3). Invece della *parola di Dio, essi portano al popolo messaggi alterati.
    b) Nel NT Gesù denuncia allo stesso modo le guide cieche del popolo ebraico (Mt 23, 16 ...). Questi *ipocriti, che rifiutano di credere in lui, sono dei mentitori (Gv 8, 55). Preludono agli altri mentitori che sorgeranno in tutti i secoli per staccare gli uomini dal vangelo: anticristi (1 Gv 2, 18-28), falsi apostoli (Apoc 2, 2), falsi profeti (Mt 7, 15), falsi messia (Mt 24, 24; cfr. 2 Tess 2, 9), falsi dottori (2 Tim 4, 3 s; 2 Piet 2, 1 ss; cfr. 1 Tim 4, 1 s), senza contare i Giudei che impediscono la predicazione del vangelo (1 Tess 2, 14 ss), ed i falsi fratelli, nemici del vero vangelo (Gal 2, 4)... Altrettanti fautori di menzogna che i cristiani devono affrontare, come Paolo faceva per il mago Elimas (Atti 13, 8 ss).
    III. SATANA, PADRE DELLA MENZOGNA
    Il mondo è così diviso in due campi: quello del bene e quello del male, quello della verità e quello della menzogna, nel duplice senso morale e religioso. Il primo è concretamente quello di Dio. Anche il secondo ha un capo: *Satana, l’antico serpente che seduce il mondo intero (Apoc 12, 9) dal giorno in cui sedusse Eva (Gen 3, 13) e, separandola dall’albero della vita, fu «omicida fin dall’inizio» (Gv 8,44). Egli spinge Anania e Safira a mentire allo Spirito Santo (Atti 5, 3), ed il mago Elimas è suo «*figlio» (Atti 13, 10). Da lui dipendono i Giudei increduli che rifiutano di credere in Gesù: essi sono i figli del diavolo, mentitore e padre della menzogna (Gv 8, 41-44); perciò vogliono uccidere Gesù, perché «ha detto loro la *verità» (Gv 8, 40). Egli suscita i falsi dottori, nemici della verità evangelica (1 Tim 4, 2); e, per guerreggiare contro i cristiani (Apoc 12, 17), dà i suoi poteri alla *bestia del mare, l’impero «totalitario» alla bocca piena di bestemmie (13, 1-8); e la bestia della terra, che si serve dei falsi profeti per ingannare gli uomini e far loro adorare l’idolo menzognero, dipende ancora da lui (13, 11-17). L’asse del mondo passa tra questi due campi, ed è necessario che i cristiani non si lascino sedurre dalle astuzie del demonio al punto che la loro fede si corrompa (2 Cor 11, 3). Per rimanere nella verità essi devono quindi pregare Dio di liberarli dal maligno (Mt 6, 13).
    J. CAMBIER e P. GRELOT
    → anticristo NT 2 - cuore I 2 - delusione I 1 - demoni NT 2 - errore - idoli - ipocrita - labbra 1 - lingua 1 - parola umana 1 - peccato IV 2 b - Satana I 2, III - testimonianza VT I; NT I - verità.

    MERAVIGLIE DI DIO (inizio)

    → deserto VT II 2 - miracolo - segno.

    MERITO (inizio)

    → giustificazione II - giustizia - grazia IV - retribuzione.

    MESSAGGIO (inizio)

    → angeli - fede NT II 2 - missione - parola di Dio VT I 2, III 1 – penitenza-conversione VT II; NT I - predicare - profeta VT II 2.3 - vangelo.

    MESSE (inizio)

    Come la *vendemmia, la messe significa agli occhi del contadino il *frutto del suo *lavoro e la garanzia della sua sussistenza annuale. Questo giudizio dato dalla natura sul lavoro dell’uomo può anche significare il *giudizio di Dio.
    I. LA GIOIA DEI MIETITORI
    Il raccolto dell’orzo (aprile) e quello del grano (maggio) sono l’occasione di feste popolari: di colle in colle si propaga il canto delle file dei mietitori, che fa dimenticare la dura pena del lavoro con la falce sotto un sole massacrante (Rut 2; Is 9, 2; Ger 31, 12; Sal 126, 6). In questa *gioia Jahvè non è dimenticato: il raccolto è il segno ed il frutto della *benedizione divina. A Dio che ha dato la *crescita (1 Cor 3, 6 s), è dovuto il *ringraziamento (Sal 67, 7; 85, 13), che si esprime con la festa liturgica della messe, la *Pentecoste, nel corso della quale sono offerte le *primizie del raccolto (Es 23, 16; 34, 22), specialmente il primo covone (Lev 23, 10). Il mietitore deve pure far partecipi gli altri della sua gioia, mostrandosi liberale. La legge prescrive «di non mettere la museruola al bove che macina il grano» (Deut 25, 4; 1 Cor 9, 9) e soprattutto di «non mietere il campo fino in cima e di non raccogliere la spigolatura» (Lev 19, 9; Deut 24, 19), per serbare la parte del povero e dello straniero. Questa liberalità permise a Booz di incontrare e di sposare Rut la straniera, considerata come favola di David e del messia (Rut 2, 15 ss; Mt 1, 5). Tuttavia questa gioia legittima e fraterna non deve legare alla terra lo sguardo del contadino. Questo indubbiamente voleva inculcare la legge sull’anno *sabbatico, che imponeva di lasciar riposare la terra ogni sette anni (Lev 25, 4 s), invitando il contadino a ritornare ad una vita pastorale ed a rimettersi maggiormente a Dio solo. È quel che Gesù precisa: bisogna abbandonarsi al Padre celeste, come «i corvi che non seminano né mietono» (Lc 12, 24 par.). Il contadino non porrà quindi la sua sicurezza e la sua speranza nei granai pieni di grano, non accumulerà tesori per se stesso, ma «in vista di Dio» che un giorno mieterà la sua anima (Lc 12, 16-21; cfr. Ger 17, 11).
    II. LE MESSE E LE SEMINE
    1. Il raccolto è frutto delle *semine. Tra l’uno e le altre c’è corrispondenza in diversi gradi. Si raccoglie ciò che si è seminato (Gal 6, 7); senza fatica non c’è messe (Prov 20, 4); «chi semina l’ingiustizia miete la sventura» (Prov 22, 8); far semine di giustizia significa mietere un raccolto di bontà (Os 10, 12 s). Tutto ciò significa che «Dio rende a ciascuno secondo il frutto delle sue *opere» (Ger 17; 10). Inutile protestare dicendo come il servo pigro: «Dio raccoglie dove non ha seminato» (Lc 19, 21), perché Dio, creando e redimendo gli uomini, ha seminato la sua parola in tutti i cuori (Giac 1, 21; Mc 4, 20).
    2. La messe, pur essendo in rapporto con le semine, si realizza spesso in un clima spirituale diverso. «Coloro che seminano nelle lacrime e mietono cantando» (Sal 126, 5). Differisce pure nella misura; indubbiamente «chi semina scarsamente mieterà scarsamente, e chi semina con larghezza mieterà con larghezza» (2 Cor 9, 6), ma, al modo di Dio sempre sovrabbondante nelle sue opere, il raccolto supera il seme e può giungere sino al centuplo, come per Isacco (Gen 26, 12) in favore della buona terra che accoglie la parola di Dio (Mt 13, 8. 23 par.). 3. Infine, quantunque l’ideale sia di mietere ciò che si è seminato (Is 37, 30), Dio ha distribuito i tempi delle semine e delle messi (Gen 8, 22; Ger 5, 24), per modo che l’uomo deve *pazientare mentre il seme matura (Mc 4, 2 6-29), ma con piena fiducia, nonostante il proverbio: «Uno semina, l’altro miete» (Gv 4, 37).
    III. LA MESSE, GIUDIZIO DI DIO
    Mietendo le opere degli uomini, Dio le *giudica secondo la sua *giustizia. Questo giudizio, che avrà luogo alla fine dei tempi, è anticipato dalla venuta di Cristo.
    1. Nel giorno di Jahvè.
    - La messe ha un duplice aspetto. La si raccoglie, ed è la *gioia; la si taglia, la si batte sull’erba, la si calpesta con la slitta, infine si brucia la paglia (Is 28, 27 s), ed è il *castigo. Dio, simile ad un mietitore, taglia, schiaccia, vaglia quando punisce Israele (Is 17, 5; Ger 13, 24) o Babilonia (Ger 51, 2. 33). E quando la malizia degli uomini è giunta al colmo, bisogna «dar di mano alla falce: la messe è matura» (Gioe 4, 13), quella del giudizio dei popoli. Ma nello stesso tempo, per un contrasto radicale riflesso dagli oracoli profetici, sopravviene l’annunzio della messe gioiosa, che succede da presso alla fatica (Gioe 4, 18; Am 9, 13; Os 6, 11; Sal 126, 5 s).
    2. Nei tempi messianici.
    - Questo annunzio diventa realtà con la venuta di Gesù.
    a) Il seminatore ed il mietitore. - Mentre, per il precursore, Cristo è il vagliatore che netta la sua aia, separa il grano dalla pula (Mc 1, 12 par.), i cristiani vedono in Gesù ad un tempo il seminatore per eccellenza, che sparge la parola nei cuori degli uomini (Mc 4, 3-9 par.), ed il mietitore che mette la falce nel campo dove la messe è matura (4, 29). Non c’è da attendere: «I campi sono bianchi per la messe...; il seminatore condivide così la gioia del mietitore» (Gv 4, 35 s).
    b) Gli operai della messe. - Se la messe è già matura, il padrone chiama al lavoro (Mt 9, 38 par.). I discepoli, mandati nel mondo, raccoglieranno il frutto del lavoro dei loro predecessori, soprattutto di Gesù che ha pagato col suo sangue la moltiplicazione del grano di frumento. In questo rimane vero il proverbio che distingue il seminatore ed i mietitori (Gv 4, 37). Tuttavia gli stessi mietitori saranno «passati al vaglio» della *prova e della *persecuzione (Lc 22, 31).
    c) Nell’attesa della messe finale. - Se è vero che la nuova *pentecoste inaugura la messe della Chiesa, essa tuttavia non terminerà che nel *giorno del Signore, quando il *figlio dell’uomo metterà la falce nel raccolto infine maturo (Apoc 14, 14 ss; Mc 4, 29). Fino a quel momento la zizzania rimane mescolata al buon grano; la Chiesa, cui spetta giudicare e condannare il male, non ha la missione di gettare il malvagio nel fuoco. Sarà il figlio dell’uomo a mandare, alla fine dei tempi, i suoi angeli ad eseguire il *giudizio che egli avrà pronunziato sulle opere degli uomini (Mt 13, 24-30. 36-43).
    R. GIRARD
    → feste VT I - frutto - gioia VT I - giudizio VT II 2 - Pentecoste I 1 - seminare - vendemmia.


    MESSIA (inizio)

    Messia, ricalcato sull’ebraico e sull’aramaico, e Cristo, trascritto dal greco, significano entrambi «unto». Questo appellativo all’epoca apostolica è divenuto il nome proprio di Gesù ed ha assunto il contenuto degli altri titoli da lui rivendicati. D’altronde esso sottolinea felicemente il legame profondo che collegava la sua persona alla speranza millenaria del popolo ebraico, accentrata sull’attesa del messia, figlio di David. Tuttavia gli usi della parola «unto» nel VT e poi nel giudaismo non implicavano ancora la ricchezza di senso che il NT ha dato alla parola Cristo.Bisogna risalire fino alle origini di questo vocabolario per vedere quale trasformazione il NT gli ha fatto subire proiettando su di esso la luce di una rivelazione insita nelle parole e nella storia di Gesù.
    VECCHIO TESTAMENTO
    Nel VT il termine unto è stato applicato innanzitutto al re; ma ha designato anche altre persone, specialmente i sacerdoti. Tuttavia il primo uso è quello che ha lasciato più tracce nell’escatologia e nella speranza ebraiche.
    I. DAL RE AL MESSIA REGALE
    1. L’unto di Jahvè nella storia.
    - In virtù dell’unzione con olio, che simboleggia la sua investitura da parte dello *spirito di Dio (1 Sam 9, 16; 10, l. 10; 16, 13), il *re è consacrato per una funzione che ne fa il luogotenente di Jahvè in Israele. Questa consacrazione è un rito importante dell’incoronazione regale (cfr. Giud 9, 8). Perciò è ricordata per Saul (1 Sam 9 - 10) per David (2 Sam 2, 4; 5, 3), per Salomone (1 Re 1, 39), e per quelli tra i suoi discendenti che salirono al potere in un contesto di crisi politica (2 Re 11, 12; 23, 30). Il re diventa così «l’unto di Jahvè» (2 Sam 19, 22; Lam 4, 20), cioè una persona sacra a cui ogni fedele deve manifestare un rispetto religioso (1 Sam 24, 7. 11; 26, 9. 11. 16. 23; 2 Sam 1, 14. 16). A partire dal momento in cui l’oracolo di Natan ha fissato la speranza di Israele sulla dinastia di *David (2 Sam 7, 12-16), ogni re discendente da lui diventa a sua volta il «messia» attuale, per mezzo del quale Dio vuole compiere i suoi disegni nei confronti del suo popolo.
    2. L’unto di Jahvè nella preghiera.
    - I salmi preesilici mettono in evidenza il posto di questo messia regale nella vita di fede di Israele. L’unzione che egli ha ricevuto è il segno di una preferenza divina (Sal 45, 8) e fa di lui il *figlio adottivo di Jahvè (Sal 2, 7; cfr. 2 Sam 7, 14). Egli quindi è sicuro della protezione di Dio (Sal 18, 51; 20, 7; 28, 8). La rivolta contro di lui è una follia (Sal 2, 2), perché Dio non mancherà di intervenire per salvarlo (Ab 3, 13) e per «esaltare il suo corno» (1 Sam 2, 10). Si prega tuttavia per lui (Sal 84, 10; 132, 10). Ma, in base alle promesse fatte a David, si spera che Dio non mancherà mai di perpetuarne la dinastia (Sal 132, 17). Grande perciò è la confusione degli spiriti dopo la caduta di Gerusalemme, quando l’unto di Jahvè è prigioniero dei pagani (Lam 4, 20): perché Dio ha rigettato in tal modo il suo messia, sì che tutti i pagani lo oltraggiano (Sal 89, 39. 52)? L’umiliazione della dinastia davidica è una prova per la fede, e questa prova sussiste anche dopo la restaurazione postesilica. Di fatto, la speranza di ristabilimento dinastico suscitata per un momento da Zorobabele è presto delusa: Zorobabele non sarà mai incoronato (nonostante Zac 6, 9-14) e non ci sarà più messia regale a capo del popolo giudaico.
    3. L’unto di Jahvè nell’escatologia.
    - I profeti, spesso severi con l’unto regnante che giudicavano infedele, hanno orientato la speranza di Israele verso il *re futuro, al quale d’altronde non danno mai il titolo di messia, Il messianismo regale si è sviluppato dopo l’esilio partendo appunto dalle loro promesse. I salmi regali, che un tempo parlavano dell’unto presente, sono ora cantati in una nuova prospettiva che li mette in relazione con l’unto futuro, messia nel senso stretto della parola. Ne descrivono in anticipo la gloria, le lotte (cfr. Sal 2), le vittorie, ecc... La speranza giudaica radicata in questi testi sacri è estremamente viva all’epoca del NT, specialmente nella setta farisaica. L’autore dei Salmi di Salomone (63 a. C.) fa voti per la venuta del messia figlio di David (Sal Salom. 17; 18). Lo stesso tema è frequente nella letteratura rabbinica. In tutti questi testi il messia è posto sullo stesso piano degli antichi re di Israele. Il suo regno è inquadrato nelle istituzioni teocratiche, ma lo si intende in un modo molto realistico che accentua l’aspetto politico della sua funzione.
    II. GLI ALTRI USI DELLA PAROLA «UNTO»
    1. Gli «unti di Jahvè» in senso largo.
    - L’unzione divina consacrava i re in vista di una *missione relativa al disegno di Dio sul suo popolo. In un senso largo, metaforico, il VT parla talvolta di unzione divina anche quando c’è soltanto una missione da compiere, soprattutto se questa missione implica il dono dello spirito divino. Ciro, inviato da Dio per liberare Israele dalla mano di Babilonia, è qualificato come unto di Jahvè (Is 45, 1), quasi che la sua consacrazione regale lo avesse preparato alla sua missione provvidenziale. I *profeti non erano consacrati alla loro funzione con un’unzione mediante olio; tuttavia Elia riceve l’ordine «di ungere Eliseo come profeta al suo posto» (1 Re 19, 16): l’espressione si può spiegare col fatto che egli gli trasmetterà «due terzi del suo *spirito» (2 Re 2, 9). Effettivamente questa unzione dello spirito ricevuta dal profeta è espressa in Is 61, 1: essa lo ha consacrato per annunziare la buona novella ai poveri. Ed anche i membri del popolo di Dio, come «profeti di Jahvè», sono chiamati una volta i suoi unti (Sal 105, 15; cfr. forse Sal 28, 8; Ab 3, 13). Ma tutti questi usi della parola restano occasionali.
    2. I sacerdoti-unti.
    - Nessun testo anteriore all’esilio parla di unzione per i sacerdoti. Ma dopo l’esilio il *sacerdozio vede aumentare il suo prestigio: ora che non c’è più re, il sommo sacerdote diventa il capo della comunità. Ed allora, per consacrarlo alla sua funzione, gli si conferisce l’unzione. I testi sacerdotali posteriori, per sottolineare l’importanza del rito, lo fanno risalire fino ad *Aronne (Es 29, 7; 30, 22-23; cfr. Sal 133, 2). D’altronde, in seguito, l’unzione è estesa a tutti i sacerdoti (Es 28, 41; 30, 30; 40, 15). A partire da quest’epoca il sommo sacerdote diventa il sacerdote-unto (Lev 4, 3. 5. 16; 2 Mac 1, 10), quindi un «messia» attuale com’era una volta il re (cfr. Dan 9, 25). Prolungando taluni testi profetici che associavano strettamente regalità e sacerdozio nell’escatologia (Ger 33, 14-18; Ez 45, 1-8; Zac 4, 1-14; 6, 13), alcuni ambienti attendono persino, negli ultimi tempi, la venuta di due messia: un messia-sacerdote, che avrà la preminenza, ed un messia-re incaricato dei negozi temporali (Testamenti dei dodici patriarchi, Testi di Qumrân). Ma questa forma particolare della speranza messianica sembra ristretta ai circoli essenici caratterizzati da un’influenza sacerdotale preponderante.
    3. Escatologia e messianismo.
    - L’escatologia giudaica dà quindi un posto importante alla attesa del messia: messia regale dovunque, messia sacerdotale in certi ambienti. Ma le promesse scritturali non si riducono a questo messianismo nel senso stretto della parola, legato sovente a sogni di restaurazione temporale. Esse annunziano parimenti la instaurazione del *regno di Dio. Presentano anche l’artefice della *salvezza sotto i tratti del *servo di Jahvè e del *figlio dell’uomo. La coordinazione di tutti questi dati con l’attesa del messia (o dei messia) non si realizza in modo chiaro e facile. Soltanto la venuta di Gesù dissiperà su questo punto la ambiguità delle profezie.
    NUOVO TESTAMENTO
    I. GESÙ E L’ATTESA DEL MESSIA
    1. Il titolo dato a Gesù.
    - Colpiti dalla santità dall’autorità e dalla potenza di Gesù (cfr. Gv 7, 31), i suoi uditori si domandano: «Non sarà lui il messia?» (Gv 4, 29; 7, 40 ss), oppure, ed è la stessa cosa: «Che non sia costui il figlio di David?» (Mt 12, 23). E lo sollecitano a dichiararsi apertamente (Gv 10, 24). Dinanzi a questa questione gli uomini si dividono (cfr. 7, 43). Da una parte le autorità giudaiche decidono di scomunicare chiunque lo riconoscerà per il messia (9, 22). Ma coloro che ricorrono al suo potere miracoloso lo invocano apertamente come figlio di David (Mt 9, 27; 15, 22; 20, 30 s) e la sua messianità costituisce l’oggetto di atti di fede espliciti: da parte dei primi discepoli, fin dal giorno successivo al battesimo (Gv l, 41. 45. 49), da parte di Marta, nel momento in cui egli si rivela come la risurrezione e la vita (11, 27). I sinottici danno una particolare solennità all’atto di fede di Pietro: «Chi dite voi che io sia?» - «Tu sei il messia» (Mc 8, 29). Questa *fede è autentica, ma rimane imperfetta, perché il titolo di messia rischia ancora di essere inteso in una prospettiva di regalità (cfr. *re) temporale (cfr. Gv 6, 15).
    2. Atteggiamento di Gesù.
    - Gesù quindi adotta un atteggiamento riservato a questo riguardo. Eccetto che in Gv 4, 25 s (dove il termine traduce senza dubbio in linguaggio cristiano un’espressione della fede samaritana), egli non si dà mai il titolo di messia. Si lascia chiamare figlio di David, ma proibisce agli indemoniati di dichiarare che egli è il messia (Lc 4, 41). Accetta le confessioni di fede, ma dopo quella di Pietro raccomanda ai Dodici di non dire che concezione messianica dei suoi discepoli. La sua carriera di messia incomincerà come quella del *servo sofferente; *figlio dell’uomo, egli entrerà nella sua gloria attraverso il sacrificio della sua vita (Mc 8, 31 par.; 9, 31 par.; 10, 33 s par.). I suoi discepoli sono sconcertati, come lo saranno i Giudei quando egli parlerà loro della «elevazione del figlio dell’uomo» (Gv 12, 34). Tuttavia, nel giorno delle palme, Gesù si lascia intenzionalmente acclamare come il figlio di David (Mt 21, 9). Poi, nelle controversie con i farisei, sottolinea la superiorità del figlio di David sul suo antenato, di cui è il Signore (Mt 22, 41-46 par.). Infine nel suo processo religioso, il sommo sacerdote gli intima di dire se è il messia. Gesù, senza respingere questo titolo, lo interpreta subito in una prospettiva trascendente: egli è il figlio dell’uomo destinato a sedere alla destra di Dio (Mt 26, 63 s). Ora questa confessione è fatta nel momento in cui incomincia la passione, e d’altronde proprio essa causerà la sua condanna (26, 65 s). Perciò il suo titolo di messia sarà particolarmente schernito (26, 68; Mc 15, 32; Lc 23, 35. 39), assieme al suo titolo di *re. Soltanto dopo la sua risurrezione i discepoli potranno comprendere ciò che esso implica esattamente: «Non bisognava forse che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24, 26). Evidentemente non si tratta più di gloria temporale, ma di ben altra cosa: secondo le Scritture «il Cristo doveva morire e risorgere perché in suo nome sia proclamata la conversione a tutte le nazioni in vista della remissione dei peccati» (24, 46).
    II. LA FEDE DELLA CHIESA IN GESÙ CRISTO
    1. Gesù risorto è il Cristo.
    - Alla luce di Pasqua, la Chiesa nascente attribuisce quindi a *Gesù questo titolo di messia-Cristo, liberato ora da ogni equivoco. Le sue ragioni sono apologetiche e teologiche. Bisogna far vedere ai Giudei che il Cristo, oggetto della loro speranza, è venuto nella persona di Gesù. Questa dimostrazione poggia su una teologia sicurissima che sottolinea la continuità delle due *alleanze e vede nella seconda il *compimento della prima. Gesù appare così come il vero figlio di David (cfr. Mt 1,1; Lc 1, 27; 2,4; Rom 1, 3; Atti 2, 29 s; 13, 23), destinato fin dal concepimento a ricevere il trono di David suo padre (Lc 1, 32), per portare a termine la monarchia israelitica stabilendo sulla terra il *regno di Dio. È stata la risurrezione ad intronizzarlo nella sua gloria regale: ora che ha «ricevuto lo Spirito Santo, che è la promessa» (Atti 2, 33), «Dio lo ha fatto Signore e Cristo» (2, 36). Ma questa gloria appartiene all’ordine della nuova *creazione; la gloria temporale degli antichi unti di Jahvè non ne era che una *figura lontana.
    2. I titoli di Gesù Cristo.
    - Dal quel momento il termine Cristo, unito indissolubilmente al nome personale di *Gesù, conosce un prodigioso allargamento, perché tutti gli altri titoli che definiscono Gesù si concentrano attorno ad esso. Colui che Dio ha unto, è il suo santo *servo Gesù (Atti 4, 27), 1’*agnello immacolato descritto da Is 53 (1 Piet 1, 19; cfr. 1 Cor 5, 7). Per questo era scritto che egli doveva soffrire (Atti 3, 18; 17, 3; 26, 22 s) ed il Sal 2 descriveva in anticipo il complotto delle nazioni «contro Jahvè e contro il suo messia» (Atti 4, 25 ss; cfr. Sal 2, 1 s). Perciò il vangelo di Paolo è un annunzio del Cristo crocifisso (1 Cor 1, 23; 2, 2), morto per gli empi (Rom 5, 6 ss), e la prima lettera di Pietro si dilunga sulla passione del messia (1 Piet 1, 11; 2, 21; 3, 18; 4, 1. 13; 5, 1). Nel libro di Isaia la missione del servo era descritta come quella di un *profeta perseguitato. Di fatto, la sola *unzione che Gesù abbia mai rivendicato, è la unzione profetica dello Spirito (Lc 4, 16-22; cfr. Is 61, 1), e Pietro, negli Atti, non manca di ricordare come «Dio ha unto Gesù con lo Spirito Santo e la potenza» (Atti 10, 38). Alla vigilia della sua morte Gesù proclamava la sua dignità di *figlio dell’uomo (Mt 26, 63 s). La predicazione apostolica annunzia effettivamente il suo ritorno nell’ultimo giorno in qualità di figlio dell’uomo per instaurare il nuovo mondo (Atti 1, 11; cfr. 3, 20 s; Mt 25, 31. 34), ed a questo titolo egli siede già alla destra di Dio (Atti 7, 55 s; Apoc 1, 5. 12-16; 14, 14). Senza punto attribuirgli il messianismo sacerdotale che il tardo giudaismo sognava, l’Apocalisse lo presenta con le vesti sacerdotali (Apoc 1, 13) e la lettera agli Ebrei ne celebra il *sacerdozio regale, sostituito definitivamente al sacerdozio figurativo di Aronne (Ebr 5, 5...; 7). Non si esita a dargli il titolo più alto, quello di *Signore (cfr. Atti 2, 36): egli è «il Cristo Signore» (Lc 2, 11; 2 Cor 4, 5 s), «il nostro Signore Gesù Cristo» (Atti 15, 26). Di fatto la sua risurrezione ha manifestato con splendore che egli possiede una gloria più che umana: Cristo è il *Figlio di Dio nel senso stretto della parola (Rom 1, 4), è Dio stesso (Rom 9, 5; 1 Gv 5, 20). Cristo non è più per lui un titolo tra altri, ma è diventato come il suo nome proprio (usato senza articolo: 1 Cor 15, 12-23), che ricapitola tutti gli altri. E coloro che egli ha salvato portano giustamente il nome di «cristiani» (Atti 11, 26).
    P. É. BONNARD e P. GRELOT
    → Aronne 1 - consolazione 1 - David 0.3 - disegno di Dio - figlio dell’uomo VT II - figlio di Dio VT II; NT I 1 - Gesù Cristo - Giovanni Battista - Melchisedech 2 - olio 2 - ora 2 - Pasqua I 6 c - pastore e gregge VT 2 - poveri NT I - promesse II 4, III 1 - re - redenzione VT 2 - regno VT III; NT II 1, III 1 - resto VT 1 - sacerdozio VT III 2 - segno NT I 0.1 II 3 - servo di Dio III 1 - Signore NT 1 - spirito di Dio VT I 3; NT I 1.2 - trasfigurazione 1.2 - vino II 2 b - vittoria VT 3 a.

    MIELE (inizio)

    → latte 2 - mitezza 1 - terra VT II 1.

    MINISTERO (inizio)

    Le parole «ministro» e «ministero», ricalcate sul latino della Volgata, corrispondono al greco diàkonos e diakonìa. Queste due parole non appartengono al linguaggio religioso dei LXX, che le usano raramente, in un senso profano (Est 1, 10; 6, 1-5). Nella Volgata, minister traduce l’ebraico mešaret (cfr. Es 24,13: Giosuè, servo di Mosè), che può designare i sacerdoti, ministri del culto (Is 61, 6; Ez 44, 11; Gioe 1, 9). Tuttavia, già nel VT, la realtà di un ministero religioso svolto nel popolo di Dio dai titolari di talune funzioni sacre è un fatto ben attestato: i *re, i *profeti, i depositari del *sacerdozio sono *servi di Dio, che esercitano una *mediazione tra lui ed il suo popolo. Così S. Paolo dirà che Mosè era ministro della prima alleanza (2 Cor 3, 7. 9). Nel NT, Cristo è l’unico mediatore tra Dio e gli uomini, l’unico sacerdote che offre il sacrificio della salvezza, l’unico latore della *rivelazione perché è la *parola di Dio fatta carne. Ma nella Chiesa da lui fondata viene esercitato un ministero di nuovo genere, che è al servizio della sua parola e della sua grazia.
    I. IL MINISTERO DELLA CHIESA
    1. Il ministero dell’apostolato.
    - Gesù ha insegnato ai suoi *apostoli a considerare la loro funzione come un servizio: i capi delle nazioni vogliono essere considerati come benefattori e padroni; ma essi, sul suo esempio, dovranno farsi i servi (diàkonos) di tutti (Mc 10, 42 ss par.). Sono i suoi servi, ed a questo titolo promette loro che entreranno con lui nella gloria del Padre (Gv 12, 26). Fin dall’inizio degli Atti, l’apostolato è quindi considerato come un ministero (diakonìa: Atti 1, 17. 25), che Mattia è chiamato a svolgere con gli altri undici. La vocazione di Paolo all’apostolato (Rom 1, 1) è pure una chiamata ad un ministero (1 Tim 1, 12; cfr. 2 Cor 4, 1), che in seguito Paolo si sforza di svolgere degnamente (Atti 20, 24) e grazie al quale Dio porta la salvezza ai pagani (21, 19). Cosciente di essere in tal modo ministro di Dio (2 Cor 6, 3 s) e ministro di Cristo (11, 23), egli sente vivamente la grandezza di questa funzione, più grande di quella dello stesso Mosè, perché è un servizio della nuova alleanza, della giustizia, dello Spirito (3, 6-9), della riconciliazione (5, 18), del vangelo (Col 1, 23; Ef 3, 7), della Chiesa (Col 1, 25).
    2. Diversità di ministeri.
    - Tuttavia nella Chiesa nascente il ministero va ben oltre l’esercizio dell’apostolato propriamente detto. Il termine diakonìa è applicato innanzitutto a servizi materiali necessari alla comunità, come il servizio delle mense (Atti 6, 1. 4; cfr. Lc 10, 40) e la colletta per i poveri di Gerusalemme (Atti 11, 29; 12, 25; Rom 15, 31; 1 Cor 16, 15; 2 Cor 8, 4; 9, 1. 12 s). Inoltre un ministero è affidato al Archippo (Col 4, 17) e Timoteo (2 Tim 4, 5; il titolo di ministro (diàkonos) è dato ad Apollo come a Paolo (1 Cor 3, 5), a Timoteo (1 Tess 3, 2; 1 Tim 4, 6), a Tichico (Col 4, 7; Ef 6, 21), ad Epafra (Col 1, 7), e persino ai falsi apostoli giudaizzanti (2 Cor 11, 23). Ciò dimostra che nella Chiesa c’è «diversità di ministeri» (1 Cor 12, 5), perché «lo Spirito diversifica i suoi *carismi in vista dell’opera del ministero» (Ef 4, 12). Ogni «servizio» di questo genere dev’essere effettuato sotto l’influsso dello Spirito (Rom 12, 7), come un mandato ricevuto da Dio (1 Piet 4, 11). Resta da vedere in che consistano questi «servizi». Le liste di *carismi presentate nelle lettere mettono sempre in testa le funzioni relative alla parola di Dio (apostolo, profeta, dottore, evangelista). Ma ciò non esclude la esistenza di uffici propriamente pastorali, che la lettera agli Efesini menziona espressamente (Ef 4, 11).
    II. IL MINISTERO GERARCHICO
    1. Il NT ci fa assistere, sin dal tempo degli apostoli, alla nascita di una gerarchia di governo che prolunga la loro azione. Tutte le comunità giudaiche avevano a capo degli anziani (presbýteroi). Così pure i missionari Paolo e Barnaba stabiliscono dovunque, nelle Chiese, dei presbiteri che le dirigeranno (Atti 14, 23). In occasione dell’assemblea apostolica di Gerusalemme, vediamo che ai Dodici si aggiungono i presbiteri della comunità locale, che hanno alla loro testa Giacomo (15, 2. 4. 6. 22 s; 16, 4); e li si ritroverà al ritorno di Paolo (21, 18). Così pure, nel corso del suo ultimo viaggio, Paolo riceve a Mileto i presbiteri di Efeso (20, 17). Si vede così che, già a quest’epoca, gli apostoli, direttamente o per mezzo dei loro inviati, istituiscono in ogni città un collegio di presbiteri (Tito 1, 5), il cui reclutamento è soggetto a regole precise e che sono costituiti nella loro funzione mediante l’*imposizione delle mani (1 Tim 5, 17-22). Quest’ultimo tratto mostra che il presbiterato richiede un carisma particolare dello Spirito Santo: non e quindi una semplice funzione amministrativa. Effettivamente, nella lettera di Giacomo, vediamo che i presbiteri pregano per gli ammalati e conferiscono loro l’*unzione con olio (Giac 5, 14). Altrove è detto che essi devono tenere la presidenza nell’assemblea cristiana (1 Tim 5, 17). Le allusioni di Paolo ai presidenti (proistàmenos) si riferiscono quindi probabilmente ai presbiteri (1 Tess 5, 12 s; cfr. Rom 12, 8), e così pure la menzione dei capi (bigoùmenos) nella lettera agli Ebrei (Ebr 13, 7. 17. 24).
    2. Ma la lettera ai Filippesi menziona pure affiancati episcopi e diaconi (Fil 1, 1): c’è qui un embrione di gerarchia. Gli Atti vedono probabilmente nei Sette che i Dodici hanno costituito per servire alle mense (Atti 6, 1-6) i prototipi dei futuri diaconi; d’altronde essi entrano in funzione, al pari dei presbiteri, mediante l’*imposizione delle mani (Atti 6, 6). Tuttavia il loro ministero va oltre il servizio materiale, perché predicano, e Filippo è esplicitamente qualificato come evangelista (Atti 21, 8). Le lettere pastorali stabiliscono regole per la scelta di questi diaconi (1 Tim 3, 8-13). Si tratta allora di un ministero inferiore, di cui non è facile precisare le funzioni. Quelle di Febe, diaconessa della Chiesa di Cencree (Rom 16, 1), non sono necessariamente dello stesso ordine, perché le consegne di Paolo sulla funzione delle *donne nelle assemblee cultuali (1 Cor 11, 1-16; 14, 33 s) sono le più rigide. Quanto al gruppo delle *vedove, che costituisce oggetto di una severa selezione, non si sa esattamente quali fossero i compiti ad esso affidati (1 Tim 5, 9-15).
    3. Essenzialmente gli episcopi, come indica il loro nome, sono dei «sorveglianti» preposti alle comunità per vegliare su di esse. Un simile compito non era ignoto al giudaismo: nella comunità di Qumrân, il mebaqqer («ispettore») aveva una funzione molto simile. Primitivamente sono i presbiteri a «sorvegliare» in tal modo collegialmente ciascuna Chiesa, perché hanno la missione di pascere il gregge di Dio (Atti 20, 28; 1 Piet 5, 2 s), ad immagine di Cristo, modello dei *pastori (1 Piet 5, 4), pastore e sorvegliante delle anime (1 Piet 2, 25). Ma nelle lettere pastorali si constata che in ciascuna comunità c’è un solo episcopo, che dev’essere scelta con cura (1 Tim 3, 1-7), a quanto pare, tra i presbiteri (Tito 1, 5-9). Egli senza dubbio svolge questa funzione di pastore (cfr. Atti 20, 28 s), che Paolo annovera tra i carismi (Ef 4, 11) e che ricorda una delle responsabilità apostoliche (Gv 21, 15 ss; cfr. Mt 18, 12 ss). Gli inviati di Paolo, Tito e Timoteo,hanno *autorità sui presbiteri, sui diaconi e sugli episcopi delle Chiese che sono loro affidate; hanno responsabilità in materia di liturgia (1 Tim 2, 1-15) e di insegnamento dottrinale (1 Tim 4, 6. 13-16; 6, 3). Ma su quest’ultimo punto ogni episcopo esercita pure una sorveglianza nella sua giurisdizione (Tito 1, 9). Questa delegazione delle funzioni di governo, devolute primitivamente agli apostoli, fa vedere che l’organizzazione della Chiesa è in corso di evoluzione. Scomparsi gli apostoli, essa si stabilizzerà in una gerarchia a tre gradi: un episcopo, pastore e presidente della comunità, circondato da un presbiterato, assistito a sua volta da diaconi. Il carisma necessario all’esercizio delle loro funzioni sarà loro conferito, come precedentemente, dal rito dell’imposizione delle mani (cfr. 2 Tim 1, 6).
    4. Il titolo di sacerdoti non è mai dato a questi ministri della nuova alleanza, come d’altronde non è dato agli apostoli. Ma il loro ministero li pone al servizio del *sacerdozio di Gesù Cristo, solo sommo sacerdote degli uomini. A questo titolo, dopo gli apostoli, essi sono gli amministratori di Dio (Tito 1, 7), dei suoi misteri (1 Cor 4, 2), della sua grazia (1 Piet 4, 10). Questa è la prospettiva nella quale si svilupperà l’idea del sacerdozio cristiano, articolato in tre gradi gerarchici (vescovo, sacerdoti, diaconi): identico per le sue funzioni al ministero descritto nel NT, esercitato in virtù degli stessi poteri carismatici, esso deriverà in ultima analisi dal ministero apostolico in ciò che questo aveva di trasmissibile.
    P. GRELOT
    → apostoli II 1 - autorità VT II; NT II - carismi II 1.2 - Chiesa - esortare - imposizione delle mani NT 2 - parola di Dio VT III 1; NT II 1 - pastore e gregge NT 2 - predicare II 2 b - sacerdozio VT I 4; NT III - servire III 2.

    MIRACOLO (inizio)

    Non è raro che dei cristiani considerino come superata la nozione stessa di miracolo e che viceversa, altri si mostrino ghiotti di falsi prodigi. Questi eccessi opposti hanno una fonte comune, alimentata da una certa apologetica per lungo tempo in vigore: nei miracoli non si vedeva che una sfida alle leggi naturali, dimenticando la loro funzione di *segni «adatti all’intelligenza di tutti». La Bibbia riconosce dovunque la mano di Dio che manifesta ai suoi la sua potenza ed il suo amore. L’universo creato, con il suo ordine fisso (Ger 31, 36 s), è «prodigio» (Sal 89, 6) e «segno» (Sal 65, 9), al pari degli interventi inconsueti di Dio nella storia; e questi, a loro volta, sono *creazione rinnovata (Num 16, 30; Is 65, 18), anche se lo storico odierno li ritiene ordinari e suscettibili di spiegazione. Ignorando le distinzioni moderne fra azioni «provvidenziali», cause naturali eccezionalmente convergenti, azione divina che si sostituisce al gioco degli agenti naturali o «cause seconde», la Bibbia concentra lo sguardo del fedele sull’elemento essenziale, comune a tutte le nostre categorie: il significato religioso dei fatti. Così, con gli occhi della fede, S. Agostino riconosce, sia nella raccolta di una messe che nella moltiplicazione dei pani, il segno dell’amore e del potere divini; se li distingue, è soltanto a motivo dell’abitudine o dello stupore dei loro rispettivi beneficiari. In questa prospettiva il particolare non ha l’importanza che noi siamo portati a conferirgli: Così il fico sterile è seccato «all’istante» (Mt 21, 19) od in seguito (Mc 11, 20)? Non ha importanza: conta soltanto la lezione che l’atto simbolico nasconde.
    I. IL MIRACOLO NEL VT
    1. I fatti.

    - Scartato il meraviglioso fittizio di taluni libri o sezioni di libri, dipendente dal genere didattico (Giona, Tob, cornice drammatica di Giob, haggadà di Dan 1-6, abbellimenti edificanti di 2 Mac ecc.), nonché i due prodigi segnalati nella storia di Isaia (Is 37, 36 s; 38, 7 s), i miracoli appaiono numerosi soltanto in due momenti fondamentali della storia sacra: con Mosè ed il suo successore Giosuè, al momento della fondazione e della installazione del popolo di Dio; con Elia ed il suo discepolo Eliseo, restauratori dell’alleanza mosaica. La storicità sostanziale dei cicli di Elia e di Eliseo ammette amplificazioni popolari (ad es. 2 Re 1, 9-16)che, da un ciclo all’altro, acquistano in estensione e perdono sovente in qualità religiosa (ad es. 2 Re 2, 23 s; 6, 1-7). Questa stessa storicità sussiste ancora attraverso l’amplificazione, certamente più estesa, che nel corso delle età hanno subito le tradizioni delle dieci piaghe d’Egitto od i miracoli del deserto e della conquista di Canaan. Coloro che le misero per iscritto, servendosi dei generi letterari ai quali i lettori del loro tempo erano abituati, così facendo hanno compilato tradizioni, sfruttato liberamente i racconti; ma non hanno mai perso di vista il loro scopo religioso: far vedere la presenza protettrice del Dio onnipotente (Gios 24, 17) all’alba della storia del popolo eletto. Perciò, attraverso il modo epico che le caratterizza, queste tradizioni rimangono fondamentali: riferiscono la nascita di Israele, prodigio per eccellenza, solo degno, con la creazione (Is 65, 17), di essere paragonato alla novità escatologica (Is 43, 16- 21).
    2. Il miracolo, segno divino efficace.
    a) Nei miracoli il VT fa vedere delle rivelazioni di Dio e dei segni efficaci della sua salvezza. I termini che li designano indicano questa funzione: sono «*segni» (ebr. ôtot, gr. semèia, ad es. Es 10, 1), «segni e prodigi simbolici» (ebr. môftim, gr. térata, ad es. Deut 7, 19). Ora, l’uso di questi termini trascende quello di miracolo, manifestando bene la dimensione di segno o di simbolo che ogni prodigio religioso implica. Così la persona del profeta può essere un segno, perché la sua esistenza simboleggia la *parola di Dio che agisce attraverso i suoi rappresentanti (Is 8, 18; 20, 3; Ez 12, 6. 11; 24, 24. 27). I segni miracolosi apportano il loro appoggio a questa parola, perché rivelano in atti concreti la salvezza proclamata dagli araldi di Dio, e perché li accreditano come autentici messaggeri del Signore (Es 4, 1-5; 1 Re 18, 36 ss; Is 38, 7 s; Ger 44, 29 s). Questa subordinazione del miracolo alla parola distingue i veri miracoli dai raggiri compiuti dai *maghi e dai falsi profeti (Es 7, 12 ...). Il valore del messaggio, manifestato specialmente dalla *preghiera del taumaturgo (1 Re 18, 27 s. 36 s), è il segno primario, che decide della realtà del miracolo (Deut 13, 2-6); questo non appoggia la parola se non dopo essere stato giudicato per mezzo di essa.
    b) Tra tutti i segni, i miracoli si distinguono per la loro efficacia ed il loro carattere straordinario. Da una parte essi realizzano abitualmente ciò che significano: tale è il caso del primo *esodo, cumulo di prodigi mediante i quali Dio libera il suo popolo, o del nuovo esodo, che manifesta l’efficacia della sua parola (Is 55, 11; cfr. v. 13). Dall’altra parte queste *opere (Sal 77, 13; 145, 4) nonostante i fatti naturali che possono implicare (pioggia, siccità...), superano per lo più ciò che l’uomo è uso a vedere nell’universo e ciò che egli stesso può compiere. Perciò il miracolo è un segno particolarmente rivelatore della *potenza di Dio; lo si chiama una prodezza (Es 15, 11), una grande azione (gebûrah, Sal 106, 2), una grande cosa (Sal 106, 21), una cosa terribile (Es 34, 10), e soprattutto un prodigio (pele’, Es 15, 11; nifla’, Sal 106, 7). Quest’ultimo vocabolo designa realizzazioni «impossibili» all’uomo - come traducono talvolta i LXX -, accessibili a Dio solo (Sal 86, 10), che per loro mezzo manifesta la sua *gloria (Es 15, 1. 7; 16, 7; Num 14, 22; Lev 10, 3), riflesso della sua *santità (Es 15, 11; Sal 77, 14; Lev 10, 3), cioè della sua trascendenza.
    c) Ma la potenza divina non schiaccia che i peccatori (Deut 7, 17-20; Mi 7, 15 ss); per il popolo delle promesse (Deut 4, 37), i suoi prodigi sono benefici, anche quando provano ed umiliano (8, 16), perché «Jahvè è amore in tutte le sue opere» (Sal 145, 9). In definitiva quindi i miracoli sono i segni efficaci ed i doni gratuiti (Deut 6, 10 ss; Gios 24, 11 ss) dell’*amore di Jahvè (Sal 106, 7; 107, 8). Soltanto Gesù rivelerà pienamente l’universalità di questo amore salvifico. Lo farà sia sottolineando la portata profetica dei miracoli che egli stesso accorda ai pagani (Mt 8, 11 ss), sia spiegando la portata dei miracoli compiuti anticamente da Elia ed Eliseo per una donna di Sidone e per un siro (Lc 4, 25 ss).
    3. Il miracolo nel suo rapporto con la fede.
    - Oltre lo stupore che essi suscitano, i miracoli mirano a provocare ed a confermare la *fede ed i sentimenti concomitanti: *fiducia, *ringraziamento e *memoria (ad es. Sal 105, 5), *umiltà, *obbedienza, *timor di Dio, *speranza. Accecano coloro che, come il faraone (Es 7, 13 ...), non attendono nulla da un Dio ignoto. Ma colui che già conosce Dio e fa affidamento soltanto su di lui, vi scopre l’opera potente dell’amore divino ed un suggello sulla missione dell’inviato di Dio; allora, con uno stesso movimento, egli crede alla sua parola, crede in Dio stesso (Num 14, 11). Di questa fede Israele ammira la grandezza in *Abramo, che con essa ottenne la nascita umanamente impossibile di un erede (Gen 15, 6; Rom 4, 18-22). Questa fede è alla base delle retrospettive del Deut, dei profeti (ad es. Is 63, 7-14), dei salmisti (ad es. Sal 77; 105-107), dei sapienti (ad es. Sap 10 - 19), mostrando nei miracoli del tempo del fidanzamento il pegno di nuovi benefici e facendo valere la loro portata *educativa (ad es. Deut 8, 3; Sap 16, 21). Appunto la fede Jahvè alimenta istituendo *feste come «memoriale delle sue meraviglie» (Sal 111, 4). Proprio essa anima Isaia, quando soltanto un miracolo può salvare Giuda (Is 37, 34 s), e *Maria, quando le è annunziata la concezione miracolosa (Lc 1, 45). Proprio essa, invece, è mancata all’Israele del *deserto (Sal 78, 32), quando, reagendo carnalmente alla *prova che Dio gli imponeva (Deut 8, 2; ecc.), «provò» a sua volta Jahvè (Es 17, 2; Sal 95, 9), esigendo miracoli con arroganza; proprio essa mancò ad Acaz, più sicuro delle sue alleanze che del Dio dei miracoli (Is 7, 12), ed a Zaccaria lo scettico (Lc 1, 18 ss). In tutti questi atteggiamenti è dimenticata la padronanza di Dio sull’uomo, la sua potenza ed il suo amore gratuito sono disconosciuti, la sua parola è messa in dubbio: il miracolo non e stato veramente accolto come dono né scorto come segno.
    II. NELLA VITA DI GESÙ
    1. I fatti.
    - «Rinnova i prodigi e compi altri miracoli!», implorava Ben Sira (Eccli 36, 5), esprimendo l’aspirazione di tutto Israele dopo l’esilio, deluso da un ritorno meno brillante del nuovo esodo annunziato. Gesù viene a soddisfare quest’attesa, pur scoraggiando il gusto del sensazionale e della rivincita che essa implicava. Al contrario dei racconti dell’esodo, quelli evangelici risalgono ai primi testimoni e sono molto sobri. Per ciò stesso, come per la loro natura, per la mancanza di sforzo da parte di Gesù (mancanza compatibile con l’uso pedagogico di formule, toccamenti, unzioni, procedimenti per tappe [Mc 8, 23 ss], che costituiscono l’azione simbolica), per una intenzionalità religiosa ed un atteggiamento di *preghiera (esplicita [Gv 11, 41 s] o suggerita [Mc 6, 41; 7, 34; 9, 9; 11, 24]) che esclude ogni *magia, per la difficoltà di spiegare senza di essi la fede della Chiesa, per il loro inserimento nella trama del vangelo, i miracoli che questo riferisce si distinguono radicalmente dai prodigi inventati dai vangeli apocrifi, nonché da quelli che la leggenda attribuisce a rabbini, a dèi (ad es. Esculapio) od a sapienti pagani (ad es. Apollonio di Tiana), contemporanei delle origini cristiane. Ogni confronto oggettivo fa risaltare il valore storico e religioso dei nostri testi. Gesù ha «fatto segno» al suo popolo mediante fatti reali e realmente straordinari.
    2. Segni efficaci della salvezza.
    a) Con i suoi miracoli Gesù manifesta che il *regno messianico annunziato dai profeti è giunto nella sua persona (Mt 11, 4 s); attira l’attenzione su di sé e sulla buona novella del regno che egli incarna; suscita un’ammirazione ed un timore religioso che inducono gli uomini a chiedersi chi egli sia (Mt 8, 27; 9, 8; Lc 5, 8 ss). Con essi Gesù attesta sempre la sua *missione e la sua dignità, si tratti del suo potere di rimettere i peccati (Mc 2, 5-12 par.), o della sua autorità sul sabato (Mc 3, 4 s par.; Lc 13, 15 s; 14, 3 ss), della sua messianità regale (Mt 14, 33; Gv 1, 49), del suo invio da parte del Padre (Gv 10, 36), della potenza della fede in lui (Mt 8, 10-13; 15, 28 par.), con la riserva che impone la speranza giudaica di un *messia temporale e nazionale (Mc 1, 44; 5, 43; 7, 36; 8, 26). Già in questo essi sono *segni, come dirà S. Giovanni. Se provano la messianità e la divinità di Gesù, lo fanno indirettamente, attestando che egli è veramente ciò che pretende di essere. Perciò non devono essere isolati dalla sua *parola: vanno di pari passo con l’*evangelizzazione dei *poveri (Mt 11, 5 par.). I titoli che Gesù dà a sé, i poteri che rivendica, la salvezza che predica, le rinunzie che esige, ecco ciò di cui i miracoli fanno vedere l’autenticità divina, a chi non rigetta a priori la verità del messaggio (Is 16, 31). In tal modo questo è superiore ai miracoli, come lascia capire la frase su Giona secondo Lc 11, 29-32. Esso si impone come il segno primario e solo necessario (Gv 20, 29), per la ineguagliabile autorità personale del suo araldo (Mt 7, 29) e per la sua qualità interna, costituita dal fatto che, realizzando la rivelazione anteriore (Lc 16, 31; Gv 5, 46 s), corrisponde negli uditori all’appello dello Spirito (Gv 14, 17. 26); proprio esso, prima di essere confermato ed illustrato dai miracoli, li dovrà distinguere dai falsi segni (Mc 13, 22 s; Mt 7, 22; cfr. 2 Tess 2, 9; Apoc 13, 13). Qui, come in Deut, «i miracoli discernono la dottrina, e la dottrina discerne i miracoli» (Pascal).
    b) I miracoli non apportano la loro attestazione dall’esterno, come segni arbitrari ed ostentatori: realizzano in modo incoativo ciò che significano, apportano il segno della *salvezza messianica che avrà il suo termine nel regno escatologico; perciò i sinottici li chiamano *potenze (dynàmeis: cfr. Mt 11, 20-23; 13, 54. 58; 14, 2). Con essi di fatto Gesù, mosso dalla sua pietà umana (Lc 7, 13; Mt 20, 34; Mc 1, 41), ma più ancora dalla sua coscienza di essere il *servo promesso (Mt 8, 17), fa effettivamente indietreggiare la *malattia, la *morte, l’ostilità della natura contro l’uomo, in breve tutto il disordine che ha la sua causa più o meno prossima nel *peccato (Gen 3, 16-19; cfr. Mc 2, 5; Lc 13, 3 b e Lc 13, 2-3 a; Gv 9, 3), e che serve al dominio del demonio sul mondo (Mt 13, 25; Ebr 2, 14 s). Perciò rifiuta di compiere per Satana (4, 2-7), per i maldisposti (12, 38 ss; 16, 1-4), per i gelosi (Lc 4, 23), per i frivoli (23, 8 s), delle prodezze gratuite che non avrebbero efficacia salvifica, ed è significativo che prodigi cosmici - dipendenti del resto, a quanto pare, più dalle immagini profetiche che dalla storia (Atti 2, 19 s) - non siano segnalati che al momento in cui, sfidato a salvare se stesso mediante un miracolo, egli muore per salvare tutti gli altri (Mt 27, 39-54; cfr. 1 Cor 1, 22 ss). I prodigi che sembra promettere in Mt 17, 20 par., non sono che immagine della potenza della fede. Acquista così tutto il suo senso il nesso frequentissimo tra *guarigioni ed esorcismi (Mt 8, 16; ecc.). La liberazione degli indemoniati è un caso privilegiato di questa vittoria del «più forte» (Lc 11, 22) su Satana, che tutti i miracoli realizzano a modo loro. Essa mette Gesù direttamente alle prese con l’avversario, in un duello che, incominciato nel deserto (Mt 4, 1- 11 par.), avrà il suo episodio decisivo sulla croce (Lc 4, 13; 22, 3. 53) e non terminerà che nel giudizio universale (Apoc 20, 10), ma in cui è già evidente la sconfitta diabolica (Mt 8, 29; Lc 10, 18). L’esorcismo è il segno efficace per eccellenza della venuta del regno (Mt 12, 28).
    3. Il miracolo e le fede.
    a) La buona novella del regno, che Gesù predica e rivela presente nella sua persona, dev’essere accolta con la *conversione e la *fede (Mc 1, 15), che i miracoli e gli esorcismi di Gesù hanno quindi il compito di produrre. Alla loro vista Corozain e Cafarnao avrebbero dovuto convertirsi e credere (Mt 11, 20-24 par.). Giovanni vi insiste distinguendo diversi gradi di fede (Gv 2, 11; 11, 15; 20, 30 s): al di là dei fragili entusiasmi (2, 23 ss; 4, 48) e delle adesioni interessate (6, 26), i «segni» portano normalmente a riconoscere Gesù come inviato di Dio (3, 2; 9, 16; 10, 36), profeta (4, 19), Cristo (7, 31), *figlio dell’uomo (9, 35-38). Fondarsi troppo su di essi per credere, è segno di fede imperfetta (10, 38; 14, 11): la parola di Gesù, di una veracità garantita dal disinteresse che deriva dal suo spirito finale (7, 16 ss; 12, 49 s), dovrebbe bastare, come bastò ai Samaritani (4, 41 s) ed all’ufficiale regio (4, 50), come dovrà bastare a coloro che crederanno alla parola senza aver toccato il risorto (20, 29). Ragione di più perché coloro che hanno «*visto» i suoi miracoli (6, 36; 7, 3; 15, 24) e rifiutato di credere (7, 5; 12, 37) siano inescusabili (9, 41; 15, 24).
    b) Se molti rigettano la «*testimonianza» (Gv 5, 36) dei miracoli, lo fanno perché accecati (9, 39; 12, 40) dall’ottusità spirituale (6, 15. 26), o dall’orgoglio legalista (5, 16; 7, 49. 52; 9, 16), dalla gelosia (12, 11), dalla falsa prudenza (11, 47 s). Non hanno quelle disposizioni di abbandono e di apertura a Dio che costituiscono nei sinottici la *fede antecedente il miracolo (Mc 5, 36; 9, 23; 10, 52; ecc.), e senza le quali Gesù è come impotente (Mt 13, 58). come sarebbero capaci di interpretare i «segni dei tempi» (Mt 16, 3) quegli uomini che, come Israele nel deserto e poco dianzi Satana (4, 3-7), non reclamano segni che «per mettere Gesù alla prova» (16, 1), e preferiscono attribuire i suoi esorcismi al demonio piuttosto che riconoscergli una potenza soprannaturale (Mc 3, 22. 29 s par.)? Per i cuori *induriti e chiusi alla parola i segni che l’appoggiano sono indecifrabili. Questa *generazione non avrà altro segno che quello di Giona (Mt 12, 39 s): Gesù prende appuntamento con i suoi avversari per il giorno della sua risurrezione, cioè del segno più splendido, ma anche il più facilmente contestabile da parte degli amatori di evidenza, poiché i segni per appurarlo sono soltanto indiretti (sepolcro vuoto, apparizione a qualche persona: cfr. Mt 28, 13 ss; Lc 24, 11). Ciò che sarà per la fede l’appoggio supremo dev’essere prima la prova suprema.
    III. NELLA CHIESA
    1. I fatti.
    - Questo segno della *risurrezione, vertice del nuovo esodo (Gv 13, 1), dà alla Chiesa che ne nasce la chiave della storia antecedente, ed inaugura una nuova serie di segni che devono condurre gli uomini alla fede che esso fonda ed annunziare la risurrezione dei morti, pienezza della salvezza che procura (1 Cor 15, 20-28; Rom 4, 25).
    2. Illuminazione pasquale del vangelo.
    a)
    La risurrezione scopre alla Chiesa, che accorda loro un grande posto nel suo kèrygma e nella sua catechesi, il pieno senso dei segni antecedenti. Secondo il kèrygma, essi «accreditavano» Gesù (Atti 2, 22) e manifestavano la sua bontà (10, 38): temi che i sinottici sviluppano, attestando il progresso della riflessione della Chiesa, ciascuno nella sua linea propria. Nel triplice racconto del fanciullo epilettico si sono scoperte, ad esempio, intenzioni diverse: Lc 9, 37-43 racconta soprattutto un prodigio di bontà; Mt 17, 14-21 si interessa alla trascendenza di Gesù ed alla parte che i discepoli ricevono della sua potenza; Mc 9, 14-29 esalta il trionfo del padrone della vita su Satana, nella cornice di un dramma che abbozza già il simbolismo giovanneo. E vi sono casi ancora più netti della nuova profondità che ricevono in tal modo gli episodi, alla luce di Pasqua: nell’intenzione degli autori bisogna certamente comprendere nel suo senso più ricco la confessione di filiazione divina alla quale portano i miracoli (Mt 14, 33; 27, 54), e contemplare l’abbozzo di realtà ecclesiali in taluni di essi, ad es. 1’*eucaristia nella moltiplicazione dei pani, l’apostolato nella pesca miracolosa (Lc 5, 1- 11).
    b) Giovanni va ancora più lontano. Suggerisce che i «segni», realizzando l’antico esodo (Num 14, 22) ed anticipando «l’ora» del nuovo, manifestavano già qualcosa della «*gloria» (Gv 2, 11; 11, 40) che si è rivelata al momento della «elevazione» di Gesù (3, 14 s; 12, 32; cfr. 17, 5) e che è lo splendore della potenza salvifica che emana dal Verbo incarnato (1, 14). Ognuno di essi, collegato ad un discorso, mette in rilievo un aspetto di questa potenza, che purifica, perdona, vivifica, illumina, risuscita (2, 6; 5, 14; 6, 35; 9, 5; 11, 25); parecchi simboleggiano anche i sacramenti (*battesimo, *eucaristia...) che distribuiscono gli effetti di questa potenza nella Chiesa, superando i segni antichi come la *manna (6, 32. 49 s). Più ancora, i miracoli sono *opere che il Padre dà da realizzare al Figlio (5, 36) per manifestare l’intima unità del Figlio e del Padre (5, 17; 10, 37 s; 14, 9 s). Contemplare i segni efficaci della vita scaturita (19, 34) dal fianco di Cristo «elevato» come il segno supremo (12, 33; cfr. 3, 14 = Num 21, 8: semèion), significa credere che Gesù è Cristo, il Figlio di Dio che agisce nella Chiesa, e avere la vita in suo nome (20, 30 s); significa contemplare la gioia comune del Padre e del Figlio (11, 4) e mettersi così a livello delle relazioni trinitarie.
    3. Il tempo dello Spirito.
    a) Poiché Gesù è «con essi» (Mt 28, 20), non c’è da meravigliarsi che gli *apostoli, dopo i diversi miracoli della *Pentecoste, rinnovino i suoi atti salvifici (Atti 3, 1-10); del resto egli aveva loro promesso questo potere, quasi istituzionale (Mc 16, 17 s), e li aveva esercitati nel suo uso (Mt 10, 8). Le dynàmeis (Paolo) che essi operano manifestano concretamente la *potenza salvifica (dynamis) di Gesù risorto (Atti 3, 6. 12.16; cfr. Rom 1, 4), e portano gli uomini alla fede accreditando gli araldi della parola evangelica (Mc 16, 20; 1 Cor 2, 4). Qui si afferma il legame necessario dei miracoli con la parola, ed il duplice aspetto della loro finalità, apologetica e salvifica. Qui si rivela la gerarchia dei segni: la qualità di testimoni oculari (Ebr 2, 3 s), la costanza (2 Cor 12, 12), la sicurezza ed il disinteresse (1 Tess 2, 2-12) dei missionari vanno di pari passo con «i segni ed i prodigi», e distinguono dai falsi profeti gli autentici messaggeri di Dio (Atti 8, 9-24; 13, 4-12); tutto è prodotto dalla forza dello *Spirito Santo (1 Tess 1, 5; 1 Cor 2, 4; Rom 15, 19).
    b) All’inizio della Chiesa, lo Spirito accordava pure miracoli alla *preghiera fiduciosa (cfr. Mt 21, 21 s; Giac 5, 16 ss) di taluni fedeli: *carisma meraviglioso (Gv 14, 12), ma ordinato ai doni superiori di insegnamento (1 Cor 12, 28 s), e in definitiva alla carità, meraviglia suprema della vita cristiana (13, 2). Questo dono coesisteva con i sacramenti, che avevano in parte la stessa funzione (cfr. Mc 6, 13; Giac 5, 13 ss), ma la cui efficacia spirituale lasciava posto a segni che orientavano più direttamente lo spirito verso la *risurrezione e la restaurazione completa della *creazione (Rom 8, 19-24; Apoc 21, 4). Così è ancora oggi. Certamente il mondo, per essere indotto a credere, ha ormai il miracolo morale multiforme della Chiesa, visto soprattutto nello splendore dei suoi santi, la cui *carità eroica ed unificante è il segno più sicuro della presenza divina (Gv 13, 35; 17, 21). Ma anche miracoli fisici, non meno che nel VT e nel NT, continuano ad indirizzare i nostri sguardi verso la parola ed il regno definitivo, a suscitare la prima conversione e le riconversioni (Mt 18, 3), a tradurre l’amore divino in atti viventi. Oggi come ieri, questo linguaggio resta incompreso dallo spirito orgoglioso o religioso; ma lo percepisce colui che, sapendo che «nulla è impossibile a Dio» (Gen 18, 14 = Lc 1, 37), si apre alle esigenze della fede e dell’amore, quando il contesto religioso del fatto indica Dio che «ha fatto segno».
    P. TERNANT
    → carismi - fede NT I 2, IV - gloria III 1 - magia 2 b - malattia-guarigione - manna - mare 3 - opere NT I 2 - parola di Dio VT II 2; NT I 1 - potenza V 1 - rivelazione NT III 1 b - salvezza VT I 1; NT I 2 a – segno.

    MISERIA (inizio)

    → fame e sete - misericordia - poveri.

    MISERICORDIA (inizio)

    Il linguaggio corrente, determinato indubbiamente dal latino ecclesiastico, identifica la misericordia con la compassione od il perdono. Questa identificazione, quantunque valida, minaccia di velare la ricchezza concreta che Israele, in virtù della sua esperienza, poneva nel termine. Per esso infatti la misericordia si trova alla confluenza di due correnti di pensiero: la compassione e la fedeltà. II primo termine ebraico (rahamîm) esprime l’attaccamento istintivo di un essere ad un altro. Secondo i semiti questo sentimento ha sede nel seno materno (rehem: 1 Re 3, 26), nelle viscere (rabamîm) - noi diremmo: il cuore - di un padre (Ger 31, 20; Sal 103, 13), o di un fratello (Gen 43, 30): è la *tenerezza; esso si traduce subito in atti: in compassione, in occasione di una situazione tragica (Sal 106, 45), od in *perdono delle offese (Dam 9, 9). Il secondo termine (hesed), tradotto ordinariamente in greco con una parola che significa anch’essa misericordia (èleos), designa per sé la *pietà, relazione che unisce due esseri ed implica *fedeltà. Per tale fatto la misericordia riceve una base solida: non è più soltanto l’eco d’un istinto di bontà, che può ingannarsi circa il suo oggetto e la sua natura, ma una bontà cosciente, voluta; è anche risposta ad un dovere interiore, fedeltà a se stesso. Le traduzioni in lingue moderne delle parole ebraiche e greche oscillano dalla misericordia all’amore, passando attraverso la tenerezza, la pietà, la compassione, la clemenza, la bontà e persino la *grazia (ebr. hen) che tuttavia ha un’accezione molto più ampia. Nonostante questa varietà, non è impossibile definire la concezione biblica della misericordia. Dall’inizio alla fine Dio manifesta la sua tenerezza in occasione della miseria umana; l’uomo, a sua volta, deve mostrarsi misericordioso verso il prossimo, ad imitazione del suo creatore. 
    VECCHIO TESTAMENTO 
    I. IL DIO DELLE MISERICORDIE
    Quando l’uomo acquista coscienza di essere sventurato o peccatore, allora gli si rivela, più o meno netto, il volto della misericordia infinita.
    1. In soccorso al misero.
    - Incessanti risuonano le grida del salmista: «Pietà di me, o Signore!» (Sal 4, 2; 6, 3; 9, 14; 25, 16), oppure le proclamazioni di *ringraziamento: «Rendete grazie a Jahvè, perché eterno è il suo amore (hesed)» (Sal 107, 1), quella misericordia che egli non cessa di dimostrare nei confronti di coloro che gridano a lui nella loro miseria, i naviganti in pericolo, ad esempio (Sal 107, 23), nei confronti dei «figli di *Adamo», Chiunque essi siano. Egli infatti si presenta come il difensore del *povero, della vedova e dell’orfano: sono i suoi privilegiati. Questa convinzione incrollabile degli uomini pii sembra trarre origine dall’esperienza che fece Israele in occasione dell’*esodo. Quantunque il termine misericordia non si trovi nel racconto del fatto, la liberazione dall’Egitto è descritta come un atto della misericordia divina. La prime tradizioni sulla vocazione di Mosè lo suggeriscono nettamente: «Ho visto la miseria del mio popolo. Ho ascoltato le sue grida di aiuto... conosco le sue angosce. Sono deciso a liberarlo» (Es 3, 7 s. 16 s). Più tardi, il redattore sacerdotale spiegherà la decisione di Dio con la sua fedeltà all’alleanza (6, 5). Nella sua misericordia Dio non può sopportare la miseria del suo eletto; è come se, contraendo alleanza con esso, egli ne avesse fatto un essere «della sua stirpe» (cfr. Atti 17, 28 s): un istinto di tenerezza lo unisce a lui per sempre.
    2. La salvezza del peccatore.
    - Ma che avverrà, se questo eletto si separa da lui col peccato? La misericordia prevarrà ancora, purché egli non si *indurisca; infatti, sconvolto dal *castigo che il peccato esige, Dio vuol salvare il peccatore. Così, in occasione del peccato, l’uomo entra ancora più profondamente nel mistero della tenerezza divina.
    a) La rivelazione centrale. - Sul Sinai Mosè sente che Dio rivela il fondo del suo essere. Il popolo eletto ha appena apostatato. Ma Dio, dopo aver affermato che è libero di usare gratuitamente misericordia a chi gli pare (Es 33, 19), proclama che, senza ledere la sua santità, la tenerezza divina può trionfare del peccato: «Jahvè è un Dio di tenerezza (rahûm) e di grazia (hanun), tardo all’ira e ricco di misericordia (hesed) e fedeltà (‘emet), che conserva la sua misericordia (hesed) alla millesima generazione, sopporta mancanza, trasgressione e peccato, ma, senza lasciarli impuniti, castiga la colpa... fino alla terza ed alla quarta generazione» (Es 34, 6 s). Dio lascia che le conseguenze si facciano sentire sul peccatore sino alla quarta generazione, e ciò dimostra la serietà del peccato. Ma la sua misericordia, conservata intatta fino alla millesima generazione, lo fa pazientare all’infinito. Tale è il ritmo che segnerà le relazioni di Dio con il suo popolo fino alla venuta del Figlio suo.
    b) Misericordia e castigo. - Di fatto, lungo tutta la storia sacra, Dio rivela che, se deve castigare il popolo che ha peccato, è preso da commiserazione non appena esso grida a lui dal fondo della sua miseria. Così il libro dei Giudici è scandito dal ritmo dell’*ira che si accende contro l’infedele e della misericordia che gli manda un *salvatore (Giud 2, 18). L’esperienza profetica darà a questa storia accenti stranamente umani. Osea rivela che se Dio ha deciso di non usare più misericordia ad Israele (Os 1, 6) e di castigarlo, il suo «cuore si rivolta in [lui], [le sue] viscere fremono» ed egli decide di non dare corso all’ardore della sua ira (11, 8 s); perciò un giorno la sposa infedele sarà nuovamente chiamata: «ha ricevuto misericordia» (ruhamah: 2, 3). Anche quando annunziano le peggiori catastrofi, i profeti conoscono la tenerezza del cuore di Dio: «Efraim è dunque per me un figlio così caro, un fanciullo così prediletto che, dopo ognuna delle mie minacce, io debba sempre pensare a lui, le mie viscere si commuovano per lui, per lui trabocchi la mia tenerezza?» (Ger 31, 20; cfr. Is 49, 14 s; 54, 7).
    c) Misericordia e conversione. - Se Dio è così sconvolto in se stesso dinanzi alla miseria cui il peccato porta, si è perché desidera che il peccatore ritorni a lui, si *converta. Se conduce il suo popolo nuovamente nel *deserto, si è perché vuole «parlargli al cuore» (Os 2, 16); dopo l’*esilio si comprenderà che Jahvè, mediante il ritorno nella terra, vuole simboleggiare il ritorno a lui, alla vita (Ger 12, 15; 33, 26; Ez 33, 11; 39, 25; Is 14, 1; 49, 13). Sì, Dio «non conserva sdegno eterno» (Ger 3, 12 s), ma vuole che il peccatore riconosca la sua malizia; «il malvagio si converta a Jahvè che avrà pietà di lui, al nostro Dio, perché egli perdona con abbondanza» (Is 55, 7).
    d) La chiamata del peccatore. - Israele conserva quindi in fondo al cuore la convinzione di una misericordia che non ha nulla di umano: «Egli ha colpito, fascerà le nostre piaghe» (Os 6, 1). «Qual è il Dio come te, che tolga la colpa, perdoni il delitto, non persista nella sua ira per sempre, ma si compiaccia nel fare grazia? Possa di nuovo aver pietà di noi, mettere sotto i piedi le nostre colpe, gettare in fondo al mare tutti i nostri peccati» (Mt 7, 18 s). Risuona così continuamente il grido del salmista, che il Miserere riassume: «Pietà di me, secondo la tua bontà! Secondo la tua grande tenerezza cancella il mio peccato» (Sal 51, 3).
    3. Misericordioso verso ogni carne.
    - Se la misericordia divina non conosce altri limiti che l’*indurimento del peccatore (Is 9, 16; Ger 16, 5. 13), tuttavia per lungo tempo la si ritenne come riservata al solo *popolo eletto. Ma alla fine Dio, con la sua sorprendente larghezza, spazzò via questo resto di grettezza umana (cfr. già Os 11, 9). Dopo l’esilio la lezione fu compresa. La storia di Giona è la satira dei cuori gretti che non accettano la tenerezza immensa di Dio (Giona 4, 2). L’Ecclesiastico dice chiaramente: «la pietà dell’uomo è per il suo *prossimo, ma la pietà del Signore è per ogni carne» (Eccli 18, 13). Infine la tradizione unanime di Israele (cfr. Es 34, 6; Nah 1, 3; Gioe 2, 13; Neem 9, 17; Sal 86, 15; 145, 8) è magnificamente raccolta dal salmista, senza alcuna nota di particolarismo: «Jahvè è tenerezza e grazia, tardo all’ira e ricco di misericordia; non per sempre contende, né in eterno serba sdegno; non ci tratta secondo le nostre colpe... Com’è la tenerezza di un padre per il suo figlio, così Jahvè è tenero per chi lo teme; egli conosce il nostro impasto, ricorda che siamo polvere» (Sal 103, 8 ss. 13 s). «Beati coloro che sperano in lui, perché egli avrà pietà di essi» (Is 30, 18), perché «eterna è la sua misericordia» (Sal 136), perché in lui è la misericordia (Sal 130, 7).
    II. «IO VOGLIO LA MISERICORDIA»
    Se Dio è tenerezza, come non esigerebbe dalle sue creature la stessa tenerezza reciproca? Ora, questo sentimento non è naturale all’uomo: homo homini lupus! Ben lo sapeva David, che preferisce «cadere nelle mani di Jahvè, perché grande è la sua misericordia, piuttosto che nelle mani degli uomini» (2 Sam 24, 14). Anche su questo punto Dio educherà progressivamente il suo popolo. Egli condanna i pagani che soffocano la misericordia (Am 1, 11). La sua volontà è che si osservi il comandamento dell’*amore fraterno (cfr. Es 22, 26), di gran lunga preferibile agli olocausti (Os 4, 2; 6, 6); che la pratica della *giustizia sia coronata da un «tenero amore» (Mi 6, 8). Chi vuole veramente *digiunare deve soccorrere il povero, la vedova e l’orfano, non sottrarsi a colui che è là sua stessa *carne (Is 58, 6-11; Giob 31, 16-23). Certamente l’orizzonte *fraterno rimane ancora limitato alla razza od alla fede (Lev 19, 18), ma l’esempio stesso di Dio allargherà a poco a poco i cuori umani alle dimensioni del cuore di Dio: «Io sono Dio, e non un uomo» (Os 11, 9; cfr. Is 55, 7). L’orizzonte si allargherà soprattutto in virtù del comandamento di non soddisfare la propria *vendetta, di non serbare rancore. Ma non sarà realmente chiarito se non con gli ultimi libri sapienziali, che su questo punto abbozzano il messaggio di Gesù: il *perdono dev’essere praticato verso «tutti» (Eccli 27, 30 - 28, 7).
    NUOVO TESTAMENTO
    I. IL VOLTO DELLA MISERICORDIA DIVINA
    1. Gesù, «sommo sacerdote misericordioso» (Ebr 2, 17).

    - Dovendo compiere il disegno divino, Gesù ha voluto «diventare simile in tutto ai suoi fratelli», per esperimentare la stessa miseria di coloro che veniva a salvare. Perciò tutti i suoi atti manifestano la misericordia divina, anche se non sono così qualificati dagli evangelisti. Luca ha avuto una cura tutta speciale di mettere in rilievo questo punto. I prediletti di Gesù sono i «*poveri» (Lc 4, 18, 7, 22); i peccatori trovano in lui un «amico» (7, 34), che non ha paura di frequentarli (5, 27. 30; 15, 1 s; 19, 7). La misericordia, che Gesù testimoniava in modo generale alle folle (Mt 9, 36; 14, 14; 15, 32), in Luca assume un volto più personale: concerne il «figlio unico» di una vedova (Lc 7, 13) od un determinato padre piangente (8, 42; 9, 38. 42). Gesù infine testimonia una benevolenza particolare verso le *donne e gli *stranieri. In tal modo l’universalismo è portato a *compimento: «ogni *carne vede la salvezza di Dio» (3, 6). Se Gesù ha così compassione di tutti, si comprende come gli afflitti si rivolgano a lui come a Dio stesso, ripetendo: «Kyrie eleison!» (Mt 15, 22; 17, 15; 20, 30 s).
    2. Il cuore di Dio Padre.
    - Di questo volto della misericordia divina che mostrava attraverso i suoi atti, Gesù ha voluto dipingere per sempre i tratti. Ai peccatori, che si vedevano esclusi dal regno di Dio dalla grettezza dei *farisei, proclama il vangelo della misericordia infinita, nella linea diretta degli annunzi autentici del VT. Coloro che rallegrano il cuore di Dio non sono gli uomini che si credono giusti, ma i peccatori pentiti, paragonabili alla pecora od alla dramma perduta e ritrovata (Lc 15, 7. 10); il *Padre spia il ritorno del figliol prodigo, e quando lo scorge di lontano, è «mosso da compassione» e corre ad incontrarlo (15, 20). Dio ha atteso a lungo, attende ancora con *pazienza Israele che non si converte, come un fico sterile (13, 6-9).
    3. La sovrabbondanza della misericordia.
    - Dio dunque è il «Padre delle misericordie» (2 Cor 1, 3; Giac 5, 11), che accordò la sua misericordia a Paolo (1 Cor 7, 25; 2 Cor 4, l; 1 Tim 1, 13) e la promette a tutti i credenti (Mt 5, 7; 1 Tim 1, 2; 2 Tim 1, 2; Tito 1, 4; 2 Gv 3). Del compimento del disegno di misericordia nella *salvezza e nella *pace, quale era annunziato dai cantici all’aurora del vangelo (Lc 1, 50. 54. 72. 78), Paolo manifesta chiaramente l’ampiezza e la sovrabbondanza. Il culmine della lettera ai Romani sta in questa rivelazione. Mentre i Giudei finivano per disconoscere la misericordia divina, in quanto pensavano di procurarsi la *giustizia con le loro *opere, con la loro pratica della *legge, Paolo dichiara che anch’essi sono peccatori, e quindi anch’essi hanno bisogno della misericordia mediante la giustizia della *fede. Di fronte ad essi i pagani, ai quali Dio non aveva promesso nulla, sono a loro volta attratti nell’orbita immensa della misericordia. Tutti devono quindi riconoscersi peccatori per beneficiare tutti della misericordia: «Dio ha racchiuso tutti gli uomini nella disobbedienza per fare a tutti misericordia» (Rom 11, 32).
    II. «SIATE MISERICORDIOSI...»
    La «*perfezione» che, secondo Mt 5, 48, Gesù esige dai suoi discepoli, secondo Lc 6, 36 consiste nel dovere di essere misericordiosi «com’è misericordioso il Padre vostro». È una condizione essenziale per entrare nel regno dei cieli (Mt 5, 7), che Gesù riprende sull’esempio del profeta Osea (Mt 9, 13; 12, 7). Questa tenerezza deve rendermi *prossimo al misero che incontro sulla mia strada, come il buon Samaritano (Lc 10, 30-37), pieno di pietà nei confronti di colui che mi ha offeso (Mt 18, 23-35), perché Dio ha avuto pietà di me (18, 32 s). Saremo quindi giudicati in base alla misericordia che avremo esercitata, forse inconsciamente, nei confronti di Gesù in persona (Mt 25, 31-46). Mentre la mancanza di misericordia nei pagani scatena l’ira divina (Rom 1, 31), il cristiano deve amare e «simpatizzare» (Fil 2, 1), avere in cuore una buona compassione (Ef 4, 32; 1 Piet 3, 8); non può «chiudere le sue viscere» dinanzi ad un fratello che si trova nella necessità: 1’*amore di Dio non rimane che in coloro che esercitano la misericordia (1 Gv 3, 17).
    J. CAMBIER e X- LÉON DUFOUR
    → amore - elemosina - giustizia 0; B - grazia - indurimento I 2 b - ira - ospitalità 1 - pastore e gregge - pazienza I VT - peccato IV 1 c d - perdono - pietà VT 2 - retribuzione II 1 - tenerezza.

    MISSIONE (inizio)

    L’idea di una missione divina non è del tutto estranea alle religioni non cristiane. Senza parlare di Maometto, «inviato di Dio» che pretende di sostituire i profeti biblici, la si incontra in qualche misura nel paganesimo greco. Epitteto si considera come «l’inviato, l’ispettore, l’araldo degli dèi», «inviato dal dio come esempio»: per rianimare negli uomini, col suo insegnamento e la sua testimonianza, la scintilla divina che è in essi, egli ritiene d’aver ricevuto missione dal cielo. Così pure, nell’ermetismo, l’iniziato ha la missione di farsi «guida di coloro che ne sono degni, affinché, per la sua mediazione, il genere umano sia salvato da Dio». Ma nella rivelazione biblica l’idea di missione ha delle coordinate molto diverse. Essa si riferisce totalmente alla storia della salvezza. Implica un appello positivo di Dio manifestato esplicitamente in ciascun caso particolare. Si applica sia a collettività, come ad individui. Connessa alle idee di *predestinazione e di vocazione, essa è resa con un vocabolario che gravita attorno al Verbo «inviare».
    VECCHIO TESTAMENTO
    I. GLI INVIATI DI DIO
    1.
    La missione divina si può cogliere al vivo soprattutto nel caso dei *profeti (cfr. Ger 7, 25), il primo dei quali è *Mosè. «Io ti mando...»: questa parola è al centro di ogni *vocazione profetica (cfr. Es 3, 10; Ger 1, 7; Ez 2, 3 s; 3, 4 s). Alla chiamata di Dio ciascuno risponde con il suo temperamento personale: Isaia si offre («Eccomi, mandami», Is 6, 8); Geremia muove obiezioni (Ger 1, 6); Mosè vuole segni che accreditino la sua missione (Es 3, 11 ss), tenta di rifiutarla (4, 13), se ne lamenta amaramente (5, 22). Ma tutti in definitiva obbediscono (cfr. Am 7, 14 s) - escluso il caso di Giona (Giona 1, 1 ss) che rifiuta la missione universalistica e si scandalizza della salvezza delle *nazioni. Questa coscienza di una missione personale ricevuta da Dio è un tratto essenziale del vero profeta. Lo distingue da coloro che dicono: «Parola di Dio!» mentre Dio non li ha mandati, come quei profeti di menzogna contro cui lotta Geremia (Ger 14, 14 s; 23, 21. 32; 28, 15; 29, 9). In un senso più largo si può parlare anche di missione divina per tutti coloro che, nella storia del popolo di Dio, svolgono una funzione provvidenziale; ma per riconoscere l’esistenza di simili missioni, occorre la testimonianza di un profeta.
    2. Tutte le missioni degli inviati divini sono relative al *disegno di *salvezza. La maggior parte di esse sono in rapporto diretto con il popolo di Israele. Ma ciò lascia sussistere la più grande diversità. I profeti sono mandati per convertire i cuori, per annunziare castighi o fare promesse: la loro funzione è strettamente legata alla *parola di Dio, che essi hanno l’incarico di portare agli uomini. Altre missioni concernono più direttamente il destino storico di Israele: Giuseppe è mandato per preparare l’accoglienza dei figli di Giacobbe in Egitto (Gen 45, 5) e Mosè per farne uscire Israele (Es 3, 10; 7, 16; Sal 105, 26). Lo stesso vale per tutti i capi ed i liberatori del popolo di Dio: Giosuè, i Giudici, David, i restauratori del giudaismo dopo l’esilio, i capi della rivolta maccabaica... Anche se, a loro proposito, non parlano esplicitamente di missione, gli storici sacri li ritengono evidentemente come inviati divini, grazie ai quali il disegno di salvezza ha progredito verso il suo termine. Anche i pagani possono, su questo punto, svolgere una funzione provvidenziale: l’Assiria è mandata per castigare Israele infedele (Is 10, 6), e Ciro per abbattere Babilonia e liberare i Giudei (Is 43, 14; 48, 14 s). La storia sacra si edifica grazie all’incrociarsi di tutte queste missioni particolari che concorrono allo stesso scopo.
    II. LA MISSIONE DI ISRAELE
    1. Bisogna anche parlare di una missione del popolo di Israele? Certamente, se si pensa al legame stretto che esiste sempre tra missione e *vocazione. La vocazione di Israele definisce la sua missione nel disegno di Dio. Scelto tra tutte le nazioni, esso è il *popolo consacrato, il popolosacerdote, incaricato del servizio di Jahvè (Es 19, 5 s). Non è detto che svolga questa funzione in nome delle altre nazioni. Tuttavia, a misura che la rivelazione si sviluppa, gli oracoli profetici intravedono il tempo in cui tutte le *nazioni si uniranno ad esso per partecipare al culto del Dio unico (cfr. Is 2, 1 ss; 19, 21-25; 45, 20-25; 60): Israele è quindi chiamato a diventare il popolofaro di tutta l’umanità. Così pure, se è depositario del disegno di salvezza, lo è con la missione di farvi partecipare gli altri popoli: fin dalla vocazione di Abramo, l’idea esisteva in germe (Gen 12, 3), e si precisa a mano a mano che la rivelazione svela meglio le intenzioni di Dio.
    2. A partire dall’esilio si constata che Israele ha preso più chiara coscienza di questa missione. Sa di essere il *servo di Jahvè, da lui inviato in qualità di messaggero (Is 41, 19). Dinanzi alle nazioni pagane è il suo *testimone, incaricato di farlo conoscere come il Dio unico (43, 10. 12; 44, 8) e «di trasmettere al mondo la luce immortale della legge» (Sap 18, 4). La vocazione nazionale sfocia qui nell’universalismo religioso. Non si tratta più di dominare le nazioni pagane (Sal 47, 4), ma di convertirle. Perciò il popolo di Dio si apre ai proseliti (Is 56, 3. 6 s). Uno spirito nuovo pervade la sua letteratura ispirata: il libro di Giona considera il caso di una missione profetica avente come beneficiari i pagani e, nel libro dei Proverbi, gli inviati della *Sapienza divina invitano, a quanto pare, tutti gli uomini al suo banchetto (Prov 9, 3 ss). Israele tende finalmente a diventare un popolo missionario, specialmente nell’ambiente alessandrino dove i suoi libri sacri sono tradotti in greco.
    III. PRELUDI AL NUOVO TESTAMENTO
    1. Il tema della missione divina si ritrova nella escatologia profetica che prepara esplicitamente il NT. Missione del *servo che Jahvè designa come «alleanza del popolo e *luce delle nazioni» (Is 42, 6 s; cfr. 49, 5 s). Missione del misterioso *profeta che Jahvè manda «a portare la buona novella ai poveri» (Is 61, 1 s). Missione dell’enigmatico messaggero che sgombra la via dinanzi a Dio (Mal 3, 1) e del novello Elia (Mal 3, 23). Missione dei pagani convertiti che riveleranno la gloria di Jahvè ai loro fratelli di razza (Is 66, 18 s). Il NT farà vedere come queste Scritture devono compiersi.
    2. Infine la teologia della *parola, della *sapienza e dello *spirito personifica in modo sorprendente queste realtà divine e non esita a parlare della loro missione. Dio manda la sua parola affinché eseguisca in terra le sue volontà (Is 55, 11; Sal 107, 20; 147, 15; Sap 18, 14 ss); manda la sua sapienza affinché assista l’uomo nei suoi lavori (Sap 9, 10); manda il suo spirito affinché rinnovi la faccia della terra (Sal 104, 30; cfr. Ez 37, 9 s) e faccia conoscere agli uomini la sua volontà (Sap 9, 17). Queste espressioni preludono quindi al NT, che infatti le riprenderà per spiegare la missione del Figlio di Dio, che è la sua parola e la sua sapienza, e quella del suo Spirito Santo nella Chiesa.
    NUOVO TESTAMENTO 
    I. LA MISSIONE DEL FIGLIO DI DIO
    1.
    Dopo *Giovanni Battista, ultimo e maggiore dei profeti, messaggero divino e novello Elia annunziato da Malachia (Mt 11, 9-14), *Gesù Cristo si presenta agli uomini come l’inviato di Dio per eccellenza, lo stesso di cui parlava il libro di Isaia (Lc 4, 17-21; cfr. Is 61, 1 s). La parabola dei vignaioli omicidi sottolinea la continuità della sua missione con quella dei profeti, ma connotando pure la differenza fondamentale dei due casi: dopo aver mandato i suoi servi, il padre di famiglia manda infine il suo *figlio (Mc 12, 2-8 par.). Perciò, accogliendolo o rigettandolo, si accoglie o si rigetta colui che lo ha mandato (Lc 9, 48; 10, 16 par.), cioè il *Padre stesso, che ha rimesso tutto nelle sue mani (Mt 11, 27). Questa coscienza di una missione divina, che lascia intravedere i rapporti misteriosi del Figlio e del Padre, si manifesta in frasi caratteristiche: «lo sono stato mandato...», «Sono venuto...», «Il Figlio dell’uomo è venuto...», per annunziare il *vangelo (Mc 1, 38 par.), per *compiere la legge ed i profeti (Mt 5, 17), per portare il *fuoco sulla terra (Lc 12, 49), per portare non la pace ma la spada (Mt 10, 34 par.), per chiamare non i giusti ma i peccatori (Mc 2, 17 par.), per cercare e salvare ciò che era perduto (Lc 19, 10), per servire e dare la sua vita in riscatto (Mc 10, 45 par.)... Tutti gli aspetti dell’*opera redentrice compiuta da Gesù si ricollegano in tal modo alla missione che egli ha ricevuto dal Padre, dalla predicazione in Galilea al sacrificio della croce. Nel disegno del Padre, questa missione conserva tuttavia un orizzonte limitato: Gesù è stato inviato solo per le pecore sperdute della casa di Israele (Mt 15, 24). Sta di fatto che, convertendosi, queste devono acquistare coscienza a propria volta della missione provvidenziale di Israele: dare testimonianza di Dio e del suo regno di fronte a tutte le nazioni del mondo.
    2. Nel quarto vangelo, l’invio del Figlio da parte del Padre ritorna come un ritornello, nel giro di tutti i discorsi (40 volte, ad es. 3, 17; 10, 36; 17, 18). Perciò il solo desiderio di Gesù è di «fare la *volontà di colui che lo ha mandato» (4, 34; 6, 38 ss), di compiere le sue *opere (9, 4), di dire ciò che ha appreso da lui (8, 26). Tra essi c’è una tale unità di vita (6, 57; 8, 16. 29) che l’atteggiamento assunto nei confronti di Gesù è una presa di posizione nei confronti di Dio stesso (5, 23; 12, 44 s; 14, 24; 15, 21-24). Quanto alla passione, consumazione della sua opera, Gesù vi vede il suo ritorno a colui che lo ha mandato (7, 33; 16, 5; cfr. 17, 11). La fede che egli esige dagli uomini è una fede nella sua missione (11, 42; 17, 8. 21. 23. 25); ciò implica assieme la fede nel Figlio come inviato (6, 29) e la fede nel Padre che lo manda (5, 24; 17, 3). Attraverso la missione del Figlio in terra si è quindi rivelato agli uomini un aspetto essenziale del mistero intimo di Dio: l’Unico (Deut 6, 4; cfr. Gv 17, 3), mandando il Figlio suo, si è fatto conoscere come Padre.
    3. Non fa meraviglia vedere che gli scritti apostolici danno un posto centrale a questa missione del Figlio. Dio ha mandato il Figlio suo nella *pienezza dei tempi per redimerci e conferirci l’adozione filiale (Gal 4, 4; cfr. Rom 8, 15). Dio ha mandato il Figlio nel mondo come salvatore, come propiziazione per i nostri peccati, affinché viviamo per mezzo suo: questa è la prova suprema del suo amore per noi (1 Gv 4, 9 s. 14). Così Gesù è l’inviato per eccellenza (Gv 9, 7), I’apòstolos della nostra professione di fede (Ebr 3, 1).
    II. GLI INVIATI DEL FIGLIO
    1.
    La missione di Gesù si prolunga con quella dei suoi inviati, i Dodici, che per questo stesso motivo portano il nome di *apostoli. Già durante la sua vita Gesù li manda innanzi a sé (cfr. Lc 10, 1) a predicare il vangelo ed a guarire (Lc 9, 1 s par.), il che costituisce l’oggetto della sua missione personale. Essi sono gli operai mandati dal padrone alla *messe (Mt 9, 38 par.; cfr. Gv 4, 38); sono i *servi mandati dal re per condurre gli invitati alle nozze del figlio suo (Mt 22, 3 par.). Non devono farsi nessuna illusione sul destino che li attende: l’inviato non è maggiore di colui che lo manda (Gv 13, 16); come hanno trattato il padrone, così tratteranno i servi (Mt 10, 24 s). Gesù li manda «come pecore in mezzo ai lupi» (10, 16 par.). Egli sa che la «*generazione perversa» perseguiterà i suoi inviati e li metterà a morte (23, 34 par.). Ma ciò che sarà fatto loro, sarà fatto a lui stesso, e in definitiva al Padre: «Chi ascolta voi, ascolta me, chi rigetta voi, rigetta me, e chi rigetta me, rigetta colui che mi ha mandato» (Lc 10, 16); «Chi accoglie voi, accoglie me, e chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» (Gv 13, 20). Di fatto la missione degli apostoli si collega nel modo più stretto a quella di Gesù: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (20, 21). Questa frase illumina il senso profondo dell’invio finale dei Dodici in occasione delle *apparizioni di Cristo risorto: «Andate...». Essi andranno dunque ad annunziare il vangelo (Mc 16, 15), a reclutare *discepoli di tutte le nazioni (Mt 28, 19), a portare dovunque la loro *testimonianza (Atti 1, 8). Così la missione del Figlio raggiungerà effettivamente tutti gli uomini, grazie alla missione dei suoi apostoli e della sua *Chiesa.
    2. Questo appunto intende il libro degli Atti quando racconta la *vocazione di Paolo. Riprendendo i termini classici delle vocazioni profetiche, Cristo risorto dice al suo strumento eletto: «Va’ perché io ti invierò lontano presso i pagani» (Atti 22, 21); e questa missione ai pagani si inserisce nella linea esatta di quella del *servo di Jahvè (Atti 26, 17; cfr. Is 42, 7. 16). Infatti il servo è venuto nella persona di Gesù, e gli inviati di Gesù portano a tutte le *nazioni il messaggio di salvezza che egli personalmente aveva notificato soltanto alle «pecore perdute della casa di Israele» (Mt 15, 24). Di questa missione, ricevuta sulla strada di Damasco, Paolo si farà sempre forte per giustificare il suo titolo di *apostolo (1 Cor 15, 8 s; Gal 1, 12). Sicuro della sua estensione universale, egli porterà il vangelo ai pagani per ottenere da essi l’*obbedienza della fede (Rom 1, 5) e magnificherà la missione di tutti i messaggeri del vangelo (10, 14 s): non è forse grazie ad essa che nasce nel cuore degli uomini la fede nella parola di Cristo (10, 17)? Al di là della missione personale degli apostoli, tutta la *Chiesa nella sua funzione missionaria si ricollega in tal modo alla missione del Figlio.
    III. LA MISSIONE DELLO SPIRITO SANTO
    1. Per compiere questa funzione missionaria gli apostoli ed i predicatori del vangelo non sono lasciati alle loro sole forze umane; svolgono il loro compito in virtù dello *Spirito Santo. Ora, per definire esattamente la funzione dello Spirito, bisogna ancora parlare di missione, nel senso più stretto della parola. Evocando la sua futura venuta, nel discorso dopo la cena, Gesù precisava: «Il *Paraclito, lo Spirito Santo, che il Padre manderà in nome mio, vi insegnerà tutte le cose» (Gv 14, 26); «Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò da presso il Padre, mi renderà testimonianza» (15, 26; cfr. 16, 7). Il Padre ed il Figlio agiscono quindi congiuntamente per mandare lo Spirito. Luca pone l’accento sull’azione di Cristo, poiché quella del Padre consiste soprattutto nella promessa fatta, secondo la testimonianza delle Scritture: «Manderò su di voi, dice Gesù, ciò che il Padre mio vi aveva promesso» (Lc 24, 49; cfr. Atti 1, 4; Ez 36, 27; Gioe 3, 1 s).
    2. Tale è di fatto il senso della *Pentecoste, manifestazione iniziale di questa missione dello Spirito che durerà finché durerà la Chiesa. Dei Dodici lo Spirito fa i *testimoni di Gesù (Atti 1, 8). Egli è dato loro per svolgere il loro compito di inviati (Gv 20, 21 s). In lui ormai *predicheranno il vangelo (1 Piet 1, 12), come faranno i predicatori di tutti i tempi. Così la missione dello Spirito è inerente al mistero stesso della Chiesa quando annunzia la parola per svolgere il suo compito missionario. Essa è pure alla fonte della santificazione degli uomini. Infatti se questi, nel battesimo, ricevono l’adozione filiale, si è perché Dio manda nei loro cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: «Abba! Padre!» (Gal 4, 6). La missione dello Spirito diventa così l’oggetto della esperienza cristiana. Termina in tal modo la rivelazione del mistero di Dio: dopo il Figlio, parola e sapienza di Dio, lo Spirito si è manifestato a sua volta come persona divina entrando nella storia degli uomini, che trasforma internamente ad *immagine del Figlio di Dio.
    J. PIERRON e P. GRELOT
    → apostoli - apparizioni di Cristo 2.4 c. 5.7 - autorità NT II 1 - Chiesa III 2 b c - correre - elezione VT I 3 c - imposizione delle mani NT 2 - insegnare NT II 1.2 - mediatore - 0 - nazioni VT IV 2; NT - parola di Dio VT III 1 - Pentecoste II 2 e - Pietro (S.) 1.3 - predicare II 2 a - preoccupazioni 1 - profeta - testimonianza - visita NT 2 - vocazione I, II - volontà di Dio NT I 2.


    MISTERO (inizio)

    Il termine greco mystèrion non appare nella Bibbia greca che in alcuni degli ultimi libri (Tob, Giudit, Sap, Eccli, Dan, 2 Mac); ha come sfondo l’aramaico râz, che designa una «cosa segreta» e corrisponde così all’ebraico classico sôd (i due termini figurano fianco a fianco nei testi di Qumrân). Nel NT questa parola è già un termine tecnico di teologia. Ma poiché era largamente usata nell’ambiente ellenistico (filosofia, culti misterici, gnosi, *magia), è importante fissarne con esattezza il senso per evitarne le interpretazioni inesatte.
    VECCHIO TESTAMENTO
    1. La rivelazione dei segreti di Dio.
    - L’idea dei segreti di Dio è familiare ad Israele dal tempo dei profeti. Questi segreti concernono specialmente il disegno di salvezza che Dio realizza nella storia umana e che costituisce l’oggetto della *rivelazione: «Dio fa qualche cosa senza rivelare il suo segreto (sôd) ai suoi servi i profeti?» (Am 3, 7; cfr. Num 24, 4. 16). Questa dottrina classica pervade specialmente il Deutero-Isaia: il destino storico di Israele risponde al piano divino rivelato in anticipo dalla *parola profetica, e ciò assicura la venuta della *salvezza alla fine dei *tempi (Is 41, 21-28). Questo è l’antecedente della nozione tecnica e religiosa di «mistero», attestata parallelamente da Daniele e dal libro della Sapienza.
    2. Daniele ed il libro della Sapienza.
    a) Il libro di Daniele è un’apocalisse, cioè una *rivelazione dei «segreti» divini (râz: Dan 2, 18 s. 27 s. 47; 4, 6). Questi segreti non sono, come in altre opere apocrife, quelli della creazione: concernono ciò che si realizza nel tempo, sotto la forma di una storia continua, orientata verso una fine; in altre parole: i misteri del *disegno di salvezza. Questi segreti sono scritti in cielo, e si compiranno in modo infallibile; perciò Dio li può rivelare in *sogni, in visioni, o mediante gli angeli (cfr. 2; 4; 5; 7; 8; 10 - 12). Nessuna sapienza umana potrebbe dare una simile conoscenza del futuro; ma Dio è «il rivelatore dei misteri» (2, 28. 47). Egli fa conoscere in anticipo «ciò che deve avvenire alla fine dei giorni» (2, 28); e se le sue rivelazioni enigmatiche rimangono incomprensibili agli uomini, egli dà a qualche privilegiato una *sapienza (cfr. 5, 11), uno *spirito straordinario, grazie ai quali «nessun mistero li mette in imbarazzo» (4, 6). Ciò che egli in tal modo rivela, sono i suoi *giudizi, che preludono alla *salvezza. Questo oggetto d’altronde si trova incluso da lungo tempo nelle *Scritture profetiche: a Daniele che scruta il libro di Geremia, l’arcangelo Gabriele rivela il significato misterioso dell’oracolo delle settanta *settimane (Dan 9) che si basa sul simbolismo dei *numeri. Le Scritture vi sono quindi trattate dallo stesso modo dei sogni o delle visioni, che altrove traducono in simboli enigmatici i disegni segreti di Dio.
    b) Il libro della Sapienza non ignora la esistenza di «misteri» nei culti del paganesimo (Sap 14, 15. 23). Ma, in accordo con il libro di Daniele, applica il termine alle realtà trascendenti che sono l’oggetto della rivelazione: i segreti di Dio nella rimunerazione dei giusti (2, 22), i segreti relativi all’origine della *sapienza divina (6, 22). Questi misteri sono di ordine soteriologico (il «mondo futuro», termine del disegno di salvezza) e teologico (l’essere intimo di Dio). Corrispondono quindi a quelli di cui trattano gli autori di apocalissi.
    3 Il giudaismo extrabiblico.
    a)
    Apocalissi apocrife. - Nella letteratura apocrifa si ritiene che Enoch, al pari di Daniele, «conosca i segreti dei santi» (1 En 106, 19): egli ha letto i libri del cielo dove sono scritti tutti gli avvenimenti del futuro, ed ha appreso così il mistero del destino finale dei giusti (103, 2 ss) e dei peccatori (104, 10). Il mistero quindi è qui la realizzazione escatologica del *disegno di Dio, nozione che riterranno ancora le apocalissi di Esdra e di Baruc.
    b) I testi di Qumrân annettono parimenti una grande importanza alla conoscenza di questo «mistero futuro» che si compirà «nel giorno della visita» e determinerà la sorte dei giusti e dei peccatori. Ne cercano la descrizione delle Scritture profetiche, di cui il Maestro di Giustizia ha fornito loro la spiegazione, perché «Dio gli ha fatto conoscere tutti i misteri delle parole dei suoi servi i profeti» (cfr. Dan 9). Si tratta di una esegesi ispirata che equivale ad una nuova rivelazione: «gli ultimi tempi saranno più lunghi di quanto hanno predetto i profeti, perché i misteri di Dio sono meravigliosi». Ma questa rivelazione è riservata a coloro che camminano «nella perfezione della via»: rivelazione esoterica, che non dev’essere comunicata ai malvagi, agli uomini di fuori.
    NUOVO TESTAMENTO
    L’INSEGNAMENTO DI GESÙ
    I sinottici usano la parola mystèrion una sola volta; il vangelo di Giovanni non l’usa mai. «A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; ma a quelli che sono di fuori tutto è proposto in parabole» (Mc 4, 11 par.). Così risponde Gesù ai discepoli che lo interrogano sul senso della parabola del seminatore. Distingue nel suo uditorio coloro che possono capire il mistero, e «coloro che sono di fuori», cui la durezza del cuore impedisce di comprendere, secondo la frase di Isaia 6, 9 s (Mc 4, 12 par.). Per questi la venuta del regno rimane un enigma, di cui l’insegnamento in *parabole non offre la chiave. Ma ai discepoli, «il mistero è dato», e le parabole sono spiegate. Il mistero in questione è quindi l’avvento del *regno, conformemente al disegno di Dio attestato dalle profezie antiche: Gesù riprende qui un tema centrale delle apocalissi giudaiche. La sua opera propria consiste nell’instaurare il regno quaggiù e nel rivelare pienamente i segreti divini che lo concernono e che erano «nascosti fin dalla fondazione del mondo» (Mt 13, 35). Con lui termina la *rivelazione, perché si compiono le *promesse: il mistero del regno è presente quaggiù nella sua persona. Ma per ciò stesso l’umanità si scinde in due: i discepoli l’accolgono; «quelli di fuori» le chiudono il cuore. La proclamazione del mistero non è quindi esoterica (cfr. Mc 1, 15 par.; 4, 15 par.); tuttavia il velo delle parabole non è tolto che per coloro che possono capire (cfr. Mt 13, 9. 43). Ed anche per questi entrare nel mistero non è opera di intelligenza umana; è un dono di Dio.
    II. L’INSEGNAMENTO DI S. PAOLO
    Bisogna collocarsi nella stessa prospettiva - quella dell’apocalittica giudaica - per comprendere gli usi della parola mystèrion in S. Paolo. Questa parola in effetti suggerisce una realtà profonda, inesprimibile: apre uno spiraglio sull’infinito. L’oggetto che designa non è altro che quello del *vangelo: la realizzazione della *salvezza mediante la *morte e la *risurrezione di Cristo, il suo inserimento nella storia mediante la proclamazione della *parola. Ma questo oggetto è caratterizzato come un segreto divino, inaccessibile all’intelligenza umana fuori della rivelazione (cfr. 1 Cor 14, 2). Il termine conserva così la sua risonanza escatologica; ma si applica alle tappe successive attraverso le quali si realizza la salvezza annunziata: la venuta in terra di Gesù, il tempo della Chiesa, la consumazione dei secoli. Questo è il mistero la cui conoscenza e contemplazione costituiscono in parte l’ideale di ogni cristiano (Col 2, 2; Ef l, 15 s; 3, 18 s).
    1. Lo sviluppo del mistero nel tempo.
    - Nelle prime lettere (2 Tess, 1 Cor, Rom), sono intesi di volta in volta questi diversi aspetti del mistero. C’è identità tra «l’annunzio del mistero di Dio» (1 Cor 2, 1, secondo alcuni manoscritti) e la proclamazione del vangelo (1, 17) di Gesù crocifisso (cfr. 1, 23; 2, 2). Tale è l’oggetto del messaggio annunziato da Paolo ai Corinti, *scandalo per i giudei e *follia per i greci, ma sapienza per coloro che credono (1, 23 s). Questa *sapienza divina che assume forma di mistero (2, 7) era fino allora nascosta; nessuno dei principi di questo mondo l’aveva riconosciuta (2, 8 s); ma essa ci è stata rivelata dallo *Spirito, che scruta fin nelle profondità di Dio (2, 10 ss). Inaccessibile all’uomo psichico lasciato alle sue sole forze naturali, essa è intelligibile all’uomo spirituale a cui lo Spirito l’insegna (2, 15). Tuttavia soltanto ai «perfetti» (cfr. 2, 6), e non ai neofiti (3, 1 s), l’apostolo, «dispensatore dei misteri di Dio» (4, 1), può «esprimere con parole spirituali realtà spirituali» (2, 13), in modo che comprendano tutti i doni di grazia (2, 12), racchiusi in questo mistero. Il vangelo è dato a tutti, ma i cristiani sono chiamati ad approfondirne progressivamente la conoscenza. Ora questo mistero, che attualmente opera quaggiù per la salvezza dei credenti, è in lotta con un «mistero di iniquità» (2 Tess 2, 7), cioè con l’azione di *Satana che culminerà nella manifestazione dell’*anticristo. Il suo sviluppo nella storia avviene per vie paradossali; così fu necessario l’*indurimento di una parte di Israele affinché la massa dei pagani potesse essere salvata (Rom 11, 25): mistero della incomprensibile sapienza divina (11, 33) che ha fatto volgere in bene la caduta del popolo eletto. Alla fine del mistero Cristo trionferà, quando i morti risorgeranno ed i vivi saranno trasformati per partecipare alla sua vita celeste (1 Cor 15, 51 ss). Il «mistero di Dio» comprende tutta la storia sacra, dalla venuta di Cristo in terra sino alla sua parusia. Il vangelo è «la rivelazione di questo mistero, avvolto di *silenzio nei secoli eterni, ma oggi manifestato e, per mezzo delle *Scritture che lo predicono, portato a conoscenza di tutte le nazioni» (Rom 16, 25 s).
    2. Il mistero di Cristo e della Chiesa.
    - Nelle lettere della cattività (Col, Ef), l’attenzione di Paolo si concentra sull’aspetto presente del «mistero di Dio» (Col 2, 2): il «mistero di Cristo» (Col 4, 3; Ef 3, 4) che realizza la salvezza per mezzo della sua Chiesa. Questo mistero era nascosto in Dio nei secoli (Col 1, 26; Ef 3, 9; cfr. 3, 5); ma Dio lo ha manifestato (Col 1, 26), lo ha fatto conoscere (Ef 1, 9), lo ha messo in luce (3, 9), lo ha *rivelato agli apostoli ed ai profeti, e specialmente allo stesso Paolo (3, 4 s). Esso costituisce l’oggetto del vangelo (3, 6; 6, 19). È l’ultima parola del *disegno di Dio, formato da lungo tempo per essere realizzato nella pienezza dei *tempi: «ricondurre tutte le cose sotto un solo capo, Cristo, sia le cose celesti che le terrestri» (1, 9 s). L’apocalittica giudaica scrutava le meraviglie della creazione; la rivelazione cristiana ne manifesta il segreto più intimo: in Cristo, nato avanti ogni creatura, tutte le cose trovano la loro consistenza (Col 1, 15 ss) e tutte sono *riconciliate (1, 20). L’apocalittica scrutava pure le vie di Dio nella storia umana; la rivelazione cristiana le fa vedere che convergono verso Cristo, il quale inserisce la salvezza nella storia, grazie alla sua Chiesa (Ef 3, 10): ormai *giudei e pagani sono ammessi alla stessa eredità, membra dello stesso *corpo, beneficiari della stessa promessa (3, 6). Proprio di questo mistero Paolo è stato costituito ministro (3, 7 s). In esso tutto acquista un significato misterioso, anche l’unione dell’uomo e della *donna, simbolo dell’unione di Cristo e della Chiesa (5, 32). In esso sia i pagani che i giudei trovano il principio della speranza (Col 1, 27). Quanto è grande questo «mistero della fede» (1 Tim 3, 9), questo «mistero della pietà, manifestato nella carne, giustificato nello Spirito, visto dagli angeli, proclamato in mezzo ai pagani, creduto nel mondo, assunto nella gloria» (1 Tim 3, 16)! Una progressione continua porta così dal mistero inteso dalle apocalissi giudaiche al «mistero del *regno di Dio» rivelato da Gesù, ed infine al «mistero di Cristo» cantato dall’apostolo delle genti. Questo mistero non ha nulla in comune con i culti misterici dei Greci e delle religioni orientali, anche se Paolo occasionalmente riprende qualcuno dei termini tecnici di cui queste si servivano, per meglio opporre a questi aspetti particolari del «mistero d’iniquità» (cfr. 2 Tess 2, 7) il vero mistero di salvezza, come altrove oppone alla falsa sapienza umana la vera sapienza divina manifestata nella *croce di Cristo (cfr. 1 Cor 1, 17-25).
    III. L’APOCALISSE DI S. GIOVANNI
    Nell’Apocalisse la parola mystèrion designa a due riprese il significato segreto dei simboli che vengono spiegati dal veggente (Apoc 1, 20) o dall’angelo che gli parla (17, 7). Ma in due passi ritrova anche un senso vicinissimo a quello che le dava S. Paolo. In fronte a *Babilonia la grande, che rappresenta Roma, sta scritto un nome, un mistero (17, 5); e questo perché in essa opera nella storia quel «mistero d’iniquità» che già Paolo denunziava (cfr. 2 Tess 2, 7). Infine nell’ultimo giorno, quando il settimo angelo suonerà la tromba per annunziare il giudizio finale, «sarà compiuto il mistero di Dio, come ne diede lieto annuncio ai suoi servi i profeti» (Apoc 10, 7; cfr. 1 Cor 15, 20-28). La Chiesa aspira a questa consumazione. Vive già nel mistero; ma, inserita in mezzo al «mondo presente», essa è ancora divisa tra le potenze divine e le potenze diaboliche. Verrà un giorno in cui le potenze diaboliche saranno infine annientate (cfr. Apoc 20; 1 Cor 5, 26 s) ed essa entrerà nel «mondo futuro». Allora sussisterà solo il mistero di Dio, in un universo rinnovato (Apoc 21; cfr. 1 Cor 15, 28). Tale è il termine della rivelazione cristiana.
    B. RIGAUX e P. GRELOT
    → conoscere VT 4; NT 3 - croce I 2 - Dio NT II 3.4 - disegno di Dio - incredulità II - nube - parabola - presenza di Dio VT II; NT II - regno NT II - rivelazione - sapienza - segno - silenzio - sogni VT - Spirito di Dio 0 - vedere - verità VT 3; NT 2.

    MITEZZA (inizio)

    «Mettetevi alla mia scuola, perché io sono mite ed umile di cuore» (Mt 11, 29). Gesù, che così parla, è la rivelazione suprema della mitezza di Dio (Mi 12, 18 ss); è la fonte della nostra, quando proclama: «Beati i miti» (Mt 5, 4).
    1. La mitezza di Dio.
    - Il VT canta l’immensa e clemente bontà di Dio (Sal 31, 20; 86, 5), manifestata nel suo governo dell’universo (Sap 8, 1; 15, 1), e ci invita a *gustarla (Sal 34, 9). Più dolci del miele sono la parola di Dio, la sua legge (Sal 119, 103; 19, 11; Ez 3, 3), la conoscenza della sua sapienza (Prov 24, 13; Eccli 24, 20) e la fedeltà alla sua legge (Eccli 23, 27). Dio nutre il suo popolo con un *pane che soddisfa tutti i gusti; rivela in tal modo la sua dolcezza (Sap 16, 20 s), dolcezza che egli fa gustare al popolo di cui è lo sposo diletto (Cant 2, 3), dolcezza che il Signore Gesù finisce di rivelarci (Tito 3, 4) e di farci gustare (1 Piet 2, 3).
    2. Mitezza ed *umiltà.
    - Mosè è il modello della vera mitezza, *virtù che non è debolezza, ma umile sottomissione a Dio, fondata sulla fede nel suo amore (Num 12, 3; Eccli 45, 4; 1, 27; cfr. Gal 5, 22 s). Questa umile mitezza caratterizza il «*resto» che Dio salverà, ed il re che darà la pace a tutte le nazioni (Sof 3, 12; Zac 9, 9 s = Mt 21, 5). Questi miti, sottomessi alla sua parola (Giac 1, 20 ss), Dio li dirige (Sal 25, 9), li sostiene (Sal 147, 6), li salva (Sal 76, 10); dà loro il trono dei potenti (Eccli 10, 14) e fa loro godere la pace nella sua terra (Sal 37, 11 = Mt 5, 4).
    3. Mitezza e carità.
    - Colui che è docile a Dio, è mite verso gli uomini, specialmente verso i poveri (Eccli 4, 8). La mitezza è il frutto dello Spirito (Gal 5, 23) ed il segno della presenza della sapienza dall’alto (Giac 3, 13. 17). Sotto il suo duplice aspetto di calma mansuetudine (gr. pràytes) e di indulgente moderazione (gr. epieikeìa), la mitezza caratterizza Cristo (2 Cor 10, 1), i suoi discepoli (Gal 6, 1; Col 3, 12; Ef 4, 2) ed i loro pastori (1 Tim 6, 11; 2 Tim 2, 25). Essa è l’ornamento delle donne cristiane (1 Piet 3, 4) e fa la felicità dei loro focolari (Eccli 36, 23). Il vero cristiano, anche nella persecuzione (1 Piet 3, 16), mostra a tutti una mitezza serena (Tito 3, 2; Fil 4, 5); attesta in tal modo che il «giogo del Signore è dolce» (Mt 11, 30), essendo quello dell’amore.
    C. SPICQ e M. F. LACAN
    → gustare - pazienza - poveri VT III; NT I - umiltà - violenza II - virtù e vizi 3.

    MITO (inizio)

    → apparizioni di Cristo 6 - creazione VT I - figura VT II 1.4 - re o - risurrezione VT I - tempo intr. 1.

    MODERAZIONE (inizio)

    → ubriachezza 2 - vegliare - vino I - virtù e vizi.

    MODESTIA (inizio)

    → umiltà.

    MONARCHIA (inizio)

    → regalità.

    MONDO (inizio)

    VECCHIO TESTAMENTO
    Per designare il mondo si usa correntemente l’espressione «cieli e terra» (Gen 1, 1); il termine tebel è applicato soltanto al mondo terrestre (ad es. Ger 51, 15); i libri di epoca greca parlano del kosmos (Sap 11, 17; 2 Mac 7, 9. 23) mettendo in questo termine un contenuto specificamente biblico. Per il pensiero greco, il kòsmos con le sue leggi, la sua bellezza, la sua perennità, il suo ritorno eterno delle cose esprime effettivamente l’ideale di un ordine chiuso in sé, che include l’uomo ed implica persino gli dèi: i quali non si distinguono bene dagli elementi del mondo in questo panteismo virtuale o confessato. Del tutto diversa è la concezione biblica, in cui le rappresentazioni cosmologiche e cosmogoniche non costituiscono che un materiale secondario, posto al servizio di un’affermazione religiosa essenziale: il mondo, creatura di Dio, acquista un senso in funzione del suo disegno di salvezza, e proprio nella cornice di questo disegno troverà pure il suo destino finale.
    I. ORIGINI DEL MONDO
    In contrasto con le mitologie mesopotamiche, egiziana, cananea, ecc., la rappresentazione biblica delle origini del mondo conserva una grande sobrietà. Non è più collocata sul piano del mito, storia divina accaduta prima del tempo; al contrario, inaugura il *tempo. E questo perché tra *Dio ed il mondo c’è un abisso, espresso dal verbo *creare (Gen 1, 1). Se la Genesi, appoggiata da altri testi (Sal 8; 104; Prov 8, 22-31; Giob 38 s), evoca l’attività creatrice di Dio, lo fa unicamente per sottolineare dei punti di fede: distinzione del mondo e del Dio unico; dipendenza del mondo in rapporto al Dio sovrano, che «parla e le cose sono» (Sal 33, 6-9), che con la sua *provvidenza governa le leggi della natura (Gen 8, 22); integrazione dell’universo nel *disegno di salvezza che ha l’*uomo come centro. Questa cosmologia sacra, estranea alle preoccupazioni scientifiche come alle speculazioni filosofiche, colloca così il mondo in rapporto all’uomo: questi ne emerge per dominarlo (Gen 1, 28) ed a questo titolo lo trascina nel suo stesso destino.
    II. SIGNIFICATO DEL MONDO
    Anche il significato attuale del mondo per la coscienza religiosa dell’uomo è duplice.
    1. Uscito dalle mani divine, il mondo continua a manifestare la bontà di Dio. Dio, nella sua *sapienza, lo ha organizzato come una vera opera d’arte, unita ed armoniosa (Prov 8, 22-31; Giob 28, 25 ss). Con ciò la sua *potenza e la sua divinità si rendono in qualche modo sensibili (Sap 13, 3 ss), perché la sua *grazia è talmente diffusa su tutte le sue *opere che la vista dell’universo esaurisce le facoltà di ammirazione dell’uomo (Sal 8; 19, 1-7; 104).
    2. Ma per l’uomo peccatore impegnato nella sua tragedia, il mondo significa pure l’*ira di Dio, alla quale serve di strumento (Gen 3, 17 s): colui che ha fatto le cose per il *bene e la felicità dell’uomo se ne serve pure per il suo *castigo. Di qui le *calamità di ogni specie in cui la natura ingrata si leva contro l’umanità, dal *diluvio alle piaghe di Egitto ed alle *maledizioni che attendono Israele infedele (Deut 28, 15-46).
    3. In questo duplice modo il mondo è associato attivamente alla storia della *salvezza, ed in funzione di essa acquista il suo vero senso religioso. Ciascuna delle creature che lo compongono possiede una specie di ambivalenza, che il libro della Sapienza mette in rilievo: la stessa *acqua che perdeva gli Egiziani assicurava la salvezza di Israele (Sap 11, 5-14). Se è vero che il principio non può essere applicato meccanicamente, perché giusti e peccatori vivono quaggiù in comunanza di destino, appare tuttavia un legame misterioso tra il mondo e l’uomo. Al di là dei fenomeni ciclici che, alla nostra scala, costituiscono il volto attuale del mondo, questo ha quindi una storia, che ha avuto inizio prima dell’uomo per terminare a lui (Gen 1, 1 - 2, 4), e che presentemente cammina parallelamente a quella dell’uomo per consumarsi nello stesso punto finale.
    III. DESTINO FINALE DEL MONDO
    Portatore di una umanità sorta da esso per le sue radici corporali (Gen 2, 7; 3, 19), il mondo è di fatto incompiuto: spetta all’uomo perfezionarlo col suo *lavoro dominandolo (l, 28) ed imprimendo su di esso il suo segno. Ma che valore avrà l’umanizzazione del mondo, se l’uomo peccatore lo trascina di fatto nel sito peccato? Perciò l’escatologia dei profeti non si occupa tanto di questo divenire del mondo sotto il governo dell’uomo, quanto del termine - necessariamente ambiguo - verso il quale cammina.
    1. Al *giudizio finale che attende l’umanità, tutti gli elementi del mondo saranno associati, come se l’ordine delle cose create all’inizio venisse sconvolto da un repentino ritorno al caos (Ger 4, 23-26). Di qui le immagini della terra che scricchiola (Is 24, 19 s), degli astri che si oscurano (Is 13, 10; Gioe 2, 10; 4, 15): il vecchio universo sarà trascinato nel cataclisma in cui sarà inghiottita un’umanità colpevole...
    2. Ma, come al di là del giudizio degli uomini si prepara la loro *salvezza per pura grazia divina, così si prepara pure per il mondo una rinnovazione profonda che i testi evocano come una *nuova creazione: Dio creerà «cieli nuovi ed una terra nuova» (Is 65, 17; 66, 22); e la descrizione di questo mondo rinnovato è fatta con le immagini che servivano anche per il *paradiso primitivo.
    3. Mondo presente e mondo futuro. - Come prolungamento di questi annunci misteriosi, il giudaismo contemporaneo del NT si raffigurava il termine della storia umana come un passaggio dal mondo (o dal secolo) presente al mondo (od al secolo) futuro. Il mondo presente è quello in cui siamo da quando, per l’invidia del demonio (ed il peccato dell’uomo), la *morte vi ha fatto il suo ingresso (Sap 2, 24). Il mondo futuro è quello che apparirà quando Dio verrà a stabilire il suo *regno. Allora le realtà del mondo presente, purificate come l’uomo stesso, ritroveranno la loro perfezione primitiva: ad immagine delle realtà celesti, esse saranno veramente trasfigurate.
    NUOVO TESTAMENTO
    Il NT usa abbondantemente il termine greco kosmos. Ma il significato che gli conferisce risulta da tutta l’elaborazione effettuata nel VT e già assunta nella traduzione greca.
    I. AMBIGUITÀ DEL MONDO
    1.
    È vero che il mondo così designato rimane fondamentalmente la creatura eccellente che Dio ha fatto alle origini (Atti 17, 24) mediante l’attività del suo Verbo (Gv 1, 3. 10; cfr. Ebr 1, 2; Col 1, 16). Questo mondo continua a rendere testimonianza a Dio (Atti 14, 17; Rom 1, 19 s). Sarebbe tuttavia un errore stimarlo troppo, perché l’uomo lo supera di molto in valore vero: che gli servirebbe conquistare il mondo intero se perdesse se stesso (Mt 16, 26)?
    2. Ma c’è di più: nel suo stato attuale, questo mondo, solidale con l’uomo peccatore, è di fatto in potere di *Satana. Il *peccato vi è entrato all’inizio della storia e, con il peccato, la morte (Rom 5, 12). Per tal fatto è diventato debitore della giustizia divina (3, 19), perché è solidale con il mistero del male che agisce in terra. Il suo elemento più visibile è costituito dagli uomini che levano la loro volontà ribelle contro Dio e contro il suo Cristo (Gv 3, 18 s; 7, 7; 15, 18 s; 17, 9. 14...). Dietro di essi si profila un capo invisibile: Satana, il principe di dio di questo secolo (2 Cor 4, 4). *Adamo, stabilito capo del mondo dalla volontà del suo creatore, ha consegnato nelle mani di Satana la sua persona ed il suo regno; da allora il mondo è in potere del maligno (1 Gv 5, 19), che ne comunica la potenza e la gloria a chi vuole (Lc 4, 6). Mondo di tenebre, governato dagli spiriti del male (Ef 6, 12); mondo ingannatore, i cui elementi costitutivi pesano sull’uomo e lo asserviscono, fin nella stessa economia antica (Gal 4, 3. 9; Col 2, 8. 15). Lo spirito di questo mondo, incapace di gustare i segreti ed i doni di Dio (1 Cor 2, 12), si oppone allo Spirito di Dio, proprio come lo spirito dell’*anticristo che agisce nel mondo (1Gv 4, 3). La *sapienza di questo mondo, basata sulle speculazioni del pensiero umano separato da Dio, è convinta da Dio di *follia (1 Cor 1, 20). La *pace che dà il mondo, fatta di prosperità materiale e di sicurezza fallace, non è che un simulacro della vera pace che Cristo solo può dare (Gv 14, 27): il suo effetto ultimo è una *tristezza che produce la morte (2 Cor 7, 10). Attraverso a tutto questo si rivela il *peccato del mondo (Gv 1, 29), massa di odio e di incredulità accumulata fin dalle origini, pietra di inciampo per chi vorrebbe entrare nel regno di Dio: guai al mondo a motivo degli *scandali (Mi 18, 7)! Perciò il mondo non può offrire all’uomo nessun valore sicuro: la sua figura passa (1 Cor 7, 31), e così pure le sue concupiscenze (1 Gv 2, 16). Il tragico del nostro destino proviene dal fatto che, per nascita, noi apparteniamo a questo mondo.
    II. GESÙ ED IL MONDO
    Ora «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unico» (Gv 3, 16). Questo è il paradosso con cui incomincia per il mondo una nuova storia che presenta due aspetti complementari: la vittoria di Gesù sul mondo malvagio governato da Satana, l’inaugurazione in lui del mondo rinnovato che le promesse profetiche annunciavano.
    1. Gesù, vincitore del mondo.
    - Questo primo punto è messo in pieno rilievo dal quarto vangelo: «Egli era nel mondo, ed il mondo fu fatto per mezzo suo, ed il mondo non lo ha conosciuto» (Gv 1, 10). Tale è il riassunto della carriera terrena di Gesù. Gesù non è del mondo (8, 23; 17, 14), e neppure il suo regno (18, 36); ha la sua *potenza da Dio (Mt 28, 10), e non dal principe di questo mondo (Lc 4, 5-8), perché questi non ha alcun potere su di lui (Gv 14, 30). Perciò il mondo lo odia (15, 18), tanto più che egli ne è la luce (9, 5), gli apporta la vita (6, 33), viene per salvarlo (12, 47). *Odio folle, che domina apparentemente il dramma evangelico e provoca alla fine la condanna a morte di Gesù (cfr. 1 Cor 2, 7 s). Ma in questo stesso istante la situazione si capovolge: ed allora è il *giudizio del mondo e la caduta del suo principe (Gv 12, 31), è la *vittoria di Cristo sul mondo malvagio (16, 33). Infatti Gesù accettando con un atto supremo di amore la misteriosa *volontà del Padre (14, 31), ha «lasciato il mondo» (16, 28) per ritornare al Padre, dove siede ormai nella gloria (17, 1. 5), e di dove dirige la storia (Apoc 5, 9).
    2. Il mondo rinnovato.
    - Con ciò stesso Gesù ha realizzato il fine per cui era venuto in terra: morendo, ha «tolto il peccato del mondo» (Gv 1, 29), ha dato la sua carne «per la vita del mondo» (6, 51). Ed il mondo, creatura di Dio caduta sotto il giogo di Satana, è stato riscattato dalla sua *schiavitù. E’ stato lavato dal *sangue di Gesù: Terra, ponius, astra, mundus, quo lavantur flumine! Egli, nel quale tutte le cose erano state create (Col 1, 16), è stato stabilito dalla sua risurrezione capo e *testa della *nuova creazione: Dio ha posto tutto sotto i suoi piedi (Ef 1, 20 ss), *riconciliando in lui tutti gli esseri e ricostituendo l’*unità di un universo diviso (Col 1, 20). In questo mondo nuovo la *luce e la *vita circolano ormai in abbondanza: sono date a tutti coloro che hanno *fede in Gesù. Tuttavia il mondo presente non ha ancora avuto termine. La grazia di *redenzione agisce in un universo *sofferente. La vittoria di Cristo non sarà completa che il giorno della sua manifestazione in *gloria, quando consegnerà tutte le cose al Padre suo (1 Cor 15, 25-28). Fino allora l’universo rimane in attesa di un parto doloroso (Rom 8, 19...): quello dell’*uomo nuovo nella sua piena statura (Ef 4, 13), quello di un mondo nuovo che succede definitivamente all’antico (Apoc 21, 4 s).
    III. IL CRISTIANO ED IL MONDO
    In rapporto al mondo i cristiani si trovano nella stessa situazione complessa in cui si trovava Cristo durante il suo passaggio in terra. Non sono del mondo (Gv 15 19; 17, 16); e tuttavia sono nel mondo (17, 11), e Gesù non prega il Padre di ritrarneli, ma soltanto di custodirli dal maligno (17, 15). La loro separazione nei confronti del mondo malvagio lascia intatto il loro compito positivo nei confronti del mondo da redimere (cfr. 1 Cor 5, 10).
    1. Separati dal mondo.
    - Anzitutto separazione: il cristiano deve custodirsi immacolato dal mondo (Giac 1, 27); non deve amare il mondo (1 Gv 2, 15), perché l’amicizia per il mondo è inimicizia contro Dio (Giac 4, 4) e porta ai peggiori abbandoni (2 Tim 4, 10). Evitando di modellarsi sul secolo presente (Rom 12, 2), rinunzierà quindi alle concupiscenze che ne definiscono lo spirito (1 Gv 2, 16). In una parola, il mondo sarà un *crocifisso per lui ed egli per il mondo (Gal 6, 14): se ne servirà come se non se ne servisse (1 Cor 7, 29 ss). Distacco profondo, che evidentemente non esclude un uso dei beni di questo mondo conforme alle esigenze della carità fraterna (1 Gv 3, 17): tale è la *santità che è richiesta al cristiano.
    2. Testimoni di Cristo dinanzi al mondo.
    - Ma da un altro lato, ecco la missione positiva del cristiano dinanzi al mondo attualmente *prigioniero del peccato. Come Cristo vi è venuto per rendere testimonianza alla verità (Gv 18, 37), così il cristiano è inviato nel mondo (17, 18) per rendere una *testimonianza che è quella di Cristo stesso (1 Gv 4, 17). L’esistenza cristiana, che è tutto l’opposto di una manifestazione spettacolare alla quale Gesù stesso si è rifiutato (Gv 7, 3 s; 14, 22; cfr. Mt 4, 5 ss), rivelerà agli uomini il vero volto di Dio (cfr. Gv 17, 21. 23). Vi si aggiungerà la testimonianza della parola. Infatti i *predicatori del vangelo hanno ricevuto l’ordine di annunziarlo al mondo intero (Mc 14, 9; 16, 15): vi brilleranno come altrettanti luminari (Fil 2, 15). Ma il mondo si leverà contro di essi, come già contro Gesù (Gv 15, 18), cercando di riconquistare coloro che fossero sfuggiti alla sua corruzione (2 Piet 2, 19 s). In questa *guerra inevitabile l’arma della lotta e della vittoria sarà la *fede (1 Gv 5, 4 s): la nostra fede condannerà il mondo (Ebr 11, 7; Gv 15, 22). Per nulla stupito di essere *odiato ed incompreso (1 Gv 3, 13; Mt 10, 14 par.) ed anche *perseguitato dal mondo (Gv 15, 18 ss), il cristiano è confortato dal *Paraclito, lo Spirito di verità, inviato in terra per confondere il mondo: lo Spirito attesta nel cuore del fedele che il mondo commette peccato rifiutando di credere in Gesù, che la causa di Gesù è giusta poiché egli è presso il Padre ed il principe di questo mondo è già condannato (16, 8-11). Benché il mondo non lo veda né lo conosca (14, 17), questo Spirito rimarrà nel fedele, e lo farà trionfare degli *anticristi (1 Gv 4, 4 ss). Ed a poco a poco, grazie alla testimonianza, quelli, tra gli uomini, il cui destino non è definitivamente legato al mondo, riprenderanno posto nell’universo redento che ha Cristo per capo.
    3. In attesa dell’ultimo giorno.
    - Finché durerà il secolo presente, non c’è da sperare che questa tensione tra il mondo ed i cristiani sparisca. Fino al *giorno della separazione definitiva, sudditi del regno e sudditi del maligno rimarranno mescolati come la zizzania ed il grano nel campo di Dio, che è il mondo (Mt 13, 38 ss). Ma fin d’ora incomincia ad operarsi il *giudizio nel segreto dei cuori (Gv 3, 18-21); avrà soltanto più da esser reso pubblico, nel giorno in cui Dio giudicherà il mondo (Rom 3, 6) associando i suoi fedeli alla sua attività di giudice (1 Cor 6, 2). Allora il mondo presente sparirà in modo definitivo, conformemente agli oracoli profetici, mentre l’umanità rigenerata troverà la *gioia di un universo rimesso a nuovo (cfr. Apoc 21).
    C. LESQUIVIT e P. GRELOT
    → astri - cielo I - creazione - generazione 2 - Gesù Cristo II 1 d - giudeo II - missione - odio I 1; III 1.2 - peccato IV 2 - persecuzione - preoccupazioni - prova-tentazione VT I 3; NT I - riconciliazione II 1 - tempo VT I - terra - uomo I 1 b - vittoria NT.

    MONTE (inizio)

    Nella maggior parte delle religioni, il monte, probabilmente a motivo della sua altezza e del mistero di cui si circonda, viene considerato come il punto in cui il cielo incontra la terra. Molti sono i paesi che hanno il loro monte santo, dove il mondo fu creato, dove abitano gli dèi, donde viene la salvezza. La Bibbia ha conservato queste credenze, ma le ha purificate; con il VT, il monte non è che una creatura tra le altre: così Jahvè è senza dubbio il «Dio dei monti» (senso probabile di El-Shaddaj), ma anche il Dio delle valli (1 Re 20, 23. 28); con Cristo, Sion cessa di essere «l’ombelico del mondo» (Ez 38, 12), perché Dio non vuole più essere adorato su questo o quel monte, ma in spirito e verità (Gv 4, 20-24).
    I. LA CREATURA DI DIO
    1. Stabilità.
    - Gli uomini passano, i monti rimangono. Questa esperienza fa vedere facilmente nei monti un simbolo della *giustizia fedele di Dio (Sal 36, 7); quelli che conobbero i patriarchi sono persino chiamati «colli eterni» (Gen 49, 26; Deut 33, 15). Ma queste creature, per quanto mirabili, non devono tuttavia essere divinizzate: «Prima che i monti fossero nati, da sempre tu sei *Dio» (Sal 90, 2; cfr. Prov 8, 25). Il creatore che «pesò i monti con la stadera ed i colli con la bilancia» (Is 40, 12) è colui che li «tiene saldi con la sua *forza» (Sal 65, 7); li sposta a piacer suo (Giob 9, 5) e dà lo stesso potere al più umile dei credenti (Mt 17, 20; cfr. 1 Cor 13, 2). Tutti quindi proclamino: «O voi, monti e colli, benedite il Signore!» (Dan 3, 75; Sal 148, 9).
    2. Potenza.
    - Alto sopra le pianure che le calamità sovente devastano, il monte offriva già un rifugio a Lot in pericolo (Gen 19; 17), ed attira ancora il giusto perseguitato che pensa di rifugiarvisi come l’uccello (Sal 11, 1; cfr. Ez 7, 16; Mt 24, 16). Ma questo giusto deve stare attento: levando gli occhi ai monti, da Jahvè solo, creatore del cielo e della terra, otterrà l’aiuto (Sal 121, 1 s; cfr. Ger 3, 23). Diversamente confiderebbe in una creatura, che, puro simbolo di *potenza (Dan 2, 35. 45), diventerebbe allora simbolo dell’*orgoglio, come la superba *Babilonia dominatrice del mondo (Ger 51, 25). Ogni altura deve essere umiliata, Dio solo esaltato (Is 2, 12-15).
    3. Dinanzi a Dio.
    - «Nel tuo *nome il Tabor e 1’Hermon esultano» (Sal 89, 13). Quando il Signore *visita la terra, i monti prorompano quindi in grida di gioia (Is 44, 23) e saltellino dinanzi alle sue grandi opere (Sal 29, 6), lascino scorrere sui loro fianchi il *vino nuovo e maturi il frumento fino alla loro vetta (Am 9, 13; Sal 72, 16)! Ma si aspettino anche di essere livellati (Is 45, 2; 49, 11; Bar 5, 7; Lc 3, 5). Potranno allora offrire un rifugio valido nel giorno dell’*ira (Os 10, 8; Lc 21, 21; 23, 30; Apoc 6, 14 ss)? «Guardai, ed ecco che tremano» (Ger 4, 24) fumano a contatto con colui che può consumarli con il *fuoco (Sal 104, 32; Deut 32, 22); sotto i suoi passi (Mi 1, 4), dinanzi alla sua *faccia (Is 63, 19), essi fondono come cera (Sal 97, 5), scorrono (Giud 5, 5); «i monti eterni esplodono» (Ab 3, 6), sprofondano (Ez 38, 20), spariscono alla fine dei tempi (Apoc 6, 14; 16, 20).
    II. I MONTI PRIVILEGIATI
    Benché votati ad una trasformazione totale, come tutta la *creazione, taluni monti furono riservati ad una funzione duratura e gloriosa.
    1. Luogo di rivelazione per eccellenza «il monte di Dio», od Horeb, nel Sinai, è una terra santa dove Mosè ebbe la vocazione (Es 30,1. 5), che Dio rese sacra con il dono della sua legge (Es 24, 12-18) e con la presenza della sua *gloria (24, 16). Là ancora salirà *Elia (l Re 19, 8), che voleva sentire Dio parlargli, scopo inteso indubbiamente anche dai profeti che amano sostare e pregare in vetta ai monti: Mosè sul Sinai (Es 17, 9 s), Elia od Eliseo sul monte Carmelo (1 Re 18, 42; 2 Re 1, 9; 4, 25).
    2. Soprattutto luogo di culto, il monte, alto sopra il suolo, permette di incontrare il Signore. Il sacrificio non deve forse compiersi su una piccola altura (*altare) (Es 24, 4 s)? Benedizione e maledizione devono essere pronunziate dai monti Garizim ed Hebal (Deut 11, 29; Gios 8, 30- 35). Anche l’arca, di ritorno dai Filistei, è deposta su una collina (1 Sam 7, 1). Eredi di una venerabile tradizione, Gedeone (Giud 6, 26), Samuele (1 Sam 9, 12), Salomone (1 Re 3, 4) od Elia (1 Re 18, 19 s), sacrificano tutti con il popolo sulle «alture» (1 Re 3, 2). I riti cananei, che in tal modo venivano ripresi, erano applicati a Jahvè, solo Dio; ma la dispersione delle altura presentava il pericolo d’idolatria (Ger 2, 20; 3, 23). Si procedette perciò a centralizzare il *culto in un luogo unico (Deut 12, 2-9). Ecco quindi il monte che l’uomo non ha affatto costruito per dare la scalata al cielo (Gen 11), il colle dallo slancio superbo, che Dio ha scelto tra i monti scoscesi (Sal 48, 2 s; 68, 17). Mentre gli altri monti possono cadere nel mare (Sal 46, 3), Sion è un rifugio sicuro (Gioe 3, 5), incrollabile (Sal 125, 1). L’uomo quindi non deve dire: «Darò la scalata ai cieli, drizzerò il mio trono sopra le stelle di Dio, salirò in vetta alle nubi nere, rassomiglierò all’Altissimo» (Is 14, 13 s), perché cadrebbe nelle profondità dell’abisso. Dio in persona ha «stabilito il suo re in Sion, suo monte santo» (Sal 2, 6), nel luogo stesso in cui Abramo sacrificò il figlio (2 Cron 3, 1), il monte Moria. Su questo monte santo, ricco di tanti ricordi divini, il fedele deve salire (Sal 24, 3) cantando i «cantici delle salite» (Sal 120 - 134), e ritornare continuamente (Sal 43, 3), nella speranza di *rimanervi per sempre con il Signore (Sal 15, 1; 74, 2).
    3. Alla fine dei tempi, che diventano questi luoghi consacrati da Dio stesso? Nella letteratura escatologica il Sinai non trova più posto; non è più che il luogo antico, dove furono date «le parole di vita» (Atti 7, 38) e donde Dio parti per raggiungere il suo vero santuario, Sion (Sal 68, 16 ss). A differenza del Sinai che scompare nel passato, il monte Sion conserva di fatto un valore escatologico. «Il monte della casa di Jahvè sarà stabilito sulla cima dei monti ed innalzato al di sopra dei colli. Vi affluiranno tutte le *nazioni... Venite! Saliamo al monte di Jahvè» (Is 2, 2 s), a questo monte santo (11, 9; Dan 9, 16). Jahvè vi diventerà re (Is 24, 23), vi preparerà un grande banchetto (25, 6-10) per i *dispersi infine radunati (27, 13; 66, 20), ed anche per gli *stranieri (56, 6 s). Infatti, mentre il paese sarà trasformato in pianura, *Gerusalemme sarà sovraesaltata pur rimanendo al suo posto (Zac 14, 10), e tutti dovranno «salirvi» per sempre (14, 16 ss).
    III. CRISTO ED I MONTI
    1. Nella vita di Gesù i monti sono diversamente considerati dai sinottici. Essi si accordano nel fare vedere che Gesù amava ritirarsi sul monte per pregare (Mt 14, 23 par.; Lc 6, 12; 9, 28), e la *solitudine *desertica (cfr. Lc 15, 4 = Mt 18, 12) che vi cerca è senza dubbio un rifugio contro la pubblicità rumorosa (cfr. Gv 6, 15). S’accordano parimenti nell’ignorare il monte Sion e nel menzionare il monte degli Ulivi, nonché il monte della trasfigurazione, ma in una prospettiva diversa. Per Matteo, il luogo privilegiato delle manifestazioni dei salvatore sono i monti di Galilea. La vita di Gesù è inquadrata da due scene sul monte: all’inizio, Satana offre a Gesù il potere su tutto il mondo (Mt 4, 8); alla fine Gesù conferisce ai suoi discepoli il potere che ha ricevuto dal Padre (28, 16). Tra queste due scene, sempre su questo o quel monte Gesù ammaestra la folla (5, 1), guarisce gli sventurati e dà loro un pane meraviglioso (15, 29...), infine appare trasfigurato (17, 1 s). Ora nessuno di questi monti porta un nome preciso, come se il discepolo di Gesù si fosse premunito contro la tentazione di piantare per sempre la sua tenda su qualcuno di essi; soltanto la *memoria ne deve restare viva nei «testimoni oculari della sua maestà»: le Scritture si compirono sul «monte santo» (2 Piet 1, 16-19). Gesù non fissa il suo messaggio ad un luogo della terra, ma alla sua persona. Per Luca, la «salita» a Gerusalemme rappresenta la *via della gloria attraverso la croce; non si tratta più semplicemente del pellegrinaggio che il pio israelita compie (Lc 2, 42), ma della solenne salita che abbraccia un’epoca della vita di Gesù (9, 51 - 21, 38; cfr. 18, 31). Ignorando i monti della Galilea che sentirono i discorsi e videro i prodigi di Gesù, Luca concentra la sua attenzione sul monte degli Ulivi. Non ricorda che Gesù vi faccia il discorso escatologico (Mt 24, 3 = Mc 13, 3), ma per lui, là termina la salita a Gerusalemme (Lc 19, 29), di là, conformemente alla tradizione apocalittica (Zac 14, 3 s), il Signore doveva partire alla conquista del mondo: vi è acclamato solennemente (Lc 19, 37), ma vi si reca anche per agonizzare (22, 39) e, infine, per salire al cielo (Atti 1, 12). Se è ancora menzionato un monte preciso, sembra lo sia soltanto per insegnare ad «innalzare gli occhi» al *cielo, o meglio verso colui che, secondo la teologia giovannea, è stato «innalzato» da terra (Gv 3, 13 s; 9, 37).
    2. Gli altri scritti del NT non presentano un insegnamento unificato sui monti privilegiati del VT. Il Sinai è assimilato dalla polemica paolina alla casa di schiavitù (Gal 4, 24 ss) o serve di antitesi al monte Sion al quale presentemente è possibile accostarsi (Ebr 12, 18. 22). Nello stesso senso l’Apocalisse presenta l’agnello che alla fine dei tempi sta ritto sul monte Sion (Apoc 14, 1); ma altrove fa una critica radicale di questo santo luogo: il monte non è più, come nella visione di Ezechiele, il luogo su cui sembra costruita la città (Ez 40, 2), ma è soltanto un osservatorio donde si contempla la *Gerusalemme che discende dal cielo (Apoc 21, 10).
    X. LÉON DUFOUR
    → ascensione I - Gerusalemme VT I 2 - trasfigurazione 2.

    MORALE (inizio)

    → bene e male - carne II –giustizia - legge - retribuzione III 2 - virtù e vizi.

    MORMORIO (inizio)

    → deserto VT I 2 - incredulità.

    MORTE (inizio)

    VECCHIO TESTAMENTO 
    I. PRESENZA DELLA MORTE
    1. L’esperienza della morte.
    - Tutti fanno l’esperienza della morte. Lungi dal distoglierne lo sguardo per rifugiarsi in sogni illusori, la rivelazione biblica, a qualunque stadio la si esamini, comincia col guardarla lucidamente in faccia: morte delle persone care, che, una volta scambiati gli *addii (Gen 49), provoca l’angoscia in coloro che restano (Gen 50, l; 2 Sam 19, 1...); morte che ciascuno deve considerare per se stesso, perché anch’egli «*vedrà la morte» (Sal 89, 49; Lc 2, 26; Gv 8, 51), «*gusterà la morte» (Mt 16, 28 par.; Gv 8, 52; Ebr 2, 9). Pensiero amaro per colui che fruisce dei beni dell’esistenza, ma prospettiva desiderabile per colui che la vita opprime (cfr. Eccli 41, 1 s): mentre Ezechia piange sulla sua morte imminente (2 Re 20, 2 s), Giobbe la invoca a gran voce (Giob 6, 9; 7, 15).
    2. L’oltretomba.
    - Il defunto «non è più» (Sal 39, 14; Giob 7, 8. 21; 7, 10): prima impressione di inesistenza, perché l’oltretomba sfugge alle prese dei viventi. Nelle credenze primitive, conservate a lungo dal VT, la morte non è tuttavia un annientamento totale. Mentre il *corpo è deposto in una fossa sotterranea, qualcosa del defunto, un’*ombra, sussiste nello šeol. Ma questi *inferi sono concepiti in modo molto rudimentale: un buco spalancato, un pozzo profondo, un luogo di silenzio (Sal 115, 17), di perdizione, di tenebre, di dimenticanza (Sal 88, 12 s; Giob 17, 13). Ivi tutti i morti radunati partecipano alla stessa misera sorte (Giob 3, 13-19; Is 14, 9 s), anche se vi sono gradi nella loro ignominia (Ez 32, 17-32): sono consegnati alla polvere (Giob 17, 16; Sal 22, 16; 30, 10) ed ai vermi (Is 14, 11; Giob 17, 14). La loro esistenza non è più che un *sonno (Sal 13, 4; Dan 12, 2): non c’è più speranza, conoscenza di Dio, esperienza dei suoi miracoli, lode da innalzargli (Sal 6, 6; 30, 10; 88, 12 s; 115, 7; ls 38, 18). Dio stesso dimentica i morti (88, 6). E una volta passate le *porte dello sheol (Giob 38, 17; cfr. Sap 16, 13), non c’è più ritorno (Giob 10, 21 s). Tale è la prospettiva desolante che la morte apre all’uomo per il giorno in cui dev’essere «riunito ai suoi padri» (Gen 49, 29). Qui le immagini non fanno che dare una forma concreta ad impressioni spontanee che sono universali ed a cui si limitano ancora molti dei nostri contemporanei. Se il VT è rimasto a questo livello di credenze sino ad un’epoca tarda, è segno che, a differenza della religione egiziana e dello spiritualismo greco, ha rifiutato di svalorizzare la vita terrena per rivolgere le sue speranze verso un’immortalità immaginaria. Ha atteso che la rivelazione illuminasse coi suoi mezzi propri il mistero dell’oltretomba.
    3. Il culto dei morti.
    - I riti funebri sono un fatto universale: fin dalla lontana preistoria, l’uomo ci tiene ad onorare i suoi morti ed a rimanere in contatto con essi. Il VT conserva l’essenziale di queste tradizioni secolari: atti di lutto che manifestano il dolore dei vivi (2 Sam 3, 31; Ger 16, 6); seppellimento rituale (1 Sam 31, 12 s; Tob 2, 4-8), perché è una maledizione non ricevere *sepoltura (Deut 21, 23; 1 Re 14, 11; Ger 16, 4); cura dei sepolcri, che tocca così da vicino la pietà familiare (Gen 23; 49, 29-32; 50, 12 s); pasti funebri (Ger 16, 7), e persino offerte sulle tombe dei defunti (Tob 4, 17), benché siano deposte «dinanzi a bocche chiuse» (Eccli 30, 18). Tuttavia la rivelazione impone già dei limiti a queste usanze, che nei popoli vicini sono legate a credenze superstiziose: di qui il divieto delle incisioni rituali (Lev 19, 28; Deut 14, 1), e soprattutto la proscrizione della necromanzia (Lev 19, 31; 20, 27; Deut 18, 11), tentazione grave in un tempo in cui la *magia era fiorente e si praticava l’evocazione dei morti (cfr. Odissea) come oggi ci si dedica allo spiritismo (1 Sam 28; 2 Re 21, 6). Nel VT non c’è dunque, a rigore, culto dei morti come c’era pressa gli Egiziani: l’assenza di luce sull’oltretomba aiutò certamente gli Israeliti a guardarsene.
    4. La morte, destino dell’uomo.
    - La morte è la sorte comune degli uomini, «la via di tutta la terra» (1 Re 2, 2; cfr. 2 Sam 14, 14; Eccli 8, 7). Ponendo fine alla vita di ciascuno, essa appone un sigillo sulla sua fisionomia: morte dei patriarchi «sazi di giorni» (Gen 25, 7; 35, 29), morte misteriosa di Mosè (Deut 34), morte tragica di Saul (1 Sam 31)... Ma dinanzi a questa necessità ineluttabile, come non sentire che la vita, così ardentemente desiderata, è soltanto un *bene fragile e fuggitivo? È un’*ombra, un soffio, un nulla (Sal 39, 5 ss; 89, 48 s; 90; Giob 14, 1-12; Sap 2, 2 s); è una vanità, poiché la sorte finale di tutti è identica (Eccle 3; Sal 49, 8 ...), anche quella dei re (Eccli 10, 10)! Constatazione malinconica da cui nasce talvolta, dinanzi a questo destino obbligatorio, una rassegnazione priva di illusioni (2 Sam 12, 23; 14, 14). Tuttavia la vera sapienza va più lontano; accetta la morte come un decreto divino (Eccli 41, 4), che sottolinea l’umiltà della condizione umana di fronte al Dio immortale: chi è polvere ritorna alla polvere (Gen 3, 19).
    5. Il potere della morte.
    - Nonostante tutto, l’uomo vivente sente nella morte una forza nemica. Spontaneamente le dà un volto e la personifica. È il pastore funebre che chiude gli uomini negli inferi (Sal 49, 15); penetra nelle case per falciare i bambini (Ger 9, 20). Certamente nel VT riveste pure la figura dell’angelo sterminatore, esecutore delle *vendette divine (Es 12, 23; 2 Sam 24, 16; 2 Re 19, 35), nonché quella della *parola divina che stermina gli avversari di Dio (Sap 18, 15 s). Ma questa fornitrice degli inferi insaziabili (cfr. Prov 27, 20) ha piuttosto i tratti di una potenza dal basso, di cui ogni *malattia ed ogni pericolo fanno presentire il subdolo avvicinarsi. Perciò l’ammalato si vede già «annoverato tra i morti» (Sal 88, 4 ss); l’uomo in pericolo è circondato dalle *acque della morte, dai torrenti di Belial, dalle reti dello sheol (Sal 18, 5 s; 69, 15 s; 116, 3; Giona 2, 4-7). La morte e lo sheol non sono quindi soltanto realtà dell’al di là; sono *potenze in azione quaggiù - e guai a chi cade sotto i loro artigli! Che è infine la vita, se non una lotta angosciosa dell’uomo alle prese con la morte?
    II. SENSO DELLA MORTE
    1. Origine della morte.
    - Poiché l’esperienza della morte risveglia nell’uomo simili risonanze, è impossibile ridurla ad un semplice fenomeno naturale di cui l’osservazione oggettiva esaurirebbe tutto il contenuto. La morte non può essere spogliata di significato. Contraddicendo con violenza al nostro desiderio di vivere, essa pesa su di noi come un *castigo; perciò, istintivamente, vediamo in essa la sanzione del *peccato. Di questa intuizione comune alle religioni antiche, il VT fa una ferma dottrina che sottolinea il significato religioso di un’esperienza amarissima: la giustizia vuole che l’empio perisca (Giob 18, 5-21; Sal 37, 20. 28. 36; 73, 27); l’anima che pecca deve morire (Ez 18, 20). Ora questo principio fondamentale illumina già il fatto enigmatico della presenza della morte quaggiù: all’origine, la sentenza di morte non è stata pronunziata contro gli uomini se non dopo il peccato di *Adamo, nostro primo padre (Gen 2, 17; 3, 19). Dio infatti non ha creato la morte (Sap 1, 13); aveva creato l’uomo per l’incorruttibilità, e la morte non è entrata nel mondo che per l’invidia del *demonio (Sap 2, 23 s). Il potere che essa ha su di noi riveste quindi un valore di segno: manifesta la presenza del peccato in terra.
    2. La via della morte.
    - Una volta scoperto questo legame tra il peccato e la morte, tutto un aspetto della nostra esistenza rivela il suo vero volto. Non soltanto il peccato è un male perché è contrario alla nostra natura ed alla volontà divina; ma inoltre è per noi, concretamente, la «*via della morte». Tale è l’insegnamento dei sapienti: chi persegue il male va verso la morte (Prov 11, 19); chi si lascia sedurre dalla signora *follia, cammina verso le valli dello sheol (7, 27; 9, 18). Già gli inferi dilatano la loro gola per inghiottire i peccati (Is 5, 14), come Korakh ed i suoi seguaci che vi discesero vivi (Num 16, 30...; Sal 55, 16). L’*empio è quindi su una strada sdrucciolevole (Sal 73, 18 s). Virtualmente è già un morto, perché con la morte ha fatto un patto ed è caduto in suo potere (Sap 1, 16); perciò la sua sorte finale sarà di diventare un oggetto di obbrobrio tra i morti, in eterno (Sap 4, 19). Questa legge del governo provvidenziale non è senza ripercussioni pratiche nella vita di Israele: i colpevoli dei peccati più gravi devono essere puniti di morte (Lev 20, 8-21; 24, 14-23). Nel caso dei peccatori la morte è quindi qualcosa di diverso da un destino naturale: privazione del bene più caro che Dio abbia dato all’uomo, la *vita, essa prende l’aspetto di una dannazione.
    3. L’enigma della morte dei giusti.
    - Ma che dire allora della morte dei *giusti? Che i peccati di un padre siano puniti con la morte dei suoi figli, è ancora in certo modo comprensibile, se si tiene conto della solidarietà umana (2 Sam 12, 14 ...; cfr. Es 20, 5). Ma se è vero che ciascuno paga per se stesso (cfr. Ez 18), come giustificare la morte degli innocenti? Apparentemente Dio fa perire allo stesso modo il giusto ed il colpevole (Giob 9, 22; Eccle 7, 15; Sal 49, 11): la loro morte ha ancora un senso? Qui la fede del VT urta contro un enigma. Per risolverlo, bisognerà che si chiarisca il mistero dell’al di là.
    III. LA LIBERAZIONE DALLA MORTE
    1. Dio salva l’uomo dalla morte. - Non è in potere dell’uomo *salvare se stesso dalla morte: occorre la grazia di *Dio, che solo è per natura il *vivente. Quando perciò il potere della morte si manifesta sull’uomo, in qualsiasi modo, egli non può che rivolgere a Dio un appello (Sal 6, 5; 13, 4; 116, 3). Allora, se è giusto, può nutrire la speranza che Dio «non abbandonerà la sua anima allo sheol» (Sal 16, 10), «libererà la sua anima dagli artigli dello sheol» (Sal 49, 16). Una volta guarito o salvato dal pericolo, renderà grazie a Dio per averlo liberato dalla morte (Sal 18, 17; 30; Giona 2, 7; Is 38, 17), perché appunto di una tale *liberazione avrà fatto l’esperienza concreta. Ancor prima che le prospettive della sua fede abbiano superato i limiti della vita presente, egli saprà così che la *potenza divina prevale su quella della morte e dello sheol: primo germe di una *speranza che si evolverà infine in una prospettiva di immortalità. 2. Conversione e liberazione dalla morte. - Questa liberazione dalla morte nella cornice della vita presente Dio d’altronde non l’accorda in modo capriccioso. Occorrono strette condizioni. Il peccatore muore per il suo peccato; e Dio non trova gusto nella sua morte: preferisce che si *converta e viva (Ez 8, 33; 33, 11). Se con la malattia egli pone l’uomo in pericolo di morte, lo fa per correggerlo: una volta che si sarà convertito dal suo peccato, Dio lo strapperà alla fossa infernale (Giob 33, 19-30). Di qui l’importanza della predicazione *profetica che, invitando l’uomo a convertirsi, cerca di *salvare la sua anima dalla morte (Ez 3,18-21; cfr. Giac 5, 20). Lo stesso vale per l’*educatore che corregge il bambino per ritrarlo dal male (Prov 23, 13 s). Dio solo libera gli uomini dalla morte, ma non senza una cooperazione umana. 3. La liberazione definitiva dalla morte. - Tuttavia la speranza di essere liberati dalla morte sarebbe vana se non superasse i confini della vita terrena; di qui l’angoscia di Giobbe ed il pessimismo dell’Ecclesiaste. Ma, in epoca tarda, la rivelazione del VT vede più lontano. Annunzia un trionfo supremo di Dio sulla morte, una liberazione definitiva dell’uomo strappato al suo potere. Quando instaurerà il suo regno escatologico, Dio distruggerà per sempre questa morte che non aveva fatta alle origini (Is 25, 8). Allora, per partecipare al suo *regno, i giusti che dormono nella polvere degli inferi *risusciteranno per la vita eterna, mentre gli altri rimarranno nell’eterno orrore dello sheol (Dan 12, 2; cfr. Is 26, 19). In questa nuova prospettiva gli inferi finiscono per diventare il luogo della dannazione eterna, il nostro *inferno. Viceversa, l’oltretomba si illumina. Già i salmisti formulavano la speranza che Dio li avrebbe liberati per sempre dal potere dello sheol (Sal 16, 10; 49, 16). Questo desiderio diventa ora realtà. Al pari di Enoch rapito senza aver visto la morte (Gen 5, 24; cfr. Ebr 11, 4), i giusti saranno rapiti dal Signore che li prenderà nella sua gloria (Sap 4, 7...; 5, 1-3. 15). Perciò, già in terra, la loro *speranza è piena d’immortalità (Sap 3, 4). Ci si spiega come, animati da una simile fede, i martiri dei tempi maccabaici abbiano potuto affrontare eroicamente il supplizio (2 Mac 7, 9. 14. 23. 33; cfr. 14, 46) mentre Giuda Maccabeo, nello stesso pensiero, inaugurava la preghiera per i morti (2 Mac 12, 43 ss). Più che la vita presente, conta ormai la vita eterna. 4. Fecondità della morte dei giusti. - D’altronde la rivelazione, ancor prima di aprire a tutti simili prospettive, aveva illuminato di nuova luce l’enigma della morte dei giusti, attestandone la fecondità. Il fatto che il *giusto per eccellenza, il *servo di Jahvè, sia colpito a morte e «strappato via dalla terra dei viventi», non è privo di significato: la sua morte è un *sacrificio *espiatorio offerto volontariamente per i peccati degli uomini; con essa si compie il *disegno di Dio (Is 53, 8-12). Si svela così in anticipo il tratto più misterioso dell’economia della *salvezza, che la storia di Gesù porrà in atto.
    NUOVO TESTAMENTO
    Nel NT le linee maestre della rivelazione precedente convergono verso il mistero della morte di Cristo. Qui tutta la storia umana appare come un gigantesco dramma di vita e di morte: fino a Cristo e senza di lui. C’era il regno della morte; Cristo viene e, con la sua morte, trionfa della morte stessa; da questo istante la morte cambia senso per la nuova umanità che muore con Cristo per vivere con lui eternamente.
    I. IL REGNO DELLA MORTE
    1. Richiamo alle origini.
    - Il dramma ha avuto inizio alle origini. Per la colpa di un solo uomo, il primo padre del genere umano, il *peccato è entrato nel mondo, e con il peccato la morte (Rom 5, 12. 17; 1 Cor 15, 21). Da allora tutti gli uomini «muoiono in *Adamo» (15, 22), cosicché la morte regna sul mondo (Rom 5, 14). Questo sentimento della presenza della morte, che il VT esprimeva in modo così forte, corrispondeva dunque ad una realtà oggettiva, e dietro il regno universale della morte si profila quello di *Satana, il «principe di questo mondo», «omicida» fin dall’origine (Gv 8, 44).
    2. L’umanità sotto il potere della morte.
    - Ciò che conferisce forza a questo potere della morte è il peccato: esso è il «pungiglione della morte» (1 Cor 15, 56 = Os 13, 14), perché la morte è il suo frutto, il suo termine, il suo salario (Rom 6, 16. 21. 23). Ma lo stesso peccato ha nell’uomo un complice: la concupiscenza (7, 7); essa fa nascere il peccato, che a sua volta genera la morte (Giac 1, 15); in altre parole: la *carne è quella il cui *desiderio è la morte e che fruttifica per la morte (Rom 7, 5; 8, 6); con ciò il nostro corpo, creatura di Dio, è diventato «corpo di morte» (7, 24). Invano, nel dramma del mondo, la *legge è entrata in scena per opporre una barriera a questi strumenti della morte che operano in noi; il peccato ne ha preso occasione per sedurci e procurarci più sicuramente la morte (7, 7-13). Dando la conoscenza del peccato (3, 20) senza la forza di trionfarne, condannando inoltre il peccatore a morte in modo esplicito (cfr. 5, 13 s), la legge è diventata «la forza del peccato» (1 Cor 15, 56). Perciò il ministero di questa legge, in se stessa santa e spirituale (Rom 7, 12. 14), ma semplice lettera che non conferiva la potenza dello *Spirito, è stato di fatto un ministero di morte (2 Cor 3, 7). Senza Cristo l’umanità era quindi immersa nell’*ombra della morte (Mt 4, 16; Lc 1, 79; cfr. Is 9, 1); perciò la morte fu, in ogni tempo, una delle componenti della sua storia, e rimane una delle *calamità che Dio invia sul mondo peccatore (Apoc 6, 8; 8, 9; 18, 8). Di qui il carattere tragico della nostra condizione: per sé, noi siamo abbandonati senza remissione al potere della morte. Come potrà quindi realizzarsi nei fatti la prospettiva di speranza dischiusa dalle Scritture?
    II. IL DUELLO TRA CRISTO E LA MORTE
    1. Cristo assume la nostra morte.
    - Le promesse delle Scritture si realizzano grazie a Cristo. Per liberarci dal potere della morte, egli ha voluto anzitutto far sua la nostra condizione mortale. La sua morte non è stata un caso. Egli l’ha annunziata ai discepoli per prevenire lo *scandalo che poteva suscitare in loro (Mc 8, 31 par.; 9, 31 par.; 10, 34 par.; Gv 12, 33; 18, 32); l’ha desiderata come il *battesimo che lo avrebbe immerso nelle acque infernali (Lc 12, 50; Mc 10, 38; cfr. Sal 18, 5). Se si è turbato dinanzi ad essa (Gv 12, 27; 13, 21; Mc 14, 33 par.), come si era turbato dinanzi al sepolcro di Lazzaro (Gv 11, 33. 38), se ha supplicato il Padre che lo poteva preservare dalla morte (Ebr 5, 7; Lc 22, 42; Gv 12, 27), ha infine accettato questo *calice amaro (Mc 10, 38 par.; 14, 30 par.; Gv 18, 11). Per fare la *volontà del Padre (Mc 14, 36 par.), è stato «*obbediente sino alla morte» (Fil 2, 8). E questo perché era necessario che egli «*compisse le Scritture» (Mt 26, 54): non era forse egli stesso il *servo annunziato da Isaia, il *giusto annoverato tra i malfattori (Lc 22, 37; cfr. Is 53, 12)? Effettivamente, quantunque Pilato non abbia trovato in lui nulla che meritasse la sentenza capitale (Lc 23, 15. 22; Atti 3, 13; 13, 28), egli accettò che la sua morte avesse l’apparenza di un *castigo richiesto dalla legge (Mt 26, 66 par.). E questo perché, «nato sotto la legge» (Gal 4, 4) ed avendo preso «una carne simile alla carne di peccato» (Rom 8, 3), era solidale con il suo popolo e con tutta la razza umana. «Dio l’aveva fatto peccato per noi» (2 Cor 5, 21; cfr. Gal 3, 13), per modo che il castigo meritato dal peccato umano doveva ricadere su di lui. Perciò morendo tolse ogni potere al peccato (Rom 6, 10): benché innocente, assunse sino alla fine la condizione dei peccatori, «*gustando la morte» come essi tutti (Ebr 2, 8 s; cfr. 1 Tess 4, 14; Rom 8, 34) e discendendo con essi «agli inferi». Ma recandosi così «dai morti», egli apportava la buona novella che la vita sarebbe stata loro restituita (1 Piet 3, 19; 4, 6).
    2. Cristo muore per noi.
    - Di fatto la morte di Cristo era *feconda, come la morte del granello di frumento gettato nel solco (Gv 12, 24-32). Imposta apparentemente come un castigo del peccato, essa in realtà era un *sacrificio espiatorio (Ebr 9; cfr. Is 53, 10). Cristo, realizzando alla lettera, ma in altro senso, la profezia involontaria di Caifa, è morto «per il popolo» (Gv 11, 50 s; 18, 14) e non soltanto per il suo popolo, ma «per tutti gli uomini» (2 Cor 5, 14 s). È morto «per noi» (1 Tess 5, 10), mentre eravamo peccatori (Rom 5, 6 ss), dandoci in tal modo il segno supremo di amore (5, 7; Gv 15, 13; 1 Gv 4, 10). Per noi: non al nostro posto, ma a nostro beneficio; infatti, morendo «per i nostri peccati» (1 Cor 15, 3; 1 Piet 3, 18), ci ha *riconciliati con Dio mediante la sua morte (Rom 5, 10) cosicché possiamo ricevere 1’*eredità promessa (Ebr 9, 15 s).
    3. Cristo trionfa della morte.
    - Donde viene che la morte di Cristo abbia potuto avere questa efficacia salutare? Dal fatto che, avendo affrontato la vecchia nemica del genere umano, ne ha trionfato. Già durante la sua vita trasparivano i segni di questa *vittoria futura, quando richiamava i morti alla vita (Mt 9, 18-25 par.; Lc 7, 14 s; Gv 11): nel *regno di Dio che egli inaugurava, la morte indietreggiava dinanzi a colui che era «la risurrezione e la vita» (Gv 11, 25). Infine, l’ha affrontata nel suo stesso regno, e l’ha vinta nel momento in cui essa credeva di vincerlo. Negli inferi egli è penetrato da padrone per uscirne a suo piacere, «avendo ricevuto la chiave della morte e dell’Ade» (Apoc l, 18). E poiché aveva sofferto la morte, Dio lo ha coronato di gloria (Ebr 2, 9). Si è realizzata per lui la *risurrezione dei morti annunziata dalle Scritture (1 Cor 15, 4); egli è diventato «il primogenito di tra i morti» (Col l, 18; Apoc l, 5). Ora, «liberato da Dio dagli orrori dell’Ade» (Atti 2, 24) e dalla corruzione infernale (Atti 2, 31), è chiaro che la morte ha perso su di lui ogni potere (Rom 6, 9); per ciò stesso, colui che aveva il potere della morte, cioè il demonio, si è visto ridotto all’impotenza (Ebr 2, 14). Fu il primo atto della vittoria di Cristo. «La morte e la vita si affrontano in un duello prodigioso. Il Signore della vita morì; vivo, regna» (Sequenza di Pasqua). A partire da questo momento fu mutato il rapporto fra gli uomini e la morte; infatti Cristo vincitore illumina ormai «coloro che sedevano nell’ombra della morte» (Lc 1, 79); li ha liberati da quella «legge del peccato e della morte» di cui fino allora erano *schiavi (Rom 8, 2; cfr. Ebr 2, 15). Infine, al termine dei tempi, il suo trionfo avrà una splendida consumazione nella *risurrezione universale. Allora la morte sarà distrutta per sempre, «ingoiata nella vittoria» (1 Cor 15, 26. 54 ss). Infatti la morte e l’Ade dovranno allora restituire le loro prede, dopo di che saranno gettati con Satana nel lago di fuoco e di zolfo, il che è la seconda morte (Apoc 20, 10. 13 s). Tale sarà il trionfo finale di Cristo: «O morte, sarò la tua morte; inferno, sarò il tuo morso» (Antifona delle Lodi del Sabato Santo).
    III. IL CRISTIANO DINANZI ALLA MORTE
    1. Morire con Cristo.
    - Cristo, prendendo la nostra natura, non ha soltanto assunto la nostra morte per farsi partecipe della nostra condizione di peccatori. Capo della nuova umanità, nuovo *Adamo (1 Cor 15, 45; Rom 5, 14), egli ci conteneva tutti in sé quando è morto sulla croce. Per tale fatto, nella sua morte, «tutti sono morti» in certo modo (2 Cor 5, 14). Tuttavia bisogna che questa morte diventi una realtà effettiva per ciascuno di essi. Questo è il senso del *battesimo, la cui efficacia sacramentale ci unisce a Cristo in croce: «battezzati nella morte di Cristo», siamo «sepolti con lui nella morte», «configurati alla sua morte» (Rom 6, 3 ss; Fil 3, 10). Ormai siamo dei morti, la cui vita è nascosta in Dio con Cristo (Col 3, 3). Morte misteriosa, che è l’aspetto negativo della grazia di *salvezza. Infatti, ciò a cui in tal modo moriamo, è tutto l’ordine delle cose per mezzo del quale il regno della morte si manifestava quaggiù: moriamo al peccato (Rom 6, 11), all’*uomo vecchio (6, 6), alla *carne (1 Piet 3, 18), al *Corpo (Rom 6, 6; 8, 10), alla *legge (Gal 2, 19), a tutti gli elementi del *mondo (Col 2, 20)… 2. Dalla morte alla vita. - Questa morte con Cristo è quindi, in realtà, una morte alla morte. Quando eravamo prigionieri del peccato, proprio allora eravamo morti (Col 2, 13; cfr. Apoc 3, 1). Ora siamo dei vivi, «risorti da morte» (Rom 6, 13) e «liberati dalle opere morte» (Ebr 6, 1; 9, 14). Come ha detto Cristo: chi ascolta la sua parola, passa dalla morte alla vita (Gv 5, 24); chi crede in lui, non ha nulla da temere dalla morte: quand’anche fosse morto, vivrà (Gv 11, 25). Tale è la posta della *fede. Viceversa, colui che non crede, morrà nei suoi peccati (Gv 8, 21. 24), il *profumo di Cristo diventa per lui odore di morte (2 Cor 2, 16). Il dramma dell’umanità alle prese con la morte si svolge così nella vita di ciascuno; dalla nostra scelta dinanzi a Cristo ed al vangelo dipende per noi la sua conclusione: per gli uni, la vita eterna perché, dice Gesù, «chi osserva la mia parola non vedrà mai la morte» (Gv 8, 51); per gli altri, l’orrore della «seconda morte» (Apoc 2, 11; 20, 14; 21, 8).
    3. Morire ogni giorno.
    - Tuttavia la nostra unione alla morte di Cristo, realizzata sacramentalmente nel battesimo, dev’essere ancora attualizzata nella nostra vita di tutti i giorni. Questo è il senso dell’ascesi, mediante la quale «mortifichiamo», cioè: «facciamo morire» in noi le opere del corpo (Rom 8, 13), le nostre membra terrene con le loro passioni (Col 3, 5). Questo è pure il senso di tutto ciò che manifesta in noi la potenza della morte naturale; infatti la morte ha mutato senso dopo che Cristo ne ha fatto uno strumento di salvezza. Se l’apostolo di Cristo, nella sua debolezza, appare agli uomini come un morente (2 Cor 6, 9), se è continuamente in pericolo di morte (Fil 1, 20; 2 Cor 1, 9 s; 11, 23), se «muore ogni giorno» (1 Cor 15, 31), ciò non costituisce più un segno di sconfitta: egli porta in sé la mortalità di Cristo, affinché la vita di Gesù si manifesti pure nel suo corpo; è consegnato alla morte a motivo di Gesù, perché la vita di Gesù sia manifestata nella sua carne mortale; quando la morte compie la sua opera in lui, la vita opera nei fedeli (2 Cor 4, 10 ss). Questa morte quotidiana attualizza quindi quella di Gesù e ne prolunga la fecondità nel suo corpo che è la Chiesa.
    4. Dinanzi alla morte corporale.
    - Nella stessa prospettiva la morte corporale assume per il cristiano un nuovo senso. Non è più soltanto un destino inevitabile al quale ci si rassegna, un decreto divino che si accetta, una condanna in cui si incorre per effetto del peccato. Il cristiano «muore per il Signore» come aveva vissuto per lui (Rom 14, 7 s; cfr. Fil 1, 20). E se muore *martire di Cristo, versando il suo sangue in *testimonianza, la sua morte è una libagione che ha valore di *sacrificio agli occhi di Dio (Fil 2, 17; 1 Tim 4, 6). Questa morte, mediante la quale egli «glorifica Dio» (Gv 21, 19), gli merita la corona di vita (Apoc 2, 10; 12, 11). Da necessità angosciosa essa è quindi diventata oggetto di *beatitudine: «Beati coloro che muoiono nel Signore! Si riposino ormai dalle loro fatiche!» (Apoc 14, 13). La morte dei giusti è un ingresso nella *pace (Sap 3, 3), nel riposo eterno, nella *luce senza fine. Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis! La speranza di immortalità e di risurrezione che si faceva strada nel VT ha trovato ora, nel mistero di Cristo, la sua salda base. Infatti, non soltanto l’unione alla sua morte ci fa vivere attualmente di una *vita nuova, ma ci dà la sicurezza che «colui che ha risuscitato Cristo Gesù di tra i morti, darà pure la vita ai nostri corpi mortali» (Rom 8, 11). Allora, con la risurrezione, entreremo in un mondo nuovo dove «non ci sarà più morte» (Apoc 21, 4); o meglio, per gli eletti risorti con Cristo, non ci sarà «seconda morte» (Apoc 20, 6; cfr. 2, 11): questa sarà riservata ai reprobi, al demonio, alla morte, all’Ade (Apoc 21, 8; cfr. 20, 10. 14). Perciò, per il cristiano, morire è in definitiva un guadagno, perché Cristo è la sua vita (Fil 1, 21). La condizione presente, che lo lega al suo *corpo mortale, è per lui opprimente: preferirebbe lasciarla per andare a dimorare presso il Signore (2 Cor 5, 8); ha fretta di indossare la *veste di *gloria dei risorti, affinché ciò che c’è in lui di mortale sia assorbito dalla vita (2 Cor 5, 1-4; cfr. 1 Cor 15, 51-53). Desidera andarsene per essere con Cristo (Fil 1, 23).
    P. GRELOT
    → acqua II 2, IV 2 - addii - angoscia - battesimo IV 1.4 - bene e male I 1.4 - calamità - castighi 1 - cenere - corpo - corpo di Cristo I 2, II 1 - croce - eucaristia - Gesù Cristo 13. II 1 b - inferi e inferno - ira B VT I 1 – liberazione-libertà III 2 b - malattia-guarigione 0 - maledizione I - martire - notte VT 3 - ombra I - peccato I 2 - persecuzione - profeta VT II 4 - redenzione NT 2. 3.4 - riposo II 2 - risurrezione - sacrificio NT I, II 1 - seminare I 2 b - sepoltura - sofferenza - sonno - tristezza VT l; NT 1 - uomo II 1 c - vecchiaia 1 - vita.

    MORTIFICAZIONE (inizio)

    → croce II - morte III 3.

    MOSÈ (inizio)

    Per Israele, Mosè è il *profeta senza pari (Deut 34, 10 ss) per mezzo del quale Dio ha liberato il suo popolo, ha suggellato con esso l’alleanza (Es 24, 8), gli ha rivelato la sua legge (Es 24, 3; cfr. 34, 27). con Gesù egli è il solo a cui il NT dia il titolo di *mediatore. Ma, mentre per la mediazione di Mosè (Gal 3, 19), suo servo fedele (Ebr 3, 5), Dio ha dato la legge al solo popolo di Israele, per la mediazione di Gesù Cristo, suo figlio (Ebr 3, 6), salva tutti gli uomini (1 Tim 2, 4 ss): la legge ci è stata data da Mosè, la grazia e la verità ci sono venute da Gesù Cristo (Gv 1, 17). Questo parallelismo tra Mosè e Gesù mette in evidenza la differenza tra i due Testamenti.
    1. Il servo e l’amico di Dio.
    - La vocazione di Mosè è il punto terminale di una lunga preparazione provvidenziale. Nato da una razza oppressa (Es 1, 8-22), Mosè deve alla figlia del faraone oppressore non soltanto di essere «salvato dalle acque» e di sopravvivere (2, 1-10), ma di ricevere un’educazione che lo prepara alla sua funzione di capo (Atti 7, 21 s). Tuttavia né la sapienza, né la potenza, né la riputazione così acquisite (cfr. Es 11, 3), bastano a fare di lui il liberatore del suo popolo. Egli urta anche contro la cattiva volontà dei suoi (Es 2, 11-15; Atti 7, 26 ss) e deve fuggire nel deserto. Qui riceve la *vocazione: Jahvè gli appare, gli rivela ad un tempo il suo *nome ed il suo *disegno di *salvezza, gli fa conoscere la sua *missione e gli dà la forza per compierla (Es 3, 1-15): Dio sarà con lui (3, 12). Invano l’eletto si rifiuta: «Chi sono io?...» (3, 11). L’*umiltà, che a tutta prima lo fa esitare dinanzi ad un compito così pesante (4, 10-13), glielo farà poi svolgere con una mitezza senza pari attraverso le opposizioni dei suoi (Num 12, 3. 13). Quantunque la sua fede abbia conosciuto un momento di debolezza (20, 10), Dio lo dichiara il suo servo più fedele (12, 7 s) e lo tratta da *amico (Es 33, 11); per una grazia insigne gli rivela, se non la sua *gloria, almeno il suo nome (33,17-23). Parlandogli così dalla nube, lo accredita come capo del suo popolo (19, 9; 33, 8 ss).
    2. Il liberatore ed il mediatore dell’alleanza.
    - Il primo atto della sua missione di capo è la *liberazione del suo popolo. Mosè deve porre termine all’oppressione che impedisce ad Israele di rendere un culto al Dio che il faraone rifiuta di riconoscere (Es 4, 22 s; 5, 1-18). Ma per questo, Dio deve «mostrare la sua mano potente», colpendo sempre più duramente gli Egiziani: Mosè è l’artefice di queste *calamità che manifestano il *giudizio divino. Al momento dell’ultima piaga, sempre sotto gli ordini di Mosè, ripieno della sapienza di Dio (Sap 10, 16-20), Israele celebra la *Pasqua. Poi «per mano di Mosè» (Sal 77, 21) il popolo di Dio è liberato dagli Egiziani che lo inseguono: Israele attraversa il mare che sommerge gli inseguitori (Es 14). Allora è raggiunta la prima meta dell’*esodo: al Sinai Mosè offre il sacrificio che fa di Israele il *popolo di Dio (13, 4 ss), suggellando la sua *alleanza con lui (24, 3-8; cfr. Ebr 9, 18 ss). Al popolo dell’alleanza sono aggregati tutti coloro che sono stati battezzati in Mosè. (1 Cor 10, 2), cioè coloro che, avendolo seguito, hanno attraversato il mare, guidati dalla *nube, ed hanno esperimentato la *salvezza. Mosè, «loro capo e redentore» (Atti 7, 35), prefigura in tal modo Cristo, mediatore di un’alleanza nuova e migliore (Ebr 8, 6; 9, 14 s), redentore che libera dal peccato coloro che sono battezzati nel suo nome (Atti 2, 38; 5, 31).
    3. Il profeta, legislatore e intercessore.
    - Capo del popolo dell’alleanza, Mosè gli parla in nome di Dio (Es 19, 6 ss; 20, 19; Deut 5, 1-5), come ogni vero profeta, è la bocca di Dio (Deut 18, 13- 20). Rivela a Israele la *legge divina e gli insegna come conformarvi la sua condotta (Es 18, 19 s; 20, 1-17 par.). Lo esorta alla fedeltà verso il Dio unico e trascendente che è sempre con esso (Deut 6) e che, per amore, lo ha scelto e salvato gratuitamente (Deut 7, 7 ss). La sua funzione di profeta consiste nel custodire l’alleanza e nell’*educare un popolo ribelle (Os 12, 14). L’esercizio di questa missione fa pure di lui il primo dei *servi di Dio perseguitati (cfr. Atti 7, 52 s). Egli se ne lamenta talvolta con Dio: «Ho forse concepito io questo popolo perché tu mi dica: portalo sul tuo seno come la nutrice porta il bambino che allatta?... Il compito è troppo pesante per me» (Num 11, 12 ss). Un giorno, oppresso dall’infedeltà del suo popolo (Num 20, 10 ss; Sal 106, 33), lascerà incrinarsi la sua fede e la sua *mitezza, tuttavia così profonde (Eccli 45, 4; Ebr 11, 24-29), e ne sarà castigato (Deut 3, 26; 4, 21). Mosè, come profeta, intercede per il suo popolo con cui è solidale; è ammirevole specialmente nella sua funzione di intercessore; con la sua *preghiera assicura ad Israele la *vittoria sui nemici (Es 17, 9-13) e gli ottiene il perdono dei peccati (32, 11-14; Num 14, 13-20; 21, 7 ss). Lo salva così dalla morte, contenendo l’*ira divina (Sal 106, 23). «Perdona il loro peccato... diversamente cancellami dal tuo libro!» (Es 32, 31 s). Mediante quest’ardente carità egli delinea i tratti del *servo sofferente che intercederà per i peccatori portando le loro colpe (Is 53, 12). Prefigura pure il «profeta simile a lui», di cui annunzia la venuta (Deut 18, 15-18); Stefano ricorderà questo annunzio (Atti 7, 37) e Pietro ne proclamerà la realizzazione in Gesù (Atti 3, 22 s). A questo «profeta» per eccellenza (Gv 1, 21; 6, 14), Mosè rende testimonianza nella Scrittura (Gv 5, 46; Lc 24, 27); perciò si trova al suo fianco al momento della trasfigurazione (Lc 9, 30 s). Ma Cristo, nuovo Mosè, supera la legge portandola a compimento (Mt 5, 17), perché ne è la fine (Rom 10, 4): avendo compiuto tutto ciò che stava scritto di lui nella legge di Mosè, egli è risuscitato dal Padre suo per dare lo Spirito Santo agli uomini (Lc 24, 44-49).
    4. Mosè e la gloria di Dio.
    - In Cristo si rivela presentemente la *gloria (Gv 1, 14), un riflesso della quale illuminava il volto di Mosè dopo i suoi incontri con Dio (Es 34, 29-35). Il popolo dell’antica alleanza non poteva sopportare lo splendore di questo riflesso che tuttavia era passeggero (2 Cor 3, 7); perciò Mosè si poneva un velo sul volto. Per Paolo questo velo simboleggia l’accecamento dei Giudei, che, leggendo Mosè, non lo comprendono e non si convertono a Cristo da lui annunziato (2 Cor 3, 13 ss). Infatti coloro che credono veramente a Mosè, credono a Cristo (Gv 5, 45 ss) ed il loro volto, come quello di Mosè, riflette la gloria del Signore che li trasforma a sua immagine (2 Cor 3, 18). In cielo i redenti canteranno «il cantico di Mosè, servo di Dio, ed il cantico dell’agnello» (Apoc 15, 3; cfr. Es 15), l’unico cantico pasquale dell’unico salvatore di cui Mosè fu la *figura.
    R. MOTTE e M.F. LACAN
    → alleanza - amico 1 - amore I VT 1 - arca d’alleanza II - Aronne 1 - elezione VT I 3 c - faccia 4 - fede VT I - fuoco VT I 1, II 2 - Giosuè 1 - Jahvè - legge - mediatore I 1 - mitezza 2 - preghiera I 1 - profeta - servo di Dio I - trasfigurazione 2 - vedere VT I 1 - vocazione 0, I.

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