PREDICARE - PURO - DIZIONARIO DI TEOLOGIA BIBLICA

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P: PREDICARE - PURO

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  ................. LUIS MARTINEZ FERNANDEZ

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    PREDICARE (inizio)

    Ai nostri giorni predicare significa sia annunziare l’avvenimento della salvezza, sia *esortare (parakalein) od *insegnare (didaskein). Nel NT, invece, i verbi keríssein e euanghelìzestai restringono la predicazione alla proclamazione solenne (kèrygma) di un fatto: Gesù è signore e salvatore. Tuttavia questa restrizione non immiserisce la predicazione in senso largo, perché rivela la fonte a cui devono alimentarsi ogni insegnamento ed ogni esortazione: il messaggio pasquale. Questa proclamazione ha addentellati nel VT; colui che allora predicava la parola di Dio era il *profeta: spianto dallo spirito di Dio, egli annunziava ai suoi contemporanei il giudizio divino; la sua parola era *parola di Dio. Nel NT, la parola dei predicatori è ancora parola di Dio, ma, dopo che questa si è incarnata in Gesù, è Cristo a misurare la loro parola e la loro esistenza.
    I. IL MESSAGGIO DELLE PREDICAZIONE CRISTIANA
    Nonostante la diversità dei tempi, dei luoghi e degli uditori, le predicazioni di Giovanni Battista di Gesù, di Pietro o di Paolo offrono tutte un identico schema ed un identico orientamento: chiamare alla conversione ed annunziare un avvenimento.
    1. Appello alla conversione.
    – Un’identica parola inaugura la predicazione di Gesù e quella del suo precursore e corona quella dei primi sermoni apostolici: «Pentitevi!» (Mt 3,2; 4, 17; Atti 2, 38; 3, 19; 5, 31; 10, 43; 13, 38 s). La verità che è stata annunziata non ha quindi nulla a che vedere con una teoria che si è liberi di ammettere; essa esige dall’uditore un impegno, perché, secondo il loro senso biblico, *parola e *verità hanno valore di vita. Ogni predicazione che non termina in un appello alla *penitenza corre il rischio di cessare di essere *vangelo per diventare conferenza.
    2. Proclamazione di un avvenimento.
    – Se la predicazione esige una conversione, lo fa non in virtù di un’esortazione moralizzante, ma perché annunzia il fatto della salvezza. Gli evangelisti, e più particolarmente Matteo, hanno voluto mostrare come Gesù, durante la sua vita terrena, ha inaugurato la predicazione apostolica. «Il regno dei cieli è vicino» (Mt 4, 17) proclama Gesù, sull’esempio del precursore (3, 2); ed i discepoli (10, 7), facendo eco, annunciano lo stesso fatto: le profezie sono *compiute. Giovanni è la «voce che grida nel deserto, secondo il profeta Isaia» (3, 3); Gesù si presenta come il *servo che evangelizza (cfr. * vangelo) i poveri: «oggi si compie questa parola che è risuonata alle vostre orecchie» (Lc 4, 17- 21; Is 61, 1s). Nel giorno di Pasqua, il *regno annunziato si è manifestato nella gloria del risorto; nel giorno di Pentecoste, il dono dello *Spirito ha fatto nascere la *Chiesa, attuando sulla terra il regno. Ormai la predicazione non annunzia più semplicemente un avvenire prossimo come al tempo di Gesù; proclama un fatto attuale che mostra lo Spirito Santo in azione, un fatto che rimanda ad un avvenimento passato (la Pasqua di Cristo) e ad un avvenimento futuro (la parusia del Signore). I sommari dei primi sermoni rivelano la nuova natura di quest’oggi cristiano. Così Pietro spiega che, se lo si sente parlare in *lingua straniera nel giorno della Pentecoste, si è perché lo Spirito è dato (Atti 2, 4. 11. 15 ss). Sia che si tratti di un miracolo come quello dello storpio guarito (3, 1-10), oppure di un ardire sorprendente da parte di questi predicatori (4, 13; 5, 28), la predicazione mette sempre in presenza di un fatto che pone una questione; è accompagnata «da potenza, da Spirito Santo e da certezza» (1 Tess 1, 5). Quest’oggi perpetuo, questa Pentecoste rinnovata (Atti 20, 44-47), a sua volta non si giustifica se non in riferimento ad un passato e ad un avvenire che concernono entrambi Cristo. Gesù è risorto dai morti, è vivente: ecco ciò che lo Spirito testimonia attraverso il miracolo della Pentecoste (2, 22-36), ciò che la guarigione dello storpio significa (3, 12-16). Gesù è *Signore, glorificato in cielo (3, 21), e ne ritornerà trionfalmente per il *giudizio (1 Tess 1, 10; 2 Tess 1, 7). La predicazione è essenzialmente il messaggio pasquale e con ciò rivelazione del mistero della storia sacra.
    3. Presentazione dell’avvenimento.
    – Per sé, il kèrygma è una proclamazione solenne, il grido dell’araldo che annunzia ufficialmente un fatto; e poiché questo fatto è la *vittoria di Cristo sulla *morte, l’uditore vede il suo presente acquistare subitamente una dimensione di eternità. Ciò potrebbe bastare; bisogna ancora che l’uditorio, condizionato dal suo tempo e dal suo ambiente, possa intendere il messaggio. Quando gli Ateniesi sentono Paolo «annunziare Gesù e la risurrezione», pensano a due nuove divinità e lo trattano da cantastorie (Atti 17, 18). Perciò Paolo cerca di farsi comprendere, senza voler tuttavia giustificare il suo messaggio con la ragione umana. I Corinti hanno creduto che Apollo, «uomo eloquente e versato nelle Scritture» (Atti 18, 24) fosse per questo il tipo del predicatore; Paolo li disinganna: per tema di svuotare di efficacia la *croce di Cristo, egli ricusa la *sapienza del linguaggio (1 Cor 1, 17). Ogni predicazione deve quindi significare l’avvenimento redentore, pur rendendosi intelligibile. Di qui variazioni necessarie nella presentazione del messaggio.
    a) L’uditorio degli apostoli, come quello di Gesù, credeva in Dio e nel suo disegno di salvezza. La predicazione prende quindi come punto di partenza la Scrittura per presentare l’avvenimento redentore. Al pari di Gesù e di Giovanni Battista, i discepoli vi fanno vedere il *compimento delle profezie. Noi siamo negli «ultimi giorni» annunziati da Gioele (Atti 2, 17) e da tutti i profeti (3, 24); la *promessa fatta ai *padri è compiuta (13, 33). La *croce dello scandalo è stata prevista da Dio stesso (2, 23), è il « legno» d cui parlava il VT (5, 30; 10, 39; 13, 29; cfr. Deut 21, 23); la sorte di Cristo è stata annunziata dai profeti (3, 18; 13, 27), in particolare dal poema del servo (8, 32 s; 3, 13. 26), da David (2, 25-28. 34 s; 13, 22. 33. 35) o da Mosè (3, 22). Il dovere della conversione è anch’esso profetizzato (2, 21. 39). La predicazione è quindi essenzialmente scritturale, e la formula «secondo le Scritture» scandisce il Credo più antico (1 Cor 15, 3 s).
    b) L’uditorio può non aver conosciuto Gesù durante la sua vita; il messaggio pasquale si diffonde allora in un presentazione sobria dell’esistenza di Gesù: così dinanzi al centurione Cornelio (Atti 10, 37-42), Pietro delinea la trama del vangelo della vita di Gesù. Questa di fatto appartiene alla predicazione, ma alla luce del messaggio pasquale.
    c) Infine l’uditorio può non credere neppure nel vero Dio ed aver bisogno di conoscere i dati soggiacenti alla fede biblica. A Listra, Paolo prende contatto con il suo uditorio parlando del «Dio vivente che ha fatto il cielo e la terra… che ha dispensato dal cielo le piogge e stagioni» (Atti 14, 15 ss); ad Atene fa vedere come la risurrezione di Cristo sia il termine di un’economia storica che ha il suo punto di partenza nella creazione e nella ricerca umana di Dio (17, 22-31); quanto ai Tessalonicesi, essi «hanno abbandonato gli idoli, per convertirsi a Dio, per servire il Dio vivo e vero, ed attendere dai cieli il suo Figlio che egli ha risuscitato dai morti, Gesù che ci libera dall’ira ventura» (1 Tess 1, 9 s). Ad ogni modo, direttamente od indirettamente, la predicazione deve giungere a Cristo Signore della storia.
    4. Dalla predicazione all’insegnamento.
    - Partendo dal mistero pasquale, che il credo ricevuto da Paolo riassume (1 Cor 15, 3 ss), e che dev’essere continuamente ripetuto affinché la fede resti correttamente centrata, la predicazione diventa *insegnamento. Questo è stato il procedimento di Gesù stesso, quando «insegnava» sul monte (Mt 5, 2) o nelle sinagoghe (9, 35); e così pure dei discepoli, secondo l’ordine ricevuto dal risorto (28, 20; Atti 4, 2). Paolo elabora il sudo insegnamento partendo dal mistero pasquale, quando, ad esempio, insegna la *sapienza della *croce (1 Cor 1, 23) od il *battesimo come partecipazione alla morte ed alla risurrezione di Gesù (Rom 6). Il predicatore diventa catechista e teologo, ma il teologo non merita questo titolo se non si riferisce continuamente alla proclamazione del vangelo pasquale.
    II. IL MISTERO DELLA PREDICAZIONE
    La predicazione è un mistero per il contenuto del messaggio; lo è pure per la forma in cui è annunziato: mistero della *parola pronunziata, mistero del predicatore che annunzia la parola.
    1. Il mistero della parola.
    - Se la predicazione ha valore di atto ed esige un atto di conversione, si è perché essa stessa è un atto di Dio. Di fatto, per testimonianza di Paolo, essa rende gli uomini presenti al mistero che annunzia. Così la *fede può nascere dalla predicazione (Rom 10, 17). L’uditore è collocato dinanzi a Cristo morto e risorto, divenuto il Signore della storia, che distribuisce i doni e lo Spirito a coloro che accolgono la parola, che minaccia l’*ira a coloro che la rifiutano (1 Tess 1, 10). Al pari dell’annuncio dell’araldo che proclama ed inaugura il regno di Dio (Is 40, 9), la predicazione è un atto di Dio che inaugura la sovranità di Cristo sul mondo. Essa non è soggetta all’esame degli uditori, ma esige 1’«obbedienza della fede» (Rom 1, 5), sino alla fine del mondo (Mt 24, 14).
    2. Parola di Dio e parola umana.
    - Per essere salvi, bisogna credere; per credere bisogna sentire la predicazione; e «come predicare senza essere prima mandati?» (Rom 10, 15). Il predicatore ha ricevuto da Gesù Cristo, per mezzo della sua Chiesa, missione ed autorità.
    a) Soltanto la *missione può trasformare una parola umana in parola di Dio. Non già, come nei *profeti, per irruzione dello spirito; ma in, virtù di un’ambasciata affidata da Cristo: «è come se Dio esortasse per mezzo nostro» (2 Cor 5, 20) in vista della riconciliazione con Dio. Il predicatore deve, al pari di un araldo, annunziare con fedeltà la parola, al punto che questa avrebbe la sua efficacia, anche se non fosse sincero (Fil 1, 15-18): in qualsiasi maniera Cristo è annunziato. Che importanza ha quindi il servo per mezzo del quale la fede è stata comunicata? L’essenziale è il fondamento, Gesù Cristo; il resto è sovraggiunto, il fuoco del giudizio ne proverà il valore (1 Cor 3, 5-15). La Chiesa nascente si dimostra preoccupata di autorizzare la predicazione; ora conferma un’iniziativa che non ha preso essa stessa (Atti 8, 14-17; 11, 22 ss), ora *impone le mani ai missionari (13, 2 s). L’autorità dell’inviato proviene inoltre dalla *testimonianza che egli dà circa il mistero pasquale; è la testimonianza degli *apostoli in senso largo, che si ricollega alla testimonianza unica dei Dodici (Atti 2, 32; 3, 15; 5, 32; 10, 39. 41; 13, 31), resa per ordine del risorto (1, 8). Attraverso la *tradizione ininterrotta dei testimoni fedeli, la predicazione cristiana fa realmente sentire la parola di Dio.
    b) La *fierezza del predicatore deriva da questa investitura apostolica. Egli ha piena *autorità, e parla, come i primi apostoli, con sicurezza (Atti 2, 29; 4, 13. 29. 31). Deve «proclamare la parola opportunamente ed importunamente» (2 Tim 4, 2). Parla con *fiducia (1 Tess 2, 2; Fil 1, 20) perché crede (2 Cor 4, 13), perché è stato «reso capace» di un simile ministero (2, 16 s; 3, 4 ss). Diversamente, non sarebbe che un mercante fraudolento della parola (2, 17; 1 Tess 2, 4). Il suo ideale rimane quello di Paolo quando dice ai Tessalonicesi: «Voi avete accolto la parola di Dio, da noi predicata, non come una parola di uomini, ma, qual è in realtà, come la parola di Dio» (1 Tess 2, 13).
    3. Predicazione e redenzione.
    - Il mistero del predicatore non è ancora esaurito dalla nobiltà dell’ambasciata ricevuta. Di fatto il predicatore è un «collaboratore di Dio» (1 Cor 3, 9); egli è «condotto da Dio nel trionfo di Cristo», «per mezzo suo si diffonde in tutti i luoghi il profumo della sua conoscenza». Tragico destino del predicatore che è il «buon odore di Cristo», che dà la vita o la morte (2 Cor 2, 14 ss). Corre anzitutto il rischio di essere egli stesso riprovato (1 Cor 9, 27), ma soprattutto deve condividere la sorte di colui del quale è l’araldo: Dio «accredita i suoi apostoli come gli ultimi degli uomini» (1 Cor 4, 9): i predicatori della croce sono dei crocifissi viventi (2 Cor 4, 7-15; 6, 4-10). Potrebbero ancora trarre qualche gloriuzza (cfr. Atti 14, 12 ss)? Ma devono essere *fieri di essere in tal modo uniti al redentore vittima espiatoria (senso probabile di 1 Cor 4, 13) e di constatare che se la morte compie la sua opera in essi, la vita la porta a compimento in coloro ai quali essi predicano (2 Cor 4, 12). Allora non è più soltanto la parola del predicatore ad essere la parola di Dio, è la sua vita stessa ad essere il mistero pasquale in atto.
    J. AUDUSSEAU e X. LÉON-DUFOUR
    → apostoli - disegno di Dio NT II, III - esortare - fede NT II 2 - insegnare - missione NT II 1, III 2 - parola di Dio NT II 1 - regno NT 1 - risurrezione NT 1 3 - testimonianza III 1 - vangelo.

    PREESISTENZA (inizio)

    → ascensione II 1 - Gesù Cristo – d I1 d. 2 d.

    PREGHIERA (inizio)

    I. LA PREGHIERA NELLA STORIA DI ISRAELE
    La costante più stabile delle preghiere del VT è senza dubbio la loro relazione col disegno salvifico di Dio: si prega prendendo lo spunto da ciò che è avvenuto, da ciò che avviene, ed affinché avvenga qualcosa, affinché la salvezza di Dio sia data alla terra. Il contenuto della preghiera di Israele la colloca quindi nella storia. Dal canto suo, la storia sacra è connotata dalla preghiera: è sorprendente il constatare quanti grandi momenti di questa storia sono punteggiati dalla preghiera dei mediatori e di tutto il popolo, che si fondano sulla conoscenza del *disegno di Dio per ottenere il suo intervento nell’ora presente. Se ne daranno soltanto alcuni esempi, in attesa che la preghiera di Cristo e quella della sua sposa, la Chiesa, li vengano a confermare.
    1. Mosè.
    - Egli è colui che domina tutte le figure di oranti del VT. La sua preghiera, tipo della preghiera di intercessione, annunzia quella di Gesù. In considerazione di lui Dio salva il popolo (Es 33, 17), da cui Mosè è ben distinto (32, 10; 33, 16). Questa preghiera è drammatica (32, 32); i suoi argomenti seguono lo schema di ogni supplica: - appello all’amore di Dio: «questa nazione è il tuo popolo» (33, 13; cfr. 32, 11; Num 11, 12), - appello alla sua giustizia e fedeltà: affinché ti si riconosca, ricordati delle tue azioni passate, - considerazione della gloria di Dio: che diranno gli altri se tu ci abbandoni (Es 32, 11-14)? Sempre dalla preghiera, una preghiera più contemplativa e che lo trasforma per il bene altrui (34, 29-35), nasce l’opera di *Mosè legislatore. Il ciclo di Mosè conserva infine il ricordo ed il tipo di un pervertimento della preghiera: «tentare Dio». La preghiera vi segue la tendenza della cupidigia in opposizione all’appello della *grazia verso il disegno divino: nell’episodio di Meriba ed in quello delle quaglie si mette Dio alla *prova (Es 16, 7; Sal 78; 106, 32). Ciò equivale a dire che si crederà, se egli fa la nostra volontà (cfr. Giudit 8, 11-17). È l’antipreghiera.
    2. Re e profeti.
    - L’annunzio messianico del profeta Natan suscita in David una preghiera la cui essenza è: «Agisci come hai detto» (2 Sam 7, 25; cfr. 1 Re 8, 26). Così pure Salomone, inaugurando il *tempio, include tutte le generazioni future nella sua preghiera (ufficio della Dedicazione: 1 Re 8, 10-61); vi predomina un elemento di contrizione (1 Re 8, 47), che si ritroverà dopo la distruzione del tempio (Bar 2, 1- 3, 8; Neem 9). Altre preghiere regali ci sono state conservate (2 Re 19, 15-19; 2 Cron 14, 10; 20, 6-12; 33, 12. 18). La preghiera per il popolo entrava senza dubbio nelle funzioni ufficiali del re. Il potere di intercedere (Gen 18, 22-32) fa sì che *Abramo sia chiamato profeta (20, 7); i *profeti furono uomini di preghiera (Elia: 1 Re 18, 36 s; cfr. Giac 5, 17 s) e, come Samuele (cfr. Ger 15, 1), Amore (Am 7, 1-6), ma soprattutto Geremia, degli intercessori. In quest’ultimo la tradizione vedrà «colui che prega molto per il popolo» (2 Mac 15, 14). La funzione di intercessore suppone una chiara coscienza sia della distinzione che della relazione che si stabiliscono tra l’individuo e la comunità. Appunto questa coscienza (cfr. anche Ger 45, 1-5) costituisce la ricchezza della preghiera di Geremia, parallela in più punti a quella di Mosè, ma più abbondantemente illustrata. Ora egli è colui che domanda la salvezza del popolo (10, 23; 14, 7 ss. 19-22; 37, 3...) di cui fa suoi i dolori (4, 19; 8, 18-23; 14, 17 s); ora si lamenta di esso (15, 10; 12, 1-5) ed invoca persino *vendetta (15, 15; 17, 18; 18, 19-23); ora si duole della propria sorte (20, 7-18 ). Numerosi sono i rapporti di forma e di fondo tra queste preghiere e la raccolta dei salmi. Anche Esdra e Neemia pregano sia per se stessi che per gli altri (Esd 9, 6-15; Neem 1, 4-11). Così pure, più tardi, i Maccabei non si battono senza pregare (1 Mac 5, 33; 11, 71; 2 Mac 8, 29; 15, 20-28). L’importanza della preghiera personale formulata non fa che crescere nei libri postesilici che apportano così una preziosa testimonianza (Giona 2, 3-10; Tob 3, 11-16; Giudit 9, 2-14; Est 4, 17). Queste preghiere sono state scritte per essere lette in un racconto, dopo di che è possibile, e la Chiesa ne rivolge l’invito, farle proprie. Ma coloro che diedero forma di raccolta al salterio si prefiggevano di farne un libro di preghiere: nessuna preghiera di Israele è paragonabile al salterio a motivo del suo carattere universale.
    II. I SALMI, PREGHIERA DELL’ASSEMBLEA
    Meraviglie di Jahvè (Sal 104...), comandamenti (Sal 15; 81 ...), profetismo (Sal 50 ...), sapienza (Sal 37 ...), tutta la Bibbia confluisce nei salmi come per capillarità e vi diventa preghiera. Il sentimento dell’unità della preghiera del popolo eletto ne ha diretto sia l’elaborazione, sia l’adozione da parte della Chiesa. Dandoci il salterio, Dio ci pone sulla bocca le parole che vuole sentire, ci indica le dimensioni della preghiera.
    1. Preghiera comunitaria e personale.
    - È sovente la nazione ad esultare, a ricordarsi od a lamentarsi: «ricordati», «fino a quando?» (Sal 44; 74; 77); od ancora la comunità dei pii (Sal 42, 5; i cantici delle salite...). Vi è sovente evocato il tempio, presente o lontano, centro di risonanza della preghiera dell’assemblea (Sal 5, 8; 28, 2; 48, 10 ... ). Si fa appello ai giusti (Sal 119, 63), che servono di argomento: non perdano la fede vedendoci cadere (Sal 69, 7); li si metterà al corrente quando si sarà stati esauditi (Sal 22, 23 = Eb 2, 12). Nonostante il frequente ricorrere delle stesse espressioni, il salterio non è un semplice formulario o cerimoniale. L’accento spontaneo vi indica l’origine di un’esperienza personale. Oltre alle preghiere propriamente individuali, soprattutto il posto riservato al re illustra l’importanza uguale data all’individuo ed alla comunità: il *re è, a titolo eminente, una persona unica, e nello stesso tempo il gruppo trova in lui il suo simbolo vivente. Il collegamento tradizionale della raccolta a David, che fu il primo salmista, indica il suo legame con la preghiera mediatrice di Gesù, figlio di David.
    2. Preghiera della prova.
    - La preghiera dei salmi prende lo spunto dalle diverse situazioni dell’esistenza. Vi si sente poco il profumo della solitudine (Sal 55, 7; 11, 1); vi si sente molto la pubblica piazza e la guerra (Sal 55; 59; 22, 13 s. 17), il che crea un testo più caotico e rumoroso di quanto taluni si attenderebbero da un libro di preghiere. Se si chiama Dio con queste grida, con questi ruggiti (Sal 69, 4; 6, 7; 22, 2; 102, 6), si è perché tutto è in gioco, perché si ha bisogno di lui con tutto l’io, anima e corpo (Sal 63, 2). Il corpo, con le sue prove e le sue gioie, occupa in questa preghiera il posto che ha nella vita (Sal 22; 38...). Il salmista cerca tutti i *beni: il tôb (Sal 4), e non li aspetta che da Dio. Per il fatto che non rinunzia né a vivere con Dio né a camminare quaggiù, egli si prepara al crogiuolo della *prova. Fuori di questa prospettiva - l’esperienza del comportamento di Dio nelle vie dell’uomo in cammino -, non si può comprendere la sua preghiera. Le grida di supplica partono dai momenti in cui l’attesa della *fede è messa alla prova: il *disegno di Dio sull’individuo o sul popolo è fallito, oppure no? Attorno al supplicante si ignora la preghiera (Sal 53, 5); lo si stuzzica: «Dov’è il tuo Dio?» (Sal 42, 4), ed egli interroga se stesso (Sal 42 - 43; 73): la sua certezza non è di quelle a cui la vita non potrebbe mai togliere od aggiungere nulla. Ciò illumina i passi in cui l’innocenza si proclama da sola non per pura compiacenza, ma di fronte al pericolo e perché il *nemico, sempre presente, la nega (Sal 7, 4 ss; 26).
    3. Preghiera sicura.
    - Il motivo dominante della preghiera dei salmi è batah: confidare (Sal 25, 2; 55, 24 ...). Questa *fiducia, che passa dal riso alle lacrime e viceversa (Sal 23, 4; 116, 10; 119, 143), si equilibra tra la supplica e il *ringraziamento. Si ringrazia persino prima di aver ottenuto (Sal 22, 25 ss; 140, 14; cfr. Gv 11, 41). I salmi che contengono la sola *lode costituiscono una parte importante della raccolta. I tre giovanetti che nella fornace lodano assieme costituiscono per il salterio un’immagine generica.
    4. Preghiera alla ricerca del vero bene.
    - Attendendo da Dio il bene, qualunque esso sia, l’uomo è chiamato a superare se stesso con la scoperta che è *Dio stesso a donarsi con questo bene. Si dichiara la *gioia di vivere sotto lo sguardo di Dio, di essere con lui, di abitare nella sua *casa (Sal 16; 23; 25, 14; 65, 5; 91; 119, 33 ss). Quanto alla speranza che Dio conceda all’uomo l’accesso alla sua stessa *vita, non si può affermare che la preghiera nei salmi se ne sia nutrita, ma questo *dono gratuito è presentito (Sal 73, 24 ss; 16). colui che è modellato dalla preghiera dei salmi è preparato a riceverlo, e troverà in essi di che esprimere questa esperienza.
    5. Il salterio, preghiera di Gesù.
    - Infatti la rivelazione di Cristo autorizzerà una trasposizione ed un arricchimento delle speranze del salmista; non ne sopprimerà la radice nella nostra condizione umana. Inoltre, l’applicazione dei salmi potrà farsi a Cristo prima di ogni trasposizione: i salmi saranno la sua preghiera (cfr. Mt 26, 30); egli ne sarà formato, come tutti coloro che lo circondano. Una *pietà desiderosa di «imparare Cristo» (Ef 4, 20) potrebbe trascurare questo documento fondamentale?
    III. LA PREGHIERA COM’È INSEGNATA DA GESÙ
    Mediante l’incarnazione, il Figlio di Dio è collocato al centro della richiesta incessante degli uomini. Egli la nutre di speranza rispondendovi; nello stesso tempo loda, incoraggia, od educa la *fede (Lc 7, 9; Mi 9, 22. 29; 15, 28). Collocato su questo sfondo vissuto, il suo insegnamento si estende anzitutto sul modo di pregare, più abbondantemente che sulla necessità della preghiera: «quando pregate, dite...» (Lc 11, 2).
    1. I sinottici.
    - Il Pater è il centro di questo insegnamento (Lc 11, 2 ss; Mt 6, 9-13). Dall’invocazione di Dio come *Padre, che prolunga, superandola, l’intimità dei salmi (Sal 27, 10; 103, 13; cfr. Is 63, 16; 64, 7), deriva tutto l’atteggiamento dell’orante. Questa invocazione è un atto di fede e già un dono di sé, che immette nel circuito della carità. Ne deriva che, perfettamente in linea con la preghiera biblica, egli fa passare dinanzi a tutto la preoccupazione del *disegno di Dio: del suo *nome, del suo *regno (cfr. Mt 9, 38), dell’attuazione della sua *volontà. Ma domanda pure il *pane (che egli offre nell’eucaristia), poi il *perdono, dopo essersi *riconciliato con i figli dello stesso Padre, ed infine la grazia di non essere travolto dalle *prove del tempo futuro. Le altre prescrizioni inquadrano o completano il Pater noster, nominano sovente il Padre. L’impressione dominante è che la certezza di essere esauditi è fonte e condizione della preghiera (Mt 18, 19; 21, 22; Lc 8, 50). Marco lo esprime nel modo più diretto: «se egli non esita in cuor suo, ma crede che accadrà ciò che dice, l’otterrà» (Mc 11, 23; cfr. 9, 23 e soprattutto Giac 1, 5-8). Ora, si è sicuri perché si prega il Padre (Lc 11, 13; Mt 7, 11). L’interiorità si fonda sulla presenza del Padre che vede nel segreto (Mt 6, 6; cfr. 6, 4. 18). Non accavallare e ripetere le parole (Mt 6, 7) quasi che Dio sia lontano da noi, come Baal deriso da Elia (1 Re 18, 26 ss), mentre è il nostro Padre. Perdonare (Mc 11, 25 par.; Mt 6, 14). Pregare in unione fraterna (Mt 18, 19). Ricordare le proprie colpe in una preghiera contrita (Lc 18, 9-14). Bisogna pregare senza interruzione (Lc 18, 1; cfr. 11, 5-8): la nostra perseveranza deve essere provata, la vigilanza del cuore espressa. La necessità assoluta della preghiera è insegnata nel contesto degli ultimi tempi (Lc 18, 1-7), resi vicini dalla passione; senza di essa si sarebbe sommersi da «tutto ciò che deve accadere» (Lc 21, 36; cfr. 22, 39-46); così pure il Pater termina implorando Dio contro la *tentazione insostenibile degli ultimi tempi.
    2. Giovanni. 
    - Giovanni presenta sotto una luce molto unificata la pedagogia della preghiera, passaggio dalla richiesta alla vera preghiera, e dal *desiderio dei doni di Dio a quello del dono che apporta Dio stesso, come leggevamo già nei salmi. Così la Samaritana è condotta dai suoi propri desideri fino a quello del *dono di Dio (Gv 4, 10), la folla al «*nutrimento che rimane per la vita eterna» (Gv 6, 27). Perciò la fede non è soltanto condizione della preghiera, ma suo effetto: il desiderio è nello stesso tempo esaudito e purificato (Gv 4, 50. 53; 11, 25 ss. 45).
    IV. LA PREGHIERA DI GESÙ
    1. La sua preghiera e la sua missione.
    - Nel vangelo nulla rivela la necessità assoluta della preghiera meglio del posto che essa occupa nella vita di Gesù. Egli prega spesso sul monte (Mt 14, 23), solo (ibid.), in disparte Lc 9, 18), anche quando «tutti [lo] cercano» (Mc 1, 37). Si avrebbe torto di ridurre questa preghiera al solo desiderio dell’intimità silenziosa con il Padre: essa concerne la *missione di Gesù o l’*educazione dei discepoli, che sono menzionate in quattro citazioni della preghiera proprie di Luca: nel battesimo (3, 21), prima della scelta dei dodici (6, 12), al momento della trasfigurazione (9, 29), prima dell’insegnamento del Pater (11, 1). La sua preghiera è il segreto che attira coloro che gli sono più vicini ed in cui egli li fa sempre più entrare (9, 18). Essa li concerne: egli ha pregato per la fede dei suoi. Il legame tra la sua preghiera e la sua missione è evidente nei quaranta giorni che la inaugurano nel deserto, perché fanno rivivere, superandolo, l’esempio di Mosè. Questa preghiera è una prova per l’orante: Gesù, meglio di Mosè, trionferà del progetto satanico di tentare Dio (Mt 4, 7= Deut 6, 16: Massa), ed ancor prima della sua passione ci fa vedere di quali ostacoli dovrà trionfare la nostra stessa preghiera.
    2. La sua preghiera e la sua passione.
    - La prova decisiva è quella della fine, quando Gesù prega e vuole far pregare con sé i suoi discepoli sul Monte degli Ulivi. Questo momento contiene tutta la preghiera cristiana; filiale: «Abba»; sicura: «tutto ti è possibile»; prova di obbedienza in cui è respinto il tentatore: «non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14, 3 6). Ed anche brancolante, come le nostre, quanto al suo vero oggetto.
    3. La sua preghiera e la sua risurrezione.
    - Esaudita infine al di là dell’attesa. Il conforto dell’angelo (Lc 22, 43) è la risposta immediata che il Padre dà per il momento presente, ma la lettera agli Ebrei ci fa vedere in un modo radicale ed ardito che è la risurrezione ad esaudire questa preghiera così veramente umana di Cristo, «nei giorni della sua carne, avendo innalzato, con un forte gemito e con lacrime, preghiere e suppliche a colui che lo poteva salvare dalla morte, ed essendo stato esaudito a motivo della sua «pietà» (Ebr 5, 7). La risurrezione di Gesù, momento centrale della salvezza dell’umanità, è una risposta alla preghiera dell’uomo-Dio che riprende tutte le domande umane della storia della salvezza (Sal 2, 8: «chiedimi»).
    4. La sera della cena.
    - Qui Gesù, dopo aver detto prima, tra l’altro, come pregare, prega poi egli stesso. Il suo insegnamento riprende quello dei sinottici quanto alla certezza di essere esaudito (parresìa in 1 Gv 3, 21; 5, 14), ma la condizione «nel mio nome» apre nuove prospettive. Si tratta di passare dalla richiesta più o meno istintiva alla vera preghiera. Il «sinora non avete domandato nulla nel mio nome» (Gv 16, 24) si può quindi applicare a molti battezzati. Pregare «nel nome» di Cristo suppone più che una formula, così come compiere un passo in *nome di un altro suppone un legame reale con quest’altro. Pregare in tal modo non significa domandare unicamente le cose del cielo, ma volere ciò che Gesù vuole; ora la sua volontà è la sua *missione: che la sua *unità con il Padre diventi il fondamento dell’unità dei chiamati. «Che tutti siano uno come tu, Padre, sei in me, ed io in te» (Gv 17, 22 s). Essere nel suo nome e volere ciò che egli vuole significa pure camminare nei suoi comandamenti, il primo dei quali impone la carità che si domanda. La carità quindi è tutto nella preghiera: condizione e termine. Il Padre dona tutto a motivo di questa unità. Così l’affermazione costante dei sinottici, che ogni preghiera è esaudita, è confermata qui per cuori rinnovati: «senza dire alcuna *parabola» (Gv 16, 29). Questa è una situazione nuova, che però realizza la promessa del *giorno di Jahvè, in cui «tutti coloro che invocheranno il nome di Jahvè saranno salvati» (Gioe 3, 5 = Rom 10, 13); la preghiera della cena promulga 1’era attesa, in cui i benefici del cielo corrisponderanno ai desideri della terra (Os 2, 23-25; Is 30, 19-23; Zac 8, 12-15; Am 9, 13). Tale è la preghiera di Gesù, che trascende la nostra; di rado egli dice «prego», ma generalmente «chiedo», ed una volta «voglio» (alla fine: Gv 17, 24). Questa preghiera esprime la sua intercessione (eterna secondo Ebr 7, 25) e rivela il contenuto interiore tanto della passione quanto del pasto eucaristico. Infatti 1’*eucaristia è il pegno della *presenza totale di Dio nel suo dono e la possibilità dello scambio perfetto.
    V. LA PREGHIERA DELLA CHIESA
    1. La comunità.
    - La vita della Chiesa fa i suoi esordi nella cornice della preghiera di Israele. Il vangelo di Luca termina nel tempio dove gli apostoli stavano «continuamente... a lodare Dio» (Lc 24, 53; Atti 5, 12). Pietro prega all’ora sesta (Atti 10, 9); Pietro e Giovanni vanno alla preghiera dell’ora nona (3, 1; cfr. Sal 55, 18: indice di un ritmo liturgico). S’innalzano le mani al cielo (1 Tim 2, 8; cfr. 1 Re 8, 22; Is 1, 15), stando in piedi e talvolta in *ginocchio (Atti 9, 40; cfr. 1 Re 8, 54). Si cantano salmi (Ef 5, 19; col 3, 16). «Tutti, con uno stesso cuore, erano assidui alla preghiera» (Atti 1, 14). Questa preghiera comunitaria, che prepara la Pentecoste, prepara dopo di essa tutti i grandi momenti della vita ecclesiale attraverso gli Atti: la sostituzione di Giuda (1, 24-26), l’istituzione dei Sette (6, 6) che deve appunto facilitare la preghiera dei Dodici (6, 4); Si prega per la liberazione di Pietro (4, 24-30), per i battezzati di Filippo in Samaria (8, 15). Vediamo pregare Pietro (9, 40; 10, 9) e Paolo (9, 11; 13, 3; 14, 23; 20, 36; 21, 5...). L’Apocalisse ci riporta echi della preghiera innica dell’assemblea (Apoc 5, 6- 14...).
    2. S. Paolo.
    a) Lotta. - Paolo accompagna le parole che designano la preghiera con la menzione «continuamente», «in ogni tempo» (Rom 1, 10; Ef 6, 18; 2 Tess 1, 3. 11; 2, 13; Filem 4; Col 1, 9) o «notte e giorno» (1 Tess 3, 10; 1 Tim 5, 5). Egli concepisce la preghiera come una lotta: «Lottate con me nelle preghiere che rivolgete a Dio per me» (Rom 15, 30; Col 4, 12), lotta che si confonde con quella del ministero (Col 2, 1). Per «vedere il volto» dei Tessalonicesi, egli prega «più che molto» (1 Tess 3, 10), lo stesso superlativo intraducibile che usa per definire il modo in cui Dio ci esaudisce (Ef 3, 20). «Per tre volte ho supplicato il Signore», dice (2 Cor 12, 8), affinché fosse rimossa la spina conficcata nella carne.
    b) Preghiera apostolica. - L’esempio citato è unico; infatti nella sua preghiera, indissolubilmente legata al disegno divino che si compie nella sua missione, tutte le domande esplicite concernono il regno di Dio da promuovere. Ciò comporta desideri concreti: la questua per Gerusalemme (Rom 15, 30 s) da far gradire, la fine di una tribolazione (2 Cor 1, 11), la sua libertà (Filem 22); per questo e per altre cose (Fil 1, 19; 1 Tess 5, 25) egli chiede le preghiere degli altri, così come rende noto ai Colossesi (4, 12) che Epafra lotta per essi nella preghiera. La preghiera appare nettamente in lui come collegamento all’interno del *corpo di Cristo in costruzione (vedere anche 1 Gv 5, 16).
    c) Ringraziamento. - Si nota in lui costantemente l’ondeggiamento tradizionale tra supplica e *lode: «preghiere e suppliche, con ringraziamenti» (Fil 4, 6; cfr. 1 Tess 5, 17 s; 1 Tim 2, 1). Egli stesso inizia le sue lettere (eccetto Gal e 2 Cor, per motivi precisi) rendendo grazie per i progressi dei destinatari e riferendo le sue preghiere affinché Dio completi le sue grazie (Fil 1, 9). Sembra che il *ringraziamento attiri a sé tutte le altre componenti della preghiera: dopo quanto abbiamo ricevuto una volta per sempre in Gesù Cristo, non si può più pregare senza partire da questo dono, e si chiede per poter ringraziare (2 Cor 9, 11-15).
    d) Preghiera nello Spirito del Figlio. - Paolo apporta una luce precisa sulla funzione dello *Spirito nella preghiera che ci unisce alla Santissima Trinità. Come facciamo ancora tutti nei momenti di preghiera liturgica, egli rivolge le sue preghiere, per mezzo di Cristo, al Padre. È raro che si rivolga al «Signore», cioè a Gesù (2 Cor 12, 8; cfr. Ef 5, 19, ma Col 3, 16, parallelo, parla di «Dio» invece del Signore). Ora, ciò che ci fa pregare per mezzo di Cristo (= nel suo nome), è precisamente lo Spirito di adozione (Rom 8, 15). Per mezzo suo, al pari di Gesù, diciamo «*Padre» e questo nella forma familiare «Abba», termine che i Giudei riservavano ai loro padri terreni e non avrebbero usato per il Padre del cielo. Questo favore non può venire che dall’alto; «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abba, Padre» (Gal 4, 6; cfr. Mc 14, 36). In tal modo è realmente soddisfatto il bisogno che l’umanità prova di giustificare la sua preghiera in una iniziativa divina. Ben più profondamente che un atteggiamento filiale, è un essere di *figlio che sta al centro della nostra preghiera. Attraverso quindi i nostri brancolamenti (Rom 8, 26), lo Spirito che prega in noi dà alla nostra preghiera la sicurezza (Ebr 4, 14 ss; Giac 4, 3 ss) di raggiungere le profondità da cui Dio ci chiama, che sono quelle della carità. Sappiamo come chiamare questo dono, che è origine e termine della preghiera; è lo Spirito di amore già ricevuto (Rom 5, 5) e tuttavia domandato (Lc 11, 13). In lui noi domandiamo un *mondo nuovo; là si è sicuri di essere esauditi. Fuori di là, si prega «come i pagani». In lui ogni preghiera è il contrario di una fuga: un appello che affretta l’incontro del cielo e della terra: «Lo Spirito e la sposa dicono: "Vieni"... Sì, vieni, o Signore Gesù!» (Apoc 22, 17. 20).
    P. BEAUCHAMP
    → adorazione - amen 0.1 - ascoltare 2 - benedizione I, III 5 - cercare I, II - comunione VT 4 - culto - desiderio III, IV - digiuno 0.1 – Elia NT 3 - espiazione 2 - eucaristia I 1 - fiducia 2 - ginocchio 2 - gloria V - lode - messia VT I 2 - pellegrinaggio - perdono I - poveri VT III - prova-tentazione NT III 1 - Provvidenza 1 - ringraziamento - sacerdozio VT III 2 - salvezza VT II - tempio VT 1 1; NT I 1, III 2 - vegliare II, III.

    PREOCCUPAZIONE E SOLLECITUDINE (inizio)

    1. Esortazioni alla sollecitudine.
    - La sollecitudine è anzitutto la cura che si porta nel compimento di un *lavoro o di una *missione. La Bibbia ammira e raccomanda questa presenza intelligente e attiva dell’uomo a tutti i suoi compiti. Dapprima ai più umili, ad esempio nell’ambito della casa (Prov 31, 10-31), del mestiere (Eccli 38, 24-34) o delle responsabilità pubbliche (50, 1-4). Più in alto ancora la Bibbia colloca la sollecitudine dei compiti spirituali; la ricerca della *sapienza (Sap 6, 17; Eccli 39, 1-11) o del progresso morale (1 Tim 4, 15; cfr. Tito 3, 8; 1 Cor 12, 25), la sollecitudine dell’apostolo (2 Cor 11, 28; cfr. 4, 8 s) o quella di Pietro (Lc 22, 32). L’esempio per eccellenza è qui Gesù stesso, dedito senza riserve al compimento della sua missione (Lc 12, 50). D’altronde la sollecitudine degli «affari del Signore» è di ordine così elevato che può portare, dietro l’appello di Cristo, a rinunziare alle preoccupazioni di questo *mondo per occuparsi direttamente e totalmente dell’«unica cosa necessaria» (1 Cor 7, 32 ss; cfr. Lc 10, 41 s).
    2. Le preoccupazioni e la fede.
    - In tutti i campi la Bibbia condanna quindi la negligenza e la pigrizia. Ma sa pure che l’uomo corre il rischio di lasciarsi assorbire dalle preoccupazioni di questo mondo a detrimento delle aspirazioni spirituali (Lc 8, 14 par.; 16, 13 par.; 21, 34 par.). Gesù ha denunciato questo pericolo: chiama i suoi discepoli a preoccuparsi unicamente del *regno di Dio; la necessaria libertà di spirito verrà loro non dalla noncuranza - i compiti di questo mondo restano un dovere -, ma dalla *fiducia nell’amore paterno di Dio e nella sua *provvidenza (Mt 6, 25-34 par.; cfr. 16, 5-12). Le preoccupazioni d’altronde, qualunque sia il campo che interessano, sono per se stesse un appello alla fiducia e alla *fede. Se un compito ben svolto permette, in taluni casi, di «*ridere al giorno venturo» (Prov 31, 25), le preoccupazioni che esso comporta sono per lo più un’occasione per l’uomo di acquistare coscienza dei propri limiti nell’incertezza, nel *timore o nell’angoscia. La *sofferenza che ne consegue è la sorte comune di tutti gli uomini (Sap 7, 4). Essa li invita ad affidare al Signore il «peso» delle loro preoccupazioni (Sal 55, 23; cfr. 1 Piet 5, 7), anche se proviene dai loro peccati (Sal 38, 19; cfr. Lc 15, 16-20), in una fede consapevole che «l’Altissimo prende cura di essi» (Sal 5, 15). Potranno allora «servirsi di questo mondo», con tutta la cura necessaria, «come se non se ne servissero veramente» (1 Cor 7, 31). Di fatto, al di là di tutte le preoccupazioni, «la *pace di Dio, che trascende ogni intelligenza, custodirà i loro cuori ed i loro pensieri nel Cristo Gesù» (Fil 4, 6 s).
    J. DUPLACY
    → angoscia - fiducia - lavoro - Provvidenza 1 - ricchezza I 2 - timore di Dio II - tristezza VT 1.

    PRESBITERO (inizio)

    → ministero II - sacerdozio NT III 2.

    PRESENZA DI DIO (inizio)

    Il Dio della Bibbia non è soltanto l’altissimo, ma anche il vicinissimo (Sal 119, 151); non è un essere supremo che la sua perfezione isoli dal mondo, ma neppure una realtà che si confonda con il mondo. È il Dio creatore presente alla sua opera (Sap 11, 25; Rom 1, 20), il Dio salvatore presente al suo popolo (Es 19, 4 ss), il Dio Padre presente al suo Figlio (Gv 8, 29) ed a tutti coloro che lo Spirito del suo Figlio vivifica e che lo amano filialmente (Rom 8, 14. 28). È presente in tutti i tempi, perché domina il *tempo, lui che è il primo e l’ultimo (Is 44, 6; 48, 12; Apoc 1, 8. 17; 22, 13). La presenza di Dio, pur essendo reale, non è tuttavia materiale; se si manifesta mediante segni sensibili, rimane quella di un essere spirituale il cui amore avvolge la sua creatura (Sap 11, 24; Sal 139) e la vivifica (Atti 17, 25-28), il cui amore vuole comunicarsi all’uomo e farne un testimone luminoso della sua presenza (Gv 17, 21).
    VECCHIO TESTAMENTO
    Dio, che ha creato l’uomo, vuole essergli presente; se l’uomo, con il peccato, fugge questa presenza, la chiamata divina continua ad incalzarlo attraverso la storia: «Adamo, dove sei?» (Gen 3, 8 s).
    I. LA PROMESSA DELLA PRESENZA DI DIO
    In un primo tempo Dio si manifesta ad individui privilegiati che assicura della sua presenza: ai padri con cui fa alleanza (Gen 17, 7; 26, 24; 28, 15) ed a Mosè che ha la missione di liberare il suo popolo (Es 3, 12). A questo popolo rivela il suo *nome ed il significato di questo nome; gli garantisce in tal modo che il Dio dei suoi padri sarà con lui, com’è stato con essi; di fatto *Dio si chiama *Jahvè e si definisce così: «Io sono quel che sono», cioè sono l’eterno, immutabile e fedele; od anche: «Io sono colui che è», che è presente, sempre e dovunque, e cammina con il suo popolo (3, 13 ss; 33, 16). La promessa di questa presenza onni*potente, fatta in occasione dell’alleanza (34, 9 s), è rinnovata agli inviati per mezzo dei quali Dio guida il suo popolo: Giosuè ed i Giudici (Gios 1, 5; Giud 6, 16; 1 Sam 3, 19), i re ed i profeti (2 Sam 7, 9; 2 Re 18, 7; Ger 1, 8. 19). Parimenti significativo è il nome del bambino del quale Isaia annunzia la nascita e dal quale dipende la salvezza del popolo. Emmanuel, cioè «Dio con noi» (Is 7, 14; cfr. Sal 46, 8). Anche quando Dio deve castigare il suo popolo con l’esilio, non lo abbandona; di questo popolo che rimane suo servo e suo testimone (Is 41, 8 ss; 43, 10 ss), egli rimane il *pastore (Ez 34, 15 s. 31; Is 40, 10 s), il *re (Is 52, 7), lo *sposo ed il *redentore (Is 54, 5 s; 60, 16); annunzia quindi che lo salverà gratuitamente per fedeltà alle sue *promesse (Is 52, 3. 6), che la sua *gloria rientrerà nella città santa il cui nome sarà ormai «Jahvè è là» (Ez 48, 35), ed in tal modo manifesterà la sua presenza a tutte le *nazioni (Is 45, 14 s) e le radunerà a Gerusalemme nella sua luce (Is 60); infine nell’ultimo giorno sarà presente come *giudice e re universale (Mal 3, 1; Zac 14, 5. 9).
    II. I SEGNI DELLA PRESENZA DI DIO
    Dio si manifesta mediante *segni diversi. La teofania del Sinai suscita il *timore sacro con l’*uragano, il tuono, il fuoco ed il vento (Es 20, 18 ss) che si ritrovano in altri interventi divini (Sal 29; 18, 8-16; Is 66, 15; Atti 2, 1 ss; 2 Piet 3, 10; Apoc 11, 19). Ma Dio appare anche in un’atmosfera completamente diversa, quella della pace dell’Eden dove spira una brezza leggera (Gen 3, 8), quando conversa con i suoi amici, Abramo (Gen 18, 23-33), Mosè (Es 33, 11) ed Elia (1 Re 19, 11 ss). D’altronde, per quanto i segni della presenza divina siano luminosi (Sal 104, 2), Dio si avvolge di *mistero; guida il suo popolo nel deserto in una colonna di *nube e di *fuoco (Es 13, 21) e *rimane in mezzo ad esso, riempiendo della sua *gloria il tabernacolo dov’è l’arca dell’alleanza (Es 40, 34) e più tardi il santo dei santi (1 Re 8,10 ss).
    III. LE CONDIZIONI DELLA PRESENZA DI DIO
    Per avere accesso a questa presenza misteriosa e santa, bisogna conoscerne da Dio le condizioni.
    1. La ricerca di Dio.
    - L’uomo deve rispondere ai segni che Dio gli fa; per questo gli rende un *culto in luoghi ai quali è connesso il ricordo di una manifestazione divina, come Bersabea o Bethel (Gen 26, 23 ss; 28, 16-19). Ma Dio non è legato a nessun luogo, a nessuna dimora materiale. La sua presenza, di cui l’*arca dell’alleanza è il segno, accompagna il popolo che essa guida attraverso il deserto e di cui vuol fare la sua dimora (cfr. *rimanere) viva e santa (Es 19, 5; 2 Sam 7, 5 s. 11-16). Dio vuole abitare con la discendenza di David, nella sua *casa. E se accetta che gli sia costruito un *tempio da Salomone, lo fa affermando che questo tempio è impotente a contenerlo (1 Re 8, 27; cfr. Is 66, 1); ve lo si troverà, nella misura in cui vi si invocherà il suo *nome in *verità (1 Re 8, 29 s. 41 ss; Sal 145, 18), cioè in cui vi si cercherà la sua presenza mediante un culto vero, quello di un cuore fedele. Per ottenere un simile culto, eliminando quello delle alture e la sua corruzione, la riforma deuteronomica prescrisse di salire tre volte all’anno in *pellegrinaggio a Gerusalemme e di non sacrificare più altrove (Deut 12, 5; 16, 16). ciò non significa che basti salire al tempio per trovare il Signore; bisogna ancora che il culto che vi si celebra esprima il rispetto dovuto al Dio che ci vede e la *fedeltà dovuta al Dio che ci parla (Sal 15; 24). Altrimenti si è lontani da lui col cuore (Ger 12, 2), e Dio abbandona il tempio di cui annunzia la distruzione, perché gli uomini ne hanno fatto una spelonca di ladri (Ger 7, 1-15; Ez 10 - 11). Per contro Dio è vicino a coloro che camminano con lui come i patriarchi (Gen 5, 22; 6, 9; 48, 15) e stanno dinanzi a lui come Elia (1 Re 17, 1); che vivono con fiducia sotto il suo sguardo (Sal 16, 8; 23, 4; 119, 168) e lo invocano nelle loro angosce (Sal 34, 18 ss); che *cercano il bene (Am 5, 4. 14) con cuore umile e contrito (Is 57, 15) e soccorrono gli sventurati (Is 58, 9); questi sono i fedeli che vivranno per sempre, incorruttibili, presso Dio (Sap 3, 9; 6, 19).
    2. Il dono di Dio.
    - Ora una simile fedeltà è in potere dell’uomo? In presenza del Dio *santo l’uomo acquista coscienza del suo * peccato (Is 6, 1-5), di una corruzione che Dio solo può guarire (Ger 17, 1. 14). Venga Dio a cambiare il *cuore dell’uomo e metta in esso la sua *legge ed il suo *spirito (Ger 31, 33; Ez 36, 26 ss)! I profeti annunziano questo rinnovamento, frutto di una *alleanza nuova, che del *popolo santificato farà l’abitazione di Dio (Ez 37, 26 ss). I sapienti annunziano anch’essi che Dio manderà la sua sapienza ed il suo spirito santo agli uomini affinché conoscano la sua volontà e diventino suoi amici ricevendo in sé questa sapienza che trova la sua gioia nel dimorare in mezzo ad essi (Prov 8, 31; Sap 9, 17 ss; 7, 27 s).
    NUOVO TESTAMENTO
    I. IL DONO DELLA PRESENZA IN GESÙ
    Con la sua venuta nella vergine Maria, lo Spirito Santo realizza il *dono promesso ad Israele: Il Signore è con essa e Dio è con noi (Lc 1, 28. 35; Mt 1, 21 ss). Di fatto Gesù, il figlio di David, è anche il Signore (Mt 22, 43 s par.), il Figlio del Dio vivente (Mt 16, 16) la cui presenza è rivelata ai piccoli (Mt 11, 25 ss); è il Verbo di Dio, venuto nella carne ad abitare tra noi (Gv 1, 14) ed a rendere presente la *gloria del suo Padre, di cui il suo *corpo è il vero tempio (Gv 2, 21). Come il suo Padre, che è sempre con lui, egli si chiama «Io sono» (Gv 8, 28 s; 16, 32) e dà compimento alla promessa di presenza implicita in questo *nome; in lui di fatto è la *pienezza della divinità (Col 2, 9). Terminata la sua missione, egli assicura i suoi discepoli che è sempre con essi (Mt 28, 20; cfr. Lc 22, 30; 23, 42 s).
    II. IL MISTERO DELLA PRESENZA NELLO SPIRITO
    Se Gesù risorto appare ai discepoli, non è per restituire loro quella presenza fisica di cui ormai è bene che siano privi (Gv 16, 7), bensì per invitarli a cercarlo mediante la fede là dove vive. Egli vive col Padre (20, 17); inoltre è presente in tutti gli sventurati nei quali vuole essere servito (Mt 25, 40); è in coloro che portano la sua parola ed in cui vuole essere ascoltato (Lc 10, 16); è in mezzo a coloro che si uniscono per pregare nel suo nome (Mt 18, 20). Ma Cristo non è soltanto in mezzo ai fedeli, è in essi, come ha rivelato a Paolo, assieme alla sua gloria: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (Atti 9, 5); vive in effetti in coloro che lo hanno ricevuto mediante la fede (Gal 2, 20; Ef 3, 17) e che egli *nutre con il suo corpo (1 Cor 10, 16 s). Il suo Spirito abita in essi, li anima (Rom 8, 9. 14) e ne fa il *tempio di Dio (1 Cor 3, 16 s; 6, 19; Ef 2, 21 s) e le membra di Cristo (1 Cor 12, 12 s. 27). Mediante questo stesso Spirito, Gesù vive in coloro che mangiano la sua *carne e bevono il suo *sangue (Gv 6, 56 s. 63); è in essi, come il Padre suo è in lui (Gv 14, 19 s). Questa *comunione suppone che Gesù sia ritornato al Padre ed abbia mandato il suo Spirito (Gv 16, 28; 14, 16 ss); ecco perché è meglio che egli sia assente corporalmente (Gv 16, 7); questa assenza è la condizione di una presenza interiore realizzata mediante il dono dello *Spirito. Grazie a questo dono, i discepoli hanno in sé l’amore che unisce il Padre ed il Figlio (Gv 17, 26): questo è il motivo per cui Dio rimane in essi (1 Gv 4, 12).
    III. LA PIENEZZA DELLA PRESENZA NELLA GLORIA DEL PADRE
    Questa presenza del Signore che Paolo augura a tutti (2 Tess 3, 16; 2 Cor 13, 11) non sarà perfetta se non quando saremo stati liberati dai nostri corpi mortali (2 Cor 5, 8). Allora, risuscitati dallo Spirito che è in noi (Rom 8, 11), vedremo Dio che sarà tutto in tutti (1 Cor 13, 12; 15, 28). Allora, nel posto che Gesù ci ha preparato presso di sé, vedremo la sua gloria (Gv 14, 2 s; 17, 24), luce della nuova Gerusalemme, dimora di Dio con gli uomini (Apoc 21, 2 s. 22 s). Allora sarà perfetta la presenza in noi del Padre e del Figlio mediante il dono dello Spirito (1 Gv 1, 3; 3, 24). Tale è la presenza che il Signore offre ad ogni fedele. «Io sto alla porta e busso» (Apoc 3, 20). Non è una presenza accessibile alla *carne (Mt 16, 17), né riservata ad un popolo (Col 3, 11), né legata ad un luogo (Gv 4, 21); è il dono dello Spirito (Rom 5, 5; Gv 6, 63), offerto a tutti nel corpo di Cristo dove egli è in *pienezza (Col 2, 9), ed interno al fedele che entra in questa pienezza (Ef 3, 17 ss). Il Signore fa questo dono a chi gli risponde con la sposa e per mezzo dello Spirito: «Vieni!» (Apoc 22, 17).
    M. F. LACAN
    → addii NT 1 - adorazione 0 - altare - apparizioni di Cristo 4 c. 7 - arca d’alleanza - cielo III, V 1 - culto VT I; NT III 2 - Dio VT III 1; NT II 2 - faccia 3.4 - fuoco VT I - giorno del Signore NT 0, III 2 - gloria III 2 - Jahvè - lampada 1 - luce e tenebre VT I 2, II 2 - manna 1 - nome VT 2.4 - nube - ombra II 2.3 - Paraclito 1 - speranza VT III - Spirito di Dio - tempio - uragano 2 - vedere - visita.

    PREZZO (inizio)

    → correre 2 - giustizia A I VT 3; B II VT - redenzione NT 1 - retribuzione.

    PRIGIONE (inizio)

    → prigionia.

    PRIGIONIA (inizio)

    I. LA PROVA DELLA PRIGIONIA
    Fin dall’inizio della sua storia, Israele ha fatto in Egitto l’esperienza d’una «prigionia originale», quando la terra che aveva accolto i patriarchi divenne per i loro discendenti una «casa di servitù» (Es 13, 14; Deut 7, 8). A rigore di termini, tuttavia, gli Ebrei più che servi o prigionieri erano gli *schiavi del faraone. In seguito il popolo di Dio conobbe più di una volta la deportazione, pratica che Amos denuncia come un delitto (Am 1, 6. 9), benché fosse corrente nell’Oriente antico. Tale fu la sorte delle tribù del Nord dopo la rovina di Samaria (2 Re 17, 6. 23), poi quella di Giuda all’inizio del sec. VI (2 Re 24 - 25). In entrambi i casi si trattava di *castighi che punivano le infedeltà del popolo di Dio. Nel linguaggio tradizionale la cattività di *Babilonia, benché piuttosto deportazione od *esilio, rimase la cattività per eccellenza. Accanto a queste prove collettive la Bibbia, in vari contesti, evoca la sorte di individui schiavi o prigionieri. Per taluni la detenzione non è un giusto castigo (cfr. Mt 5, 25; 18, 30), ma una *prova provvidenziale (cfr. Apoc 2, 10). Così è per Giuseppe (Gen 39, 20 ss), che la sapienza di Dio «non abbandonò nelle catene» (Sap 10, 14); è pure la sorte di più di un profeta (cfr. 1 Re 22, 26 ss), quella di Geremia (Ger 20, 2; 32, 2 s; 37, 11-21; 38, 6), di Giovanni Battista (Mt 14, 3); quella infine di Gesù che fu legato (Gv 18, 12; Mt 27, 2) e senza dubbio gettato in prigione. Nella Chiesa la stessa sorte attende gli apostoli (Atti 5, 18; 12, 3 ss; 16, 23 s); e Paolo, capace di andare volontariamente in prigionia (Atti 20, 22), potrà designarsi letteralmente come «il prigioniero di Cristo» (Ef 3, l; 4, 1; cfr. 2 Cor 11, 23). Tuttavia «la parola di Dio non sarà incatenata» (2 Tim 2, 9; cfr. Fil 1, 12 ss), e liberazioni meravigliose (Atti 5, 19; 12, 7-11; 16, 26) illustreranno l’impotenza della prigione a tenere prigioniero il vangelo. E ciò perché Dio si preoccupa dei prigionieri. Se esige dai suoi fedeli che «rompano le catene ingiuste» (Is 58, 6) e se la visita dei carcerati fa parte delle *opere di misericordia (Mt 25, 36. 40; cfr. 10, 34; 13, 3), egli stesso è pieno di sollecitudine per «i suoi prigionieri» (Sal 69, 34), anche per coloro che, con disprezzo, avevano sfidato i suoi ordini (Sal 107, 10-16). Soprattutto al suo popolo prigioniero egli fa una promessa di *libertà (Is 52, 2) che è come un preludio del vangelo (ls 61, 1).
    II. LA PRIGIONIA SPIRITUALE DEL PECCATORE
    Attraverso l’esperienza della prigionia temporale, di fatto il popolo di Dio ne discerne un’altra, di cui la prima diventa allora un simbolo espressivo: la prigionia dei peccatori. Anche su questo piano c’è interferenza tra cattività e *schiavitù. L’affermazione decisiva di Gesù: «Ogni uomo che commette il peccato è uno schiavo» (Gv 8, 34) ha dei preludi nel VT: Dio abbandonava il popolo infedele ai suoi nemici (Giud 2, 14), lo «consegnava al potere dei suoi delitti» (Is 64, 6 LXX); secondo l’insegnamento dei sapienti il *peccato costituisce una specie di alienazione: «l’empio rimane preso nella rete delle sue iniquità ed è avvinto dal laccio delle sue colpe» (Prov 5, 22; cfr. 11, 6). Tuttavia la profondità della miseria umana, da cui Gesù doveva annunziare la liberazione (cfr. Lc 4, 18; cfr. Is 61, 1), è rivelata soprattutto dagli scritti apostolici. «Io sono un essere di carne, venduto al potere del peccato»; sono come un «prigioniero sotto la legge del peccato che è nelle mie membra» (Rom 7, 14. 23): ecco, secondo Paolo, la condizione di ogni uomo prima della *giustificazione. D’altronde il peccato non è un’astrazione: in definitiva i peccatori sono racchiusi nei «lacci del demonio, che li rende prigionieri, schiavi della sua volontà» (2 Tim 2, 26). Di questa cattività spirituale, «i lacci dello sheol» e «le trappole della morte» (cfr. Sal 18, 6), così temibili per l’uomo (cfr. Ebr 2, 14 s), costituiscono un’altra traduzione concreta. Quindi l’*azione liberatrice di Gesù si è estesa fin là: dopo aver *gustato la *morte, egli è «disceso agli inferi», per proclamare la buona novella della salvezza anche «agli spiriti tenuti prigionieri» (1 Piet 3, 19). Infine Paolo non esita a considerare talvolta la *legge stessa come una specie di «carcere», dove «prima dell’avvento della *fede noi eravamo rinchiusi» (Gal 3, 23; cfr. Rom 7, 6): formule forse eccessive, ma che aiutano a meglio comprendere la vera *liberazione che Gesù Cristo ci procura. Che diventano questi peccatori liberati da Cristo? Nuovo paradosso: essi sono i «prigionieri» del Signore. Paolo proclama che gli schiavi del peccato diventano schiavi della *giustizia (Rom, 6, 12- 23; 1 Cor 7, 22); egli stesso si considera come incatenato dallo Spirito (Atti 20, 22); vuole quindi rendere «prigioniero ogni pensiero per portarlo ad *obbedire a Cristo» (2 Cor 10, 5; cfr. Rom 1, 5). Di fatto, alla maniera dei generali antichi, Gesù nel suo corteo vittorioso «ha condotto dei prigionieri» (Ef 4, 8 = Sal 68, 19), ma lo ha fatto per distribuire loro i suoi doni ed associarli alla sua propria *vittoria (cfr. 2 Cor 2, 14).
    L. ROY
    → Babele-Babilonia 4 - esilio - esodo VT - liberazione-libertà - peccato - prova-tentazione VT I 3 - redenzione - schiavo.

    PRIMATO (inizio)

    → autorità - Pietro (San) 2 - re - testa.

    PRINIZIE (inizio)

    I. LE PRIMIZIE
    1. La legge.
    - Si chiamano primizie (ebr. bikkurîm, rad. bkr, nascere prima) prelevamenti operati sui «primi» prodotti del suolo (ebr. re’šît, gr. aparchè), che si consideravano come i «migliori» del raccolto. In Israele, come presso altri popoli (Egiziani, Babilonesi, Greci, Latini), si offrivano queste primizie alla divinità. La legge ebraica determinò a poco a poco l’obbligo, le modalità di queste oblazioni che, all’origine, si compivano liberamente e senza un preciso rituale (Gen 4, 3 s). Si potrebbero seguire le tappe di questa evoluzione in testi di epoche diverse: offerta dell’«abbondanza dell’aia e del vino nuovo» (Es 22, 28), del «meglio delle primizie del terreno» (Es 23, 19; cfr. 34, 26); descrizione particolareggiata della cerimonia in Deut 26, 2...; estensione della legge ai prodotti lavorati, tratti dai frutti (Num 15, 20; Ez 44, 30; Lev 23, 17. 20; cfr. 2 Re 4, 42; Deut 18, 4; cfr. Tob 1, 6). La legislazione sacerdotale ricorda due offerte più solenni, quella del primo covone di orzo durante la settimana *pasquale (Lev 23,10 s) e quella delle primizie della messe del frumento in occasione della *Pentecoste (Es 34, 22; Lev 23, 17), chiamata per questo motivo «giorno delle primizie» (Num 28, 26).
    2. Gli aspetti del rito.
    a) Il rito liturgico, *sacrificio, in Lev 2, 12, presenta un significato complesso. Questa offerta equivaleva ad un atto di riconoscenza verso Dio, padrone della natura e fonte di ogni fecondità. La professione di fede, che, secondo Deut 26, 3, esprime il senso della cerimonia, aggiunge una precisazione importante. Essa contiene un riferimento esplicito all’uscita dall’Egitto ed all’entrata in possesso della terra di Canaan: «Ecco che io porto ora le primizie dei prodotti della terra che Jahvè mi ha data» (Deut 26, 10). L’offerta dell’ebreo è una risposta alla liberalità divina nel corso della storia. Il *dono di Dio chiama il dono dell’uomo. Principio di portata universale.
    b) Il rito includeva un altro aspetto: la consacrazione a Dio dei primi frutti *santifica tutto il raccolto, perché la parte vale per il tutto (Rom 11, 16). Così con questo atto simbolico, i beni terreni nel loro complesso passano dall’ordine profano al campo del sacro. *Frutti santificati per un popolo santo! L’idea che una parte consacrata esercita sulla massa un influsso santificante ricorre altrove nella Bibbia, trasferita su un piano superiore. Così Israele (Ger 2, 3), i cristiani (Giac 1, 18) e specialmente i primi convertiti (Rom 16, 5; 1 Cor 16, 15) od i vergini (Apoc 14, 4) sono paragonati a primizie prelevate sulla massa ed offerte a Dio od a Cristo. Nel piano della salvezza, una élite consacrata ha una parte attiva nella santificazione del mondo. Secondo 1 Cor 15, 20. 23, Cristo risorge come «primizia» affinché tutti coloro che dormono lo seguano nella gloria. È possibile che Paolo, in Col 1, 15 ss, si ispiri a Prov 8, 22 dove la sapienza divina è chiamata «primizia» dell’opera o della potenza divina. Nell’ordine della creazione, come in quello della redenzione, Cristo realizza i due aspetti contenuti nella nozione di primizie: priorità ed influsso. L’immagine si evolve in Rom 8, 23 dove le primizie dello Spirito designano l’anticipazione e la garanzia della salvezza finale dei cristiani.
    3. La decima.
    - Il VT associa sovente alle primizie la decima (ebr. ma’aser, rad. «dieci», o, forse, all’origine, «libagione»). La legislazione più antica non ricorda questa usanza (Es 20 - 23) praticata tuttavia da molto tempo (Am 4, 4; cfr. Gen 28, 22): Sembra che in un primo tempo la decima si confonda con le primizie (Deut 12, 6. 11. 17; 14, 22); d’altra parte, in taluni testi posteriori (Ez 44, 30; Num 18, 12 ...), l’aspetto sacrificale dell’offerta delle primizie si attenua: c’è la tendenza a ridurre le primizie ad un’imposta sacra a beneficio del clero (Mal 3, 10; cfr. Eccli 45, 20; Neem 10, 36 ...). Alla fine la decima si distinguerà nettamente dalle primizie e consisterà nell’obbligo di dare la decima parte dei frutti della terra e del gregge.
    II. I PRIMOGENITI
    L’offerta dei primogeniti degli animali (bekorîm) e degli uomini, cioè «tutto ciò che apre il seno», è un’applicazione particolare della legge sulle primizie. Il codice dell’alleanza prescrive di «dare» (cfr. *dono) a Jahvè il primogenito dell’uomo e quello del bestiame grosso e minuto (Es 22, 28 s). Il codice cultuale ne assegna la ragione: «Ogni essere uscito per primo dal seno materno spetta a me: ogni maschio, ogni primogenito del tuo bestiame minuto o grosso» (Es 34, 19). Ma, come per le primizie, un motivo storico si sovrappone al principio fondamentale della sovranità assoluta di Dio: il dono è diretto al Signore, liberatore del suo popolo, e perpetua il ricordo della notte in cui Jahvè «fece perire tutti i primogeniti nella terra d’Egitto: quelli degli uomini e quelli del bestiame» (Es 13, 15). Se la legge riguarda nello stesso tempo i primogeniti del gregge e quelli dell’uomo, tuttavia si attua diversamente nell’un caso e nell’altro. Si sacrificava (Es 13, 15; cfr. Deut 15, 20; Num 18, 17) o si sopprimeva (Es 13, 13; 34, 20; Lev 27, 27) ogni primogenito degli animali. Quanto al primo bambino, l’uomo lo «dona»; cioè, secondo l’esegesi di Es 13, 2, lo «consacra» al Signore. In che modo? Si è pensato alla circoncisione. L’usanza barbara della immolazione dei bambini, attestata dagli scavi di Gezer e di Taannak, ha indotto taluni autori ad ammettere anche in Israele l’esistenza di simili sacrifici, che primitivamente sarebbero stati considerati come legittimi. È certo che, sotto l’influsso fenicio, queste pratiche si introdussero nel popolo (1 Re 16, 34) in un’epoca di sincretismo religioso. Achaz «fece passare il suo figlio attraverso al fuoco» (2 Re 16, 3); Manasse lo imitò (2 Re 21, 6); Mi 6, 7 fa allusione a quest’uso crudele. Ma il rituale israelitico condanna espressamente questa aberrazione (Deut 12, 31; 18, 10 ss; Ger 7, 31; 19, 5; 32, 35; Lev 18, 21; 20, 2 ss). Indubbiamente il Signore ha diritto alle primizie della vita (Gen 22, 2), ma rifiuta il sacrificio dei figli d’uomo: i primogeniti non saranno immolati ma riscattati. Il racconto del sacrificio di Isacco illustra la legge del riscatto-sostituzione prescritta da Es 13, 13; 34, 20. Più tardi, questo riscatto sarà assicurato dai leviti che prenderanno il posto dei primogeniti (Num 3, 11 ss; 8, 16). Verrà il giorno in cui Gesù, primizia dell’umanità, si offrirà al Padre suo per le mani di Maria (Lc 2, 22 ss); allora darà il loro pieno valore alle prescrizioni della legge antica.
    C. HAURET
    → dono VT 2 - frutto II - nuovo I - pane II 2 - pasto II - Pentecoste I 1 - speranza NT III.

    PRIMO (inizio)

    → Adamo - cercare III - Dio VT I - nuovo il 2 - primizie - risurrezione NT I 4, II 0 - tempo VT III 1 - testa.

    PRIMOGENITO (inizio)

    → Gesù Cristo II 1 d - nascita (nuova) 1 - Pasqua I 2 - primizie II - risurrezione NT I.

    PRIVAZIONE (inizio)

    → digiuno - poveri NT III 1 - vino 1 2.

    PROCESSO (inizio)

    Se il processo occupa un grande posto nella Bibbia, e se Dio vi figura spesso nelle diverse parti dell’accusato, del giudice, del querelante o dell’avvocato, non è perché Israele sia stato notevolmente più portato di un altro popolo al cavillo ed alla procedura, ma perché il Dio della Bibbia vuole la *giustizia ed il diritto. Creando l’*uomo a sua *immagine, egli ne aspetta un riconoscimento nel *ringraziamento, un’adesione nella libertà, una *comunione nella verità. Anche dopo che essa ha peccato, Dio non dispera del cuore della sua creatura e della sua intelligenza; prima di essere costretto a rigettarla, egli si stancherà di correrle dietro; se la deve condannare, non lo farà con un atto di forza, ma dopo averla convinta che ha torto e che egli è nel suo *diritto; il suo trionfo sarà dovuto alla sola potenza della *verità. Il processo suppone un disaccordo, un litigio tra le parti, suppone anche un minimo di accordo, su taluni principi fondamentali; mentre si svolge e finché non è ancora emessa la sentenza, rimane la speranza di una *riconciliazione; anche dopo pronunciato il verdetto, la luce delle discussioni anteriori persiste e, riducendo «ogni bocca al silenzio» (Rom 3, 19), fa risplendere la *giustizia di Dio. Il VT, carta e relazione dell’*alleanza, è tutto occupato dalla disputa che continua tra Dio ed il suo popolo. La venuta di Gesù Cristo chiude la disputa con una iniziativa inaudita di Dio: egli, confondendo il peccato, offre ai peccatori di *giustificarsi aderendo semplicemente al Figlio suo mediante la *fede. Questa vicenda apre una nuova fase: ormai il processo dell’uomo dinanzi a Dio si svolge attorno al processo di Gesù e secondo la funzione che egli vi assume.
    I. DIO ED IL SUO POPOLO IN PROCESSO NEL VT
    1. Il peccatore in processo con Dio.
    - Entrare in processo con Dio, sospettarlo di *menzogna e di malvagità, costituisce la *tentazione fondamentale, quella che il serpente insinua nel cuore di Eva: «No! Voi non morrete!», Dio si prende gioco di voi (Gen 3, 3 ss); - è la prima reazione di Adamo peccatore: «La donna che mi hai messo accanto...», tutto il male viene da te (3, 12); - è il *peccato permanente di Israele nel deserto, quando dimentica che il suo Dio l’ha salvato dall’Egitto, e mette in dubbio la sua potenza e la sua fedeltà. L’episodio di Meriba, all’uscita dal Mar Rosso (Es 17, 7: il nome proprio evoca la radice rîb, quella del processo) annunzia tutte le defezioni della «generazione perversa» (Deut 32, 20) e tutti i processi intentati a Jahvè dal suo popolo (Ger 2, 29). Si tratta sempre della *fede: rifiutare di credere significa riconoscersi ragioni contro Dio, chiamarlo in causa, tentarlo.
    2. Dio in processo con il suo popolo.
    - Dio non può tollerare questa chiamata in causa, insulto al suo amore. A sua volta, egli «entra in processo» con Israele (Os 4, 1; 12, 3; Is 3, 13; Mi 6, 2; Ger 2, 9). Secondo la tradizione profetica il processo suppone l’*alleanza ed i segni che essa offre alla fede: Dio entra in processo con i suoi *eletti. Tuttavia, a mano a mano che l’alleanza si rivela come centro dell’universo, il processo si allarga per divenire «il processo delle *nazioni» (Ger 25, 31), poi quello di tutti i falsi dèi (Is 41, 21-24; 43, 8-13; 44, 6 ss). Il processo è una spiegazione pubblica, nella cornice più grandiosa e più vasta possibile, «i monti, i colli, le fondamenta della terra» (Mi 6, 1 s; cfr. Sal 50, 4); il mondo intero è chiamato a testimoniare, Qedar e le isole di Kittim (Ger 2, 10), come il primo passante venuto da Gerusalemme o da Giuda (Is 5, 3). Dio vi si presenta, accompagnato dai suoi *testimoni (Is 43, 10; 44, 8), come accusatore (Sal 50, 7. 21; Os 4, 1-5), ma anche come vittima all’estremo delle risorse, avendo esaurito tutti gli altri mezzi (Mi 6, 3 s; Ger 2 , 9 ...; Is 43, 22-25). Invita Israele a presentare i suoi argomenti (Is 1, 18; 43, 26; Mi 6, 3) e non ottiene che dinieghi menzogneri (Ger 2, 35). Nessuno gli può rispondere, «nessun vivente si può giustificare» dinanzi a lui (Sal 143, 2). Non gli rimane che pronunciare la sentenza, la quale non dovrebbe essere che una condanna (Os 2, 4; 4, 1 s; Ger 2, 9. 29), che faccia apparire come egli solo può parlare ed ha dalla sua tutto il diritto (Is 41, 24; 43, 12 s; 44, 7; Sal 50, 7. 21; 51, 6). Tuttavia, nel bel mezzo della stessa condanna, spunta ancora un ricorso, l’annunzio di un capovolgimento radicale: «Venite, e discutiamo: anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve» (Is 1, 18; cfr. Os 2, 16-25).
    3. Giobbe in processo con Dio.
    - Bisogna confessare che, se mettere Dio sotto accusa è il *peccato capitale, è nondimeno una tentazione frequente che può essere, se non giustificata, almeno fatale, di fronte alle vie sconcertanti di Dio. La *sofferenza, il male del mondo non chiamano in causa Dio? Giobbe è il caso tipico della *tentazione spinta al parossismo, e tutto il poema sembra non essere che un processo intentato a Dio. Poiché da Dio stesso viene tutto il male di cui soffre Giobbe (Giob 6, 4; 10, 2; 16, 12; 19, 21), non tocca a Dio giustificarsi? Giobbe non ignora che è una chimera immaginare di aver ragione contro Dio (9, 1-13), ma se potesse «patrocinare la propria causa» (9, 14), «giustificare la sua condotta dinanzi a lui» (13, 1 s), comparire soltanto dinanzi a lui, sa che la sua causa trionferebbe (23, 3-7) e che il suo «difensore... sarebbe per lui» (19, 25 ss). È tutto il linguaggio del processo, ma in realtà Giobbe si ferma nel momento preciso in cui la sua querela diventerebbe un processo, in cui la sua questione diventerebbe accusa. Egli non può comprendere Dio, non cede alla tentazione di accusarlo; continua a ritenere che Dio è dalla sua parte ed egli ne rimane il *servo. È normale che l’uomo ponga a Dio queste questioni terribili (cfr. Ger 12, 1), e Giobbe non ha peccato sollevandole; bisogna tuttavia che impari a lasciarle cadere. Dio stesso interviene, l’uomo comprende la sua cecità (38, 1 s) e ritira tutte le sue questioni (42, 6): senza bisogno di formulare sentenze, basta che Dio sia presente perché tutto si spieghi.
    II. IN GESÙ CRISTO, DIO CONCLUDE IL PROCESSO
    Il processo iniziato dal peccato dell’uomo e continuato dalla *giustizia di Dio trova in *Gesù Cristo il suo punto finale. La soluzione divina è una meraviglia di audacia, ma rispetta rigorosamente le esigenze della ragione e del diritto, senza le quali il processo non avrebbe avuto senso. I1 *peccato vi è condannato senza ricorso e senza compromesso; sotto tutte le sue forme e sotto tutti i regimi, quello del paganesimo e quello del giudaismo, esso appare, di fronte a Cristo, come il male supremo, il disconoscimento radicale di Dio e la corruzione irrimediabile dell’uomo (Rom 1, 18 - 3, 20). La *santità manifestata dal vangelo di Gesù Cristo mette a nudo la *menzogna nascosta in tutti i cuori (3, 4), riduce al *silenzio ogni bocca (3, 19) e fa rifulgere il trionfo del Dio veridico (3, 4). Ora questo trionfo è nello stesso tempo la *salvezza dell’uomo. Perdendo il suo processo, il peccatore che accetta la sconfitta e rinuncia a difendere la propria *giustizia (Fil 3, 9) per credere al perdono, alla *grazia e alla *giustizia di Dio in Gesù Cristo, ottiene con ciò stesso la sua *giustificazione (Rom 3, 21-26), il suo pregio ed il suo valore dinanzi a Dio. Di fatto, credere in Gesù Cristo e nella potenza redentrice della sua *morte è nello stesso tempo sconfessare il proprio peccato, responsabile di questa morte, e riconoscersi oggetto dell’incomprensibile *amore di un Dio capace di dare il suo Figlio unico per i nemici (Rom 5, 6-10; 8, 32); significa rinunziare alla propria difesa ed all’accusa di Dio per abbandonarsi all’amore ed al *ringraziamento. Il processo termina con una *riconciliazione integrale.
    III. IL PROCESSO DI GESÙ
    Questa riconciliazione non avviene che nella *fede e l’oggetto di questa fede è Cristo nella sua *morte e nella sua *risurrezione. Per vincere il movimento spontaneo che ci fa alzare come accusatori di Dio, bisogna riconoscere in Gesù il Figlio diletto sacrificato dal Padre suo. Ma la reazione del peccatore è di rifiutare la generosità di Dio, di rigettare colui che egli manda, di vedere *bestemmie nei segni che egli fornisce della sua missione. Il processo incominciato da Caifa e continuato dinanzi a tutti i tribunali di *Gerusalemme è il tipo perfetto del processo intentato dall’uomo a Dio fin dal primo peccato. Non potendo affidarsi a Dio, egli ritorce contro di lui tutte le testimonianze che riceve del suo amore.
    1. I racconti evangelici della passione.
     Essi mettono tutti al centro di questo processo la domanda decisiva: Gesù è il Cristo, l’inviato di Dio incaricato della salvezza del mondo (Mt 26, 63 par.; 27, 11 par.; Gv 19, 7)? Essi fanno tutti risaltare, in Gesù, la certezza di essere legato a Dio da un vincolo che nessuna forza, né quella degli uomini né quella della morte, è capace di rompere; - e negli avversari la presenza di un rifiuto cosciente della *verità, nelle false testimonianze del processo ebraico (Mt 26, 59), nella viltà di Pilato (27, 18. 24), nella vanità di Erode (Lc 23, 8- 11), nella preferenza accordata a Barabba (Lc 23, 25), ma anche la scusa (Lc 23, 34; Atti 3, 24) di una situazione in cui, deliberatamente, Dio dà il suo Figlio e lo abbandona (Atti 2, 23; Mt 27, 46) al potere del peccato (Lc 22, 53; Gv 14, 30 s; 2 Cor 5, 21).
    2. Il vangelo di Giovanni.
    - Esso nota ancor più nettamente íl carattere esemplare del processo di Gesù. Esso si svolge durante tutta la vita pubblica: fin dal primo miracolo a Gerusalemme, «i Giudei cercano di attaccar briga con Gesù» (Gv 5, 16) e già prevedono la sua morte (5, 18; cfr. Mc 3, 6); tutte le discussioni che seguono tra «i *Giudei» e lui sono come l’istruzione di un processo, in cui Gesù apporta le sue testimonianze, quella di Giovanni (5, 33), i suoi segni e le sue opere, che in definitiva costituiscono tutti l’umica *testimonianza di cui egli intenda avvalersi, quella di Dio (5, 31-37; 8, 13-18). La posta di questo processo è esattamente quella dei sinottici, la personalità messianica e divina di Gesù, la sua qualità di *Figlio di Dio (5, 18; 8, 25 ss; 10, 22- 38; 19, 7).
    3. La revisione del processo di Gesù.
    E' il primo atto pubblico della Chiesa, e rimane la sua missione permanente. Dio, risuscitando Gesù, ha solennemente dimostrato la giustizia della sua causa ed ha confuso i suoi avversari, ha fatto «Signore e Cristo» (Atti 2, 36) colui che essi avevano condannato a morte. Tuttavia, facendo di questa risurrezione, invece che una dimostrazione di forza, un appello alla *fede ed alla conversione, Dio fa vedere che la sua vittoria è quella del suo perdono. Questo duplice annunzio, del trionfo di Dio sui peccatori e della salvezza che questo trionfo apporta ai peccatori, è il tema essenziale della predicazione della Chiesa nascente (Atti 2, 36. 38; 3, 13. 19; 4, 10. 12; 5, 30 s; 10, 39 s. 43). Esso coincide esattamente con la teologia esplicita di Paolo ai Romani. Tale è la *testimonianza che il cristiano apporta al *mondo. Come gli apostoli a Gerusalemme, la sua missione è di dimostrare al mondo l’ingiustizia del processo che esso non cessa di intentare contro Dio e Cristo. È normale che il cristiano sia tradotto dinanzi ai tribunali, accusato e tradito dai suoi congiunti (Mc 13, 9-13 par.); è fatale che il mondo *odi e *perseguiti i discepoli di Cristo (Gv 15, 18 ss) e che tutta la loro esistenza si trovi esposta al suo sguardo spietato (1 Cor 4, 9); bisogna che essi siano «sempre pronti. dinanzi a chiunque a difendere la [loro] *speranza» (1 Piet 3, 15). Ma questo processo non è il loro, bensì quello di Cristo che continua e per il quale essi devono testimoniare. Anche la loro testimonianza non è loro, ma quella dello *Spirito Santo (Mc 13, 11); come un avvocato infallibile, il *Paraclito, per bocca loro e mediante la loro vita, «confonderà il mondo» facendo rifulgete l’ingiustizia della sua causa, e la giustizia di Gesù Cristo (Gv 16, 8-11).
    J. GUILLET
    → giudizio - giustificazione - ira B VT II 2 - menzogna I 1 - Paraclito 3 - persecuzione - testimonianza.
     

    PROCLAMARE (inizio)

    → disegno di Dio NT II - insegnare NT II - predicare I 2 - vangelo III 1.

    PRODIGIO (inizio)

    → magia - miracolo - opere VT I - segno.

    PROFANO (inizio)

    → santo 0.

    PROFESSIONE DI FEDE (inizio)

    → confessione 0; VT I; NT 1 - fede.

    PROFETA (inizio)

    VECCHIO TESTAMENTO
    I. VARIETÀ ED UNITÀ DEL PROFETISMO DI ISRAELE
    Dovunque, nell’antico Oriente, esistono uomini che esercitano la *magia o divinazione (cfr. Num 22, 5 s; Dan 2, 2; 4, 3 s), e sono giudicati atti a ricevere dalla divinità un messaggio. Vengono talvolta consultati prima di un’impresa. Ai profeti di Israele capiterà di svolgere funzioni analoghe (1 Re 22, 1-29); ma solo il considerare il profetismo nella sua durata può consentire di coglierne meglio il carattere unico.
    1. Origini.
    - Quando incomincia il profetismo biblico? Il titolo di profeta è dato ad Abramo, ma per attribuzione posteriore (Gen 20, 7). Quanto a Mosè, autentico inviato divino (Es 3 - 4), egli costituisce una sorgente in rapporto alla profezia (Es 7, 1; Num 11, 17-25), e quindi è più di un profeta (Num 12, 6-8). Il Deuteronomio è il solo libro della legge che gli dia questo nome (Deut 18, 15); ma non come a un profeta tra gli altri: nessuno dopo di lui lo ha uguagliato (Deut 34, 10). Alla fine dell’epoca dei giudici sorgono schiere di «figli di profeti» (1 Sam 10, 5 s), la cui agitazione esteriore (1 Sam 19, 20-24) risente dell’ambiente cananeo. Con essi il termine nabî(«chiamato»?) entra nell’uso. Ma accanto ad esso sussistono i titoli antichi: «veggente» (1 Sam 9, 9) o «visionario» (Am 7, 12), «uomo di Dio» (1 Sam 9, 7 s), titolo principale di Elia e soprattutto di Eliseo (2 Re 4, 9). Il titolo di nabî d’altronde non è riservato ai profeti autentici di Jahvè: accanto ad essi ci sono nabî di Baal (1 Re 18, 22); ci sono pure uomini che fanno del profetismo un mestiere, ma parlano senza che Dio li ispiri (1 Re 22, 5 s ...). Lo studio del vocabolario mostra quindi che il profetismo ha aspetti molto vari; ma manifesterà la sua unità sviluppandosi.
    2. Continuità.
    - È esistita una vera tradizione profetica che si perpetuò grazie ai *discepoli dei profeti. Lo spirito, come nel caso di Mosè (Num 11, 17) si comunica: così da Elia ad Eliseo (2 Re 2). Isaia menziona i suoi discepoli (Is 8, 16) e Geremia è accompagnato da Baruch. Il servo di Jahvè, la cui figura, ancor più di quella di Mosè, trascende il profetismo, assume i tratti di un profeta discepolo che insegna (Is 50, 4 s; 42, 2 ss). In questa cornice di una *tradizione vivente la *scrittura ha naturalmente una parte (Is 8, 16; Ger 36, 4), che cresce con il tempo: in bocca ad Ezechiele Jahvè non mette più soltanto le sue parole, ma un *libro. Soprattutto a partire dall’esilio la coscienza di una tradizione profetica s’impone retrospettivamente ad Israele (Ger 7, 25; cfr. 25, 4; 29, 19; 35, 15; 44, 4). Il Libro della Consolazione (di scuola isaiana) si fonda su questa tradizione quando ricorda le predizioni antiche di Jahvè (Is 45, 21; 48, 5). Ma la tradizione profetica ha una fonte di unità che è di ordine diverso da queste relazioni misurabili: i profeti, fin dall’origine, sono tutti animati dallo stesso *spirito di Dio (anche se alcuni non citano lo spirito come origine della profezia; cfr. tuttavia 1 Sam 10, 6; Mi 3, 8 Ebr.; Os 9, 7;Gioe 3, 1 s; Ez 11, 5). Quali che siano le loro mutue dipendenze, da Dio essi hanno la *parola. Il *carisma profetico è un carisma di *rivelazione (Am 3, 7; Ger 23, 18; 2 Re 6, 12), che fa conoscere all’uomo ciò che egli non potrebbe scoprire con le sole sue forze. Il suo oggetto è ad un tempo molteplice ed unico: è il *disegno di salvezza, che si compirà e si unificherà in Gesù Cristo (cfr. Ebr 1, 1 s).
    3. Il profeta nella comunità.
    - Costituendo una tradizione, il profetismo ha pure un posto preciso nella comunità di Israele: ne è una parte integrante, ma non l’assorbe; si vede il profeta aver parte, con il sacerdote, nella consacrazione del *re (1 Re 1). Re, sacerdote, profeta sono per lungo tempo come i tre capisaldi della società di Israele, abbastanza diversi per essere talvolta antagonisti, ma normalmente necessari gli uni agli altri. Finché esiste uno stato, vi si trovano profeti per illuminare i re: Natan, Gad, Eliseo, soprattutto Isaia, e a tratti Geremia. Spetta ad essi dire se l’azione intrapresa è quella voluta da Dio, se una determinata politica si inserisce esattamente nella storia della salvezza. Tuttavia il profetismo nel senso stretto della parola non è una istituzione come la regalità ed il *sacerdozio: Israele può darsi un re (Deut 17, 14 s) ma non un profeta; questo è un puro dono di Dio, oggetto di promessa (Deut 18, 14-9), ma accordato liberamente. Lo si sente bene nel periodo in cui si interrompe il profetismo (l Mac 9, 27; cfr. Sal 74, 9): Israele vive allora nell’attesa del profeta promesso (1 Mac 4, 46; 14, 41). Si comprende, in queste circostanze, l’accoglienza entusiastica fatta dai Giudei alla predicazione di *Giovanni Battista (Mt 3, 1-12).
    II. DESTINO PERSONALE DEL PROFETA
    1. Vocazione.
    - Al profeta spetta un posto nella comunità, ma a costituirlo è la *vocazione. Lo si vede chiarissimamente nella chiamata di *Mosè, Samuele, Amos, Isaia, Geremia, Ezechiele, senza dimenticare il *servo di Jahvè. Le confidenze liriche di Geremia sono imperniate su questo tema. Tutta l’iniziativa è di Dio che domina la persona del profeta: «Il Signore Jahvè parla, chi non profetizzerebbe?» (Am 3, 8; cfr. 7, 14 s). Geremia, consacrato fin dal seno della madre (1, 5; cfr. Is 49, 1), parla di seduzione (20, 7 ss). Ezechiele sente pesare con forza su di sé la mano di Dio (Ez 3, 14). La chiamata risveglia in Geremia la coscienza della debolezza (Ger 1, 6); in Isaia quella del peccato (Is 6, 5). Essa porta sempre ad una *missione, il cui strumento è la bocca del profeta che dirà la parola di Dio (Ger 1, 9; 15, 19; Is 6, 6 s; cfr. Ez 3, 1 ss).
    2. Il messaggio del profeta e la sua vita.
    - Annunzi mediante azioni (più di trenta) precedono od accompagnano le esposizioni orali (Ger 28, 10; 51, 63...; Ez 3, 24 - 5, 4; Zac 11, 15 ...). E questo perché la parola rivelata non si riduce a parole; ma è vita, è accompagnata da una partecipazione simbolica (non magica) all’atto di Jahvè che compie ciò che dice. Taluni di questi atti simbolici hanno effetti immediati: compera di un campo (Ger 32), malattie ed angosce (Ez 3, 25 s; 4, 4-8; 12, 18). Soprattutto è notevole il fatto che, per i più insigni, la vita coniugale e familiare faccia corpo con la rivelazione. È il caso del matrimonio di Osea (1 - 3). Isaia menziona soltanto la «profetessa» (Is 8, 3), ma egli ed i suoi figli sono *segni per il popolo (8, 18). Al momento dell’esilio i segni diventano negativi: celibato di Geremia (Ger 16, 1-9), vedovanza di Ezechiele (Ez 24, 15-27). Altrettanti simboli non a base di immagini ma vissuti, e con ciò collegati alla verità. Il messaggio non può essere esterno al suo latore: non è un concetto sul quale questi abbia potere; è la manifestazione in lui del Dio vivente (Elia), del Dio santo (Isaia).
    3. Prove.
    - Coloro che parlano in nome proprio (Ger 14, 14 s; 23, 16), senza essere stati inviati (Ger 27, 15), seguendo il loro spirito (Ez 13, 3), sono falsi profeti. I veri profeti hanno coscienza che un altro li fa parlare, cosicché capita loro di doversi correggere quando hanno parlato di loro iniziativa (2 Sam 7). La presenza di quest’altro (Ger 20, 7 ss), il peso della missione ricevuta (Ger 4, 19), causano sovente una lotta interiore. La serenità di Isaia non ne lascia trasparire molto: «Attendo Jahvè che nasconde la sua faccia» (Is 8, 17)... Ma Mosè (Num 11, 11-15) ed Elia (1 Re 19, 4) conoscono la crisi di depressione. Soprattutto Geremia si lamenta amaramente e sembra per un istante rinunziare alla sua vocazione (Ger 15, 18 s; 20, 14-18). Ezechiele è «ripieno di amarezza e di furore», «inebetito» (Ez 3, 14 s). Il servo di Jahvè attraversa una fase di apparente sterilità e di inquietudine (Is 49, 4). Infine Dio non permette punto che i profeti sperino il successo della loro missione (Is 6, 9 s; Ger 1, 19; 7, 27; Ez 3, 6 s). Quella di Isaia non farà che indurire il popolo (Is 6, 9 s = Mt 13, 14 s; cfr. Gv 15, 22). Ezechiele dovrà parlare «sia che lo si ascolti o no» (Ez 2, 5. 7; 3, 11. 27); così gli uomini «sapranno che io sono Jahvè» (Ez 36, 38 ecc.); ma questo riconoscimento del Signore non avverrà se non in seguito. La parola profetica trascende del tutto i suoi risultati immediati, perché la sua efficacia è di ordine escatologico: in definitiva essa concerne noi (1 Piet 1, 10 ss).
    4. Morte.
    - I profeti sono stati sterminati sotto Achab (1 Re 18, 4. 13; 19, 10. 14), probabilmente sotto Manasse (2 Re 21, 16), certamente sotto Joakim (Ger 26, 20-23). Geremia non vede nulla di eccezionale in questi massacri (Ger 2, 30); al tempo di Neemia la loro menzione è diventata un luogo comune (Neem 9, 26) e Gesù potrà dire: «Gerusalemme, che uccidi i profeti» (Mt 23, 37)... L’idea che la *morte dei profeti è il coronamento di tutte le loro profezie in atto si fa strada lentamente attraverso questa esperienza. La missione del servo di Jahvè, termine della loro linea, incomincia nella discrezione (Is 42, 2) e termina nel *silenzio dell’agnello che viene ucciso (Is 53, 7). Ora questa fine è un vertice intravisto: da Mosè, i profeti intercedevano per il popolo (Is 37, 4; Ger 7, 17; 10, 23 s; Ez 22, 30); il servo intercedendo per i peccatori, li salverà con la sua morte (Is 53, 5. 11 s).
    III. IL PROFETA DINANZI AI VALORI TRADIZIONALI
    L’incontro drammatico tra il profeta ed il popolo avviene anzitutto sul terreno delle condizioni dell’antica *alleanza; la legge, le istituzioni, il culto.
    1. La legge.
    - Profetismo e *legge non esprimono due opzioni, due correnti divergenti: si tratta di funzioni distinte, di settori che non sono affatto isolati entro una totalità. La legge dichiara ciò che dev’essere per ogni tempo e per ogni uomo. Il profeta incomincia col denunziare le mancanze che si compiono contro la legge. Ciò che qui lo distingue dai rappresentanti della legge è il fatto che egli non aspetta che si presenti un caso per pronunziarsi e che lo fa senza riferirsi ad un potere ricevuto dalla società né ad una scienza appresa da altri. In base a ciò che Dio gli rivela per il momento presente, egli collega la legge all’esistenza; fa nomi, dice al peccatore, come Natan a David: «Tu sei quell’uomo» (2 Sam 12, 7), coglie sul fatto (1 Re 21, 20), sovente all’improvviso (1 Re 20, 38-43). Osea (4, 2), Geremia (7, 9), fanno allusione al decalogo; Ezechiele (18, 5-18) alle leggi ed alle usanze. Il non pagare il salario (Ger 22, 13; cfr. Mal 3, 5), la frode (Am 8, 5; Os 12, 8; Mi 6, 10 s), la venalità dei giudici (Mi 3, 11; Is 1, 23; 5, 23), il rifiuto di liberare gli schiavi a tempo debito (Ger 34, 8-22), la crudeltà di coloro che danno a prestito (Am 2, 8) e di coloro che «stritolano la faccia dei poveri» (Is 3, 15; cfr. Am 2, 6-8; 4, 1; 8, 4 ss) sono altrettanti delitti contro la legge, contro l’alleanza! Ma l’essenza della legge che i profeti ricordano non si richiama al testo scritto; in ogni caso lo scritto non può operare ciò che opera il profeta nei suoi uditori. Con il suo *carisma egli raggiunge in ogni uomo quel punto segreto dov’è scelta o respinta la luce. Ora, nella situazione di fatto in cui sorge la parola profetica, il diritto non è soltanto rifiutato, ma pervertito (Mi 3, 9 s; Ger 8, 8; Ab 1, 4), cambiato in assenzio (Am 5, 7; 6, 12); il bene è chiamato male, e viceversa (Is 5, 20; 32, 5); tale è la *menzogna condannata instancabilmente da Geremia (Ger 6, 6 ...). I *pastori intorbidano l’acqua delle pecore (Ez 34, 18 s), i deboli sono fuorviati (Is 3, 12-15; 9, 15; Am 2, 7). Il popolo, anch’esso colpevole, non merita di essere risparmiato (Os 4, 9; Ger 6, 28; Is 9, 16); ma i profeti vituperano con più violenza i sacerdoti e tutti i *responsabili (Is 3, 2; Ger 5, 4 s) che detengono le norme (Os 5, 1; Is 10, 1) e le falsano. Contro una simile situazione la legge è senz’armi. Nel pervertimento dei *segni il solo ricorso è il discernimento tra due spiriti, quello del male e quello di Dio: è la situazione in cui si vedono posti di fronte profeta contro profeta (Ger 28).
    2. Le tradizioni.
    - Non è in causa soltanto il peccato; la società è mutata. I profeti hanno coscienza del nuovo stato dei costumi, sia negli abiti (Is 3, 16-23), sia nella musica (Am 6, 5), sia nei rapporti sociali. Essendo aumentati gli scambi di tutti gli ordini, Israele conosce la situazione che Samuele aveva fatto prevedere (1 Sam 8, 10-18): il rapporto da padrone a schiavo, dopo il soggiorno in Egitto, è stato trasferito all’interno del popolo. Nonostante talune posizioni antimonarchiche (Os 13, 11), i profeti non cercano il ritorno ad uno stato anteriore. Non è loro compito. Essi si oppongono pure al popolo, fissato, come a suo bene, ad una immagine felice del passato di cui ritiene assicurato il ritorno indefinito. È l’euforia di coloro che dicono: «Jahvè non è forse in mezzo a noi?» (Mi 3, 11), che chiamano Jahvè «l’amico della loro giovinezza» (Ger 3, 4; Os 8, 2), che pensano di ottenere con poca spesa che «Jahvè ricominci per essi tutti i suoi prodigi» (Ger 21, 2), di coloro per i quali nulla muta: «domani sarà come oggi» (Is 56, 12; cfr. 47, 7)... Costoro ritrovano se stessi nella predicazione tranquillizzante dei falsi profeti (Ger 23, 17) e rifiutano di lasciarsi aprire gli occhi sul presente reale. Ma i profeti di Dio sono all’opposto di un rinnegamento del passato: Elia ritorna all’Horeb; Osea (11, 1-5) e Geremia (2, 2 s) sono pervasi dai ricordi del *deserto, il Deutero-Isaia (Is 43, 16-21) da quelli dell’*esodo. Quel passato, essi non lo confondono con le sue sopravvivenze morte. Serve loro a rimettere nei suoi veri binari la religione del popolo.
    3. Il culto.
    - I profeti hanno parole radicali contro i *sacrifici (Ger 7, 21 s; Is 1, 11 ss; Am 5, 21- 25), contro l’*arca (Ger 3, 16) ed il *tempio (Ger 7, 4; 26, 1-15), quel tempio in cui Isaia ha ricevuto la sua vocazione (Is 6) ed in cui Geremia predica (Ger 7), come Amos predicava nel santuario di Bethel (Am 7, 13). Queste parole hanno di mira l’attualità: condannano quei sacrifici che di fatto sono sacrileghi; potrebbero applicarsi altrettanto bene, in condizioni analoghe, agli atti del culto cristiano. Ricordano pure il valore relativo di quei segni che non sono sempre stati e non saranno sempre quali sono (Am 5, 25; Ger 7, 22), che non sono capaci da soli né di purificare, né di salvare (cfr. Ebr 10, 1). Questi sacrifici non hanno senso se non in rapporto al sacrificio unico di Cristo; la critica dei profeti apre il passaggio alla rivelazione di questo senso ultimo. D’altronde, a partire dall’esilio, organizzazione del *culto e profetismo si incontrano in Ezechiele (Ez 40 - 48; cfr. Is 58, 13), Malachia, Aggeo. Il culto giudaico di epoca tarda è un culto purificato, e ciò è dovuto in gran parte all’azione dei profeti, che non hanno mai immaginato una religione senza culto, e neppure una società senza legge.
    IV. IL PROFETA E LA NUOVA ECONOMIA
    I profeti collegano il *Dio vivente alla sua creatura nella singolarità del momento presente. Ma, per questa stessa ragione, il loro messaggio è rivolto al futuro, che vedono avvicinarsi con il suo duplice aspetto di *giudizio e di *salvezza.
    1. Il castigo.
    - Isaia, Geremia, Ezechiele, al di là della molteplicità delle trasgressioni, vedono la continuità del *peccato nazionale (Mi 7, 2; Ger 5, 1), dato storico e radicale (Is 48, 8; Ez 20; Is 64, 5). Esso è impresso (Ger 17, 1), aderente come la ruggine od il colore della pelle (Ger 13, 23; Ez 24, 6). Come profeti essi esprimono questa situazione in termini di momenti storici. Dicono che il peccato oggi ha raggiunto il colmo; Dio lo ha fatto loro vedere, come lo fece vedere ad Abramo per Sodoma (cfr. Am 4, 11; Is 1, 10 ...). Quindi, accanto ad esortazioni, il loro messaggio contiene la enunciazione di una sentenza, con o senza data, ma mai indeterminata: Israele ha rotto l’alleanza (Is 24, 5; Ger 11, 10); compito dei profeti è di notificarglielo con le sue conseguenze. Il popolo aspetta il *giorno di Jahvè come un trionfo; essi annunciano che viene sotto la forma contraria (Am 5, 18 ss). La *vigna deludente sarà distrutta dal vignaiolo (Is 5, 1-7).
    2. La salvezza.
    - Tuttavia i profeti, fin dal tempo di Amos, sanno che Dio è innanzitutto salvatore. Geremia è costituito «per sradicare e demolire, per distruggere ed abbattere, per edificare e piantare» (Ger 1, 10). Israele ha rotto l’alleanza, ma con questo non è detto tutto: Dio è l’autore di questa *alleanza; ha forse l’intenzione di romperla? Nessun sapiente potrebbe rispondere a questa domanda, perché, nel passato, Israele ha speculato sulla *fedeltà di Dio per essergli infedele e si è così racchiuso nel peccato. Ma quando il sapiente tace (Am 5, 13), parla il profeta. Egli è solo a poter dire che dopo il *castigo Dio trionferà perdonando, senza esservi tenuto (Ez 16, 61), per la sua sola *gloria (Is 48, 11). Questa prospettiva si comprende meglio quando la dottrina dell’alleanza è sviluppata, a partire da Osea, sotto la figura del matrimonio, come la risposta profetica alle difficoltà dell’alleanza: il matrimonio rimane un contratto, ma non ha senso se non mediante l’*amore; ora l’amore rende impossibile il calcolo e concepibile il *perdono.
    3. Gli araldi della nuova alleanza.
    - L’*esilio e la conseguente * dispersione hanno mandato ad effetto la sentenza. Se la legge ha fatto fare ad Israele l’esperienza della sua impotenza (cfr. Rom 7), si è perché i profeti gli hanno aperto gli occhi. Viene allora il momento della *misericordia. Fin dal tempo dell’esilio i profeti lo dicono, quando fanno promesse per il futuro. Ciò che essi promettono, non è più la restaurazione (Ger 31, 32) di istituzioni ormai caduche; ci sarà una nuova alleanza. Lo annuncia Geremia (Ger 31, 31-34); è ripreso da Ezechiele (Ez 36, 16-38) e dal Deutero-Isaia (Is 55, 3; 54, 1-10). In questa nuova prospettiva la legge non è soppressa, ma cambia posto: da condizione della promessa diventa un oggetto della *promessa (Ger 31, 33; 32, 39 s; Ez 36, 27). Questa è una grande novità; ma i profeti ne apportano molte altre, su tutti i punti della rivelazione biblica: l’esperienza profetica li afferra tutti per rinnovarli tutti. Con il loro genere di vita e con la loro dottrina i profeti sono i capofila di coloro che Pascal ha chiamato i «cristiani della legge antica».
    4. L’oggi definitivo.
    - Questo rimaneggiamento delle concezioni della salvezza è inseparabile dalle circostanze dell’esilio e del ritorno, perché il profeta vede con un solo sguardo le verità eterne ed i fatti in cui esse si manifestano. Sia le une come gli altri gli sono rivelati dalla grazia del suo carisma, ma tra le conoscenze, che l’uomo non può raggiungere da solo, quella del futuro è un caso particolare e privilegiato. La sua predizione assume forme diverse. Essa concerne talvolta fatti vicini, la cui portata è minore, ma la realizzazione più sorprendente (Am 7, 17; Ger 28, 15 s; 44, 29 s; 1 Sam 10, 1 s; cfr. Lc 22, 10 ss). Simili predizioni, una volta realizzate, sono segni in vista del futuro lontano, che solo è decisivo. Quel futuro, quella fine della storia, è l’oggetto essenziale che la profezia ha di mira. Il modo in cui viene evocato in anticipo è radicato sempre nella storia dell’Israele carnale, ma ne fa risaltare la portata definitiva ed universale. Se i veggenti descrivono la salvezza sulla scala degli avvenimenti che vivono, ciò dipende dalla limitazione della loro esperienza, ma anche dal fatto che il futuro agisce già nel presente; i profeti collegano il presente al futuro perché questo è l’oggi per eccellenza; l’uso dell’iperbole mostra appunto che la realtà supererà tutti gli obiettivi storici intesi nel presente immediato. Più che farci ammirare una veste letteraria, questo linguaggio vuole mettersi all’altezza di un avvenimento assoluto. Proprio ad esso l’apocalittica, questa *rivelazione per eccellenza, più distaccata dalle opzioni politiche che non la profezia antica, mirerà direttamente nelle sue architetture cronologiche, nei suoi *numeri, nelle sue rappresentazioni figurate (cfr. Dan) Al di là della storia presente, essa lascerà presentire l’avvenimento assoluto, centro e fine della storia.
    NUOVO TESTAMENTO
    I. IL COMPIMENTO DELLE PROFEZIE
    Il Nuovo Testamento ha coscienza di realizzare (*compiere) le promesse del VT. Tra l’uno e l’altro, il libro di Isaia, che è già una somma della profezia, e soprattutto i canti del servo, sembrano costituire un anello privilegiato, che assieme alla realizzazione ne annunzia anche il modo. I vangeli quindi ne desumono i testi che descrivono la cattiva accoglienza riservata alla salvezza realizzata (Is 6, 9 è citato da Mt 13, 14 s; Gv 12, 39 s e Atti 28, 26 s; Is 53, 1 da Rom 10, 16 e Gv 12, 38; 1 s 65, 2 da Rom 10, 21). Di fatto, se il NT sottolinea volentieri i tratti particolari della vita di Gesù che realizzano le Scritture, ciò non deve far dimenticare la conformità globale di «tutti i profeti» (Atti 3, 18-24; Lc 24, 27) con il mistero essenziale: la passione e la risurrezione. La prima è ricordata da sola più volte come oggetto delle profezie (Mi 26, 54-56; Atti 3, 18; 13, 27); più spesso sono ricordate entrambe assieme. La lezione di esegesi di Emmaus, che fu applicata nella redazione dei vangeli, riunisce le espressioni il cui uso è disseminato negli altri libri quando si tratta di annunciare il mistero di Cristo: «i profeti», «Mosè e tutti i profeti», «tutte le Scritture», «la legge di Mosè, i profeti ed i Salmi» (Lc 24, 25. 27. 44; cfr. Atti 2, 30; 26, 22; 28, 23; Rom 1, 2; 1 Piet 1, 11; 2 Piet 3, 2...). Tutto il Vecchio Testamento diventa una profezia del Nuovo, una «scrittura profetica» (2 Piet 1, 19 s).
    II. LA PROFEZIA NELLA NUOVA ECONOMIA
    1. Attorno a Gesù.
    - Gesù appare, per così dire, al centro di una trama di profetismo, rappresentata da Zaccaria (Lc 1, 67), Simeone (Lc 2, 25 ss), dalla profetessa Anna (Lc 2, 36) e soprattutto da *Giovanni Battista. Era necessaria la presenza di Giovanni per far sentire la differenza tra il profetismo ed il suo oggetto, Cristo. Tutti considerano Giovanni come un profeta. Effettivamente, come i profeti antichi, egli traduce la legge in termini di esistenza vissuta (Mt 14, 4; Lc 3, 11-14). Annunzia l’imminenza dell’*ira e della salvezza (Mt 3, 2. 8). Soprattutto discerne profeticamente colui che è presente senza essere conosciuto, e lo indica (Gv 1, 26. 31). Per mezzo suo tutti i profeti rendono testimonianza a Gesù: «Fino a Giovanni han profetato tutti i profeti e la legge» (Mt 11, 13; Lc 16, 16).
    2. Gesù.
    - Quantunque il comportamento di *Gesù Cristo sia chiaramente distinto da quello del Battista (Mt 9, 14), si riconoscono in esso dei tratti profetici; egli rivela il contenuto dei «segni dei tempi» (Mt 16, 2 s) e annunzia la loro fine (Mt 24 - 25). Il suo atteggiamento di fronte ai valori tradizionali riprende la critica dei profeti: severità per coloro che hanno la chiave, ma non lasciano entrare (Lc 11, 52); *ira contro l’*ipocrisia religiosa (Mt 15, 7; cfr. Is 29, 13); discussione della qualità di figli di *Abramo, di cui i Giudei si fanno vanto (Gv 8, 39; cfr. 9, 28); chiarificazione di un’*eredità spirituale aggrovigliata, in cui le grandi linee sono diventate difficili da discernere; purificazione del tempio (Mc 11, 15 ss par.; cfr. Is 56, 7; Ger 7, 11) e annunzio di un *culto perfetto dopo la distruzione del santuario materiale (Gv 2, 16; cfr. Zac 14, 21). Infine, elemento che lo collega in modo particolare ai profeti antichi, egli vede il suo messaggio rifiutato (Mt 13, 13 ss par.), rigettato da quella Gerusalemme che ha ucciso i profeti (Mt 23, 27 s par.; cfr. 1 Tess 2, 15). A mano a mano che questo termine si avvicina, egli lo annunzia e ne spiega il senso, facendo da profeta a se stesso, mostrando con ciò che egli rimane il padrone del suo destino, che lo accetta per compiere il disegno del Padre, formulato nelle Scritture. In presenza di simili atteggiamenti, accompagnati da *segni miracolosi, si comprende come la folla dia spontaneamente a Gesù il titolo di profeta (Mt 16, 14; Lc 7, 16; Gv 4, 19; 9, 17), che in taluni casi designa il profeta per eccellenza annunziato nelle Scritture (Gv 1, 21; 6, 14; 7, 40). Gesù in persona non riprende questo titolo se non incidentalmente (Mt 13, 57 par.), ed esso occuperà poco posto nel pensiero della Chiesa nascente (Atti 3, 22 s; cfr. Lc 24, 19). E questo perché la personalità di Gesù trascende in tutti i modi la tradizione profetica: egli è il *messia, il *servo di Dio, il *figlio dell’uomo. L’autorità che egli ha dal Padre è anche tutta sua: è quella del *Figlio, il che lo pone al di sopra di tutta la linea dei profeti (Ebr 1, 1 ss). Egli riceve le sue parole ma, come dirà Giovanni, è la *parola di Dio fatta carne (Gv 1, 14). Di fatto, quale profeta avrebbe mai presentato se stesso come fonte di *verità e di *vita? I profeti dicevano: «Oracolo di Jahvè!». Gesù dice: «In verità, in verità, vi dico...». La sua missione e la sua persona non sono quindi più dello stesso ordine.
    3. La Chiesa.
    - «Le profezie un giorno spariranno», spiega Paolo (l Cor 13, 8). Ma allora sarà la fine dei *tempi. La venuta di Cristo in terra, lungi dall’eliminare il carisma della profezia, ne ha provocato, al contrario, l’estensione che era stata predetta. «Possa tutto il popolo essere profeta!», augurava Mosè (Num 11, 29). E Gioele vedeva realizzarsi questo augurio «negli ultimi tempi» (Gioe 3, l-4). Nel giorno della *Pentecoste, Pietro dichiara compiuta questa profezia: lo Spirito di Gesù si è effuso su ogni carne: visione e profezia sono cose comuni nel nuovo popolo di Dio. Il *carisma delle profezie è effettivamente frequente nella Chiesa apostolica (cfr. Atti 11, 27 s; 13, 1; 21, 10 s). Nelle Chiese da lui fondate, Paolo vuole che esso non sia deprezzato (1 Tess 5, 20). Lo colloca molto al di sopra del dono delle *lingue (1 Cor 14, 1-5); ma non di meno ci tiene a che sia esercitato nell’ordine e per il bene della comunità (14, 29-32). Il profeta del NT, non diversamente da quello del VT, non ha come sola funzione quella di predire il futuro: egli «edifica, esorta, consola» (14, 3), funzioni che riguardano da vicino la *predicazione. L’autore profetico dell’Apocalisse incomincia con lo svelare alle sette Chiese ciò che esse sono (Apoc 2 - 3), come facevano gli antichi profeti. Soggetto egli stesso al controllo degli altri profeti (1 Cor 14, 32) ed agli ordini dell’autorità (14, 37), il profeta non potrebbe pretendere di portare a sé la comunità (cfr. 12, 4-11), né di governare la Chiesa. Fino al termine, il profetismo autentico sarà riconoscibile grazie alle regole del discernimento degli spiriti. Già nel VT il Deuteronomio non vedeva forse nella dottrina dei profeti il segno autentico della loro missione divina (Deut 13, 2-6)? Così è ancora. Infatti il profetismo non si spegnerà con l’età apostolica. Sarebbe difficile comprendere la missione di molti santi della Chiesa senza riferimento al carisma profetico, il quale rimane soggetto alle regole enunciate da S. Paolo.
    P. BEAUCHAMP
    → amore I VT 2 - benedizione III 4 - carismi - compiere VT 2; NT 1 - correre - elezione VT I 3 c - Elia - esilio II 1 - esortare - fede VT II, III - Gesù Cristo II 1 c - Giovanni Battista - insegnare VT I 3 - libro II - magia 2 b - maledizione III 2 - mediatore I 1 - menzogna II 3 a - messia VT II 1; NT II 2 - miracolo I 2 a - missione VT I 1 - Mosè - parola di Dio - peccato III - penitenza-conversione VT II; NT 1 - persecuzione I 1-2 - preghiera I 2 - rivelazione VT I 2 - sacerdozio VT III 2 - scrittura II - segno VT II 3.4.5; NT II 3.4 - sogni VT - Spirito di Dio VT II, IV - testimonianza VT II 2, III - unzione III 4 - veste I 2.

    PROFUMO (inizio)

    Come tutti gli orientali, Israele faceva gran uso di profumi: la Bibbia ne nomina almeno una trentina. I patriarchi ne offrirono a Giuseppe (Gen 43, 11); Salomone (l Re 10, 2. 10; cfr. Gen 37, 25) ed Ezechia (2 Re 10, 13) ne monopolizzarono il mercato. Il profumo era necessario all’esistenza quanto il bere e il mangiare. Il suo significato è duplice: nella vita sociale manifesta la gioia o esprime l’intimità degli esseri; nella liturgia simboleggia l’offerta e la lode.
    1. Profumo e vita sociale.
    - Profumarsi significa estrinsecare la propria *gioia di vivere (Prov 27, 9). Significa inoltre agghindarsi di un ulteriore elemento di bellezza: lo fanno gli invitati al momento del banchetto (Am 6, 6) e gli amanti al momento dell’unione fisica (Prov 7, 17). Profumare la testa dell’ospite, significa esprimergli la gioia che si prova nel riceverlo (Mt 26, 7 par.) e trascurare questo gesto è una scorrettezza (Lc 7, 46). Nel lutto, invece, si sopprimono questi segni di gioia (2 Sam 12, 20; 14, 2). Tuttavia, i discepoli di Cristo, quando *digiunano, devono continuare a profumarsi, per non esibire la propria penitenza (Mt 6, 17) e non offuscare con la tristezza l’autentica gioia cristiana. Il profumo può avere a volte una funzione ancora più intima: quella di trasporre la presenza fisica di un essere in un modo più sottile e penetrante. È vibrazione silenziosa con la quale un essere esala la propria essenza e lascia percepire il mormorio della sua vita recondita. Perciò Ester (Est 2, 12-17) e Giuditta (Giudit 10, 3-4), per penetrare più facilmente fino al cuore di quelli che vogliono sedurre, si ungevano di olio e di mirra. L’odore di frumento che emanano gli abiti di Giacobbe (Gen 27, 27) rivela la benedizione di Dio effusa su di lui; la sposa del cantico assimila la presenza del diletto al «nardo», a un «sacchetto di mirra» (Cant 1, 12) o a degli «unguenti» (1, 3), mentre lo sposo la chiama «mia mirra, mio balsamo» (5, 1; cfr. 4, 10).
    2. Profumo e liturgia.
    - Il culto degli antichi faceva largo uso di profumi, come simbolo di offerta; Israele ha ripreso quest’usanza. La liturgia del tempio conosce un «altare dei profumi» (Es 30,1-10), degli incensieri (1 Re 7, 50), dei vasetti per incenso (Num 7, 86); un sacrificio di profumo viene compiuto ogni mattina e ogni sera in gioiosa adorazione (Es 30, 7 s; Lc 1, 9 ss). Il profumo dell’incenso che sale in volute di fumo sta ad indicare così la *lode rivolta alla divinità (Sap 18, 21; Sal 141, 2; Apoc 8, 2-5; 5, 8); far bruciare dell’incenso equivale ad adorare, placare Dio (1 Re 22, 44; 1 Mac l, 55). Ora, non vi può essere che un solo culto: quello del vero Dio. L’incenso e il suo profumo finiscono quindi per designare il culto perfetto, il sacrificio incruento, che tutte le nazioni renderanno a Dio nei tempi escatologici (Mal 1, 11; Is 60, 6; cfr. Mt 2, 11). Questo culto perfetto è stato realizzato da Cristo: egli si è offerto «a Dio in sacrificio di gradevole odore» (Ef 5, 2; cfr. Es 29, 18; Sal 40, 7), cioè la sua vita si è consumata in offerta d’amore gradita a Dio. Il cristiano, a sua volta, *unto di Cristo al battesimo mediante il segno del crisma, miscela di profumi pregiati (cfr. Es 30, 22-25), deve effondere «il buon odore di Cristo» (2 Cor 2, 14-17), impregnando anche la più piccola delle sue azioni (Fil 4, 18) di questo spirito di offerta.
    C. BECQUET
    → altare - culto VT I - digiuno 2 - gioia - lode III - olio - sacrificio VT II 1 - sepoltura 2 - unzione I.

    PROGRESSO (inizio)

    → correre 2 - crescita - edificare - educazione - perfezione NT 5 - tempo VT III 1 - via.

    PROMESSE (inizio)

    I. LE PROMESSE E LA FEDE
    Promettere è uno dei termini chiave del linguaggio dell’amore. Promettere significa impegnare ad un tempo la propria potenza e la propria fedeltà, proclamarsi sicuri del futuro e sicuri di sé, e significa nello stesso tempo suscitare nel partner l’adesione del cuore e la generosità della *fede. Dal suo modo di promettere, dalla certezza che possiede di non deludere mai, Dio rivela la sua grandezza unica: «Dio non è un uomo per mentire, né un figlio di Adamo per ritrattarsi» (Num 23, 19). Per lui, promettere è già donare, ma è anzitutto donare la fede capace di aspettare che venga il *dono; e, mediante questa *grazia, è rendere colui che riceve capace del *ringraziamento (cfr. Rom 4, 20) e di riconoscere nel dono il cuore del donatore. In Israele, le promesse sono le chiavi di una storia della salvezza, che rappresenta la realizzazione delle profezie e dei *giuramenti di Dio (Gen 22, 16-18; Sal 114, 4; Lc 1, 73). Questi giuramenti rendono irrevocabili i doni di Dio (Rom 11, 29; Ebr 6, 13 ss). Le infedeltà di Israele determineranno a volte delle restrizioni a tali promesse, che comunque verranno mantenute grazie ad un *resto, a un «*figlio dell’uomo» (Dan 7, 13 ss). Il giudaismo sottolineerà da una parte la fiducia nelle promesse e dall’altra, il loro carattere di ricompensa: bisogna meritare l’eredità promessa con l’obbedienza ai comandamenti (4 Esd 7, 1. 19 ss). Il cristianesimo, invece, vedrà in esse la pura iniziativa di Dio, il dono promesso a tutti coloro che credono. Ma, nello stesso periodo, la comunità di Qumrân vuole limitare ai propri membri osservanti il privilegio delle promesse. Per questo S. Paolo, preoccupato di dimostrare che la vita cristiana si fonda sulla fede, riconosce nella promessa fatta ad Abramo e realizzata in Gesù Cristo (Gal 3, 16-29) la sostanza delle Scritture e del *disegno di Dio. Perciò la lettera agli Ebrei, volendo far apparire nel VT una storia della fede, vi fa apparire nello stesso tempo una storia delle promesse (Ebr 11, 9. 13. 17. 33. 39). Perciò, ancor prima delle riflessioni di Paolo, il discorso di S. Pietro nella Pentecoste, di tono ancora molto arcaico, caratterizza con una perspicacia infallibile il dono dello Spirito e l’apparizione della Chiesa come «la promessa» (Atti 2, 39) ed il compimento delle profezie (2, 16). Per un Giudeo le *Scritture sono anzitutto la *legge, la *volontà di Dio da osservarsi a qualunque costo; per i cristiani esse diventano anzitutto il libro delle promesse; gli Israeliti furono i depositari delle promesse (cfr. Rom 9, 4), i cristiani ne sono gli eredi (Gal 3, 29). Il linguaggio del NT traduce questa scoperta: mentre l’ebraico non ha termini particolari per designare la nozione di promessa, e l’esprime mediante una quantità di termini: *parola,*giuramento, *benedizione, *eredità, *terra promessa, o con formule, «il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe», «la stirpe di Abramo», il NT invece conosce un termine proprio per la promessa, gr. epanghelìa, che sottolinea il valore di questa «parola data»: è una «dichiarazione». D’altronde il termine è affine a quello di *vangelo, euanghèlion, la «buona novella».
    II. ISRAELE, POPOLO DELLE PROMESSE
    L’intuizione cristiana, messa in così forte luce dalla lettera ai Galati, scopre una struttura essenziale del VT: l’esistenza di Israele ha come fondamento unico e indistruttibile la promessa di Dio.
    1. Le promesse ai patriarchi.
    - Le diverse tradizioni combinate nella Genesi coincidono per farne il libro delle promesse. *Abramo è colui che riceve le promesse (Gen 12, 1. 7; 13, 15 ss; 15; 17; Sal 105, 8 s). Esse comportano sempre un erede ed una eredità, una discendenza gloriosa e numerosa, una *terra fertile. Si collegano pure sempre al destino di tutta l’umanità. La tradizione jahvista fa della benedizione, promessa ad Abramo (Gen 12, 2), la replica divina alla empia impresa di Babele, che sognava di innalzare fino ai cieli il nome dell’umanità (11, 4); ma anche una riparazione della *maledizione apportata alla terra dal *peccato dell’uomo (3, 17; 4, 11) e la prima *figura concreta della speranza vittoriosa che Dio ha fatto intravedere dopo il primo peccato (3, 15). Più ancora, questa promessa ha di mira «tutte le famiglie della terra» (12, 3). La tradizione «sacerdotale» collega esplicitamente la *benedizione di Abramo alla benedizione primitiva sulla *creazione (1, 22. 28; 17, 6. 20). Indubbiamente la *circoncisione sembra limitare la portata delle promesse; ma in realtà Israele, mediante questo rito, può aggregarsi qualsiasi razza (34), e vede compiersi la promessa ricevuta da Abramo di essere «il *padre di una moltitudine di popoli» (Gen 17, 5; Eccli 44, 19-22). La benedizione delle famiglie di Sem di Abramo, preparando «un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19, 6) concretizzerà il privilegio della promessa, quello di essere «un popolo di Dio».
    2. Le promesse e la legge.
    - Le promesse rivolte ai patriarchi, manifestazioni della iniziativa e della *grazia di Dio, comportano già delle esigenze; esse si rivolgono alla *fede, suscitano cioè un’esistenza nuova, fondata sulla *parola di Dio: la partenza di Abramo (Gen 12, 1), il suo camminare alla presenza di Dio (17, 1), la sua *obbedienza (22, 1 s). La *legge estende questa esigenza a tutta l’esigenza del popolo. La legge è la carta dell’*alleanza (Es 19, 5; 24, 8; Gios 24, 25 s), cioè il mezzo per Israele di entrare in un’esistenza *nuova e *santa, di vivere come *popolo di Dio, di abbandonarsi alla sua guida. La legge suppone una promessa anteriore e ne precisa le condizioni. Le promesse offerte all’obbedienza non sono la sanzione della *giustizia di Israele; esprimono la generosità di un Dio sempre disposto a colmare di favori i suoi, ma spietato nei confronti del peccato ed incapace di donarsi a chi non gli offre la sua fede.
    3. Le promesse a David.
    - Affinché tutta la esistenza di Israele riposi sulla fede, bisogna che tutte le sue istituzioni abbiano saldezza soltanto nella *parola di Dio. L’istituzione monarchica, fondamento normale della comunità nazionale ed espressione della sua volontà di vita, ha in Israele un aspetto paradossale. È nello stesso tempo semplicemente tollerata da Dio, quasi a malincuore, perché corre il grave rischio di menomare la fiducia esclusiva che Jahvè rivendica dal suo popolo (1 Sam 8, 7 ss), - ed è portata ad una grandezza e ad un futuro ultraterreni (2 Sam 7). Un ragazzo «tratto dal pascolo» conoscerà «un nome uguale ai più grandi» (2 Sam 7, 9); sarà il fondatore di una dinastia reale (7, 11 s), il privilegiato di Jahvè che lo colmerà di beni (Sal 89, 21-30); la sua discendenza, assisa «alla destra di Dio» (Sal 110, 1), erediterà nazioni (Sal 2, 8). Nei momenti del più profondo avvilimento e fino ai tempi di Cristo, queste promesse nutriranno ancora la fede di Israele (Is 11, 1; Ger 23, 5; Zac 6, 12; Lc 1, 32. 69). Le promesse si mantennero a lungo terrene: un figlio, una terra, un re, un’abbondante prosperità. Tuttavia, già il Deuteronomio attribuisce ad esse un carattere di appagante felicità. Con i profeti, esse si spiritualizzano e si interiorizzano: l’essenziale diventa una nuova *alleanza: «Porrò la mia legge in fondo al loro essere e la inscriverò nel loro cuore» (Gen 31, 33). Quest’alleanza comporta, oltre alla conoscenza interiore, il *perdono di Dio e un *cuore nuovo (Ez 36, 26; Sal51, 12). Proprio quando Gerusalemme ha perduto ogni funzione politica, i profeti le indirizzano promesse meravigliose, i salmisti cantano «Jahvè è la mia parte» (Sal 16, 5; 73, 26) e promettono l’*eredità di Dio e le beatitudini ai *poveri, i sapienti annunciano ai giusti «una speranza piena di immortalità» (Sap 3, 1-5), mentre i martiri attendono la *risurrezione (Dan 12, 2 s; 2 Mac 7).
    4. Le promesse messianiche.
    - Le promesse fatte ai patriarchi e a David, che assicurano la gloriosa perpetuità della loro stirpe, culminano nell’attesa di «Colui che deve venire» (Is 26, 20; Ab 2, 3 s LXX). I profeti, accanto alle minacce di castighi, hanno formulato le promesse della speranza messianica. Isaia vede nell’Emmanuel, nato da una vergine, un segno di benedizione per il popolo (Is 7, 14); canta le prerogative future di questo bambino della stirpe di David, «principe della pace» (9, 5 s), «re giusto» (11, 11); secondo Mt 2, 6, Michea nomina il luogo dove nascerà «colui che deve regnare su Israele» e le cui «origini risalgono... ai giorni antichi» (Mi 5, 1-5); Geremia promette un «germe giusto» (Ger 23, 5 s; 33, 15 s; cfr. Is 4, 2; Zac 3, 8 s; 6, 12) che sarà la gloria di Israele e il restauratore del popolo; Ezechiele annuncia il Pastore che verrà a pascere le sue pecore, come un nuovo David (Ez 34, 23 s; cfr. 37, 24 s); Zaccaria vede il gioioso corteo del re messia che entra a Gerusalemme in umili sembianze, portatore di pace (Zac 9, 9 s).
    5. Le nuove promesse.
    - Nel momento in cui Israele non esiste più, avendo perduto il suo *re, la sua capitale, il suo *tempio, il suo onore, Dio ne risveglia la fede mediante *nuove promesse. Egli ha l’ardire di fondarsi sulle «cose antiche» che aveva predetto ad Israele, le minacce di distruzione che si sono verificate con una esattezza spaventosa (Is 48, 3 ss; 43, 18), per promettergli «cose nuove, segrete e sconosciute» (48, 6; 42, 9; 43, 19), delle meraviglie inimmaginabili. La sintesi più espressiva di queste meraviglie è la nuova *Gerusalemme, «casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56, 7), *madre di una discendenza innumerevole (54, 3; 60, 4), gioia e orgoglio di Dio (60, 15).
    6. Le promesse della sapienza.
    - Il posto che le promesse di Dio occupano negli scritti *sapienziali provano a qual punto esse costituiscano il fondamento di tutta l’esistenza di Israele. È vero che ogni sapienza contiene una promessa, perché incomincia col raccogliere e classificare le esperienze, per discernere i frutti che è possibile attenderne. L’originalità della sapienza di Israele consiste nel sostituire a questa attesa, fondata sui calcoli dell’esperienza, una *speranza di provenienza diversa, venuta dalla fedeltà allo spirito autentico del Jahvismo, «all’alleanza del Dio altissimo ed alla legge di Mosè» (Eccli 24, 23). La sapienza di Israele gli viene dall’alto (Prov 8, 22-31; Eccli 24, 2 ss; Sap 9, 4. 10), e perciò la *beatitudine che essa promette (Prov 8, 32-36) supera le speranze umane (Sap 7, 8-11) per mirare al «favore di Jahvè» (Prov 8, 35), «all’amicizia di Dio» (Sap 7, 14). Il Sal 119, eco di queste promesse in un cuore retto, attesta che esse hanno alimentato la fede in Israele, la certezza che Dio basta.
    III. LE PROMESSE DI GESÙ CRISTO
    1. I sinottici.
    - Gesù, il messia promesso e nel quale «tutte le promesse di Dio hanno il loro sì» (2 Cor 1, 20), si presenta anzitutto come latore di nuove promesse. Inizia la sua predicazione con la promessa della venuta del *regno (Mt 4, 23) e della *beatitudine imminente (Mt 5, 3-10; Lc 6, 20. 23); si aggrega dei discepoli promettendo loro una pesca miracolosa di uomini (4, 19), il potere sulle dodici tribù di Israele (19, 28). A *Pietro promette di fondare su di lui la sua *Chiesa e gli garantisce la vittoria sull’inferno (16, 16 ss). A chiunque lo segue, promette il centuplo e la vita eterna (19, 29); a chi si dichiara per lui, promette il suo appoggio dinanzi a Dio (10, 32). Egli riprende in proprio tutte le promesse del VT, promesse di un *popolo e di una *terra, di un regno, della beatitudine: esse dipendono dalla sua missione e dalla sua persona. Non sono ancora *compiute, finché non è giunta la sua *ora, e non si può seguire Gesù se non nelle fede, ma credere in lui significa pervenire al loro compimento, significa già aver trovato (Gv 1, 41. 45).
    2. Il vangelo di Giovanni.
    - mette per l’appunto in luce a qual punto Gesù, per mezzo della sua persona e di tutti i suoi atti, è già nel mondo la presenza viva delle promesse. Egli è tutto ciò che l’uomo attende, tutto ciò che Dio ha promesso al suo popolo, la *verità, la *vita, il *pane, 1’*acqua viva, la *luce, la *risurrezione, la *gloria di Dio; ma è tutto questo nella *carne e non può donarsi se non nella *fede. Egli è più di una promessa, è già un dono, ma «donato» alla fede, «affinché chiunque crede in lui... abbia la vita eterna» (Gv 3, 16).
    3. La promessa dello Spirito.
    - «La promessa del Padre» (Lc 24, 49; Atti 1, 4) è lo Spirito; «riempiendo l’universo e tenendo unite tutte le cose» (Sap 1, 7), esso contiene pure tutte le promesse (Gal 3, 14). Affinché quindi esso sia donato, Gesù deve terminare la sua opera sulla terra (Gv 17, 4), deve amare i suoi fino alla fine (13, 1), dare il suo corpo ed il suo sangue (Lc 22, 19 s). Allora gli sono aperti tutti i tesori di Dio ed egli può promettere tutto: «nel suo nome si può domandare tutto a Dio», si è sicuri di riceverlo (14, 13 s). Questo «tutto», è «lo Spirito di verità, che il mondo non può ricevere» (14, 17) perché non può credere, e che è la ricchezza vivente del Padre e del Figlio (16, 15). Quando «tutto è compiuto», Gesù spira e «rende lo *spirito» (19, 30), ha mantenuto tutte le sue promesse. Egli può promettere ai suoi di essere con essi «fino alla fine del mondo», dal momento che dà loro «il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo» (Mt 28, 19 s).
    IV. I CRISTIANI, EREDI DELLE PROMESSE
    Possedendo lo Spirito, i cristiani sono in possesso di tutte le promesse (Atti 2, 38 s) e, poiché «anche i pagani hanno ricevuto il dono dello Spirito Santo» (10, 45), ciò significa che anch’essi, un tempo «estranei all’alleanza della promessa» (Ef 2, 12), sono divenuti in Cristo «partecipi della promessa» (Ef 3, 6). La promessa, dal momento che è sempre stata indirizzata alla fede (Rom 4, 13), è «assicurata a tutta la discendenza che si appoggia... sulla fede di Abramo, padre di noi tutti» (4, 16), circoncisi ed incirconcisi (4, 9). «Ricolmi di tutte le *ricchezze», «non mancando di alcun dono della grazia» (1 Cor 1, 5. 7), i cristiani non hanno più nulla da desiderare, poiché lo Spirito è in essi un possesso permanente e vivente, un’*unzione ed un *sigillo. Tuttavia esso non è ancora che «il pegno della nostra eredità» (Ef 1, 14; cfr. 2 Cor 1, 22; 5, 5), «le *primizie... della nostra redenzione» (Rom 8, 23), e la sua preghiera in noi rimane «un gemito» e «una speranza» (8, 23 s). I cristiani sono ancora i pellegrini di una «*patria migliore» (Ebr 11, 16) e vi tendono, sull’esempio di Abramo, «mediante la fede e la perseveranza» (6, 12. 15). Fino all’ultimo giorno la promessa è, per l’amore di Dio, il mezzo di offrirsi alla fede.
    M. L. RAMLOT e J. GUILLET
    → Abramo - alleanza VT I 1; NT II 1 - amen - benedizione III - compiere - disegno di Dio VT I - dono VT 1 - eredità - fede NT III 1 - fedeltà - giuramento - giustificazione II 1 - latte 2 - parola di Dio VT II 1 c - re VT II - resto - rivelazione VT II 1 c - speranza - terra VT II - verità VT 1.

    PRONTO (inizio)

    → vegliare.

    PROPIZIATORIO (inizio)

    → arca d’alleanza – espansione 2 - sangue NT 2 - tempio VT I 1.

    PROPRIETÀ (inizio)

    → eredità VT I 1.3 - ricchezza - terra VT I 1, II 2; NT II 3.

    PROSELITISMO (inizio)

    → battesimo I 2 - dispersione 1 - fecondità II 3 - missione VT II 2 - nazioni VT IV 2; NT - straniero.

    PROSSIMO (inizio)

    VECCHIO TESTAMENTO 
    Il termine «prossimo», che rende con molta esattezza il termine greco plesìon, corrisponde imperfettamente al termine ebraico rea’ che gli è soggiaceste. Non dev’essere confuso con il termine «fratello», quantunque sovente vi corrisponda. Etimologicamente esprime l’idea di associarsi con uno, di entrare nella sua compagnia. Al contrario del *fratello, al quale si è legati per relazione naturale, il prossimo non appartiene alla casa paterna; se il mio fratello è un altro me stesso, il mio prossimo è diverso da me, un estraneo che per me può rimanere «un altro», ma che può anche diventare un fratello. Un legame può crearsi in tal modo fra due esseri, sia in modo passeggero (Lev 19, 13. 16. 18), sia in modo duraturo e personale, in virtù dell’amicizia (Deut 13, 7) o dell’amore (Ger 3, 1. 20; Cant 1, 9. 15) o della dimestichezza (Giob 30, 29). Nei codici antichi non si faceva questione di «fratelli» ma di «altri» (ad es. Es 20, 16 s): nonostante questa apertura virtuale sull’universalismo, l’orizzonte della legge non andò oltre il popolo di Israele. In seguito, con la loro coscienza più viva della *elezione, il Deuteronomio e la legge di santità confondono «gli altri» e «fratello» (Lev 19, 16 s), intendono con ciò i soli Israeliti (17, 3). Non è un restringimento dell’amore del «prossimo» all’amore dei soli «fratelli»; al contrario, questi testi si sforzano di estendere il comandamento dell’*amore assimilando all’Israelita lo *straniero residente» (17, 8. 10. 13; 19, 34). Dopo l’esilio si fa luce una duplice tendenza. Da una parte, il dovere di amare non concerne più che l’Israelita od il proselito circonciso: la cerchia dei «prossimi» si restringe. Ma dall’altra parte, quando i Settanta rendono l’ebraico rea’ con il greco plesìon, separano «gli altri» da «fratello». Il prossimo che bisogna amare sono gli altri, siano o no un fratello. Non appena due uomini si incontrano, sono l’uno per l’altro il «prossimo», indipendentemente dalle loro relazioni di parentela o da quel che pensano l’uno dell’altro. 
    NUOVO TESTAMENTO 
    Quando lo scriba domandava a Gesù: «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10, 29), è probabile che assimilasse ancora questo prossimo al suo «fratello», membro del popolo di Israele. Gesù trasformerà definitivamente la nozione di prossimo. Innanzitutto consacra il comandamento dell’amore: «Amerai il prossimo come te stesso». Non soltanto concentra in esso gli altri comandamenti, ma lo collega indissolubilmente al comandamento dell’amore di Dio (Mt 22, 34-40 par.). Sull’esempio di Gesù, Paolo dichiara solennemente che questo comandamento «racchiude tutta la legge» (Gal 5, 14), è la «somma» degli altri (Rom 13, 8 ss), e Giacomo lo qualifica come «legge regale» (Giac 2, 8). In seguito, Gesù universalizza questo comandamento: si devono amare i propri avversari, non soltanto i propri amici (Mt 5, 43-48); ciò suppone che sia stata abbattuta nel proprio cuore ogni barriera, cosicché l’amore può estendersi allo stesso *nemico. Infine, nella parabola del buon Samaritano, Gesù scende alle applicazioni pratiche (Lc 10, 29-37). Non spetta a me decidere chi è il mio prossimo. L’uomo in difficoltà, quand’anche mio nemico, mi invita a diventare suo prossimo. L’amore universale conserva così un carattere concreto: si manifesterà nei confronti di ogni uomo che Dio pone sulla mia strada.
    X. LÉON-DUFOUR
    → amico - amore II - elemosina NT 3 a - fratello - misericordia - ospitalità - vendetta 2 a.

    PROSTITUZIONE (inizio)

    → adulterio I - Babele-Babilonia 6 - matrimonio VT II 3 - sessualità II, III - Sposo-sposa.

    PROTEGGERE (inizio)

    → braccio e mano - monte - ombra II - Provvidenza - salvezza.

    PROVA - TENTAZIONE (inizio)

    Il termine prova evoca due serie di realtà. L’una, rivolta verso l’azione: un esame, un concorso; l’altra, ripiegata nella afflizione: una malattia, un lutto, una sconfitta. E se la parola è passata dal primo senso al secondo, ciò è avvenuto senza dubbio perché, secondo una sapienza già religiosa, la sofferenza è sentita come un test rivelatore dell’uomo. Il senso attivo è primario nella Bibbia; nsh, bhn, hqr, peiràzein, diakrìnein, per limitarci alle radici principali, significano «mettere alla prova», cercare di conoscere la realtà profonda al di là delle apparenze incerte. Come una lega, come un adolescente, l’uomo deve «far le sue prove». Per sé, in questo non c’è nulla di afflittivo. Tre agenti possono prendere l’iniziativa della prova. Dio prova l’uomo per conoscere le profondità del suo cuore (Deut 8, 2), e per donare la vita (Giac 1, 12). L’uomo dal canto suo cerca di provare a se stesso che è «come Dio», ma il suo tentativo è mosso da una seduzione e termina con la morte (Gen 3; Rom 7, 11). Qui la prova diventa tentazione, e interviene un terzo personaggio: il tentatore. La prova quindi è ordinata alla vita (Gen 2, 17; Giac 1, 1-12), mentre la tentazione «genera la morte» (Gen 3; Giac 1, 13 s); la prova è un dono della grazia, la tentazione è un invito al peccato. L’esperienza della prova-tentazione non è semplicemente di ordine morale; si inserisce in un dramma religioso e storico; fa giocare la nostra *libertà nel tempo, di fronte a Dio e a *Satana. Nelle diverse tappe del *disegno di Dio l’uomo è interrogato. Questa esperienza inizialmente viene vissuta dal popolo di Dio; poi la riflessione dei sapienti ne scoprirà il significato per tutta la condizione umana e, infine, Cristo risolverà il dramma. Analogamente, la prova-tentazione appare inizialmente opera di Dio; poi, verso la fine del VT, Satana è considerato l’autore personale della tentazione primordiale, ma il significato di questo dramma diventa palese solo nel duello singolare tra Cristo e il tentatore.
    VECCHIO TESTAMENTO
    I. LA PROVA DEL POPOLO DI DIO
    Nella coscienza di Israele il dramma ha avuto inizio con la sua elezione, nella promessa di diventare, per mezzo della alleanza, il popolo di Dio. Ma la speranza così suscitata dovrà essere purificata.
    1. In un primo stadio l’uomo è chiamato ad impegnarsi nei confronti della *promessa. È la prova della sua *fede: quella di Abramo, di Giuseppe, di Mosè, di Giosuè (Ebr 11, 1-40; Eccli 44, 20; 1 Mac 2, 52). Il fatto tipico è senza dubbio il sacrificio di Isacco (Gen 22): affinché Dio porti a termine la promessa, la fede dell’uomo deve accettare liberamente di tradursi nell’obbedienza che accorda due volontà. Dopo l’uscita dall’Egitto, Israele sperimenta la tentazione dell’*incredulità. Contesta (Meriba) la presenza del Dio salvatore nel vivo della prova (Massa) del *deserto (Es 17, 7). Questo rifiuto di credere comporta un *giudizio; e la Pasqua si realizza quindi solo per la *generazione fedele: essa soltanto eredita la terra promessa. L’esperienza del deserto permette di dare il suo valore teologico all’espressione «tentare Dio». L’uomo, o intende uscire dalla prova intimando a Dio di porvi fine (cfr. l’antitesi Es 15, 25 e 17, 1-7); o si pone in una situazione senza uscita «per vedere se» Dio è capace di trarnelo fuori; oppure ancora si ostina, nonostante segni evidenti, a domandare altre «prove della volontà divina» (Sal 95, 9; Mc 8, 11 ss).
    2. Con l’accozzaglia, da cui ha tratto un popolo, Dio conclude un’*alleanza. In questa seconda tappa la prova verte sulla *fedeltà all’alleanza. La si può chiamare la prova dell’*amore. Il popolo ha bensì scelto di servire il suo Dio (Gios 24, 18), ma il suo cuore è infido; la prova obbliga l’amore a dichiararsi ed a provarsi: purifica il *cuore. È un’opera di lungo respiro cui Dio pone mano (immagine del *fuoco e del fonditore: Is 1, 25 s). Lentamente si elaborano i codici (alleanza, santità, sacerdotale) in cui si sente l’appello alla *santità che Dio rivolge al suo popolo (Lev passim). Un nuovo giudizio corrisponde a questa nuova prova; 1’*esilio, il ritorno al deserto sanziona l’*idolatria che è un *adulterio (Os 2).
    3. Soltanto un piccolo *resto uscirà provato dalla cattività (cfr. *prigionia); il comportamento divino è identico nella prova di Israele di fronte a Jahvè (1 Re 19, 18) e di fronte a Gesù (Rom 11, 1-5); in tutti questi casi, se la prova termina con un resto, si è per pura *grazia. La cattività ed il lungo periodo che la segue mostrano di fatto quanto la promessa è umanamente irrealizzabile. Dilazioni interminabili, contraddizioni, persecuzioni, le stesse debolezze del popolo non ripropongono tanto la questione della fede nella parola di Jahvè o della fedeltà alla sua alleanza, quanto quella del compimento stesso della sua promessa. Così, dall’esilio fino al Messia, la prova del piccolo resto è principalmente una prova di *speranza. Il regno sembra indietreggiare indefinitamente nel tempo. La tentazione è quella del momento presente, di «questo secolo», la tentazione del *mondo. Il popolo di Dio, in pericolo di secolarizzarsi, prende maggiormente coscienza dell’azione di *Satana, «principe di questo mondo» (Giob 1 - 2). Questa prova della speranza è la più intima, la più purificatrice. Dio, quanto più è vicino, tanto più prova (Giudit 8, 25 ss). La prova terminerà in un ultimo giudizio: l’avvento del *regno, l’ingresso del secolo futuro in questo mondo.
    II. LA PROVA DELLA CONDIZIONE UMANA
    1. La prova personale.
    - La riflessione dei sapienti, trasponendo sul piano personale le prove del popolo, insiste su un altro aspetto della prova: la *sofferenza, specialmente quella del giusto. Qui la prova giunge al suo massimo di acutezza - e la presenza di Dio al suo massimo di vicinanza - perché l’uomo è posto di fronte non più all’impossibile, ma all’assurdo. A questo grado di acutezza, la tentazione non è più di dubitare della potenza di Dio, di essergli infedeli o di preferirgli il mondo, ma è quella dell’insulto, della *bestemmia, che è il modo in cui Satana rende testimonianza a Dio. Il libro di Giobbe apre la vertenza e dice che la soluzione è nascosta nel mistero della sapienza di Dio; e ciò non per crearsi un alibi, ma in un confuso riconoscimento che la prova accorda progressivamente l’uomo col mistero di Dio (cfr. Gen 22). Linee più nette di risposta sono presenti nel poema del *servo (Is 52, 13-53, 12), e soprattutto nei libri usciti dalla grande tribolazione (Dan 9, 24-27; 12, 1-4; Sap passim). La prova vi appare insolubile sul piano individuale; la sua fonte è fuori dell’uomo (Sap 1, 13; 2, 24), è un fatto di natura che concerne il genere umano. Ma soltanto una persona la potrà far sfociare nella vita, qualcuno su cui Satana non avrà potere, e che sarà solidale con la «moltitudine», pur sostituendosi ad essa. Il giudizio sarà nella venuta del servo.
    2. La prova dell’umanità.
    - Queste conclusioni, in cui si sente l’impronta della riflessione sacerdotale, si collegano a quelle che, nei racconti della Genesi che descrivono le origini, ci fanno toccare il fondo della condizione umana. L’*elezione è infine la rivelazione più espressiva dell’amore gratuito di Dio, della sua libertà. Con ciò essa esige da parte dell’uomo il massimo di libertà nella sua risposta. La prova è appunto il campo lasciato a questa risposta. Gen 2 manifesta mediante immagini questa sollecitudine gratuita per il sovrano della creazione che è l’uomo. Un simile amore di elezione non si impone, si sceglie: di qui la prova, attraverso l’*albero della conoscenza (Gen 2, 17). È così rivelata la condizione umana fondamentale: l’uomo non è tale se non per la sua possibilità costante di scegliere Dio, «ad *immagine» del quale è per vocazione. Ora Adamo sceglie se stesso come dio (Gen 3, 5). E questo perché, tra la prova e la scelta, è intervenuta la crisi, la tentazione, di cui ecco infine l’autore personale: *Satana (Gen 3; cfr. Giob 1 - 2). Come si vede, la tentazione è più che la prova: è il peccato che «coglie l’occasione» e conduce alla morte (Rom 7, 9 ss). Elementi nuovi hanno fatto il loro ingresso: il maligno, che è pure il bugiardo, appare seduttore. L’uomo non sceglie la propria *solitudine se non perché crede di trovarvi la vita; se non vi trova che la nudità e la morte, si è perché è stato ingannato. La sua prova implica quindi fondamentalmente una lotta contro la *menzogna, una lotta per scegliere secondo la *verità in cui soltanto si vive l’esperienza della *libertà (Gv 8, 32-44). Ecco l’ultima risposta alla riflessione dei sapienti. L’umanità è impegnata in una prova che la trascende e che non supererà se non per effetto di una promessa che è grazia (Gen 3, 15), con la venuta della Discendenza, che porrà termine alla prova. 
    NUOVO TESTAMENTO 
    I. LA PROVA DI CRISTO
    Cristo è posto da Satana nelle situazioni in cui Adamo ed il popolo erano stati soccombenti ed in cui i *poveri sembravano schiacciati. In *Gesù Cristo prova e tentazione coincidono e sono superate, perché, subendole, egli fa trionfare l’amore di elezione che le ha suscitate. Cristo è «la» discendenza secondo la promessa, il primogenito del nuovo popolo. Nel *deserto (Lc 4, 1 s) Gesù trionfa del tentatore sul suo stesso terreno (Lc 11, 24). Egli è nello stesso tempo l’*uomo che si nutre infine, e sostanzialmente, della *parola di Dio, e «Jahvè salvatore» che il suo popolo continua a tentare (Mt 16, 1; 19, 3; 22, 18). Gesù è il re fedele, buon pastore, che ama i suoi fino alla fine. La *croce è la grande prova (Gv 12, 27 s) in cui Dio «fa prova» del suo amore (3, 14 ss). Gesù è il piccolo resto, colui nel quale il Padre concentra il suo amore di elezione: in questa sicurezza filiale egli è nello stesso tempo odiato dal *mondo e vincitore del mondo (Gv 15, 18; 16, 33). Gesù è servo, agnello di Dio. Portando sulla croce il peccato degli uomini, egli trasforma la tentazione di bestemmia in lamento filiale e la morte assurda in una *risurrezione (Mt 27, 46; Lc 23, 46; Fil 2, 8 s). Nuovo Adamo ed immagine del Padre, la sua tentazione è quella del capo: essa si inserisce tra la teofania e l’esercizio della sua missione (Mc l, 11-14). Nel corso di essa egli la incontrerà come contrappunto della volontà del Padre: i suoi parenti (Mc 3, 33 ss), Pietro (Mc 8, 33), i segni spettacolari (Mc 8, 12), il messianismo temporale (Gv 6, 15). Infine l’ultima tappa della sua missione dovrà aprirsi con l’ultima tentazione, quella dell’agonia (Lc 22, 40. 46). Vincitore in tal modo del tentatore dall’inizio fino al termine della sua prova (Lc 4, 13), Cristo impegna infine la nuova umanità nella sua vera condizione: la vocazione filiale (Ebr 2, 10-18).
    II. LA PROVA DELLA CHIESA
    Dalla prova di Cristo la Chiesa esce come la moltitudine giustificata dal servo (Is 53, 11). E la sua missione segue lo stesso cammino di Cristo (2 Tim 2, 9 ss; Lc 22, 28 ss); il battesimo, in cui la Pasqua di Cristo diventa quella della Chiesa, è una prova (Mc 10, 38 s) e annunzia altre prove dopo di sé (Ebr 10, 32-39). Qui il vocabolario della prova si mescola a quello della *sofferenza (thlipsis-tribolazione, diogmòs- *persecuzione) e della *pazienza (soprattutto hypomonè-costanza). Nel NT la sua risonanza è anzitutto escatologica, prima di essere psicologica. La prossimità del ritorno del Signore porta al parossismo l’opposizione della luce e delle tenebre. La Chiesa è il luogo della prova, il luogo dove la persecuzione deve consolidare la fedeltà (Lc 8, 13 ss; 21, 12-19; Mt 24, 9-13) e dove l’uomo esce dalla tribolazione «provato». Questa prova della Chiesa è apocalittica; rivela realtà nascoste all’uomo carnale, ed il grado di responsabilità affidato a ciascuno nella grande missione che viene dal Padre: Cristo (Ebr 2, 14-18), Pietro (Lc 22, 31 s), i discepoli (Lc 21, 12 s), ogni Chiesa fedele (Apoc 2, 10). In questo senso, prova e missione culminano nel *martirio. Ma la grande lotta escatologica, che è la prova propria della Chiesa, rivela pure il vero autore della tentazione: Dio prova i suoi, soltanto Satana li tenta (Lc 22, 31; Apoc 2, 10; 12, 9 s); la Chiesa provata smaschera il seduttore, l’accusatore, pur rendendo testimonianza mediante il suo *Paraclito, lo Spirito vittorioso che la porta al termine della Pasqua (Apoc 2 - 3; Lc 12, 11 s; Gv 16, 1-15). Perciò nelle apocalissi essa appare nello stesso tempo perseguitata e salvata (Dan 12, 1; Apoc 3, 10; 2 Piet 2, 9). La prova è quindi la condizione della Chiesa, che deve ancora essere provata ed è già pura, che deve ancora essere riformata ed è già gloriosa. Le tentazioni propriamente ecclesiali vengono per lo più dalla noncuranza di una di queste due componenti.
    III. LA PROVA DEL CRISTIANO
    1.
    L’annuncio del vangelo è inserito nella tribolazione escatologica (Mt 24, 14). La prova è quindi particolarmente necessaria a coloro che ricevono il ministero della parola (1 Tess 2, 4; 2 Tim 2, 15), diversamente sono dei trafficanti (2 Cor 2, 17). La prova è il segno della missione (1 Tim 3, 10; Fil 2, 22). Da questo si discernono i falsi inviati (Apoc 2, 2; 1 Gv 4, 1). Sul piano psicologico Dio saggia i cuori e li mette alla prova (1 Tess 2, 4). Egli permette soltanto la tentazione (1 Cor 10, 13); questa viene dal tentatore (Atti 5, 3; 1 Cor 7, 5; 1 Tess 3, 5) attraverso il *mondo (1 Gv 5, 19) e soprattutto il denaro (1 Tim 6, 9). Perciò bisogna domandare di non «entrare» nella tentazione (Mt 6, 13; 26, 41), perché essa conduce alla morte (Giac 1, 14 s). Questo atteggiamento di preghiera filiale è agli antipodi di quella che tenta Dio (Lc 11, 1-11). La prova - e tale è la tentazione in cui non si entra - è ordinata alla vita. È un dato della vita in Gesù Cristo: «Sì, tutti coloro che vogliono vivere piamente in Cristo, saranno perseguitati» (2 Tim 3, 12). È una condizione indispensabile di crescita (cfr. Lc 8, 13 ss), di robustezza (1 Piet 1, 6 s in vista del giudizio), di verità manifestata (1 Cor 11, 19: ragion d’essere delle divisioni cristiane), di umiltà (1 Cor 10, 12), in una parola è la via stessa della Pasqua interiore, la via dell’amore che spera (Rom 5, 3 ss). Quindi essere un cristiano «provato», oppure sperimentare lo Spirito, è la stessa cosa. La prova apre ad un più grande dono dello Spirito, perché in essa egli compie già il suo lavoro di liberazione. Così liberato e illuminato dallo Spirito (1 Gv 2, 20. 27), il cristiano provato sa discernere, verificare, «provare» ogni cosa (Rom 12, 2; Ef 5, 10). Questa è la fonte teologale dell’esame di coscienza, non aritmetica spirituale, ma discernimento dinamico in cui ognuno si prova alla luce dello Spirito (2 Cor 13, 5; Gal 6, 1).
    2. La Bibbia invita a dare alla prova un senso teologale. La prova è passaggio «verso Dio», attraverso il suo disegno. I diversi aspetti della prova (fede, fedeltà, speranza, libertà) confluiscono nella grande prova di Cristo, continuata nella Chiesa ed in ogni cristiano, terminante in un parto cosmico (Rom 8, 18-25). L’afflizione della prova acquista il suo senso nella lotta escatologica. Nel disegno di Dio che mira a divinizzare l’uomo in Cristo, la prova ed il suo sfruttamento satanico, la tentazione, sono ineluttabili: fanno passare dalla libertà offerta alla libertà vissuta, dalla elezione all’alleanza. La prova accorda l’uomo con il mistero di Dio e, per l’uomo ferito, la vicinanza di Dio è tanto più dolorosa quanto più è intima. Lo Spirito fa discernere nel mistero della croce il passaggio dalla prima alla seconda creazione, il passaggio dall’egoismo all’amore. La prova è pasquale.
    J. CORBON
    → Abramo I 2 - anticristo - bene e male 1 3 - calamità 1 - conoscere VT 2 - consolazione - deserto VT I 2, II 1; NT - educazione I 2 a - Egitto 1 - esilio II - fame e sete VT 1 - fede VT II, III 2; NT 1 2.3 - fuoco VT II 2.3 - gioia NT II 2 - manna 1 - notte VT 1.3 - obbedienza II 2 - ombra I 2 - pazienza II 1 - persecuzione - preghiera I 1, II 2, IV 1.2 - prigionia I - processo I 1.3 - profeta VT II 3 - responsabilità 1 - Satana - scandalo - sofferenza VT II, III; NT III - tempo intr. 2 b - terra VT 1 3, II 3 b - umiltà II - vegliare II - volontà di Dio VT 0.

    PROVVIDENZA (inizio)

    Il volto di *Dio nella Bibbia è quello di un *padre che veglia sulle sue creature e sovviene alle loro necessità: «A tutti, tu dai il *nutrimento a suo tempo» (Sal 145, 15 s; 104, 27 s), agli *animali, come agli *uomini (Sal 36, 7; 147, 9). La parola provvidenza evoca appunto questo aspetto, e non ha corrispondenti in ebraico, mentre l’equivalente greco prònoia viene usato solo due volte per designare la provvidenza divina (Sap 14, 3; 17, 2). Viene tuttavia affermata nella Bibbia la sollecitudine vigile del creatore (Giob 10, 12); essa si manifesta soprattutto nella storia, ma non come un destino che inchiodi l’uomo al fatalismo, né come un *mago che assicuri il credente contro qualsiasi incidente, e neppure come un padre senza esigenze; se la Provvidenza stabilisce l’uomo nella *speranza, esige però da lui che diventi suo collaboratore.
    1. La provvidenza è fondamento della *fiducia certa.
    - Il *disegno di Dio, disegno d’amore, si realizzerà infallibilmente (Sal 33, 11); l’uomo quindi deve vivere nella *fiducia. Dio veglia sull’ordine del mondo (Gen 8, 22) assicura la *fecondità della terra (Atti 14, 17), donando sole e pioggia a tutti, buoni e cattivi (Mt 5, 45); dispone tutto affinché tutti lo *cerchino (Atti 17, 24- 28).
    a) Se Dio veglia sui patriarchi (Gen 20, 6 s; 28, 15), la sua azione misteriosa e sovrana, che fa servire persino il male al suo disegno di salvezza, viene sottolineata soprattutto nella storia di Giuseppe. «Non siete voi, che mi avete mandato qui, dice Giuseppe ai suoi fratelli, è Dio; ... il male che avevate in progetto di farmi, il disegno di Dio l’ha volto in bene al fine di... salvare la vita a un numeroso popolo» (Gen 45, 8; 50, 20). Il popolo eletto può quindi affrontare il *deserto; Dio lo nutrirà ogni giorno «secondo le sue necessità» (Es 16, 15-18). I profeti proclamano questo dominio di Dio, che sa eternamente tutto quanto avverrà (Is 44, 7) e da cui dipende felicità o sventura (Am 3, 6; Is 45, 7), che dispone di tutto e concede il potere a chi vuole (Ger 27, 5 s). Secondo i sapienti, inoltre, l’uomo propone e Dio dispone (Prov 16, 133; 19, 21; 20, 24); *bene e male, *vita e *morte, *povertà e *ricchezza, tutto viene dal Signore (Eccli 11, 14), che governa il mondo e di cui tutto esegue gli ordini (Eccli 10, 4; 39, 31). Questa convinzione ispira la *preghiera: Dio, che domina la sua creazione e la rende feconda (Sal 65, 7-14), custodisce il suo *popolo in tutto e per sempre (Sal 121); senza di lui, vani sono lo sforzo e la vigilanza degli uomini (Sal 126, 1); grazie a lui, buon *pastore, nel cuore delle tenebre, camminano sicure verso la felicità (Sal 23). In poche parole, «conta sul Signore, e lui agirà» (Sal 37, 5).
    b) Gesù rinnova questo insegnamento rivelando agli uomini le qualità paterne di Dio; essi devono limitarsi a pregarlo: «Padre nostro, dacci oggi il nostro *pane quotidiano» (Mt 6, 11) e non si preoccupino del domani, né temano per la loro vita; perché «il Padre sa» tutto ciò di cui hanno bisogno e tutto ciò che capita loro (Mt 6, 25-34; 10, 28-31; Lc 6, 34; 12, 22-32; 21,18). Questa basta a mantenere il credente saldo in un’incrollabile speranza; perché, come dice l’apostolo Paolo, «Dio farà cooperare ogni cosa al suo bene» e nulla potrà separarlo dall’*amore che Dio gli testimonia in *Gesù Cristo (Rom 8, 28. 31-39), neppure le prove peggiori. Al contrario, grazie a queste, potrà mostrare ai suoi fratelli il vero volto della provvidenza del Padre.
    2. La Provvidenza esige la fedeltà costante.
    - Dio, infatti, non invita l’uomo alla passività, né a una dimissione della sua libertà; vuole al contrario *educarlo. Con le prove, lo mette in condizione di collaborare con lui attraverso le sue libere iniziative, mentre, con le promesse, ne suscita la fiducia e lo libera così dalle paure che potrebbero paralizzarlo di fronte ai rischi di una tale collaborazione. Sovviene alle necessità di coloro che chiama ad essere suoi figli, proprio perché possano essere fedeli alla propria vocazione di testimoni del suo amore.
    a) Già nel VT, gli amici di Dio si rendono conto di dover rispondere con una perfetta *fedeltà a colui che, dopo averli scelti, li circonda della sua protezione. Abramo, certo che «Dio provvederà» (Gen 22, 8. 13 s), non esita a sacrificare il figlio per obbedire al Signore. Giuseppe, che non vuole peccare contro Dio, non esita a incorrere nell’ira della moglie del suo padrone (Gen 39, 9 s). Ma il popolo di Israele, fin dalle origini, si dimostra infedele, proprio perché non ripone piena fiducia nel Dio che l’ha liberato e che lo nutre nel deserto; anziché attendere ogni giorno da lui il nutrimento malgrado l’ordine divino, vuole costituirsi delle scorte (Es 16, 20). Il libro di Giuditta è stato scritto proprio per ricordare ad Israele le esigenze della sua vocazione: Giuditta si rifiuta di mettere alla prova la provvidenza (Giudit 8, 12-16), ma non esita a farsi suo strumento, pur avendo cura di mantenersi fedele a tutte le esigenze della legge (9, 9; 12, 2; 13, 18 s). Ad un tale esempio fa eco la massima del saggio salmista: «conto sul Signore, e agisco bene» (Sal 37, 3).
    b) Gesù, mentre rivela agli uomini di quale infinito amore sia espressione la provvidenza, insegna loro anche, sia con l’esempio che con la parola, come rispondervi. Questa risposta consiste nel ricercare innanzitutto il regno di questo amore, nel rifiutare di sottomettersi ad un altro padrone (Mt 6, 24. 33). consiste nel chiedere al Padre che sia fatta la sua volontà in cielo come in terra. Consiste inoltre nell’attendere il pane quotidiano e tutto ciò di cui un figlio di Dio ha bisogno per fare la volontà del Padre suo (Mt 6, 10 s). Ha bisogno, prima di tutto, di fedeltà nelle prove; la provvidenza non le ha risparmiate a Gesù che ha conosciuto l’abbandono del Padre (Mt 27, 46) e che, obbediente fino alla morte, ha affermato la propria fiducia filiale con le ultime parole pronunciate sulla croce: «Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito» (Lc 23, 46). Con questa fiduciosa fedeltà, il buon Pastore ha attraversato la morte e ci ha offerto l’unica luce che ci consenta di attraversare le notte in cui a volte ci immergono il male e la sventura. Imitando Cristo, il suo discepolo seguirà le misteriose vie della provvidenza ed avrà la gioia di essere il testimone e il collaboratore fedele dell’amore in cui confida.
    M. F. LACAN
    → Dio - disegno di Dio - fiducia - nutrimento - padri e Padre III 3, IV, V - potenza II 1.2 - predestinare 3 - preghiera - preoccupazioni 2 - sapienza VT III 3 - visita.

    PRUDENZA (inizio)

    → sapienza - semplice 2 – virtù e vizi.

    PUNIZIONE (inizio)

    → castighi - educazione.

    PURO (inizio)

La purità, concetto comune alle religioni antiche, è la disposizione richiesta per avvicinarsi alle cose sacre; pur potendo implicare in via accessoria la virtù morale opposta alla lussuria, essa non è procurata da atti morali, ma da riti, la si perde per contatti materiali, indipendentemente da ogni responsabilità morale. Ordinariamente questo concetto primitivo tende ad approfondirsi, ma lo fa in modo vario, secondo i diversi ambienti di pensiero. Secondo la fede biblica, che crede buona tutta la creazione, la nozione di purità tende a diventare interna e morale, fino a che Cristo ne fa vedere la sorgente unica nella sua parola e nel suo sacrificio.
VECCHIO TESTAMENTO
I. LA PURITÀ CULTUALE
1. Nella vita della comunità santa.
- Senza rapporto diretto con la moralità, la purità assicura l’attitudine legale a partecipare al *culto od alla stessa vita ordinaria della comunità santa. Questa nozione complessa, sviluppata specialmente in Lev 11-16, appare attraverso tutto il VT. Essa include la pulizia fisica: allontanamento di tutto ciò che è sudicio (immondizie: Deut 23, 13 ss), malato (* lebbra: Lev 13 - 14; 2 Re 7, 3) o corrotto (cadaveri: Num 19, 11-14; 2 Re 23, 13 s). Tuttavia la discriminazione tra *animali puri ed impuri (Lev 11), sovente desunta da tabù primitivi, non si può spiegare con il solo motivo dell’igiene. Essa costituisce una protezione contro il paganesimo: poiché Canaan era contaminato dalla presenza dei pagani, i bottini di guerra sono votati all’*anatema (Gios 6, 24 ss) e gli stessi frutti di questa terra sono proibiti durante i tre primi anni del raccolto (Lev 19, 22 ss). Taluni animali, come il maiale, sono impuri (Lev 11, 7), indubbiamente perché i pagani li associavano al loro culto (cfr. Is 66, 3). Essa disciplina l’uso di tutto ciò che è *santo. Tutto ciò che riguarda il *culto deve essere eminentemente puro e non può essere indebitamente avvicinato (Lev 21; 22; 1 Sam 21, 5). D’altra parte, sacro e impuro sono ugualmente intoccabili come se fossero carichi di una forza terribile e contagiosa (Es 29, 37; Num 19). Poiché le forze vitali, fonte di benedizione, erano considerate come sacre, si contraevano immondezze *sessuali anche con il loro uso moralmente buono (Lev 12; 15).
2. Riti di purificazione.
- La maggior parte delle impurità, quando non spariscono da sole (Lev 11, 24 s), sono cancellate con l’abluzione del corpo o degli abiti (Es 19, 10; Lev 17, 15 s), mediante sacrifici espiatori (Lev 12, 6 s) e, nel giorno delle *espiazioni, festa della purificazione per eccellenza, mediante l’invio nel deserto d’un capro simbolicamente carico delle impurità di tutto il popolo (Lev 16).
3. Rispetto della comunità santa.
- Alla base di questa nozione ancora molto materiale della purità appare l’idea che l’*uomo ha una tale unità, che non si possono dissociare il *corpo e l’*anima, e che i suoi atti religiosi, per quanto spirituali, restano incarnati. In una comunità consacrata a Dio e desiderosa di superare lo stato naturale della sua esistenza, non si mangia qualunque cosa, non si tocca tutto, non si fa un uso qualsiasi delle potenze generatrici della vita. Queste molteplici restrizioni, forse arbitrarie all’origine, hanno avuto un duplice effetto. Esse preservavano la fede monoteistica da ogni contaminazione dell’ambiente pagano circostante; inoltre, assunte per obbedienza a Dio, costituivano una vera disciplina morale. Così dovevano rivelarsi progressivamente le esigenze di Dio, spirituali.
II. VERSO LA NOZIONE DI PURITÀ MORALE
1. I Profeti.
 
- I profeti proclamano costantemente che né le abluzioni, né i *sacrifici hanno valore in sé, se non implicano una purificazione interna (Is 1, 15 ss; 29, 13; cfr. Os 6, 6; Am 4, 1-5; Ger 7, 21 ss). L’aspetto cultuale tuttavia non sparisce (Is 52, 11), ma la vera impurità che contamina l’uomo è rivelata alla sua stessa fonte, nel *peccato; le immondezze legali non ne sono che un’immagine esteriore (Ez 36, 17 s). C’è un’immondezza essenziale all’uomo, da cui Dio solo lo può purificare (Is 6, 5 ss). La purificazione radicale delle *labbra, del *cuore, di tutto l’essere, fa parte delle promesse messianiche: «Io effonderò su di voi un’acqua pura e voi sarete purificati da tutte le vostre immondezze» (Ez 36, 25 s; cfr. Sof 3, 9; Is 35, 8; 52, 2).
2. Nei sapienti. 
- Nei sapienti, la condizione richiesta per piacere a Dio è caratterizzata dalla purità delle mani, del cuore, della fronte, della preghiera (Giob 11, 4. 14 s; 16, 17; 22, 30), e quindi da una condotta morale irreprensibile. Tuttavia i sapienti hanno coscienza di un’impurità radicale dell’uomo dinanzi a Dio (Prov 20, 9; Giob 9, 30 s); è presunzione credersi puri (Giob 4, 17). Nondimeno il sapiente si sforza di approfondire moralmente la purità, il cui aspetto sessuale incomincia ad essere accentuato; Sara si è conservata pura (Tob 3, 14), mentre i pagani sono dediti ad una impurità degradante (Sap 14, 25).
3. Nei Salmisti. 
-Nei salmisti si vede, in una cornice cultuale, affermarsi sempre più la preoccupazione di purità morale. L’amore di Dio è rivolto ai cuori puri (Sal 73, 1). L’accesso al santuario è riservato all’uomo dalle mani innocenti, dal cuore puro (Sal 24, 4), e Dio ricompensa le mani pure di colui che pratica la *giustizia (Sal 18, 21. 25). Ma poiché egli solo può dare questa purità, lo si supplica di purificare i cuori. Il Miserere manifesta l’effetto morale della purificazione che si attende da Dio solo. «Lavami da ogni malizia..., purificami con l’issopo, ed io sarò puro». Più ancora, raccogliendo l’eredità di Ezechiele (36, 25 s) e coronando la tradizione del VT, esclama: «O Dio, crea in me un cuore puro» (Sal 51, 12), preghiera già così spirituale che il fedele nel NT la può riprendere tale quale. 
NUOVO TESTAMENTO 
I. LA PURITÀ SECONDO I VANGELI
1. Le pratiche di purità persistono nel giudaismo del tempo di Gesù e il formalismo legale esagera la legge accentuando le condizioni materiali della purità: abluzioni ripetute (Mc 7, 3 s), lavande minuziose (Mt 23, 25), fuga dei peccatori che propagano l’impurità (Mc 2, 15 ss), segnalazione delle tombe allo scopo di evitare le contaminazioni per inavvertenza (Mt 23, 27).
2. Gesù fa osservare alcune regole di purità legale (Mc 1, 43 s) e sembra condannare dapprima soltanto gli eccessi delle osservanze aggiunte alla legge (Mc 7, 6-13). Giunge tuttavia a proclamare che l’unica purità è interna (Mc 7, 14-23 par.): «Nulla di ciò che penetra nell’uomo dal di fuori lo può rendere impuro... perché dal di dentro, dal cuore degli uomini, escono i disegni perversi». In questo senso anche i *demoni possono essere chiamati «spiriti impuri» (Mc 1, 23; Lc 9, 42). Questo insegnamento liberatore di Gesù era così nuovo che i discepoli si dimostrano molto tardi ad afferrarlo.
3. Gesù accorda la sua intimità a coloro che gli si donano nella *semplicità della fede e dell’amore, ai «cuori puri» (Mt 5, 8). Per *vedere Dio, per presentarsi a lui, non più nel suo tempio di Gerusalemme, ma nel suo *regno, la purità morale da sola non basta più. Occorre la presenza attiva del Signore nell’esistenza; soltanto allora l’uomo è radicalmente puro. Così Gesù dice ai suoi apostoli: «Voi siete già purificati grazie alla parola che io vi ho annunziata» (Gv 15, 3). E, ancor più chiaramente: «Colui che ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi, perché è completamente puro; anche voi siete puri» (Gv 13, 10).
II. LA DOTTRINA APOSTOLICA
1. Al di là della divisione tra puro e impuro.

- Le comunità giudeo-cristiane continuano ad osservare le pratiche di purità. È necessario un intervento soprannaturale perché, dalla parola di Cristo, Pietro tragga questa triplice conclusione: non c’è più cibo (*nutrimento) impuro (Atti 10, 15; 11, 9); gli stessi incirconcisi non sono più contaminati (Atti 10, 28); Dio ormai purifica il cuore dei pagani per mezzo della *fede (Atti 15, 9). Dal canto suo Paolo, forte dell’insegnamento di Gesù (cfr. Mc 7), dichiara arditamente che per il cristiano «nulla è per sé impuro» (Rom 14, 14). Finito il regime della legge antica, le osservanze di purità diventano «elementi senza forza», da cui Cristo ci ha liberati (Gal 4, 3. 9; Col 2, 16-23). «La realtà è nel corpo di Cristo» (Col 2, 17), perché il suo corpo risorto è il germe di un nuovo universo.
2. Il sacrificio pienamente efficace di Cristo. 
- Ai riti incapaci di purificare l’essere interiore Cristo ha sostituito il suo *sacrificio pienamente efficace (Ebr 9; 10); poiché il sangue di Gesù ci ha purificati dal peccato (1 Gv 1, 7. 9), noi speriamo di prender posto tra coloro che «hanno imbiancato le loro vesti nel sangue dell’agnello» (Apoc 7, 14). Questa purificazione radicale si attua mediante il rito del *battesimo, che trae la sua efficacia dalla *croce: «Cristo si è dato per la Chiesa per santificarla purificandola mediante il bagno di acqua» (Ef 5, 26). Mentre le antiche osservanze non ottenevano che una purificazione puramente esteriore, le *acque del *battesimo ci liberano da ogni immondezza associandoci a Gesù Cristo risorto (1 Piet 3, 21 s). Noi siamo purificati dalla speranza in Dio che, per mezzo di Cristo, ha fatto di noi i suoi figli (1 Gv 3, 3).
3. La trasposizione dal piano rituale al piano della salvezza spirituale.
- Essa è espressa specialmente nella prima lettera ai Corinzi, in cui Paolo invita i cristiani ad espellere dalla loro vita il «vecchio lievito» ed a sostituirlo con «gli azzimi di purità e di verità» (1 Cor 5, 8; cfr. Giac 4, 8). Il cristiano deve quindi purificarsi da ogni immondezza di corpo e di spirito per portare così a termine l’opera della sua santificazione (2 Cor 7, 1). L’aspetto morale di questa purità è ancor più sviluppato nelle lettere pastorali. «Tutto è puro per i puri» (Tito 1, 15), perché ormai nulla più conta dinanzi a Dio se non la disposizione profonda dei cuori rigenerati (cfr. 1 Tim 4, 4). La carità cristiana scaturisce da un cuore puro, da una buona *coscienza e da una fede senza finzioni (1 Tim 1, 5; cfr. 5, 22). Paolo stesso rende grazie al Signore di servirlo con una coscienza pura (2 Tim 1, 3), ed esige pure dai suoi discepoli un cuore puro da cui scaturiscano la giustizia, la fede, la carità, la pace (2 Tim 2, 22; cfr. 1 Tim 3, 9). Ciò che, infine, permette al cristiano di tenere una condotta morale irreprensibile, è il fatto di essere consacrato al nuovo culto nello spirito: l’opposto dell’impurità è la *santità (1 Tess 4, 7 s; Rom 6, 19). La purità morale, che già il VT preconizzava, rimane sempre richiesta (Fil 4, 8), ma il suo valore deriva soltanto dal fatto che essa conduce all’incontro con Cristo, nell’ultimo giorno del suo ritorno (Fil 1, 10).
T. SZABÓ
→ acqua - animali II 2 - battesimo - bianco 2 - colomba 1 - coscienza 2 b. 3 - cuore II - espiazione l - fuoco - lebbra - liberazione-libertà II 3 - Maria II 2 - nutrimento I, III - peccato III 3 - perdono - perfezione VT 2 - prova-tentazione VT I 2 - resto - sale 2 - santo - semplice 2 - sessualità II - verginità VT 1.
 

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