LABBRA - LUTTO - DIZIONARIO DI TEOLOGIA BIBLICA

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L: LABBRA - LUTTO

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  ................. LUIS MARTINEZ FERNANDEZ

L

 

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    LABBRA (inizio)

    Nastro di porpora sul volto della diletta (Cant 4, 3), le labbra distillano il miele oleoso della *parola (4, 11), sono perfino la parola (Giob 16, 5) allo stato nascente. A differenza della *lingua, organo attivo che serve a parlare, le labbra e la bocca aspettano di essere aperte per esprimere il fondo del *cuore.
    1. Le labbra ed il cuore.
    - Le labbra sono al servizio del cuore, buono o cattivo (Prov 10, 32; 15, 7; 24, 2). Ne rivelano le qualità; la grazia del re ideale (Sal 45, 3) o l’esca ingannevole della straniera (Prov 5, 3; 7, 21). Nel peccatore esse si pongono al servizio della doppiezza, con il suo corteo di *menzogna, di furberia, di calunnia (Prov 4, 24; 12, 22; Sal 120, 2; Eccli 51, 2); possono anche celare dietro una *faccia cordiale l’intima malvagità: «vernice su un vaso di terra, labbra dolci e cuore malvagio» (Prov 26, 23). Doppiezza che tocca il dialogo con Dio: «questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mt 15, 8 = Is 29, 13). In opposizione a questa doppiezza, è tracciato l’ideale di colui le cui labbra son sempre sincere e giuste (Sal 17, 1; Prov 10, 18-21; 23, 15 s). Ma per preservarle in tal modo da ogni parola ingannevole (Sal 34, 14 = 1 Piet 3, 10), bisogna che Dio stesso le istruisca (Prov 22, 17 s); bisogna che esse siano sospese alle labbra di Dio mediante l’obbedienza e la fedeltà (Sal 17, 4; Giob 23, 12). «Poni dunque, o Signore, una guardia alla mia bocca, e veglia sulla porta delle mie labbra!» (Sal 141, 3; cfr. Eccli 22, 27 s).
    2. «Signore, apri le mie labbra!».
    - Per ottenere la grazia della *semplicità nel dialogo con gli altri, il salmista sa che deve fare appello a Dio. Ma dinanzi a Dio l’uomo non può far altro che confessare la sua corruzione profonda: «Ohimè! io sono perduto, perché son un uomo dalle labbra impure, abito in mezzo ad un popolo dalle labbra impure, ed i miei occhi hanno visto il re, Jahvè Sabaoth» (Is 6, 5). Egli sa di dover glorificare ed acclamare Dio (cfr. Sal 63, 4. 6), offrire una *lode autentica (Os 14, 3), ma conosce pure la sua impurità radicale. Non aspetta semplicemente che Dio si degni di aprirgli le labbra per dare una risposta (Giob 11, 5): affinché il suo peccato sia tolto, le sue labbra devono essere purificate mediante il *fuoco (Is 6, 6). Di fatto Dio, nel suo *giorno, «accorderà ai popoli labbra pure» (Sof 3, 9), così come creerà in essi un *cuore nuovo (Ez 36, 26). Oggi una simile speranza è realizzata in Gesù Cristo, «per mezzo del quale possiamo offrire continuamente un sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che *confessano il suo *nome» (Ebr 13, 15). Con la certezza di essere esaudito, ciascuno può quindi fare questa preghiera: «Apri, o Signore, le mie labbra, e la mia bocca annuncerà la tua lode!» (Sal 51, 17).
    C. LESQUIVIT e X- LÉON-DUFOUR
    → confessione NT - cuore I 1.2 - lingua - menzogna - parola umana.

    LACRIME (inizio)

    → libro III - morte VT I 1.3 - penitenza-conversione VT 1 2, II 3, III - - riso 2 - sofferenza - tristezza.

    LAMENTO (inizio)

    → morte VT I 3 - penitenza-conversione VT I, III - preghiera II 2 - sofferenza VT I 1 - tristezza VT 3.4; NT 1.

    LAMPADA (inizio)

    Con la sua *luce, la lampada significa una presenza viva, quella di Dio, quella dell’uomo.
    1. La lampada, simbolo della presenza divina.
    - «La mia lampada sei tu, o Jahvè» (2 Sam 2, 29). Con questo grido il salmista proclama che Dio solo può dare luce e vita. Non è egli forse il creatore dello *spirito che è nell’uomo come «una lampada di Jahvè» (Prov 20, 27)? Non rischiara forse egli come una lampada la *via del fedele con la sua *parola (Sal 119, 105), con i suoi comandamenti (Prov 6, 23)? Le Scritture profetiche non sono forse «una lampada che brilla in luogo oscuro, sino a che il giorno incominci a spuntare e l’astro del mattino si levi nei nostri cuori» (2 Piet 1, 19)? Quando verrà questo *giorno supremo non ci sarà più «*notte; gli eletti faranno a meno di lampada o di sole per farsi luce», perché «l’agnello sarà la loro lucerna» (Apoc 22, 5; 21, 23).
    2. La lampada, simbolo della presenza umana.
    - Il simbolismo della lampada si ritrova nel piano più umile della presenza umana. A David, Jahvè promette una lampada, cioè una discendenza perpetua (2 Re 8, 19; 1 Re 11, 36; 15, 4). Per contro, se il paese è infedele, Dio minaccia di fare sparire da esso «la luce della lampada» (Ger 25, 10): allora non ci sarà più felicità duratura per il malvagio la cui lampada presto si spegne (Prov 13, 9; Giob 18, 5 s). Per esprimere la sua *fedeltà a Dio e la continuità della sua *preghiera, Israele fa ardere in perpetuo una lampada nel santuario (Es 27, 20 ss; 1 Sam 3, 3); lasciarla spegnere, significherebbe far intendere a Dio che lo si abbandona (2 Cron 29, 7). Per contro, beati coloro che *vegliano nell’attesa del Signore, come le giovani donne prudenti (Mt 25, 1-8) od il servo fedele (Lc 12, 35), le cui lampade restano accese. Dio attende ancora di più dal suo fedele: invece di lasciare la sua lampada sotto il moggio (Mt 5, 15 s par.), egli deve brillare come un luminare in mezzo ad un mondo perverso (Fil 2, 15), come già il profeta *Elia, la cui «parola bruciava come una fiaccola» (Eccli 48, 1), come ancora *Giovanni Battista, questa «lucerna che arde e risplende» (Gv 5, 35) per rendere testimonianza alla vera luce (1, 7 s). Così anche la Chiesa, fondata su Pietro e Paolo, «i due olivi e le due lucerne che stanno dinanzi al Signore della terra» (Apoc 11, 4), deve far risplendere fino alla fine dei tempi la *gloria del figlio dell’uomo (1, 12 s).
    J. B. BRUNON
    → luce e tenebre VT II 2; NT II 3 - vegliare.

    LARGHEZZA (inizio)

    → benedizione - dono - elemosina - grazia - ricchezza I 3.4.

    LATTE (inizio)

    In una civiltà pastorale come quella degli Ebrei nel deserto, il latte, dono della natura non fabbricato dall’uomo, è un *nutrimento d’importanza vitale. Rimase sempre uno degli alimenti usuali di Israele (Giud 5, 25; Prov 27, 27; Eccli 39, 26). Aver latte in abbondanza era un segno di ricchezza (Giob 29, 6). Per il suo legame con le promesse e per il suo uso figurato il latte acquista un significato teologico.
    1. Tenerezza divina.
    - La *madre che allatta il suo bambino è uno dei simboli più naturali per esprimere una tenerezza e una dedizione senza limiti (2 Mac 7, 27). Nulla di sorprendente che Israele abbia utilizzato questa immagine per descrivere l’infinita *tenerezza e le premure attente di Jahvè per il suo *popolo, in particolare nella cornice dell’uscita dall’Egitto e della marcia verso la *terra promessa (Num 1, 12). Per questo, il salmista invita il popolo ad abbandonarsi a Dio, come il bimbo nutrito al seno della madre (Sal 131, 2 s).
    2. Immagine delle benedizioni divine e delle promesse messianiche.
    - L’abbondanza del latte fa parte della descrizione classica delle *promesse. La terra in cui farà il suo ingresso Israele è descritta sovente nel VT come il «paese dove scorrono il latte ed il miele» (Es 3, 8; 13, 5; Deut 6, 3; 11, 9; Ger 11, 5; Ez 20, 6. 15 ecc.): con le ricchezze della vita nomade viene descritta «questa regione fertile e vasta» (Es 3, 8), «questo paese più bello di tutti» (Ez 20, 6. 15). Nella *benedizione di Giuda (Gen 49, 8-12), che si apre su una prospettiva messianica, la prosperità straordinaria della terra di Giuda è descritta con l’abbondanza del *vino e del latte. Nei profeti questo quadro di prosperità serve a descrivere la terra ideale dei tempi futuri (Gioe 4, 18; Is 55, 1; 60, 16), è una immagine della *consolazione e della *salvezza messianiche (Is 66, 11); nel Cantico il latte simboleggia le delizie dell’amore tra lo sposo e la sposa (4, 11; 5, 1). In tempi di carestia questo nutrimento del deserto tornerà ad essere l’alimento base dell’Emmanuele e dei superstiti; ma la sua abbondanza servirà a richiamare alla mente le promesse (Is 7, 15. 22). Se la prosperità è un pegno delle benedizioni divine, la mancanza di latte e la desolazione generale sono un segno del castigo e della maledizione di Dio. A causa dei crimini di Israele, Osea chiede a Jahvè di dargli delle viscere sterili e delle mammelle asciutte (Os 9, 14). Nella prospettiva del NT, il *giudizio escatologico sarà talmente terribile che Gesù proclama beate le donne che in quei giorni non allatteranno (Lc 23, 29; cfr. 21, 23 par.).
    3. Il latte dei figli di Dio.
    - Il NT in genere parla del latte in senso metaforico e con ciò intende esprimere l’*insegnamento, come *nutrimento dei *figli (cfr. *bambino) di Dio. Per Paolo, che vede soprattutto nel bambino la sua immaturità, il latte dato ai Corinzi ancora carnali, è il primo messaggio cristiano, in opposizione al nutrimento solido della *sapienza riservato ai perfetti (1 Cor 3, 2; cfr. Ebr. 5, 12 ss). Secondo 1 Piet 2, 2, invece, il fedele nato alla nuova vita deve continuare a desiderare il latte della *parola per crescere e raggiungere la salvezza, perché rimane sempre un bambino in fase di *crescita ed avrà sempre bisogno del latte della parola di Dio. Questa parola, in fondo, è Cristo stesso (2, 3), come ben hanno mostrato parecchi Padri: «Beviamo il Verbo, nutrimento di *verità» (Clemente Alessandrino).
    J. DELORME
    → bambino III - nascita (nuova) 3 a - terra VT II 1.

    LAVARE (inizio)

    → acqua -battesimo - perdono 0 - puro - sangue NT 4.

    LAVORO (inizio)

    Dovunque, nella Bibbia, l’uomo è al lavoro. Tuttavia, essendo questo lavoro, sia dell’artigiano che del piccolo agricoltore, molto diverso dal lavoro intenso ed organizzato che le visioni moderne del lavoro evocano in noi, siamo portati a credere che la Scrittura ignori il lavoro o lo conosca male. E poiché essa non enuncia giudizi di principio sul valore e sul significato del lavoro, siamo talvolta tentati di isolare a piacer nostro una determinata formula presa a caso e di servircene a vantaggio delle nostre proprie tesi. La Bibbia, presa nella sua totalità, se anche non risponde a tutte le nostre questioni, ci introduce nella realtà del lavoro, del suo valore, della sua pena e della sua redenzione.
    I. VALORE DEL LAVORO
    1. Il comandamento del creatore.
    - Nonostante il pregiudizio corrente, il lavoro non deriva dal *peccato: prima della caduta, «Jahvè Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2, 15). Il decalogo prescrive il *sabato, ma al termine di sei giorni di lavoro (Es 20, 8 ss). La immaginosa presentazione della creazione in sei giorni sottolinea che il lavoro dell’uomo corrisponde alla volontà divina e lo presenta come un riflesso dell’azione del Creatore: il racconto intende dirci che Dio, formando l’uomo «a sua immagine» (Gen 1, 26), ha voluto associarlo al suo disegno, e dopo aver sistemato l’universo, lo ha consegnato nelle mani dell’uomo con il potere di occupare la *terra e di assoggettarla (1, 28). Tutti coloro che lavorano, anche se «non brillano né per cultura né per giudizio», ognuno nel suo mestiere, «sostengono la creazione» (Eccli 38, 34). Non è quindi sorprendente che l’azione del creatore sia facilmente descritta mediante atti di operaio, che plasma l’uomo (Gen 2, 7), che fabbrica il cielo «con le [sue] dita» e fissa le stelle al loro posto (Sal 8, 4); viceversa, il grande inno che canta il Dio creatore dipinge l’uomo al mattino che «esce per la sua opera, per compiere il suo lavoro fino a sera» (Sal 104, 23; cfr. Eccli 7, 15). Questo lavoro dell’uomo è l’effondersi della creazione di Dio, il compimento della sua *volontà.
    2. Valore naturale del lavoro.
    - Questa autentica volontà di Dio non è mai espressa nei comandamenti dell’alleanza, né in quelli del decalogo, né in quelli del vangelo. Il che non è sorprendente, ma, al contrario, normale: il lavoro è una legge della condizione umana, si impone ad ogni uomo, ancor prima che egli sappia di essere chiamato da Dio alla *salvezza. Ne consegue che molte delle reazioni della Bibbia di fronte al lavoro traducono semplicemente il giudizio di una *coscienza sana e retta, e figurano negli scritti dei sapienti, deliberatamente attenti nel far si che la religione di Israele tragga profitto dal meglio della esperienza morale della umanità. Così la Bibbia è severa verso l’ozio, in nome della semplice ragione: il pigro non ha nulla da mangiare (Prov 13, 4) e corre rischio di morire di fame (21, 25); nulla val più della fame per stimolare al lavoro (16, 26), e S. Paolo non esita a servirsi di questo argomento per far vedere la loro aberrazione a coloro che rifiutano di lavorare: «non mangino neppure» (2 Tess 3, 10). Più ancora, l’ozio è un decadimento: si ammira la donna sempre in faccende, che «non mangia il pane dell’ozio» (Prov 31, 27) e si schernisce il pigro: «Come la porta gira sui cardini, così il pigro sul suo letto» (26, 14). Non è più un uomo, è «un sasso sporco», «una manciata di letame» (Eccli 22, 1 s) che si butta via con disgusto. La Bibbia, in cambio, sa apprezzare il lavoro ben fatto, l’abilità e l’impegno dell’agricoltore, del fabbro o dei vasaio (Eccli 38, 26. 28. 30). È piena di ammirazione per i successi dell’arte, per il palazzo di Salomone (1 Re 7, 1-12) ed il suo trono, «senza rivali in nessun regno» (10, 20), ma soprattutto per il tempio di Jahvè e le sue meraviglie (1 Re 6; 7, 13-50). È senza pietà per l’accecamento del facitore di *idoli, ma rispetta la sua abilità e si indigna che tanti sforzi siano spesi in pura perdita, per un «nulla» (Is 40, 19 s; 41, 6 s).
    3. Valore sociale del lavoro.
    - Questa stima del lavoro non nasce soltanto dall’ammirazione dinanzi ai successi dell’arte; poggia su una visione fermissima del posto del lavoro nella vita sociale e nei rapporti economici. Senza gli agricoltori e gli artigiani, «nessuna città si potrebbe costruire» (Eccli 38, 32). All’origine della navigazione si combinano tre fattori: «la sete di guadagno... la sapienza artigiana… la guida della provvidenza» (Sap 14, 2 s). Concezione realistica ed equilibrata, atta a spiegare, secondo il rispettivo posto di questi tre elementi, sia le aberrazioni che il lavoro può conoscere, sia le meraviglie che può realizzare, quella ad esempio che permette al navigatore «di ardire di affidare la propria vita ad un minuscolo legno» e di perfezionare così la creazione di Dio impedendo «alle opere della [sua] sapienza di rimanere sterili» (Sap 14, 5).
    II. LA PENA DEL LAVORO
    Il lavoro, essendo un dato fondamentale dell’esistenza umana, viene ad essere immediatamente e profondamente colpito dal *peccato: «Mangerai il pane col sudore della tua fronte» (Gen 3, 19). La *maledizione divina non ha per oggetto il lavoro, come non ha per oggetto il partorire della donna. Come il parto è la *vittoria dolorosa della vita sulla morte, così la pena quotidiana e senza fine dell’uomo nel lavoro è il prezzo con cui egli deve pagare il potere che Dio gli ha dato sulla sua creazione; il potere sussiste, ma il suolo, maledetto, resiste e dev’essere domato (3, 17 s). In questa *sofferenza dello sforzo la cosa peggiore è che, se pure essa perviene talvolta a successi spettacolari, come quello di Salomone, giunge la *morte a renderla vana: «che ricava egli da tutta la sua fatica...? Ed i giorni di pena, e la preoccupazione degli affari, e le notti di insonnia? Anche questo è vanità» (Eccle 2, 22 s). Doloroso, sovente sterile, il lavoro è ancora nell’umanità uno dei campi in cui il peccato manifesta più ampiamente la sua potenza. Arbitrio, *violenza, ingiustizia, rapacità fanno costantemente del lavoro non soltanto un peso opprimente, ma un luogo di *odio e di divisioni. Operai privati del loro salario (Ger 22, 13; Giac 5, 4), contadini spogliati dall’imposta (Am 5, 11), popolazioni sottomesse al lavoro forzato da un governo nemico (2 Sam 12, 31), ma anche dal loro stesso sovrano (1 Sam 8, 10-18; 1 Re 5, 27; 12, 1-14), *schiavi condannati al lavoro ed alle percosse (Eccli 33, 25-29); in questo quadro sinistro non c’è sempre colpa personale, è semplicemente il mondo ordinario del lavoro nella stirpe di Adamo. Questo mondo Israele lo ha conosciuto nella sua forma più disumana, in *Egitto: lavoro forzato, ad un ritmo spossante, sotto una sorveglianza spietata, in mezzo ad una popolazione ostile, a vantaggio di un governo nemico, lavoro sistematicamente organizzato per annientare un popolo e togliergli ogni capacità di resistenza (Es 1, 8-14; 2, 11-15; 5, 6-18), è già «l’universo concentrazionario», il «campo di lavoro».
    III. LA REDENZIONE DEL LAVORO
    Ora Jahvè ha *liberato il suo popolo da questo universo disumano, frutto del peccato. La sua alleanza con Israele implica una serie di clausole destinate a preservare il lavoro, se non da tutto ciò che esso ha di penoso, almeno dalle forme mostruose che la malvagità dell’uomo gli conferisce. Il *sabato è fatto per introdurre una tregua nella gravosa successione dei lavori (Es 20, 9 ss), per assicurare all’uomo ed a tutto ciò che lavora sulla terra un tempo di *riposo (Es 23, 12; Deut 5, 14), sull’esempio di un Dio che si è rivelato come un Dio che lavora, un Dio che si riposa, un Dio che libera dalla schiavitù (Deut 5, 15). Parecchi articoli della legge sono destinati a proteggere lo *schiavo od il salariato, che dev’essere pagato il giorno stesso (Lev 19, 13) e non deve essere sfruttata (Deut 24, 14 s). I profeti ricorderanno queste esigenze (Ger 22, 13). Israele, se rimarrà fedele all’alleanza, non sarà dispensato dal lavoro, ma questo sarà fecondo, perché «Dio *benedirà l’opera delle sue mani» (Deut 14, 29; 16, 15; 28, 12; Sal 128, 2). Il lavoro produrrà il suo *frutto normale: colui che pianta una vigna, gusterà del suo frutto, colui che costruisce una casa, la abiterà (Am 9, 14; Is 62, 8 s; cfr. Deut 28, 30).
    IV. CRISTO E IL LAVORO
    La venuta di Gesù Cristo proietta sul lavoro i paradossi e le luci del vangelo. Nel NT il lavoro è nello stesso tempo magnificato e quasi ignorato o trattato dall’alto, come un particolare senza importanza. È magnificato dall’esempio di Gesù, operaio (Mc 6, 3) e figlio di operaio (Mt 13, 55), e dall’esempio di Paolo, che lavora con le sue mani (Atti 18, 3) e se ne gloria (Atti 20, 34; 1 Cor 4, 12). Tuttavia i vangeli osservano sul lavoro un silenzio sorprendente; non sembrano conoscere la parola se non per designare le *opere alle quali bisogna applicarsi, e cioè le opere di Dio (Gv 5, 17; 6, 28), o per dare come esempio gli uccelli del cielo «che non seminano e non mietono» (Mt 6, 26) ed i gigli del campo che «non lavorano e non filano» (6, 28). Questa poca importanza da una parte, e dall’altra questa importanza accordata al lavoro, non sono affatto dati contraddittori, ma sono due poli di un atteggiamento cristiano essenziale.
    1. Il lavoro caduco.
    - «Lavorate, non per il *nutrimento che perisce, ma per il nutrimento che resta per la vita eterna» (Gv 6, 27). Gesù Cristo viene a portare il *regno di Dio; non ha altra missione e non parla d’altro. E ciò perché questo regno passa dinanzi a tutto (Mt 6, 33). Il resto, come mangiare, bere, *vestirsi, non è senza importanza, ma chi se ne preoccupa a tal punto da non raggiungere il regno ha perso tutto, quando anche avesse conquistato l’universo (Lc 9, 25). Dinanzi all’assoluto che è il possesso di Dio, tutto il resto sparisce; in questo mondo, la cui «figura passa» (1 Cor 7, 31), conta soltanto ciò che «unisce totalmente al Signore» (7, 35).
    2. Valore positivo del lavoro.
    - Porre il lavoro al suo posto, distinto da Dio, non significa affatto svalorizzarlo, ma al contrario ridargli il suo vero valore nella *creazione. Ora questo valore è altissimo. Non soltanto Gesù, come Jahvè nel VT, desume titoli e paragoni dal mondo del lavoro: pastore, vignaiolo, medico, seminatore (Gv 10, 1 ss; 15, 1; Mc 2, 17; 4, 3), senza l’ombra di condiscendenza del Siracide, così tipica dell’intellettuale, per il lavoro delle mani, per la sua necessità ed i suoi limiti (Eccli 38, 32 ss), non soltanto Gesù presenta l’apostolato come un lavoro, quello della *messe (Mt 9, 37; Gv 4, 38) o della pesca (Mt 4, 19); non soltanto è attento al mestiere di coloro che sceglie (Mt 4, 18); ma, con tutto il suo comportamento, suppone un mondo al lavoro, l’agricoltore nel suo campo, la massaia alla sua scopa (Lc 15, 8), trova anormale lasciare nascosto un talento senza farlo fruttare (Mt 25, 14-30). Se gli capita di moltiplicare i pani - dei pani cotti nei nostri forni -, ci tiene a far vedere che è una eccezione, e che lascia all’uomo la cura di fabbricare e di cuocere il suo pane. Nello stesso spirito di adesione leale alla condizione umana, Paolo dirà di «evitare ogni fratello che vive nell’ozio», sotto pretesto che la parusia è vicina (2 Tess 3, 6).
    3. Valore cristiano del lavoro.
    - Cristo, nuovo *Adamo, permette all’umanità di compiere la missione di dominare il mondo (Ebr 2, 5 ss; Ef 1, 9 ss): salvando l’uomo, dà al lavoro il suo pieno valore. Ne rende l’obbligo più pressante, fondandolo sulle esigenze concrete dell’*amore soprannaturale; rivelando la vocazione dei figli di Dio, fa vedere tutta la dignità dell’*uomo e del lavoro che è al suo servizio, stabilisce una gerarchia di valori che permette di giudicare e di regolarsi nel lavoro. Instaurando il *regno che non è di questo *mondo, ma vi si trova come un fermento, egli restituisce la sua qualità spirituale al lavoratore, dà al suo lavoro le dimensioni della carità e fonda le relazioni generate dal lavoro sul principio nuovo della fraternità in Cristo (Filem). In virtù della sua legge d’amore (Gv 13, 34), obbliga a reagire contro l’egoismo ed a fare di tutto per diminuire la pena degli uomini al lavoro, e tuttavia, introducendo il cristiano nel mistero della sua *morte e delle sue *sofferenze, dà un nuovo valore a questa pena fatale.
    4. Il lavoro ed il nuovo universo.
    - Infine, quando alla parusia del Signore la sua *gloria di risorto rivestirà tutti i suoi eletti, il dominio dell’universo da parte dell’umanità sarà pienamente realizzato da lui ed in lui, senza l’ostacolo del peccato, della morte o della sofferenza. Ancor prima dell’ultimo giorno il lavoro, nella misura in cui è compiuto in Cristo, ha già la sua parte nel ritorno della *creazione a Dio. Lo *schiavo, che sopporta la sua condizione in Cristo, è già «un liberto del Signore» (1 Cor 7, 22) e prepara la creazione ad «essere anch’essa liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rom 8, 21). Ci sarà inoltre una permanenza dell’opera realizzata? La Scrittura non incoraggia nessun messianismo temporale: «Passa la figura di questo mondo» (1 Cor 7, 31), e la frattura tra lo stato attuale e lo stato futuro del mondo non lascia posto per un ordinamento che faccia passare senza sforzo nel mondo futuro. Tuttavia una certa permanenza dell’opera dell’uomo, in una forma impossibile da precisare, sembra essere nella linea delle affermazioni paoline sul dominio e la ricapitolazione dell’universo da parte di Cristo (Rom 8, 19 ss; Ef 1, 10; Col 1, 16- 20). Nessun testo ci permette di soddisfare una curiosità fatalmente ingenua e limitata, ma la Scrittura nel suo insieme ci invita a sperare che la creazione redenta e liberata rimanga sempre l’universo dei figli di Dio riuniti in Cristo.
    P. DE SURGY e J. GUILLET
    → nutrimento I, II - opere VT II 2 - preoccupazioni I - retribuzione - riposo - seminare I 2 a - settimana - terra VT I 2, II 3 a; NT II 3 - uomo I 1 b, III 4.

    LEALTÀ (inizio)

    → labbra 1 - menzogna - verità VT 2; NT 1.

    LEBBRA (inizio)

    Nella stessa categoria della lebbra propriamente detta (nega’, parola che significa anzitutto «piaga, colpo»), la Bibbia raggruppa sotto nomi diversi parecchie affezioni cutanee particolarmente contagiose, e persino la muffa delle vesti e dei muri (Lev 13, 47...; 14, 33...).
    1. La lebbra, impurità e castigo divino.
    - Per la legge, la lebbra è un’impurità contagiosa; perciò il lebbroso è escluso dalla comunità sino alla sua guarigione ed alla sua *purificazione rituale, che esige un sacrificio per il *peccato (Lev 13 - 14). Questa lebbra è la «piaga» per eccellenza con cui Dio colpisce (naga’) i peccatori. Israele ne è minacciato (Deut 28, 27. 35). Gli Egiziani ne sono colpiti (Es 9, 9 ss), e così pure Maria (Num 12, 10-15) ed Ozia (2 Cron 26, 19-23). Essa è quindi, per principio, un segno del peccato. Tuttavia, se il servo sofferente è colpito (naga’; Vg: leprosum) da Dio, per modo che ci si scosta da lui come da un lebbroso, si è perché, quantunque innocente, egli porta i peccati degli uomini che saranno guariti in virtù delle sue piaghe (Is 53, 3-12; cfr. Sal 73, 14).
    2. La guarigione dei lebbrosi.
    - Può essere naturale, ma anche avvenire per miracolo, come quella di Naaman nelle acque del Giordano (2 Re 5), segno della benevolenza divina e della potenza profetica. Gesù, quando guarisce i lebbrosi (Mt 8, 1-4 par.; Lc 17, 11-19), trionfa della piaga per eccellenza; ne guarisce gli uomini di cui prende su di sé le *malattie (Mt 8, 17). Purificando i lebbrosi e reinserendoli nella comunità, egli abolisce con un atto miracoloso la separazione tra il puro e l’impuro. Se prescrive ancora le offerte legali, lo fa a titolo di testimonianza: i sacerdoti constateranno in tal modo il suo rispetto della legge e nello stesso tempo il suo potere miracoloso. Unita alle altre guarigioni, quella dei lebbrosi è quindi un segno che egli è proprio «colui che deve venire» (Mt 11, 5 par.). Anche i Dodici, mandati da lui in missione, ricevono l’ordine ed il potere di mostrare con questo segno che il regno di Dio è giunto (Mt 10, 8).
    P. GRELOT
    → malattia-guarigione VT I 1 - puro VT I.

    LEGALISMO (inizio)

    → farisei - legge - puro NT I 1.2.

    LEGARE - SLEGARE (inizio)

    → autorità NT Il 1 - Chiesa III 2 c - perdono II 3.

    LEGGE (inizio)

    L’ebraico tôrah possiede un significato più largo, meno strettamente giuridico, del greco nòmos con cui l’hanno tradotto i Settanta. Designa un «insegnamento» dato da Dio agli uomini per regolare la loro condotta. Si applica innanzitutto all’insieme legislativo che la tradizione del VT collegava a Mosè. Fondandosi su questo senso della parola, classico nel giudaismo, il NT chiama «la legge» tutta l’economia di cui questa legislazione era la parte principale (Rom 5, 20), in opposizione al regime di grazia inaugurato da Gesù Cristo (Rom 6, 15; Gv 1, 7); tuttavia parla anche della «legge di Cristo» (Gal 6, 2). Il linguaggio della teologia cristiana distingue quindi i due Testamenti chiamandoli «legge antica» e «legge nuova». Per coprire l’insieme della storia della salvezza riconosce inoltre l’esistenza di un regime di «legge naturale» (cfr. Rom 2, 14 s) per tutti gli uomini che sono vissuti o vivono in margine ai due precedenti. Così tre tappe essenziali del disegno di Dio vengono ad essere caratterizzate dalla stessa parola, che ne sottolinea l’aspetto etico e istituzionale. Esse ci serviranno qui da filo conduttore.
    A. FINO A MOSÈ: LA LEGGE NATURALE
    L’espressione «legge naturale» non figura tale e quale nella Scrittura; ma la realtà designata vi si trova chiaramente, anche se la sua evocazione è fatta mediante procedimenti vari.
    1. Vecchio Testamento.
    - I cap. 1 - 11 della Genesi (ed i rari testi paralleli), forniscono una rappresentazione mediante immagini del regime religioso sotto il quale stavano gli uomini fino alla tappa decisiva delle promesse (Abramo ed i patriarchi) e della legge (Mosè). Fin dall’origine l’uomo è posto di fronte ad un precetto positivo che esprime per lui la *volontà di Dio (Gen 2, 16 s): in questo consiste precisamente la prova del paradiso, e la trasgressione di questo comandamento ha per conseguenza l’ingresso della morte nel mondo (3, 17 ss; cfr. Sap 2, 24; Rom 5, 12). In seguito, è evidente che l’uomo non è lasciato da Dio senza legge. Esiste per lui una regola morale, che Dio ricorda a Caino (Gen 4, 7) e che la generazione del diluvio viola (6, 5). Esistono pure precetti religiosi, dati a Noè con l’alleanza divina (9, 3-6), ed istituzioni cultuali messe in pratica dagli uomini di allora (4, 3 s; 8, 20). Secondo i loro atteggiamenti nei confronti di questa legge embrionale, gli uomini sono giusti (4, 3; 5, 24; 6, 9) o cattivi (4, 4; 6, 5. 11 s; 11, 1-9; cfr. Sap 10, 3 ss).
    2. Nuovo Testamento.
    - La presentazione paolina del disegno di salvezza non ignora questa tappa della storia sacra che va da Adamo a Mosè (Rom 5, 13 s). Di fatto il regime religioso che essa rappresenta è ancora quello sotto il quale sono poste le nazioni pagane, che non hanno avuto parte alla vocazione di Israele. Se Dio ha lasciato che seguissero le loro vie (Atti 14, 16; cfr. Rom 1, 24-31) e lo cercassero a tastoni (Atti 17, 27) durante il tempo dell’ignoranza (17, 30), esse tuttavia non erano senza conoscenza della sua volontà: la sua legge si rivelava ai pagani per mezzo della loro coscienza (Rom 2, 14 s). Con «legge», Paolo intende qui essenzialmente prescrizioni di ordine morale: su queste Dio giudica i pagani (1, 18; 2, 12); in base a queste li condanna perché, conoscendo il verdetto di Dio contro i delitti umani, se ne rendono tuttavia colpevoli (1, 32; cfr. già Am 1, 2 -2, 3). Ma, alla fonte di queste mancanze morali, Paolo denuncia il peccato religioso che rivela la vera natura della disobbedienza alla legge: *conoscere Dio senza rendergli *gloria (Rom 1, 21).
    B. MOSÈ E LA LEGGE ANTICA
    Separato dalle *nazioni, il *popolo del VT è stato posto da Dio sotto un altro regime: quello di una legge positiva, rivelata da Dio stesso, la tôrah di Mosè.
    I. DIVERSITÀ DELLA LEGGE
    1. Questa legge si deve cercare esclusivamente nei cinque libri del Pentateuco. La storia sacra che delinea il disegno di Dio dalle origini alla morte di Mosè è inframezzata da testi legislativi, che hanno come cornice la creazione (Gen 2, 2s), l’alleanza di Noè (9, 1-7), l’alleanza di Abramo (17, 9-14), l’esodo (Es 12, l-28. 43-51), l’alleanza del Sinai ed il soggiorno nel deserto (Es 20, 1-17; 20, 22 - 23, 32; 25 - 31; 34, 10-28; 35 - 40; tutto il Lev; Num 1, 1- 10, 28; 15; 17 - 19; 26 - 30; 35; Deut quasi tutto).
    2. Una simile massa di legislazione racchiude materiali di tutti gli ordini, perché la torah regola la vita del popolo di Dio in tutti i campi. Prescrizioni morali, particolarmente salienti nel decalogo (Es 20, 2-17; Deut 5, 6-21), ricordano le esigenze fondamentali della coscienza umana con una precisione ed una sicurezza che i filosofi dell’antichità pagana non hanno sempre raggiunto allo stesso livello in tutti i punti. Prescrizioni giuridiche, disperse in più codici, regolano il funzionamento delle istituzioni civili (familiari, sociali, economiche, giudiziarie). Ordinanze cultuali precisano infine quel che dev’essere il culto di Israele, con i suoi riti, i suoi ministri, la sue condizioni di funzionamento (regole di purità). Nulla è lasciato al caso; e poiché il popolo di Dio ha come sostegno una nazione particolare di cui assume le strutture, le istituzioni temporali di questa nazione dipendono anch’esse dal diritto religioso positivo.
    3. La stessa varietà si nota nella formulazione letteraria delle leggi. Taluni articoli di forma casistica (ad es. Es 21, 18 ...) appartengono ad un genere corrente negli antichi codici orientali: quello delle sentenze giuridiche che hanno dato loro origine. Altri (ad es. Es 21, 17) ricordano le maledizioni popolari che accompagnavano la cerimonia del rinnovamento dell’alleanza (Deut 27, 15...). I comandamenti di forma apodittica (ad es. il decalogo) costituiscono ordini diretti mediante i quali Dio fa conoscere la sua *volontà al proprio popolo. Infine taluni precetti motivati rassomigliano all’insegnamento sapienziale (ad es. Es 22, 25 s). Nell’insieme, sono i comandamenti a dare il tono. La torah di Israele si distingue così nettamente dagli altri codici, che sono soprattutto raccolte di sentenze giuridiche; appare innanzitutto come un insegnamento dato in modo imperativo in nome di Dio stesso.
    4. Tenuto conto di questa varietà, la legge nel VT riceve diversi nomi: *insegnamento (tôrah), *testimonianza, precetto, comandamento, decisione (o giudizio), *parola, *volontà, via di Dio (cfr. Sal 19, 8-11; 119 passim)... Di qui si vede che essa trascende in tutti i modi i limiti delle legislazioni umane.
    II. FUNZIONE DELLA LEGGE NEL VT
    1. La legge è in rapporto intimo con l’*alleanza.

    - Quando Dio, per mezzo dell’alleanza, fa di Israele il suo popolo particolare, a questa *elezione unisce *promesse la cui realizzazione dominerà la storia seguente (Es 23, 22-33; Lev 26, 3-13; Deut 28, 1-14). Ma pone anche delle condizioni: Israele dovrà obbedire alla sua voce ed osservare le sue prescrizioni; diversamente le *maledizioni divine cadranno su di esso (Es 23, 21; Lev 26, 14-45; Deut 28, 15-68). Effettivamente la cerimonia dell’alleanza comporta un impegno ad osservare la legge divina (Es 19, 7 s; 24, 7; cfr. Gios 24, 21-24; 2 Re 23, 3). Questa è quindi un elemento fondamentale dell’economia religiosa che prepara Israele alla venuta della salvezza. Le sue stesse esigenze, per quanto possano apparire dure, sono in realtà una grazia, perché mirano a fare di Israele il popolo sapiente per eccellenza (Deut 4, 5-8) ed a metterlo in comunione con la *volontà di Dio. Esse costituiscono una dura scuola, grazie alla quale il «popolo dalla dura cervice» fa l’apprendistato della santità che Dio si attende da lui. Ciò vale anzitutto per i comandamenti morali del decalogo, centro della torah; ma vale pure per le prescrizioni civili e cultuali, che ne traducono in concreto l’ideale nella cornice delle istituzioni israelitiche.
    2. Questo legame della legge con l’alleanza spiega come in Israele non ci sia altra legge che quella di Mosè. Infatti *Mosè è il *mediatore dell’alleanza su cui è fondata l’economia antica; è quindi anche il mediatore per mezzo del quale Dio fa conoscere al suo popolo le esigenze che ne derivano (Sal 103, 7). Questo fatto essenziale è reso nei testi in due modi. Nessun legislatore umano, neppure all’epoca di David e di Salomone, sostituisce od aggiunge mai la sua autorità a quella del creatore della nazione (neppure Ez 40-48, di ispirazione così mosaica, è stato inserito nella torah). Viceversa, i testi legislativi sono posti tutti in bocca a Mosè e nella cornice narrativa del soggiorno al Sinai.
    3. Ciò non vuol dire che la torah non si sia sviluppata col tempo. La critica interna vi distingue giustamente dei complessi letterari di tono e di carattere diverso. È il segno che l’eredità di Mosè è stata trasmessa attraverso canali diversi, correlativi alle fonti del Pentateuco. A più riprese esso è stato rimaneggiato, adattato ai bisogni dei tempi, completato in punti particolari. Il decalogo (Es 20, 1-17) ed il codice dell’alleanza (Es 20, 22 - 23, 33) sono così ripresi ed amplificati dal Deuteronomio (Deut 5, 2-21; 12-28) che fa vedere nell’*amore di Jahvè il primo comandamento al quale si riducono tutti gli altri (6, 4-9). Il codice di santità (Lev 17 - 26) tenta un’altra sintesi il cui motivo dominante è l’imitazione del Dio *santo (19, 1). Le successive riforme compiute dai re (1 Re 15, 12 ss; 2 Re 18, 3-6; 22, 1- 23, 25) prendono sempre per base una torah mosaica in corso di sviluppo e di approfondimento. L’opera finale di Esdra, in probabile rapporto con la fissazione definitiva del Pentateuco, non fa che consacrare il valore e l’autorità di questa legge tradizionale (cfr. Esd 7, 1-26; Neem 8) di cui Mosè ha fissato le basi e l’orientamento essenziale.
    III. ISRAELE DINANZI ALLA LEGGE
    Nel VT, la legge è presente dovunque: il popolo è posto costantemente di fronte alle sue esigenze; negli scrittori sacri essa appare continuamente nello sfondo del pensiero.
    1. I *sacerdoti sono, per funzione, i depositari e gli specialisti della torah (Os 5, 1; Ger 18, 18; Ez 7, 26): devono *insegnare al popolo le decisioni e le istruzioni di Jahvè (Deut 33, 10). Questo insegnamento dato nel santuario (Deut 31, 10 s) concerne evidentemente le materie cultuali (Lev 10, 10 s; Ez 22, 26; Agg 2, 11 ss; Zac 7, 3); ma ha pure di mira tutto ciò che riguarda la condotta della vita: interpreti di un deposito sacro, i sacerdoti hanno la missione di trasmettere la scienza religiosa, la conoscenza delle vie di Jahvè (Os 4, 6; Ger 5, 4 s). Da essi provengono quindi le compilazioni legislative; sotto la loro autorità si è effettuato lo sviluppo della torah.
    2. I *profeti, uomini della *parola mossi dallo *spirito di Dio, riconoscono l’autorità di questa torah, che rimproverano anche ai sacerdoti di trascurare (cfr. Os 4, 6; Ez 22, 26). Osea ne conosce i numerosi precetti (Os 9, 12), ed i peccati che denuncia sono innanzitutto violazioni del decalogo (4, 1 s). Geremia predica l’obbedienza alle «parole dell’alleanza» (Ger 11, 1-12) per favorire la riforma deuteronomica (2 Re 22). Ezechiele enumera peccati la cui lista pare desunta dal codice di santità (Ez 22, 1-16. 26). L’alta morale che viene loro riconosciuta non fa quindi che riprendere, approfondendole, le esigenze della torah mosaica.
    3. Non è sorprendente ritrovare lo stesso stato d’animo negli storici di Israele. Per i compilatori delle tradizioni antiche, l’alleanza sinaitica non è forse il vero punto di partenza della nazione? Quanto agli storici deuteronomici (Deut, Giud, Sam, Re), essi scrutano il senso degli eventi passati alla luce dei criteri forniti dal Deuteronomio. Lo storico sacerdotale del Pentateuco fa altrettanto secondo la tradizione legislativa del suo ambiente. Infine il Cronista, quando rifà a modo suo la storia della teocrazia israelitica, si lascia guidare dall’ideale che gli fornisce un Pentateuco finalmente fissato. Ad ogni modo, biasimi ed elogi sono distribuiti agli uomini antichi in base al loro atteggiamento nei confronti della torah. La storia così compresa diventa una *predicazione vivente che spinge il popolo di Dio alla fedeltà.
    4. Nei sapienti l’insegnamento della stessa torah viene sminuzzato in forme nuove: quella delle massime, nei Proverbi e nel Siracide; quella di biografia esemplare, nel libro di Tobia. Più ancora, il Siracide proclama esplicitamente che la *sapienza autentica non è altro che la legge (Eccli 24, 23 ...); essa ha posto la sua tenda in Israele quando la legge fu data da Mosè (24, 8...). In un giudaismo diventato infine fedele dopo la prova dell’esilio, i salmisti possono quindi cantare la grandezza della legge divina (Sal 19, 8...), dono supremo che Dio non ha fatto a nessun’altra nazione (Sal 147, 19 s). Proclamando il loro amore per essa (Sal 119), lasciando intravvedere il loro amore per Dio stesso, manifestando in modo eccellente ciò che costituisce a quest’epoca il fondo della *pietà giudaica.
    5. Infatti, dopo Esdra, la comunità di Israele pone definitivamente la torah al centro della propria vita. Si può misurare il fervore di questo attaccamento quando si vede Antioco Epifane tentare di mutare i *tempi sacri e la legge (Dan 7, 25; 1 Mac 1, 41-51). Allora l’amore della torah fa dei martiri (1 Mac 1, 57-63; 2, 29-38; 2 Mac 6, 18-28; 7, 2...). Certamente, accanto ad essi, vi sono pure dei traditori che si ellenizzano; ma la rivolta maccabaica, suscitata dallo «zelo della legge» (1 Mac 2, 27), restaura infine l’ordine tradizionale, che ormai non sarà più discusso. Il solo problema, che dividerà tra loro i dottori e le sette, sarà quello dell’interpretazione di questa torah, in cui tutti vedranno la sola regola divina della vita. Mentre i Sadducei si atterranno alla torah scritta, di cui i sacerdoti saranno ai loro occhi i soli interpreti autentici, i Farisei riconosceranno uguale autorità alla torah orale, cioè alla *tradizione degli antenati, e la setta di Qumrân (probabilmente essenica) andrà ancora oltre nel suo culto del legislatore (cioè di Mosè), che interpreterà secondo criteri propri. Questo attaccamento alla legge costituisce la grandezza del giudaismo. Tuttavia comporta parecchi pericoli. Il primo è di mettere sullo stesso piano tutti i precetti, religiosi e morali, civili e cultuali, senza ordinarli correttamente attorno a ciò che dovrebbe esserne sempre il centro (Deut 6, 4...). Trasformato in nomismo minuzioso ed abbandonato alle sottigliezze dei casisti, il culto della legge impone allora agli uomini un giogo impossibile da portare (Mt 23, 4; Atti 15, 10). Il secondo pericolo, ancor più radicale, è di fondare la *giustizia dell’uomo di fronte a Dio non sulla *grazia divina, ma sull’obbedienza ai comandamenti e sulla pratica delle buone *opere, come se l’uomo fosse capace di *giustificarsi da solo. Questi due problemi il NT dovrà attaccarli di fronte.
    IV. VERSO UNA LEGGE NUOVA
    Già lo stesso VT attestava che negli ultimi tempi, con la nuova alleanza, la legge avrebbe subìto anch’essa una profonda trasformazione. Quella torah che il Dio di Israele avrebbe insegnato a tutti i popoli sul suo *monte santo (Is 2, 3), quella regola che il *servo di Jave avrebbe portato sulla terra (Is 42, 1. 4), non avrebbero superato in valore religioso quelle che Mosè aveva dato? È vero che nessuna precisazione viene data dagli oracoli profetici circa il suo contenuto esatto: soltanto Ezechiele ne tenta un abbozzo in uno spirito quanto mai tradizionalista (Ez 40 - 48). Ma ciò che viene affermato è che il rapporto degli uomini e della legge sarà modificato. Non si tratterà più soltanto di una legge esterna all’uomo, scolpita su tavole di pietra: essa sarà scritta in fondo ai cuori, in modo che tutti abbiano la conoscenza di Jahvè (Ger 31, 33) che mancava al popolo dell’antica alleanza (Os 4, 2). Infatti anche i cuori saranno mutati e, sotto l’impulso interno dello *spirito divino, gli uomini osserveranno infine le leggi e le disposizioni di Dio (Ez 36, 26 s). Tale sarà la nuova legge che Cristo apporterà al mondo.
    C. GESÙ E LA NUOVA LEGGE
    I. L’ATTEGGIAMENTO PERSONALE DI GESÙ
    1. Nei confronti della legge antica, l’atteggiamento di Gesù è netto ma con sfumature diverse. Se egli si oppone con forza alla *tradizione degli antichi, di cui gli scribi ed i *farisei sono i paladini, non fa però altrettanto per la legge. Al contrario: rifiuta questa tradizione perché porta gli uomini a violare la legge e ad annullare la *parola di Dio (Mc 12, 28-34 par.). Ora, nel *regno di Dio, la legge non dev’essere abolita, ma portata a *compimento sino all’ultimo iota (Mt 5, 17 ss), e Gesù stesso l’osserva (cfr. 8, 4). Nella misura in cui gli scribi sono fedeli a Mosè, la loro *autorità deve quindi essere riconosciuta, anche se non bisogna imitare la loro condotta (23, 2 s). E tuttavia, annunziando il *vangelo del regno, Gesù inaugura un regime religioso radicalmente *nuovo: la legge ed i profeti hanno avuto fine con *Giovanni Battista (Lc 16, 16 par.); il vino del vangelo non può essere versato negli otri vecchi del regime sinaitico (Mc 2, 21 s par.). In che consiste quindi il compimento della legge che Gesù apporta sulla terra? Anzitutto nel rimettere in ordine i diversi precetti. Tale ordine differisce molto dalla gerarchia dei valori che gli scribi hanno stabilita, trascurando il principale (giustizia, misericordia, buona fede) per salvare l’accessorio (Mt 23, 16-26). Inoltre le imperfezioni che la legge antica comportava ancora a a motivo della durezza dei cuori» (19, 8) devono sparire nel regno: la regola di condotta che vi si osserverà è una legge di *perfezione, ad imitazione della perfezione di Dio (5, 21-48). Ideale impraticabile se lo si commisura alla condizione attuale dell’uomo (cfr. 19, 10). Gesù quindi, assieme a questa legge, apporta un *esempio trascinatore ed una *forza interna che permetterà di osservarla: la forza dello Spirito (Atti 1, 8; Gv 16, 13). Infine, la legge del regno si riassume nel duplice comandamento, già formulato anticamente, che prescrive all’uomo di *amare Dio e di amare il *prossimo come se stesso (Mc 12, 28-34 par.); tutto viene ordinato attorno a questo, tutto ne deriva. Nei rapporti degli uomini tra loro, questa regola aurea di carità positiva contiene la legge e i profeti (Mt 7, 12).
    2. Attraverso queste prese di posizione, Gesù appare già sotto i tratti di un legislatore. Senza contraddire affatto. *Mosè, lo spiega, lo continua, ne perfeziona gli insegnamenti; come quando proclama la superiorità dell’uomo sul *sabato (Mc 2, 23-27 par.; Gv 5, 18; 7, 21 ss). Capita tuttavia che, andando oltre la lettera dei testi, egli vi oppone norme nuove; ad esempio, sconvolge le regole del codice di purità (Mc 7, 15-23 par.). Simili atteggiamenti stupiscono i suoi uditori, perché contraddicono quelli degli scribi e rivelano la consapevolezza di un’autorità singolare (1, 22 par.). Ora Mosè si eclissa; nel regno non c’è più che un solo dottore (Mt 23, 10). Gli uomini devono ascoltare la sua parola e metterla in pratica (7, 24 ss), perché in tal modo faranno la *volontà del Padre (7, 21 ss). E come i Giudei fedeli, secondo l’espressione rabbinica, si addossavano il giogo della legge, così ora bisogna prendere il giogo di Cristo e mettersi alla sua scuola (11, 29). Più ancora, come la sorte eterna degli uomini era sino allora determinata dal loro atteggiamento nei confronti della legge, così ormai lo sarà dal loro atteggiamento nei confronti di *Gesù (10, 32 s). Indubbiamente c’è qui più che Mosè; la nuova legge annunziata dai profeti è ora promulgata.
    II. IL PROBLEMA NEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO
    1.
    Gesù non aveva condannato la pratica della legge giudaica; vi si era persino conformato per l’essenziale, sia che si trattasse dell’imposta del tempio (Mt 17, 24-27) oppure della legge della Pasqua (Mc 14, 12 ss). Tale fu pure dapprima l’atteggiamento della comunità apostolica, assidua al tempio (Atti 2, 46), della quale le folle giudaiche a celebravano le lodi» (5, 13). Pur usando di talune libertà che l’esempio di Gesù autorizzava (9, 43), vi si osservavano le prescrizioni legali, si assumevano persino pratiche di pietà supererogatorie (18, 18; 21, 23 s), e non mancavano tra i fedeli dei fautori zelanti della legge (21, 20).
    2. Ma un nuovo problema venne a porsi quando dei pagani circoncisi aderirono alla fede senza passare attraverso al giudaismo. Pietro stesso battezzò il centurione Cornelio, dopo che una visione divina gli ebbe ordinato di considerare *puri coloro che Dio ha purificati mediante la fede ed il dono dello Spirito (Atti 10). L’opposizione degli zelatori della legge (11, 2 s) cadde dinanzi all’evidenza di un intervento divino (11, 4-18). Ma una conversione in massa di Greci ad Antiochia (11, 20), avallata da Barnaba e Paolo (11, 22-26), riaccese la disputa. Osservatori venuti da Gerusalemme, e più precisamente dall’ambiente di Giacomo (Gal 2, 12), vollero costringere i convertiti all’osservanza della torah (Atti 15, 1 s. 5). Pietro, in visita alla Chiesa di Antiochia, si destreggiò dinanzi a questa difficoltà (Gal 2. 11 s). Il solo Paolo si levò per affermare la *libertà dei pagani convertiti nei confronti delle pratiche legali (Gal 2, 14-21). In una riunione plenaria tenutasi a Gerusalemme, Pietro e Giacomo gli diedero infine ragione (Atti 15, 7-19): Tito, compagno di Paolo, non fu neppure costretto alla *circoncisione, e la sola condizione posta alla comunione cristiana fu un’*elemosina per la Chiesa-madre (Gal 2, 1-10). Vi si aggiunse una regola pratica, destinata a facilitare la comunanza di mensa nelle Chiese di Siria (Atti 15, 20 s; 21, 25). Tuttavia questa decisione liberatrice lasciò sussistere negli zelatori della legge un sordo malcontento nei confronti di Paolo (cfr. 21, 21).
    III. IL PENSIERO DI S. PAOLO
    Nel suo apostolato in terra pagana, Paolo ritrova presto questi oppositori giudeo-cristiani, specialmente in Galazia dove hanno organizzato sulle sue orme una contromissione (Gal 1, 6 s; 4, 17 s). Ciò gli offre l’occasione di esporre il suo pensiero sulla legge.
    1. Paolo è predicatore dell’unico vangelo. Ora, secondo questo, l’uomo non è giustificato che mediante la *fede in Cristo-Gesù e non in virtù delle *opere della legge (Gal 2, 16; Rom 3, 28). La portata di questo principio è duplice. Da una parte Paolo denuncia l’inutilità delle pratiche cultuali proprie del giudaismo - circoncisione (Gal 6, 12) ed osservanze (4, 10); la legge così intesa si riduce alle istituzioni dell’antica alleanza. Dall’altra parte Paolo combatte una rappresentazione falsa dell’economia della salvezza, secondo la quale l’uomo meriterebbe la *giustificazione con la sua osservanza della legge divina, mentre in realtà è giustificato gratuitamente dal *sacrificio di Cristo (Rom 3, 21-26; 4, 4 s); qui sono in causa anche i comandamenti di ordine morale.
    2. Ciò posto, ci si può chiedere quale fu la ragion d’essere di questa legge nel *disegno di salvezza. Di fatto, è incontestabile che essa viene da Dio; benché data agli uomini per mezzo degli angeli, il che è un segno della sua inferiorità (Gal 3, 19), essa è santa e spirituale (Rom 7, 12. 14), è uno dei privilegi di Israele (9, 4). Ma, di per sé, è impotente a salvare l’uomo carnale, venduto al potere del peccato (7, 14). Anche se la si considera sotto l’aspetto morale, essa non fa che dare la conoscenza del bene e non la forza di compierlo (7, 16 ss), la conoscenza del peccato (3, 20; 7, 7; 1 Tim 1, 8) e non il potere di sottrarvisi: i Giudei che la posseggono e cercano la sua *giustizia (Rom 9, 31), sono peccatori allo stesso titolo dei pagani (2, 17-24; 3, 1-20). Invece di liberare gli uomini dal male, essa, per così dire, ve li immerge; li vota ad una *maledizione cui soltanto Cristo può sottrarli prendendola su di sé (Gal 3, 10-14). Tutrice e pedagogo del popolo di Dio in stato d’infanzia (3, 23 s; 4, 1 ss), essa gli faceva desiderare una giustizia impossibile, per fargli meglio comprendere il suo bisogno assoluto dell’unico salvatore.
    3. Una volta venuto questo salvatore, il popolo di Dio non è più soggetto al pedagogo (Gal 3, 25). Liberando l’uomo dal peccato (Rom 6, 1-19), Cristo lo *libera pure dalla tutela della legge (7, 1-6). Toglie la contraddizione interna che rendeva la *coscienza umana prigioniera del male (7, 14-25); in tal modo pone fine al regime provvisorio: è il termine della legge (10, 4) perché fa accedere i credenti alla giustizia della *fede (10, 5-13). Che vuol dire ciò? Che ormai non c’è più regola di condotta concreta per coloro che credono in Cristo? Niente affatto. Se è vero che le regole giuridiche e cultuali relative alle istituzioni di Israele sono abrogate, l’ideale morale dei comandamenti sussiste, riassunto nel precetto dell’amore che è il compimento e la pienezza della legge (13, 8 ss). Ma questo stesso ideale si distacca dall’economia antica. È trasfigurato dalla presenza di Cristo che lo ha realizzato nella sua vita. Diventato «legge di Cristo» (Gal 6, 2; cfr. 1 Cor 9, 21), non è più esterno all’uomo: lo *Spirito di Dio lo scolpisce nei nostri cuori quando vi effonde la carità (Rom 5, 5; cfr. 8, 14 ss). La sua attuazione è il frutto normale dello Spirito (Gal 5, 16-23). S. Paolo si pone in questa prospettiva quando delinea un quadro dell’ideale morale che s’impone al cristiano. Può allora enumerare regole di condotta tanto più esigenti, in quanto hanno come scopo la *santità cristiana (1 Tess 4, 3); può persino entrare nella casistica, cercando una luce nelle parole di Gesù (1 Cor 7, 10). Questa legge nuova non è più come l’antica. Realizza la promessa di un’alleanza scritta nei cuori (2 Cor 3, 3).
    IV. GLI ALTRI SCRITTI APOSTOLICI
    1. La lettera agli Ebrei considera la legge, cioè l’economia antica, sotto l’aspetto del *culto. L’autore conosce le cerimonie che si compiono secondo le sue prescrizioni (Ebr 7, 5 s; 8, 4; 9, 19. 22; 10, 8). Ma sa pure che questa legge non ha potuto raggiungere lo scopo cui mirava, la santificazione degli uomini: la legge non ha portato nulla a perfezione (7, 19). Di fatto non racchiudeva che l’ombra dei beni futuri (10, 1), *figura imperfetta del sacrificio di Gesù; la nuova economia, invece, contiene la realtà di questi beni, messa alla nostra portata sotto una immagine (10, 1) che li comunica manifestandoli sensibilmente. Perciò, nello stesso tempo che il *sacerdozio di Gesù si sostituiva ad un sacerdozio provvisorio, si è prodotto un mutamento di legge (7, 12). E con ciò si è realizzata la promessa profetica di una legge scritta nei cuori (8, 10; 10, 16).
    2. La lettera di Giacomo non parla della legge che sotto l’aspetto delle sue prescrizioni morali, avallate dall’insegnamento di Gesù. Così intesa, la legge non è più un elemento dell’economia antica, ormai abrogata. È la legge perfetta di *libertà, alla quale siamo sempre soggetti (Giac 1, 25). Ha come vertice la legge sovrana dell’*amore (2, 8); ma nessuna delle altre sue prescrizioni dev’essere dimenticata, altrimenti si diventerebbe trasgressori e si sarebbe giudicati in base ad essa (2, 10-13; cfr. 4, 11). La nuova legge non è meno esigente per l’uomo dell’antica.
    3. Nel vocabolario di Giovanni la parola legge designa sempre la legge di Mosè (Gv 1, 17. 45; 7, 19. 23), la legge dei Giudei (7, 49. 51; 12, 34; 18, 31; 19, 7), «la vostra legge», come dice Gesù (8, 17; 10, 34). A quest’uso peggiorativo si oppone quello della parola «comandamento». Gesù stesso ha ricevuto dal Padre dei comandamenti e li ha osservati, perché sono vita eterna (12, 49 s). Ha ricevuto il comandamento di dare la sua vita, il che costituisce l’amore maggiore (15, 13); ora questo comandamento era il segno stesso dell’amore del Padre per lui (Gv 10, 17 s). Così pure i cristiani devono a loro volta osservare i comandamenti di Dio (1 Gv 3, 22). Questi comandamenti consistono nel credere in Cristo (1 Gv 3, 23) e nel vivere nella verità (2 Gv 4). Non sono diversi da quelli di Cristo stesso, la cui dottrina viene dal Padre (Gv 7, 16 s): *obbedire ai comandamenti di Dio e custodire la *testimonianza di Gesù è la stessa cosa (Apoc 12, 17; 14, 12). Perciò Giovanni è attento nel ricordare i comandamenti personali di Gesù. Bisogna osservarli per conoscerlo veramente (1 Gv 2, 3 s), per avere il suo amore in noi (1 Gv 2, 5), per *rimanere nel suo *amore (Gv 14, 15; 2 Gv 5), così come egli osserva i comandamenti del Padre suo e rimane nel suo amore (Gv 15, 10). Osservare i comandamenti: ecco il segno del vero amore (Gv 14, 21; 1 Gv 5, 2 s; 2 Gv 6). Tra questi comandamenti ve n’è uno che è il comandamento per eccellenza, antico e nuovo nello stesso tempo: quello dell’amore *fraterno (Gv 13, 34; 15, 12; 1 Gv 2, 7 s) derivante dall’amore di Dio (1 Gv 4, 21). Con ciò la testimonianza di Giovanni si congiunge a quella di Paolo e degli altri evangelisti. Con l’abrogazione della legge, esautorata dopo che Gesù è stato condannato secondo le sue prescrizioni (Gv 18, 31; 19, 7), è nata una nuova legge, che è di natura diversa e si collega alla parola di Gesù. Essa rimane per sempre la regola della vita cristiana.
    P. GRELOT
    → alleanza VT I 2; NT II 1 - autorità VT I 2 - bene e male III 1 - carne II 2 a - compiere VT 1; NT 2 - coscienza - diritto VT 1; NT - educazione 0, I 2 a - farisei - fede NT III 1 - giudeo I 1 - giustificazione II 1 - giustizia - grazia 0 - insegnare - liberazione-libertà II 2 c - libro II - luce e tenebre VT II 2.3 - Mosè 0-3 - morte NT I 2 - obbedienza II 3, IV - opere NT II 1 - parola di Dio VT II 1 a - perfezione VT 3; NT 1 - prigionia II - profeta VT III 1 - promesse II 2 - puro VT I; NT I 1 - responsabilità 2 - rivelazione VT I 1 a - sacerdozio VT II 2; NT I 1 - sapienza VT I 3 - schiavo - scrittura V - testimonianza VT II 2, III - via I 2 - volontà di Dio 0; VT I 1.

    LEGNO (inizio)

    → albero 3 - croce I, II 3.

    LETTERA E SPIRITO (inizio)

    → alleanza NT II 1 - legge - scrittura IV, V.

    LEVIATHAN (inizio)

    → bestie e Bestia.

    LEVITA (inizio)

    → Aronne - elezione VT I 3 c - insegnare VT I 2 - primizie II - sacerdozio VT I.

    LIBAGIONE (inizio)

    → pane II 1 - sacrificio - vino I 2.

    LIBERAZIONE - LIBERTÀ (inizio)

    «Voi certo siete stati chiamati alla libertà, o fratelli» (Gal 5, 13): è questo uno degli aspetti essenziali del vangelo della *salvezza; Gesù è venuto ad «annunziare ai prigionieri la liberazione, a mettere in libertà gli oppressi» (Lc 4, 18). Il suo intervento è efficace per tutti: pagani di una volta, convinti di essere governati dal fato, e Giudei che rifiutavano di riconoscersi schiavi (Gv 8, 33), e anche uomini di oggi che confusamente aspirano ad una liberazione definitiva. Ma c’è libertà e libertà, e la Bibbia non ne dà nessuna definizione. Nondimeno, afferma implicitamente che l’uomo è dotato del potere di rispondere, con una libera scelta, alle intenzioni di Dio su di lui (I); e soprattutto, traccia la via dell’autentica libertà; Jahvè, nel VT, interviene per assicurare la liberazione del suo popolo (II); nel NT, la grazia di Cristo apporta a tutti gli uomini la libertà dei figli di Dio (III).
    I. LA LIBERTÀ DELL’UOMO
    Potrebbe sembrare che taluni testi biblici disconoscano nell’uomo l’esistenza di una reale libertà di scelta, tanto gli autori sacri insistono sulla sovranità della *volontà di Dio (Is 6, 9 s; Rom 8, 28 ss; 9, 10-21; 11, 33-36). Ma qui occorre tener conto della tendenza, propria del pensiero semitico, a considerare direttamente la causalità divina, senza menzionare le cause seconde, che tuttavia non sono negate (cfr. Es 4, 21; 7, 13 s: 1’*indurimento del faraone); conviene d’altra parte distinguere diversi gradi e modalità nella volontà di Dio: non allo stesso modo vuole la salvezza di tutti gli uomini (1 Tim 2, 4) o la morte eterna del peccatore impenitente (cfr. Ez 18, 23). L’affermazione paolina della «libertà dell’elezione divina» (Rom 9, 11) e della *predestinazione (8, 29 s) non autorizza a concludere per il carattere illusorio della libertà umana. Di fatto, tutta la tradizione biblica considera l’uomo capace di prendere delle libere decisioni: fa costantemente appello al suo potere di scelta, e nello stesso tempo sottolinea la sua responsabilità fin dal racconto del primo peccato (Gen 2 - 3; cfr. 4, 7). È in facoltà dell’uomo scegliere tra la benedizione e la maledizione, tra la vita e la morte (cfr. Deut 11, 26 ss; 30, 15-20), *convertirsi, e questo sino al termine della sua esistenza (Ez 18, 21-28; Rom 11, 22 s; 1 Cor 9, 27). Ciascuno può impegnarsi e perseverare nella via che porta alla vita (Mt 7, 13 s). Il Siracide rigetta espressamente le scuse del fatalista: «Non dire: “È il Signore che mi fa peccare”, perché egli non fa ciò che ha in orrore... Se tu vuoi, osserverai i comandamenti: il restare fedele è in tuo potere» (Eccli 15, 11. 15; cfr. Giac 1, 13 ss). E Paolo protesta con indignazione contro i propositi blasfemi del peccatore che pretende di tacciare di ingiustizia Dio che lo condanna giustamente (Rom 3, 5-8; 9, 19 s). Gli autori sacri non hanno fatto sparire l’apparente antinomia tra la sovranità divina e la libertà umana, ma ne hanno detto abbastanza da far capire che la grazia di Dio e la libera obbedienza dell’uomo sono entrambe necessarie per la salvezza. Paolo lo considera vero nella sua propria vita (Atti 22, 6-10; 1 Cor 15, 10) come in quella di ogni cristiano (Fil 2, 12 s). Il mistero sussiste ai nostri occhi, ma Dio conosce il segreto di inclinare il nostro cuore senza violentarlo e di attirarci a sé senza costringerci (cfr. Sal 119, 36; Ez 36, 26 s; Os 2, 16 s; Gv 6, 44).
    II. LA LIBERAZIONE DI ISRAELE
    1. L’uscita dall’Egitto.
    - Un avvenimento fondamentale sta alle origini del popolo eletto: la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto operata da Dio (Es 1- 15). Soprattutto a questo proposito il VT usa due verbi caratteristici, il primo dei quali (ga’al: Es 6, 6; Sal 74, 2; 77, 16) è un termine di *diritto familiare, mentre il secondo (padah: Deut 7, 8; 9, 26; Sal 78, 42) appartiene originariamente al diritto commerciale («consegnare dietro corresponsione dell’equivalente»). Ma i due verbi sono praticamente sinonimi quando hanno Dio come soggetto, e per lo più la versione dei LXX li ha tradotti allo stesso modo (con lytroùsthai, spesso reso in latino con redimere). L’etimologia del verbo greco (lýtron, «riscatto») non deve ingannare circa il suo significato: il complesso dei testi biblici indica che la prima *redenzione fu una liberazione vittoriosa e Jahvè non pagò alcun riscatto agli oppressori di Israele.
    2. Dio, il «Gô’el» d’Israele.
    - Dopo che le infedeltà del popolo di Dio ebbero portato alla distruzione di Gerusalemme ed all’*esilio, la liberazione dei Giudei deportati a *Babilonia fu una seconda redenzione, la cui buona novella costituisce il messaggio principale di Is 40 - 55. Jahvè, il santo d’Israele, è il suo «liberatore», il suo gô’el (Is 43, 14; 44, 6. 24; 47, 4; cfr. Ger 50, 34). Nell’antico diritto ebraico, il gô’el è il parente prossimo a cui incombe il dovere di difendere i suoi, sia che si tratti di mantenere il patrimonio familiare (Lev 25, 23 ss), di liberare un «fratello» caduto in schiavitù (Lev 25, 23 ss), di proteggere una vedova (Rut 4, 5), oppure di *vendicare un parente assassinato (Num 35, 19 ss). L’uso del titolo gô’el in Is 40 - 55 suggerisce la persistenza d’un legame di parentela tra Jahvè e Israele: per l’*alleanza contratta al tempo del primo *esodo (cfr. già Es 4, 22), la nazione eletta rimane, nonostante le colpe, la *sposa di Jahvè (Is 50, 1). Tra le due liberazioni il parallelismo è manifesto (cfr. Is 10, 25 ss; 40, 3); come la prima, anche la seconda è gratuita (Is 45, 13; 52, 3), e la *misericordia di Dio vi è ancor più manifesta, dato che l’esilio era il *castigo dei peccatori del popolo.
    3. L’attesa della liberazione definitiva.
    - Altre prove dovevano ancora abbattersi sul popolo eletto, che nelle tribolazioni non cesserà d’invocare il soccorso di Dio (cfr. Sal 25 21; 44, 27), e di ricordarsi della prima redenzione, pegno sicuro e *figura di tutte le altre: «Non trascurare quella porzione che ti sei liberato dalla terra d’Egitto» (preghiera di Mardocheo in Est 4, 17 g LXX; cfr. 1 Mac 4, 8-11). Gli ultimi secoli precedenti la venuta del Messia sono contraddistinti dall’attesa della «liberazione definitiva» (traduzione del Targum in Is 45, 17; cfr. Ebr 9, 12), e le preghiere più ufficiali del giudaismo chiedono al gô’el di Israele di affrettarne il giorno. Più di un Giudeo, senza dubbio, attendeva soprattutto dal Signore la liberazione dal giogo imposto dalle nazioni alla terra santa, e forse anche i pellegrini di Emmaus pensavano che questa fosse la missione di «colui che deve liberare Israele» (Lc 24, 21). Ciò non toglie che l’élite spirituale (cfr. Lc 2, 38) potesse infondere in questa *speranza un contenuto religioso più autentico, quale era già espresso nella conclusione del Sal 130, 8: «Jahvè redimerà Israele da tutte le sue colpe». La vera liberazione implicava infatti la purificazione del *resto chiamato a partecipare alla santità del suo Dio (cfr. Is 1, 27; 44, 22; 59, 20).
    4. Prolungamenti personali e sociali.
    - Su di un piano personale, la liberazione operata da Dio in favore del suo popolo si prolunga e si rinnova in certo modo nella vita di ogni fedele (cfr. 2 Sam 4, 9: «Per la vita di Jahvè che mi ha liberato da ogni pericolo»), ed è questo un tema frequente della preghiera dei Salmi. Talvolta il salmista si esprime in termini generici senza specificare il pericolo cui è od è stato esposto (Sal 19, 15; 26, 11); altre volte dice di essere alle prese con avversari che attentano alla sua vita (Sal 55, 19; 69, 19), oppure la sua preghiera è quella di un malato grave che sarebbe morto senza l’intervento di Dio (Sal 103, 3 s). Ma già si notano i segni precursori d’una speranza più profondamente religiosa (cfr. Sal 31, 6; 49, 16). Sul piano sociale, la legislazione biblica è anch’essa contrassegnata dal ricordo della prima liberazione d’Israele, soprattutto nella corrente deuteronomista; lo *schiavo ebreo doveva essere lasciato libero il settimo anno, a ricordo di quanto Jahvè aveva fatto per i suoi (Deut 15, 12-15; cfr. Ger 34, 8-22). Però la legge non era sempre rispettata, ed anche dopo il ritorno dall’esilio Neemia dovrà insorgere contro l’esosità di alcuni suoi compatrioti che non esitavano a ridurre in schiavitù i loro fratelli «riscattati» (Neem 5, 1-8). E tuttavia «rimandare liberi gli oppressi e rompere ogni giogo», è una delle forme del «*digiuno accetto a Jahvè» (Is 58, 6).
    III. LA LIBERTÀ DEI FIGLI DI DIO
    1. Cristo nostro liberatore.
    - La liberazione d’Israele non era che la prefigurazione della redenzione cristiana. Cristo, infatti, instaura il regime della perfetta e definitiva libertà per tutti coloro che, Giudei e pagani, aderiscono a lui nella fede e nella carità. Paolo e Giovanni sono i principali araldi della libertà cristiana. Il primo la proclama specialmente nella lettera ai Galati: «Affinché fossimo liberi, Cristo ci ha dato la libertà... Voi certo siete stati chiamati alla libertà, o fratelli» (Gal 5, 1- 13; cfr. 4, 26. 31; 1 Cor 7, 22; 2 Cor 3, 17). Giovanni poi insiste sul principio della vera libertà, la *fede che accoglie la parola di Gesù: «la verità vi farà liberi;... se, dunque, il Figlio vi farà liberi, sarete realmente liberi» (Gv 8, 32. 36).
    2. Natura della libertà cristiana.
    - Pur avendo ripercussioni sul piano sociale - la lettera a Filemone ne è una splendida prova -, la libertà cristiana sta su di un piano più alto: è accessibile agli *schiavi come agli uomini liberi, senza presupporre un cambiamento di condizione (1 Cor 7, 21). Tale fatto, per il mondo greco-romano dove la libertà civile costituiva il fondamento stesso della dignità, assumeva l’aspetto d’un paradosso; ma in tal modo si manifestava il valore molto più radicale della liberazione offerta da Cristo. Questa non si confonde neppure con l’ideale dei sapienti, stoici o altri, che mediante la riflessione e lo sforzo morale cercavano di acquistare la perfetta padronanza di sé e di stabilirsi in una imperturbabile pace interiore. Lungi dall’essere frutto di dottrine astratte e fuori del tempo, la liberazione del cristiano deriva da un avvenimento storico, la morte vittoriosa di Gesù, e da un contatto personale, l’adesione a Cristo nel battesimo. La sua efficacia si manifesta in un triplice campo: riguardo al peccato, alla morte, alla legge.
    a) Il peccato è il vero despota, al cui giogo Gesù Cristo ci strappa. In Rom 1- 3, Paolo descrive quanto fosse dura la tirannia universale che il *peccato esercitava sul mondo: ma lo fa per mettere in maggior risalto la sovrabbondanza della *grazia (Rom 5, 15. 20; 8, 2). Associandoci al mistero della morte e della risurrezione di Cristo, il *battesimo ha posto fine al nostro servaggio (Rom 6, 6). Con questa liberazione si realizza ciò che costituiva l’essenza dell’attesa del VT, qual era intesa dall’élite d’Israele (cfr. Lc 1, 68-75). Paolo, citando Is 59, 20, secondo i LXX, ne coglie bene il carattere spirituale: «Verrà da Sion il liberatore; egli rimuoverà le empietà da Giacobbe» (Rom 11, 26). Ed in un altro passo l’apostolo rivela ai pagani il «mistero» della loro piena partecipazione ai privilegi del popolo eletto; le meraviglie della prima liberazione si sono rinnovate per tutti noi: «Dio ci ha sottratti al potere delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del suo Figlio diletto, per il quale abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati» (Col 1, 13 s).
    b) La morte. - Comparsa immancabile del peccato (Gen 2, 17; Sap 2, 23 s; Rom 5, 12), la *morte è anch’essa vinta; ha perduto il suo pungiglione (1 Cor 15, 56). I cristiani non sono più schiavi del suo timore (Ebr 2, 14 s). A questo riguardo certo, la liberazione non sarà perfetta se non con la *risurrezione gloriosa (1 Cor 15, 26. 54 s), perché ci troviamo ancora «nell’attesa della redenzione del nostro corpo» (Rom 8, 23). Ma gli ultimi tempi sono già in qualche modo inaugurati e noi «siamo passati dalla morte alla vita» (1 Gv 3, 14; Gv 5, 24) nella misura in cui viviamo nella fede e nella carità.
    c) La legge. - Per ciò stesso «non siamo più sotto la *legge, ma sotto la *grazia» (Rom 6, 15). Per quanto sorprendente - o per quanto banale - possa apparire tale affermazione di Paolo, non bisogna minimizzarla, se non si vuole snaturare il vangelo della salvezza annunciato dall’apostolo. Siccome siamo morti misticamente con Cristo, siamo ormai sottratti alla legge (Rom 7, 1-6), e non potremmo cercare nell’osservanza di una legge esterna il principio della nostra salvezza (Gal 3, 2. 13; 4, 3 ss). Siamo sotto un regime nuovo, e la docilità allo Spirito effuso nei nostri cuori costituisce ora la norma della nostra condotta (cfr. Ger 31, 33; Ez 36, 27; Rom 5, 5; 8, 9. 14; 2 Cor 3, 3. 6). È vero che Paolo parla anche di una «legge di Cristo» (Gal 6, 2; cfr. 1 Cor 9, 21), però questa legge è compendiata nell’amore (Rom 13, 8 ss), e, sotto la mozione dello Spirito, adempiamo ad essa spontaneamente, perché «dov’è lo Spirito del Signore, lì è la libertà» (2 Cor 3, 17).
    3. L’esercizio della libertà cristiana.
    a)
    Libero, il cristiano è pieno d’una *fiducia audace, d’una *fierezza chiamata nel NT parresìa. Tale parola tipicamente greca (letteralmente: libertà di dire tutto) designa proprio un atteggiamento caratteristico del cristiano e più ancora dell’apostolo: di fronte a Dio, un comportamento di *figlio (cfr. Ef 3, 12; Ebr 3, 6; 4,16; 1 Gv 2, 28; 3, 21), poiché nel battesimo si riceve uno «spirito di figlio adottivo» e non uno «spirito di schiavo» (Rom 8, 14-17) e, d’altra parte, di fronte agli uomini, un grande ardire nell’annunciare il messaggio (Atti 2, 29; 4, 13; ecc.).
    b) La libertà non è licenza o libertinaggio. - «Voi certo siete stati chiamati alla libertà, o fratelli; soltanto non invocate la libertà quale pretesto per una condotta *carnale» (Gal 5, 13). Fin dagli inizi gli apostoli dovettero denunciare alcune contraffazioni della libertà cristiana (cfr. 1 Piet 2, 16; 2 Piet 2, 19), e sembra che il pericolo fosse particolarmente grave nella comunità di Corinto. Gli gnostici della città avevano forse adottato come programma una formula paolina, «tutto mi è permesso», falsandone però il senso, e Paolo fu costretto a rettificare: il cristiano non può dimenticare di appartenere al Signore e di essere destinato alla risurrezione (1 Cor 6, 12 ss).
    c) Il primato della carità. - «Tutto è permesso, ma non tutto *edifica», precisa ancora l’apostolo (1 Cor 10, 23); la nostra *coscienza può chiederci di rinunziare anche ad un nostro diritto, se il bene di un confratello lo richiede (1 Cor 8 - 10; Rom 14). A dir il vero, non si tratta di un limite imposto alla libertà, ma di un modo più alto di esercitarla. I cristiani, affrancati dall’antica schiavitù e fatti servi di Dio (Rom 6), si metteranno «mediante la carità al servizio gli uni degli altri» (Gal 5, 13), come lo Spirito Santo li guida (Gal 5, 16-26). Facendosi il *servo, e quasi lo schiavo dei suoi fratelli (cfr. 1 Cor 9, 19), Paolo non cessava di essere libero, ma era imitatore di Cristo (cfr. 1 Cor 11, 1), il Figlio che si fece servo.
    L. ROY
    → bene e male I 3 - calamità - coscienza 2 b - esodo - fierezza 0; NT 2 - giudizio VT II 1 - imposizione delle mani NT 1 - ira B VT III 2; NT III 1 - lavoro III - legge C Il 2, III 3, IV 2 - morte VT III; NT II 3 - Mosè 2 - Pasqua - peccato - penitenza-conversione - predestinare 2 - preoccupazioni 2 - prigionia - prova-tentazione - Provvidenza 2 - redenzione VT 1; NT 1 - responsabilità - riposo - salvezza - schiavo - servire III 2 - via I - volontà di Dio.

    LIBRO (inizio)

    I. LA SCRITTURA ED IL LIBRO
    Scrittura e libro vanno di pari passo, ma non coincidono; il libro è una serie coerente di scritti ed aggiunge alla *scrittura l’unità di un soggetto. Perciò normalmente il libro è designato con un titolo, anche se questo titolo, nell’uso biblico, non figura sempre in testa allo scritto. Se il libro comporta un titolo ed un soggetto, si è perché rappresenta una sintesi, non soltanto una serie materiale di righe e di colonne, ma una composizione organica, che raccoglie una successione di eventi in un racconto continuo, raduna scritti affini, poemi, canti, sentenze, parabole, profezie, in una raccolta unica. Il libro appare molto presto in Israele: antichi racconti conoscevano ed utilizzavano due vecchie raccolte di canti epici e lirici: il «Libro delle guerre di Jahvè» (Num 21, 14), ed il «Libro del giusto» (Gios 10, 13; 2 Sam 1, 18). L’esistenza di queste raccolte prova che Israele ha acquistato molto presto consapevolezza della originalità del suo destino, della continuità che Dio dava alla sua storia. Ed il numero di libri fortemente unificati in tipi così diversi, che in qualche secolo questo popolo piccolissimo produsse, attesta il vigore con cui la sua fede lo portava ad esprimere ed a dominare le questioni che gli si presentavano: sintesi storiche, collezioni giuridiche, raccolte poetiche e liturgiche, riflessioni sui problemi dell’esistenza umana.
    II. IL LIBRO MEMORIALE E TESTIMONIANZA SACRA
    Tra questi libri ve ne sono parecchi di cui possiamo cogliere l’origine, e quest’origine è sacra: sono raccolte legislative e profetiche; *legge e *profeti costituiscono una struttura essenziale della Bibbia. Pur essendo difficile qualificare come libro propriamente detto «le due tavole della testimonianza» (Es 31, 18), contenenti «la legge ed i comandamenti» (24, 12), che Mosè riceve da Dio e porta in mano (32, 15) - perché queste tavole di pietra appaiono analoghe, benché di tela materia più nobile, alle tavole di argilla utilizzate dagli scribi -, nondimeno si tratta già di un complesso destinato ad essere conservato ed a rendere *testimonianza alla *volontà di Dio che ne è l’autore. È qualcosa come l’abbozzo ed il nucleo delle raccolte che si costituiranno e si svilupperanno progressivamente e che saranno chiamate il «libro dell’alleanza» (Es 24, 7; 2 Re 23, 2. 21), il «libro della legge» (Deut 28, 58. 61; 29, 20; Gios 1, 8; 8, 34), il «libro di Mosè» (2 Cron 25, 4; 35, 12; Esd 6, 18; Mc 2, 26). Il libro è fatto perché non si perda nulla delle volontà di Dio e per servire da testimonianza permanente contro i prevaricatori (Deut 31, 26 s; cfr. Gios 24, 27). Ad un analogo bisogno risponde la formazione delle raccolte profetiche. Ad Isaia non basta radunare i discepoli e nascondere nel loro cuore la sua testimonianza (Is 8, 16) affinché rimanga nel popolo «rivelazione e testimonianza» (8, 20); riceve l’ordine di «scriverla in un libro, affinché serva in futuro come testimonianza perpetua (30, 8). Se Geremia, per due volte, detta a Baruc il riassunto di tutte le parole che aveva pronunziato in vent’anni, lo fa nella speranza che questa sintesi terrificante della «ira e del furore con cui Jahvè ha minacciato questo popolo» lo induca al pentimento (Ger 36, 2. 7). Si delineano in tal modo i libri di Israele non soltanto secondo la loro fisionomia letteraria, ma nella loro originalità unica: non tanto la testimonianza che un popolo raccoglie sul suo passato e sul suo proprio genio, ma la testimonianza che Dio dà della sua propria *giustizia e del *peccato dell’uomo. Tale è esattamente la funzione che S. Paolo assegna alla Scrittura: «racchiudere tutto sotto il peccato» (Gal 3, 22).
    III. LIBRI TERRESTRI, LIBRI CELESTI
    Dal momento che i libri in cui sono raccolte le parole dei profeti contengono la *parola di Dio, è naturale che un veggente come Ezechiele, quando si mette a profetare e pensa alla sua *missione, si veda in atto di divorare un volume celeste e di ripetere sulla terra un testo composto in cielo (Ez 2, 8 - 3, 3). Questa visione espressiva traduce in modo vivo, ed evitando il letteralismo miope di tanti commentatori posteriori, la natura del libro ispirato, tutto opera di Dio e tutto composto dall’autore Vi sono d’altronde altri libri più misteriosi, di cui Dio si riserva il contenuto, in modo più o meno esclusivo: tale è il «libro della cittadinanza» dov’egli registra i pagani tra i cittadini di Sion (Sal 87, 5 s; Is 4, 3) e donde cancella i falsi profeti (Ez 13, 9). Ma poiché essere iscritti a *Gerusalemme significa essere «iscritti per sopravvivere» (Is 4, 3), questo libro coincide con il «libro della *vita» (Sal 69, 29) dove Dio iscrive i *predestinati da Dio a vivere sulla terra (Es 32, 32 s) ed in cielo (Dan 12, 1; Lc 10, 20). E se esiste un libro in cui, prima che appaiano, sono scritti i nostri giorni e tutti i nostri atti (Sal 139, 16), esso è diverso dai libri che saranno portati ed aperti al momento del *giudizio (Dan 7, 10; Apoc 20, 12). Attraverso tutte queste immagini non si tratta tanto di contare e di calcolare, quanto di proclamare la sovrana infallibilità dello sguardo divino e la condotta infallibile del suo *disegno. Se il suo libro contiene conti, è quello delle nostre lacrime (Sal 56, 9).
    IV. IL LIBRO SIGILLATO E DECIFRATO
    Il libro sigillato con sette sigilli, che sta nelle mani di colui che siede sul trono, e che soltanto l’*agnello immolato è capace di aprire e di decifrare (Apoc 5, 1-10), è certamente, secondo la tradizione del VT, un libro profetico (cfr. Is 8, 16; 29, 11 s; Ez 2, 9) e probabilmente la somma delle Scritture di Israele. Di fatto tutti questi libri acquistano in Gesù Cristo un senso nuovo, insospettato. Fino allora essi apparivano soprattutto come una *legge, una somma di comandamenti divini indefinitamente violati, una testimonianza schiacciante della nostra infedeltà. Ma quando viene colui «di cui si parla nel rotolo del libro», quando Gesù Cristo dice: «Ecco, vengo per fare, o Dio, la tua volontà» (Ebr 10, 7 = Sal 40, 9), allora le *volontà di Dio si rivelano *compiute fino all’ultimo iota (Mt 5, 18) e la raccolta delle sue *parole appare come un’immensa *promessa infine mantenuta, come un unico *disegno portato a termine. In *Gesù Cristo tutti i vari libri (gr. biblìa, al plurale) diventano un solo libro, l’unica Bibbia (lat. biblia, al singolare).
    J. GUILLET
    → legge B - parola di Dio - predestinare 3.4 - scrittura - tradizione VT II 2.

    LIEVITO (inizio)

    → pane II 3 - Pasqua I 3, III 2.

    LINGUA (inizio)

    Per mezzo della lingua l’uomo comunica con il suo simile ed esprime a Dio i sentimenti del suo *cuore. L’esserne privati dell’uso può rappresentare un *castigo divino (Lc 1, 20; Sal 137, 6); renderne l’uso ai muti è un’opera messianica (Is 35, 6; Mc 7, 33-37), che permette loro di cantare le lodi di Dio (Lc 1, 64).
    1. Buono e cattivo uso della lingua.
    - «Morte e vita sono in potere della lingua» (Prov 18, 21). Questo vecchio tema della letteratura universale ha la sua eco nei sapienti (Prov, Sal, Eccli), fino in Giacomo: «Con essa benediciamo il Signore e Padre, e con essa malediciamo gli uomini fatti ad immagine di Dio» (Giac 3, 2-12). Ecco la lingua imperversa: da essa vengono *menzogna, frode, doppiezza, maldicenza, calunnia (Sal 10, 7; Eccli 51, 2-6). È un serpente (Sal 104, 4), un rasoio affilato (Sal 52, 4), una spada tagliente (Sal 57, 7), una freccia omicida (Ger 9, 7; 18, 18). Ma, alla constatazione pessimistica: «Chi non ha mai peccato con la lingua?» (Eccli 19, 16), risponde l’augurio: «Beato chi non ha mai peccato con la lingua!» (25, 8). Si spera quindi che nel giorno di Jahvè, tra il *resto degli eletti, non ci sarà più «lingua ingannatrice» (Sof 3, 13). Questa speranza non è una parola vana, perché fin d’ora si può descrivere la lingua del giusto. È argento puro (Prov 10, 20): celebra la giustizia e proclama la *lode di Dio (Sal 35, 28; 45, 2), *confessa la sua potenza universale (Is 45, 24). Infine, al pari delle *labbra, la lingua rivela il cuore dell’uomo; le *opere devono rispondere alle sue *parole: «Non amiamo a parole o con la lingua, ma a fatti, in verità» (1 Gv 3, 18; cfr. Giac 1, 26).
    2. Diversità delle lingue.
    I popoli dell’universo sono di «ogni lingua». Con questa espressione concreta la Bibbia designa la diversità delle civiltà, che non esprime soltanto la ricchezza intellettuale del genere umano, ma è un principio di incomprensione tra gli uomini, un aspetto del mistero del *peccato, di cui la torre di *Babele (Gen 11) suggerisce il significato religioso: l’*orgoglio sacrilego degli uomini che costruiscono la loro città senza Dio ha avuto come frutto questa confusione delle lingue. Con l’evento della *Pentecoste (Atti 2, 1-13), la divisione degli uomini è superata: lo *Spirito Santo si divide in lingue di fuoco sugli apostoli, per modo che il vangelo sarà inteso nelle lingue di tutte le nazioni. Così gli uomini saranno riconciliati dal linguaggio unico dello Spirito, che è carità. Negli apostoli, il *carisma del «parlare in lingue» è ad un tempo una forma di *preghiera che loda Dio nell’entusiasmo (Atti 2, 4; 10, 46) ed una forma di *profezia che annunzia agli uomini le meraviglie di Dio (Atti 2, 6. 11; 19, 6). Per disciplinare nella Chiesa l’uso di questo carisma, Paolo ne loda la prima forma, ma dichiara di preferire la seconda, perché è utile a tutti (1 Cor 14, 5). Le manifestazioni della Pentecoste fanno vedere che, sin dalla sua nascita, la Chiesa è cattolica, perché si rivolge agli uomini di tutte le lingue e li raccoglie in una lode unica delle meraviglie di Dio (cfr. Is 66, 18; Apoc 5, 9; 7, 9...). Così «ogni lingua confesserà che Gesù è Signore, a gloria di Dio Padre» (Fil 2, 11).
    P. DE SURGY
    → Babele-Babilonia 1 - carismi - ebreo - labbra - menzogna - nazioni VT I 2, III 2; NT II 1 a - parola umana - Pentecoste II 1.2 d - popolo A II 5; B II 5; C II - silenzio 2.

    LINGUAGGIO (inizio)

    → lingua 2 - popolo C II - sale 3 - scrittura V.

    LITURGIA (inizio)

    → alleanza VT I 3.4, II 1 - altare - amen 1 - benedizione - confessione - culto - elemosina VT 3 - feste - giorno del Signore NT III 3 - lode II, III, IV - memoria 4 b - pellegrinaggio - penitenza-conversione VT I, III - preghiera II, V - profumo 2 - ringraziamento - sacrificio - tempio - tempo NT II 3.

    LODE (inizio)

    Nella *preghiera si è soliti distinguere la lode, la domanda ed il *ringraziamento. In realtà, nella Bibbia, la lode ed il ringraziamento si ritrovano spesso in un identico movimento dell’animo e, sul piano letterario, negli stessi testi. Di fatto *Dio si rivela degno di lode per via di tutti i suoi benefizi nei confronti dell’uomo. Tale lode diventa allora con tutta naturalezza riconoscenza e *benedizione; i paralleli sono numerosi (Sal 35, 18; 69, 31; 109, 30; Esd 3, 11). La lode ed il ringraziamento suscitano le stesse manifestazioni esterne di *gioia, soprattutto nel *culto; entrambi rendono *gloria a Dio (Is 42, 12; Sal 22, 24; 50, 23; 1 Cron 16, 4; Lc 17, 15-18; Atti 11, 18; Fil 1, 11; Ef 1, 6. 12. 14), confessando le sue grandezze. Nella misura, tuttavia, in cui i testi ed il vocabolario invitano ad una distinzione, si può dire che la lode pensa più alla persona di Dio che ai suoi doni; è più teocentrica, più immersa in Dio, più vicina all’*adorazione, sulla via dell’estasi. Gli inni di lode sono generalmente staccati da un contesto preciso e cantano Dio perché è Dio.
    I. IL DIO DELLA LODE
    Nati da uno slancio d’entusiasmo, i cantici di lode moltiplicano le parole per tentare di descrivere Dio e le sue grandezze. Cantano la bontà di Jahvè, la sua giustizia (Sal 145, 6 s), la sua salvezza (Sal 71, 15), il suo soccorso (l Sam 2, 1), il suo amore e la sua fedeltà (Sal 89, 2; 117, 2), la sua gloria (Es 15, 21), la sua forza (Sal 29, 4), il suo meraviglioso disegno (Is 25, 1), i suoi giudizi liberatori (Sal 146, 7); tutto questo, in quanto risplende nelle meraviglie di Jahvè (Sal 96, 3), nelle sue grandi azioni, nelle sue prodezze (Sal 105, 1 ss; 106, 2), in tutte le sue *opere (Sal 92, 5 s), compresi i *miracoli di Cristo (Lc 19, 37). Dalle opere si risale all’autore. «Grande è Jahvè e degno di somma lode!» (Sal 145, 3). «Jahvè, mio Dio, tu sei così grande, rivestito di maestà e di splendore!» (Sal 104, 1; cfr. 2 Sam 7, 22; Giudit 16, 13). Gli inni cantano il grande *nome di Dio (Sal 34, 4; 145, 2; Is 25, 1). Lodare Dio significa esaltarlo, magnificarlo (Lc 1, 46; Atti 10, 46); significa riconoscere la sua superiorità unica, poiché egli è colui che abita nel più alto dei *cieli (Lc 2, 14), poiché egli è il *santo. La lode sgorga dalla coscienza esultante di questa santità di Dio (Sal 30, 5 = 97, 12; 99, 5; 105, 3; cfr. Is 6, 3) e questa esaltazione purissima e religiosissima unisce profondamente a Dio.
    II. LE COMPONENTI DELLA LODE
    1. Lode e confessione.
    - La lode è innanzitutto *confessione della grandezza di Dio. In forme varie e numerose la lode è quasi sempre introdotta da una proclamazione solenne (cfr. Is 12, 4 s; Ger 31, 7; Sal 89, 2; 96, 1 ss; 105, 1 s; 145, 6; cfr. 79, 13). Questo annunzio suppone un pubblico pronto a vibrare ed a partecipare: è l’assemblea dei *giusti (Sal 22, 23. 26; cfr. 33, 1); sono i cuori retti, gli umili, che possono comprendere la grandezza di Dio ed intonare le sue lodi (Sal 30, 5; 34, 3; 66, 16 s), e non l’insensato (Sal 92, 7). Scaturita dal contatto col Dio vivente, la lode risveglia tutto l’uomo (Sal 57, 8; 108, 2-6) e lo trascina in un rinnovamento di *vita. Per lodare Dio l’uomo impegna tutto se stesso; la lode, se è vera, è incessante (Sal 145, 1 s; 146, 2; Apoc 4, 8). È esplosione di vita: non i morti, già discesi nello sheol, ma bensì i soli viventi possono lodare Dio (Sal 6, 6; 30, 10; 88, 11 ss; 115, 17 s; Is 38, 18; Bar 2, 17; Ecdi 17, 27 s). Il NT conserva alla *confessione questo posto dominante nella lode: lodare Dio consiste sempre in primo luogo nel proclamare le sue grandezze, solennemente ed ampiamente attorno a sé (Mt 9, 31; Lc 2, 38; Rom 15, 9 = Sal 18, 50; Ebr 13, 15; cfr. Fil 2, 11).
    2. Lode e canto.
    - La lode nasce dallo stupore e dall’ammirazione in presenza di Dio. Suppone un’*anima aperta e rapita; si può esprimere in un grido, in un’esclamazione, in un’ovazione gioiosa (Sal 47, 2. 6; 81, 2; 89, 16 s; 95, 1...; 98, 4). Dovendo essere normalmente intelligibile alla comunità, diventa facilmente, sviluppandosi, canto, cantico, per lo più sostenuto dalla musica ed anche dalla danza (Sal 33, 2 s; cfr. Sal 98, 6; 1 Cron 23, 5). L’invito al canto è frequente all’inizio della lode (Es 15, 21; Is 42, 10; Sal 105, 1...; cfr. Ger 20, 13). Uno dei termini più caratteristici e più ricchi del vocabolario della lode è l’hillel dell’ebr. che ordinariamente traduciamo con «lodare», come nei nostri salmi in laudate (ad es. Sal 113; 117; 135). Il più delle volte l’oggetto della lode è esplicito. Talvolta non lo è, e la lode allora non può che appoggiarsi su se stessa, come in particolare nell’esclamazione Alleluia = Hallelû-jah = Lodate-Jah(ve). Anche il NT conosce parecchi termini per esprimere la lode cantata, insistendo ora sul canto (gr. àido: Apoc 5, 9; 14, 3; 15, 3), ora sul contenuto dell’inno (gr. hymnèo: Mt 26, 30; Atti 16, 25) o sull’accompagnamento musicale (gr. psàllo: Rom 15, 9 = Sal 18, 50; 1 Cor 14, 15). Tuttavia un testo come Ef 5, 19 sembra mettere in parallelo questi diversi termini. D’altronde nei Settanta hillel è per lo più tradotto con ainèo che ritroviamo nel NT soprattutto sotto la penna di Luca (Lc 2, 13. 20; 19, 37; 24, 53; Atti 2, 47; 3, 8 s).
    3. Lode ed escatologia.
    - La Bibbia riserva in primo luogo la funzione della lode ad Israele; conseguenza normale del fatto che il popolo eletto è il beneficiario della *rivelazione e quindi il solo a conoscere il vero Dio. In seguito la lode si tinge a poco a poco di universalismo. Anche i pagani vedono la gloria e la potenza di Jahvè, e sono invitati ad unire la loro voce a quella di Israele (Sal 117, 1). I «Salmi del regno» sono, a questo proposito, significativi (Sal 96, 3. 7 s; 97, 1; 98, 3 s). E non soltanto tutti i popoli della terra sono invitati a prendere coscienza delle vittorie di Dio come quella del ritorno, ma la stessa natura è associata a questo concerto (Is 42, 10; Sal 98, 8; 148; Dan 3, 51-90). L’universalismo prepara l’escatologia. Questa lode di tutti i popoli, intonata al ritorno dall’esilio, non fa che inaugurare la grande lode futura che si svilupperà «nei secoli». Gli inni del VT prefigurano l’inno eterno del *giorno di Jahvè, già intonato e sempre atteso; i «cantici nuovi» del salterio devono trovare la loro ultima risonanza nel «cantico nuovo» dell’Apocalisse (Apoc 5, 9; 14, 3).
    III. LODE E CULTO
    In Israele la lode appare sempre legata alla liturgia, ma questa relazione diventa ancor più reale quando, con la costruzione del *tempio, il culto viene ad essere più fortemente strutturato. La partecipazione del popolo al culto del tempio era viva e gioiosa. Là soprattutto, per le *feste annuali o nei grandi momenti della vita del popolo (consacrazione del re, celebrazione di una vittoria, dedicazione del tempio, ecc.), si trovano tutti gli elementi della lode: l’assemblea, l’entusiasmo che cercano di rendere le grida: *Amen! Alleluia! (1 Cron 16, 36; Neem 8, 6; cfr. 5, 13), i ritornelli: «Poiché eterno è il suo amore!» (Sal 136, 1...; Esd 3, 11), il *profumo dell’incenso, la musica ed i canti. Così molti salmi sono indubbiamente composti per i bisogni della lode cultuale, canti ormai dispersi nel nostro salterio, che tuttavia si ritrovano in modo più caratterizzato almeno nelle tre raccolte tradizionali: il «Piccolo Hallel» (Sal 113 -118), il «Grande Hallel» (Sal 136), l’«Hallel finale» (Sal 146 - 150). Nel tempio il canto dei salmi accompagna specialmente la tôdah, «sacrificio di lode» (cfr. Lev 7, 12 ...; 22, 29 s; 2 Cron 33, 16), *sacrificio pacifico seguito da un *pasto sacro pieno di gioia nelle dipendenze del tempio. Anche in ambiente cristiano la lode sarà facilmente lode cultuale. Le indicazioni degli Atti e delle Lettere (Atti 2, 46 s; 1 Cor 14, 26; Ef 5, 19) evocano le assemblee liturgiche dei primi cristiani, e così pure la descrizione del culto e della lode celesti nell’Apocalisse.
    IV. LA LODE CRISTIANA
    Nel suo movimento essenziale la lode rimane identica dall’uno all’altro testamento. Essa tuttavia è ormai cristiana, anzitutto perché è suscitata dal dono di Cristo, in occasione della potenza redentrice manifestata in Cristo. È il senso della lode degli *angeli e dei pastori a Natale (Lc 2, 13 s. 20), nonché della lode delle folle dopo i miracoli (Mc 7, 36 s; Lc 18, 43; 19, 37); è pure il senso fondamentale dell’Hosanna della domenica delle palme (cfr. Mt 21, 16 = Sal 8, 2 s), ed anche del cantico dell’agnello nell’Apocalisse (cfr. Apoc 15, 3). Alcuni frammenti di inni primitivi, conservati nelle lettere, rimandano l’eco di questa lode cristiana rivolta a Dio Padre, che ha già rivelato il *mistero della *pietà (1 Tim 3, 16), e farà rifulgere il ritorno di Cristo (1 Tim 6, 15 s); lode che confessa il mistero di Cristo (Fil 2, 5...; Col 1, 15... ), od il mistero della salvezza (2 Tim 2, 11 ss), diventando così talvolta vera *confessione della fede e della vita cristiana (Ef 5, 14). Fondata sul dono di Cristo, la lode del NT è cristiana anche nel senso che sale a Dio con Cristo ed in Cristo (cfr. Ef 3, 21); lode filiale sull’esempio della *preghiera stessa di Cristo (cfr. Mt 11, 25); lode rivolta anche direttamente a Cristo in persona (Mt 21, 9; Atti 19, 17; Ebr 13, 21; Apoc 5, 9). In tutti i sensi è giusto affermare: ormai la nostra lode è il Signore Gesù. Fiorendo così sulla base della Scrittura, la lode doveva sempre rimanere primordiale nel cristianesimo, ritmando la preghiera liturgica con gli Alleluia ed i Gloria Patri, animando gli spiriti in preghiera sino a permearli ed a trasformarli in una pura «lode di gloria» (cfr. Ef 1, 12).
    A. RIDOUARD
    → adorazione - benedizione II 3, III 5 - bestemmia - confessione - culto - eucaristia I 1.2 - gloria V - labbra 2 - lingua 1 - opere VT I - pietà VT 2 - preghiera II 3, V 2 - profumo 2 - ringraziamento.

    LOGOS (inizio)

    → parola di Dio.

    LOTTA (inizio)

    → correre 2 - fedeltà NT 2 - guerra - nemico - preghiera V 2 a - prova-tentazione.

    LUCE E TENEBRE (inizio)

    Il tema della luce pervade tutta la rivelazione biblica. La separazione della luce e delle tenebre fu il primo atto del creatore (Gen 1, 3 s). Al termine della storia della salvezza, la nuova creazione (Apoc 21, 5) avrà Dio stesso per luce (21, 23). Dalla luce fisica che si avvicenda quaggiù con l’*ombra della notte, si passerà così alla luce senza declino che è Dio stesso (1 Gv 1, 5). La storia che si svolge frammezzo assume anch’essa la forma di un conflitto in cui la luce e le tenebre si affrontano, allo stesso modo che si affrontano la *vita e la *morte (cfr. Gv 1, 4 s). Nessuna metafisica dualistica viene a cristallizzare questa visione drammatica del mondo, come nel pensiero iranico. Ma non per questo l’uomo cessa di essere la posta del conflitto: la sua sorte finale è definita in termini di luce e di tenebre, come in termini di vita e di morte. Il tema occupa quindi un posto centrale tra i simbolismi religiosi cui ricorre la Scrittura. 
    VECCHIO TESTAMENTO 
    I. IL DIO DI LUCE
    1. Il creatore della luce.
    - La luce, al pari di tutto il resto, non esiste che come creatura di Dio: luce del giorno, che emerse dal caos originale (Gen 1, 1-5); luce degli *astri che illuminano la terra giorno e notte (1, 14-19). Dio la manda e la richiama, ed essa obbedisce tremando (Bar 3, 33). Le tenebre che si avvicendano con essa sono d’altronde nella stessa situazione, perché lo stesso Dio «forma la luce e le tenebre» (Is 45, 7; Am 4, 13 LXX). Perciò luce e tenebre cantano lo stesso cantico a lode del creatore (Sal 19, 2 s; 148, 3; Dan 3, 71 s). Ogni concezione mitica viene così ad essere radicalmente eliminata; ma ciò non impedisce alla luce ed alle tenebre di avere un significato simbolico.
    2. Il Dio vestito di luce.
    - Di fatto, al pari delle altre creature, la luce è un segno che manifesta visibilmente qualcosa di Dio. È come il riflesso dellaisua *gloria. A questo titolo fa parte dell’apparato letterario che serve ad evocare le teofanie. È la *veste di cui Dio si copre (Sal 104, 2). Quand’egli appare, «il suo splendore è simile al giorno, raggi escono dalle sue mani» (Ab 3, 3 s). La volta celeste su cui poggia il suo trono è risplendente come il cristallo (Es 24, 10; Ez 1, 22). Altrove lo si descrive avvolto di *fuoco (Gen 15, 17; Es 19, 18; 24, 17; Sal 18, 9; 50, 3) oppure che lancia i lampi dell’uragano (Ez 1, 13; Sal 18, 15). Tutti questi quadri simbolici stabiliscono un legame tra la presenza divina e l’impressione che fa sull’uomo una luce abbagliante. Quanto alle tenebre, esse non escludono la *presenza di Dio, perché egli le scruta e vede ciò che avviene in esse (Sal 139, 11 s; Dan 2, 22). Tuttavia le tenebre per eccellenza, quelle dello sheol, sono un luogo in cui gli uomini sono «recisi dalla sua mano» (Sal 88, 6 s. 13). Dio quindi, nell’oscurità, vede senza farsi vedere, è presente senza offrirsi.
    3. Dio è luce.
    - Nonostante questo ricorso al simbolismo della luce, bisogna attendere il libro della Sapienza, perché la si applichi all’essenza divina. La sapienza, effusione della gloria di Dio, è «un riflesso della luce eterna», superiore ad ogni luce creata (Sap 7, 27. 29 s). Il simbolismo raggiunge qui uno stadio di sviluppo di cui il NT farà più largo uso.
    II. LA LUCE, DONO DI DIO
    1. La luce dei viventi.
    - «La luce è dolce, e piace agli occhi vedere il sole» (Eccle 11, 7). Ogni uomo ha fatto questa esperienza. Di qui una stretta associazione della luce e della *vita: nascere, è «vedere la luce» (Giob 3, 16; Sal 58, 9). Il cieco che non vede la «luce di Dio» (Tob 3, 17; 11, 8) ha una pregustazione della morte (5, 11 s); viceversa, l’ammalato che Dio strappa alla morte si rallegra di veder brillare nuovamente su di sé «la luce dei viventi» (Giob 33, 30; Sal 56, 14), perché lo sheol è il regno delle tenebre (Sal 88, 13). Luce e tenebre sono così per l’uomo valori opposti che fondono il loro simbolismo.
    2. Simbolismo della luce.
    - In primo luogo, la luce delle teofanie comporta un significato esistenziale per coloro che ne beneficiano, sia che essa sottolinei la maestà di un Dio divenuto familiare (Es 24, 10 s), sia che faccia sentire il suo carattere terribile (Ab 3, 3 s). A questa evocazione misteriosa della presenza divina, la metafora del volto luminoso aggiunge una nota rassicurante di benevolenza (Sal 4, 7; 31, 17; 89, 16; Num 6, 24 ss; cfr. Prov 16, 15). Ora la presenza di Dio all’uomo è soprattutto una presenza tutelare. Con, la sua *legge egli illumina i passi dell’uomo (Prov 6, 23; Sal 119, 105); è così la *lampada che lo guida (Giob 29, 3; Sal 18, 29). Strappandolo al pericolo, egli illumina i suoi occhi (Sal 13, 4); è così la sua luce e la sua salvezza (Sal 27, 1). Infine, se l’uomo è giusto, egli lo conduce verso la gioia di un giorno luminoso (Is 58, 10; Sal 36, 10; 97, 11; 112, 4), mentre il malvagio incespica nelle tenebre (Is 59, 9 s) e vede spegnersi la sua *lampada (Prov 13, 9; 24, 20; Giob 18, 5 s). Così luce e tenebre rappresentano infine le due sorti che attendono l’uomo, la felicità e la sventura.
    3. Promessa della luce.
    - Non è quindi sorprendente ritrovare il simbolismo della luce e delle tenebre nei profeti, in prospettiva escatologica. Le tenebre, piaga minacciosa che gli Egiziani esperimentano (Es 10, 21...), costituiscono uno dei segni annunziatori del *giorno di Jahvè (Is 13, 10; Ger 4, 23; 13, 16; Ez 32, 7; Am 8, 9; Gioe 2, 10; 3, 4; 4, 15): per un mondo peccatore esso sarà tenebre e non luce (Am 5, 18; cfr. Is 8, 21 ss). Tuttavia il giorno di Jahvè deve avere pure un’altra faccia, di gioia e di liberazione, per il *resto dei giusti umiliato ed afflitto; allora «il popolo che camminava nelle tenebre vedrà una gran luce» (Is 9, 1; 42, 7; 49, 9; Mi 7, 8 s). L’immagine ha una portata ovvia, e si presta ad applicazioni molteplici. Fa pensare in primo luogo alla chiarezza di un giorno meraviglioso (Is 30, 26), senza avvicendamento di giorno e di notte (Zac 14, 7), illuminato dal «sole di giustizia» (Mal 3, 20). Tuttavia l’alba che sorgerà sulla nuova *Gerusalemme (Is 60, 1 ss) sarà di natura diversa da quella del tempo attuale: il Dio vivente illuminerà egli stesso i suoi (60, 19 s). La sua *legge illuminerà i popoli (Is 2, 5; 51, 4; Bar 4, 2); il suo *servo sarà la luce delle *nazioni (Is 42, 6; 49, 6). Per i giusti ed i peccatori si riprodurranno così, nel giorno supremo, le due sorti di cui la storia dell’*esodo presentò un chiaro esempio: le tenebre per gli empi, la piena luce, invece, per i santi (Sap 17, 1 - 18, 4). Questi risplenderanno come il cielo e gli astri, mentre gli empi rimarranno per sempre nell’orrore dell’oscuro sheol (Dan 12, 3; cfr. Sap 3, 7). La prospettiva sfocia su un mondo trasfigurato ad immagine del Dio di luce.
    NUOVO TESTAMENTO
    I. CRISTO, LUCE DEL MONDO
    1. Compimento della promessa.
    - Nel NT la luce escatologica promessa dai profeti è diventata realtà: quando Gesù incomincia a predicare in Galilea, si compie l’oracolo di Is 9, 1 (Mt 4, 16). Quando risorge secondo le profezie, si è per «annunziare la luce al popolo ed alle nazioni pagane» (Atti 26, 23). Perciò i cantici conservati da Luca salutano in lui sin dall’infanzia il sole nascente che deve illuminare coloro che stanno nelle tenebre (Lc 1, 78 s; cfr. Mal 3, 20; Is 9, 1; 42, 7), la luce che deve illuminare le nazioni (Lc 2, 32; cfr. Is 42, 6; 49, 6). La vocazione di Paolo, annunziatore del vangelo ai pagani, si inserirà nella linea degli stessi testi profetici (Atti 13, 47; 26, 18).
    2. Cristo rivelato come luce.
    - Tuttavia vediamo che Gesù si rivela come luce del mondo soprattutto con i suoi atti e le sue parole. Le guarigioni di ciechi (cfr. Mc 8, 22-26) hanno in proposito un significato particolare, come sottolinea Giovanni riferendo l’episodio del cieco nato (Gv 9). Gesù allora dichiara: «Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo» (9, 5). Altrove commenta: «Chi mi segue non cammina nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8, 12); «io, la luce, sono venuto nel mondo affinché chiunque crede in me non cammini nelle tenebre» (12, 46). La sua azione illuminatrice deriva da ciò che egli è in se stesso: la *parola stessa di Dio, *vita e luce degli uomini, luce vera che illumina ogni uomo venendo in questo mondo (1, 4. 9). Quindi il dramma che si intreccia attorno a lui è un affrontarsi della luce e delle tenebre: la luce brilla nelle tenebre (1, 4), ed il *mondo malvagio si sforza di spegnerla, perché gli uomini preferiscono le tenebre alla luce quando le loro *opere sono malvagie (3, 19). Infine, al momento della passione, quando Giuda esce dal cenacolo per tradire Gesù, Giovanni nota intenzionalmente: «Era *notte» (13, 30); e Gesù, al momento del suo arresto, dichiara: «È l’ora vostra, ed il potere delle tenebre» (Lc 22, 53).
    3. Cristo trasfigurato.
    - Finché Gesù visse quaggiù, la luce divina che egli portava in sé rimase velata sotto l’umiltà della *carne. C’è tuttavia una circostanza in cui essa divenne percepibile a testimoni privilegiati, in una visione eccezionale: la *trasfigurazione. Quel volto risplendente, quelle *vesti abbaglianti come la luce (Mt 17, 2 par.), non appartengono più alla condizione mortale degli uomini: sono un’anticipazione dello stato di Cristo risorto, che apparirà a Paolo in una luce radiosa (Atti 9, 3; 22, 6; 26, 13); provengono dal simbolismo proprio delle teofanie del VT. Di fatto la luce che risplendette sulla *faccia di Cristo è quella della gloria di Dio stesso (cfr. 2 Cor 4, 6): in qualità di Figlio di Dio egli è «lo splendore della sua gloria» (Ebr 1, 3). Così, attraverso Cristo-luce, si rivela qualcosa della essenza divina. Non soltanto Dio «dimora in una luce inaccessibile» (1 Tim 6, 16); non soltanto lo si può chiamare «il Padre degli astri» (Giac 1, 5), ma, come spiega S. Giovanni, «egli stesso è luce, ed in lui non ci sono tenebre» (1 Gv 1, 5). Per questo tutto ciò che è luce proviene da lui, dalla creazione della luce fisica nel primo giorno (cfr. Gv 1, 4) fino alla illuminazione dei nostri cuori ad opera della luce di Cristo (2 Cor 4, 6). E tutto ciò che rimane estraneo a questa luce appartiene al dominio delle tenebre: tenebre della notte, tenebre dello sheol e della morte, tenebre di Satana.
    II. I FIGLI DELLA LUCE
    1. Gli uomini tra le tenebre e la luce.
    - La rivelazione di Gesù come luce del mondo conferisce un chiaro rilievo all’antitesi delle tenebre e della luce, non in una prospettiva metafisica, ma su un piano morale: la luce qualifica il regno di Dio e di Cristo come regno del bene e della giustizia, le tenebre qualificano il regno di *Satana come quello del male e dell’empietà (cfr. 2 Cor 6, 14 s), benché Satana, per sedurre l’uomo, si travesta talvolta da angelo di luce (11, 14). L’uomo si trova preso tra i due, e deve scegliere, in modo da divenire «figlio delle tenebre» o «figlio della luce». La setta di Qumrân ricorreva già a questa rappresentazione per descrivere la *guerra escatologica. Gesù se ne serve per distinguere il *mondo presente dal *regno che inaugura: gli uomini si dividono ai suoi occhi in «figli di questo mondo» ed in «figli della luce» (Lc 16, 8). Tra gli uni e gli altri si opera una divisione quando appare Cristo-luce: coloro che fanno il male fuggono la luce, affinché le loro *opere non siano rivelate; coloro che agiscono nella verità vengono alla luce (Gv 3, 19 ss) e credono nella luce per divenire figli della luce (Gv 12, 36).
    2. Dalle tenebre alla luce.
    - Tutti gli uomini appartenevano per nascita al regno delle tenebre, specialmente i pagani «dai pensieri ottenebrati» (Ef 4, 18). È stato Dio «a chiamarci dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (1 Piet 2, 9). Strappandoci al dominio delle tenebre, ci ha trasferiti nel regno del Figlio suo affinché condividiamo la sorte dei santi nella luce (Col 1, 12 s): grazia decisiva, esperimentata al momento del battesimo, quando «Cristo brillò su noi» (Ef 5, 14) e noi fummo «illuminati» (Ebr 6, 4). Un tempo eravamo tenebre, ma ora siamo luce nel Signore (Ef 5, 8). Ciò determina per noi una linea di condotta: «vivere da figli della luce» (Ef 5, 8; cfr. 1 Tess 5, 5).
    3. La vita dei figli della luce.
    - Era già stata una raccomandazione di Gesù (cfr. Gv 12, 35 s): bisogna che l’uomo non lasci oscurare la sua luce interiore, e così pure bisogna che vegli sul suo occhio, *lampada del corpo (Mt 6, 22 s par.). In Paolo la raccomandazione diventa abituale. Bisogna rivestirsi delle armi di luce e rigettare le opere delle tenebre (Rom 13, 12 s) per tema che il *giorno del Signore ci sorprenda (1 Tess 5, 4-8). Tutta la morale entra facilmente in questa prospettiva: il «frutto della luce» è tutto ciò che è buono, giusto e vero; le «opere sterili delle tenebre» comprendono i peccati di ogni specie (Ef 5, 9-14). Giovanni non parla diversamente. Bisogna «camminare nella luce» per essere in comunione con il Dio che è luce (1 Gv 1, 5 ss). Il criterio è l’amore fraterno: da questo si riconosce se si è nelle tenebre o nella luce (2, 8-11). Colui che vive in tal modo, da vero figlio della luce, fa risplendere tra gli uomini la luce divina di cui è diventato depositario. Divenuto a sua volta la luce del mondo (Mt 5, 14 ss), egli risponde alla missione che Cristo gli ha dato.
    4. Verso la luce eterna.
    - Impegnato in questa via, l’uomo può sperare la meravigliosa trasfigurazione che Dio ha promesso ai giusti nel suo regno (Mt 13, 43). Di fatto la *Gerusalemme celeste, dove essi infine giungeranno, rifletterà su di sé la luce divina, conformemente ai testi profetici (Apoc 21, 23 ss; cfr. Is 60); allora gli eletti, contemplando la faccia di Dio, saranno illuminati da questa luce (Apoc 22, 4 s). Tale è la speranza dei figli della luce; tale è pure la preghiera che la Chiesa rivolge a Dio per quelli tra loro che hanno lasciato la terra: «Possano le anime dei fedeli defunti non essere immerse nelle tenebre, ma S. Michele arcangelo le introduca nella santa luce! Faccia brillare su di esse la luce eterna!» (Liturgia dei defunti).
    A. FEUILLET e P. GRELOT
    → astri 4 - battesimo IV 4 - bianco - fuoco - giorno del Signore NT III 1 - gloria - indurimento II 1 - lampada - morte VT I 2 - notte - nube - olio - ombra - parola di Dio NT I 1 - peccato IV 2 a - rivelazione - vedere - vegliare I 2 - verità VT 3; NT 3 - vita IV 2.

    LUNA (inizio)

    → astri - settimana 1 - tempo VT 1.

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    → altura.

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