.................
____________________________________________________________
→ arca d’alleanza I - astri 2 - Jahvè 3 - potenza I 1, III 2 - zelo I 2.
VECCHIO
TESTAMENTO
1. L’istituzione del sabato.
- Il termine sabato designa un riposo effettuato con intenzione religiosa. La
sua pratica appare già negli strati più antichi della legge (Es 20, 8; 23, 12;
34, 21). Ha probabilmente un’origine premosaica, che rimane oscura. Nella Bibbia
è legato al ritmo sacro della *settimana, che chiude con un giorno di riposo, di
gioia e di riunione cultuale (Os 2, 13; 2 Re 4, 23; Is 1, 13).
2. I motivi del sabato.
- Il codice dell’alleanza sottolineava il lato umanitario di questo
riposo, che permetteva agli schiavi di riprendere fiato (Es 23, 12). Tale è
ancora il punto di vista del Deuteronomio (5, 12 ...). Ma la legislazione
sacerdotale gli conferisce un altro senso. Con il suo *lavoro l’uomo imita
l’attività del Dio creatore. Con il riposo del settimo giorno, imita il *riposo
sacro di Dio (Es 31, 13 ...; Gen 2, 2 s). Dio ha dato così il sabato ad Israele
come un *segno, affinché sappia che Dio lo santifica (Ez 20, 12).
3. La pratica del sabato.
- Il riposo del sabato era concepito dalla legge in modo molto stretto:
divieto di accendere il fuoco (Es 35, 3), di raccogliere legna (Num 15, 32 ...),
di preparare il cibo (Es 16, 23...). Su testimonianza dei profeti, la sua
osservanza condizionava la realizzazione delle promesse escatologiche (Ger 17,
19-27; Is 58, 13 s). Si vede quindi Neemia tener duro nella sua pratica
integrale (Neem 13, 15-22). Per «santificare» questo giorno (Deut 5, 12), c’è
una «convocazione santa» (Lev 23, 3), offerta di sacrifici (Num 28, 9 s),
rinnovamento dei pani della proposizione (Lev 24, 8; 1 Cron 9, 32). Fuori di
Gerusalemme, questi riti sono sostituiti da un’adunanza singolare, consacrata
alla preghiera comune ed alla lettura commentata della Sacra Scrittura.
All’epoca dei Maccabei, la fedeltà al riposo del sabato è tale che gli Asidei si
lasciano massacrare piuttosto che violarlo prendendo le armi (1 Mac 2, 32-38).
Verso l’epoca del NT si sa che gli Esseni lo osservano in tutto il suo rigore,
mentre i dottori farisei elaborano in proposito una casistica minuziosa.
NUOVO TESTAMENTO
1. Gesù.
- Gesù non abroga esplicitamente la legge del sabato: in questo giorno egli
frequenta la sinagoga e ne approfitta per annunciare il vangelo (Lc 4, 16...).
Ma trova a ridire al rigorismo formalistico dei dottori farisei: «Il sabato è
fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato» (Mc 2, 27), ed il dovere della
carità prevale sull’osservanza materiale del riposo (Mt 12, 5; Lc 13, 10-16; 14,
1- 5). Inoltre Gesù si attribuisce un potere sul sabato: il figlio dell’uomo ne
è padrone (Mc 2, 28). È questo uno degli appunti che i dottori gli muovono (cfr.
Gv 5, 9...). Ma, facendo del bene nel giorno di sabato, non imita egli il Padre
suo che, entrato nel suo riposo al termine della creazione, continua a governare
il mondo ed a vivificare gli uomini (Gv 5, 17)?
2. I discepoli di Gesù.
- I discepoli di Gesù in un primo tempo hanno continuato ad osservare il sabato
(Mt 28, 1; Mc 15, 42; 16, l; Gv 19, 42). Anche dopo l’ascensione le riunioni
sabbatiche servono ad annunziare il vangelo in ambiente ebraico (Atti 13, 14;
16, 13; 17, 2; 18, 4). Ma ben presto il primo giorno della settimana, giorno
della risurrezione di Gesù, diventa il giorno di culto della Chiesa, in quanto
*giorno del Signore (Atti 20, 7; Apoc 1, 10). Vi si trasferiscono le pratiche
che gli Ebrei collegavano volentieri al sabato, come l’elemosina (1 Cor 16, 2) e
la lode divina. In questa nuova prospettiva l’antico sabato giudaico acquista un
significato *figurativo, come molte altre istituzioni del VT. Con il loro
riposo, gli uomini commemoravano in esso il riposo di Dio nel settimo giorno.
Ora Gesù è entrato in questo riposo divino con la sua *risurrezione, e noi
abbiamo ricevuto la promessa di entrarvi dietro di lui (Ebr 4, 1-11). Sarà
questo il vero sabato, in cui gli uomini si riposeranno dalle loro fatiche, ad
immagine di Dio che si riposa dalle sue opere (Ebr 4, 10; Apoc 14, 13).
C. SPICQ e P. GRELOT
→ feste - giorno del Signore NT III 3 - lavoro I 1, III - numeri I 1, II 1 -
riposo - segno VT II 2; NT II 1 - settimana - tempo intr. 2 a; VT I 1.
→ Aronne - elezione VT I 3 c - insegnare VT I 2 - legge B III 1 - Melchisedech 2.3 - messia VT II 2 - ministero II 4 - sacerdozio - unzione III 3.
«Rimanendo in
eterno, Gesù possiede un sacerdozio immutabile» (Ebr 7, 24). La lettera agli
Ebrei, volendo definire la *mediazione di Cristo, l’accosta così ad una funzione
che esisteva nel VT come in tutte le religioni vicine: quella dei sacerdoti. Per
comprendere il sacerdozio di Gesù, è quindi importante conoscere con precisione
il sacerdozio del VT, che lo ha preparato e prefigurato.
VECCHIO TESTAMENTO
I. STORIA DELLA ISTITUZIONE SACERDOTALE
1. Presso i popoli civili che circondano Israele, la funzione
sacerdotale è sovente assicurata dal re, specialmente in Mesopotamia ed in
Egitto; egli allora è assistito da un clero gerarchicamente diviso, per lo più
ereditario, che costituisce una vera casta. Nulla di simile al tempo dei
patriarchi. Allora non esistono né tempio, né sacerdoti specializzati del Dio di
Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Le tradizioni della Genesi mostrano i
patriarchi che costruiscono altari in Canaan (Gen 12, 7 s; 13, 18; 26, 25) ed
offrono sacrifici (Gen 22; 31, 54; 46, 1). Essi esercitano il sacerdozio
familiare, praticato nella maggior parte dei popoli antichi. I soli sacerdoti
che compaiono sono stranieri: il sacerdote-re di Gerusalemme, *Melchisedec (Gen
14, 18 ss) ed i sacerdoti del Faraone (Gen 41, 45; 47, 22). La tribù di Levi è
ancora soltanto una tribù profana, senza funzioni sacre (Gen 34, 25-31; 49, 5
ss).
2. A partire da Mosè, egli stesso levita, sembra farsi strada
la specializzazione di questa tribù nelle funzioni cultuali. Il racconto arcaico
di Es 32, 25-29 esprime il carattere essenziale del suo sacerdozio: essa è
eletta e consacrata da Dio stesso per il suo servizio. La benedizione dl Mosè, a
differenza di quella di Giacobbe, le attribuisce i compiti specifici dei
sacerdoti (Deut 33, 8- 11). È vero che questo testo riflette una situazione
posteriore. Allora i leviti sono i sacerdoti per eccellenza (Giud 17, 7-13; 18,
19), addetti ai diversi santuari del paese. Ma a lato del sacerdozio levitico,
continua ad essere esercitato il sacerdozio familiare (Giud 6, 18-29; 13, 19;
17, 5; 1 Sam 7, 1).
3. Sotto la monarchia il *re esercita parecchie funzioni
sacerdotali, come i re dei popoli vicini: offre sacrifici, da Saul (1 Sam 13, 9)
e David (2 Sam 6, 13. 17; 24, 22-25) fino ad Achaz (2 Re 16, 13); benedice il
popolo (2 Sam 1, 18; 1 Re 8, 14)... Tuttavia riceve il titolo di sacerdote solo
nell’antico Sal 110, 4, che lo paragona a Melchisedech. Di fatto, nonostante
quest’allusione al sacerdozio regale di Canaan, egli è più un patrono del
sacerdozio che un membro della casta sacra. Questa è diventata ora una
istituzione organizzata, specialmente nel santuario di Gerusalemme che,
dall’epoca di David, è il centro cultuale di Israele. Dapprima due sacerdoti se
ne dividono il servizio. Ebiatar, discendente di Eli, che amministrava a Silo, è
molto probabilmente un levita (2 Sam 8, 17); ma la sua famiglia sarà messa in
disparte da Salomone (1 Re 2, 26 s). Sadoq è di origine sconosciuta; ma saranno
i suoi discendenti a dirigere il sacerdozio nel tempio fino al sec. II.
Genealogie ulteriori lo collegheranno, al pari di Ebiatar, alla discendenza di
*Aronne (cfr. 1Cron 5, 27-34). Sotto gli ordini del sacerdote-capo, il
sacerdozio di Gerusalemme conta diversi subalterni. Il personale del tempio,
prima dell’esilio, conta persino degli incirconcisi (Ez 44, 7 ss; cfr. Gios 9,
27). Negli altri santuari, soprattutto in Giuda, i leviti devono essere molto
numerosi. Sembra che David e Salomone abbiano cercato di distribuirli in tutto
il paese (cfr. Gios 21; Giud 18, 30). Ma parecchi santuari locali hanno
sacerdoti di origine diversa (1 Re 12, 31).
4. La riforma di Giosia nel 621, sopprimendo i santuari locali,
consacra il monopolio levitico e la supremazia del sacerdozio di Gerusalemme.
Andando oltre le esigenze del Deuteronomio (18, 6 ss), essa di fatto riserva
l’esercizio delle funzioni sacerdotali ai soli discendenti di Sadoq (2 Re 23, 8
s); prelude così alla distinzione ulteriore tra sacerdoti e leviti, che sarà già
più netta in Ez 44, 10-31. La simultanea rovina del tempio e della monarchia
(587) pone fine alla tutela regale sul sacerdozio e conferisce a questo
un’autorità maggiore sul popolo. Liberato dalle influenze e dalle tentazioni del
potere politico esercitato ormai dai pagani, il sacerdozio diventa la guida
religiosa della nazione. Il progressivo scomparire del profetismo a partire dal
sec. V accentua ancora la sua autorità. Già nel 573 i progetti di riforma di
Ezechiele escludono il «principe» dal santuario (Ez 44, 1 ss; 46). La casta
levitica detiene ormai un monopolio incontestato (la sola eccezione in Is 66, 21
non concerne che gli «ultimi tempi»). Le raccolte sacerdotali del Pentateuco
(sec. V e IV), poi l’opera del Cronista (sec. III) danno infine un quadro
particolareggiato della gerarchia sacerdotale. Essa è rigorosa. Al vertice, il
sommo sacerdote, figlio di Sadoq, è il successore di Aronne, sacerdote tipo.
C’era sempre stato, in ogni santuario, un sacerdote in capo; il titolo di sommo
sacerdote appare in un momento in cui l’assenza del re fa sentire il bisogno di
un capo per la teocrazia. L’unzione che egli riceve, a partire dal sec. IV (Lev
8, 12; cfr. 4, 3; 16, 32; Dan 9, 25), ricorda quella che un tempo consacrava i
re. Sotto di lui stanno i sacerdoti, figli di Aronne. Infine i leviti, clero
inferiore, sono raggruppati in tre famiglie, alle quali infine vengono aggregati
i cantori ed i portieri (1 Cron 25 - 26). Queste tre classi costituiscono la
tribù sacra, tutta votata al servizio del Signore.
5. Ormai la gerarchia non conoscerà più variazioni, salvo che
per la designazione del sommo sacerdote. Nel 172 l’ultimo sommo sacerdote
discendente da Sadoq, Onia III, è assassinato in seguito ad intrighi politici. I
suoi successori sono designati, fuori della sua casata, dai re di Siria. La
reazione maccabaica termina con la investitura di Gionata, uscito da una
famiglia sacerdotale molto oscura. Il fratello Simone che gli succede (143)
costituisce il punto di partenza della dinastia degli Asmonei, sacerdoti e re
(143-37). Capi politici e militari più che religiosi, essi provocano
l’opposizione dei farisei. Dal canto suo, il clero tradizionalista rimprovera
loro l’origine non sadoqita, e la setta sacerdotale di Qumrân passa persino allo
scisma. Infine a partire dal regno di Erode (37), i sommi sacerdoti sono
designati dall’autorità politica, che li sceglie tra le grandi famiglie
sacerdotali, le quali costituiscono il gruppo dei «sommi sacerdoti», più volte
nominato nel NT.
II. LE FUNZIONI SACERDOTALI
Nelle religioni antiche i sacerdoti sono i ministri del culto, i
custodi delle tradizioni sacre, i portavoce della divinità nella loro qualità di
divinatori. In Israele, nonostante l’evoluzione sociale e lo sviluppo dogmatico
che si nota nel corso delle età, il sacerdozio esercita sempre due ministeri
fondamentali, che sono due forme di mediazione: il servizio del culto ed il
servizio della parola.
1. Il servizio del *culto.
- Il sacerdote è l’uomo del santuario. Custode dell’*arca nell’epoca antica (1
Sam 1-4; 2 Sam 15, 24-29), egli accoglie i fedeli nella casa di Jahvè (1 Sam 1),
presiede alle liturgie in occasione delle feste del popolo (Lev 23, 11. 20). Il
suo atto essenziale è il *sacrificio. In esso egli appare nella pienezza della
sua funzione di mediatore: presenta a Dio l’offerta dei suoi fedeli; trasmette a
questi la *benedizione divina. Così Mosè nel sacrificio d’alleanza del Sinai (Es
24, 4-8); così Levi, capo di tutta la dinastia (Deut 33, 10). Dopo l’esilio i
sacerdoti svolgono questo ufficio ogni giorno nel sacrificio perpetuo (Es 29,
38-42). Una volta all’anno il sommo sacerdote appare nella sua funzione di
mediatore supremo officiando, nel giorno della *espiazione, per il perdono di
tutte le colpe del suo popolo (Lev 16; Eccli 50, 5-21). In forma accessoria il
sacerdote è pure incaricato dei riti di consacrazione e di purificazione:
1’unzione regale (1 Re 1, 39; 2 Re 11, 12), la purificazione dei lebbrosi (Lev
14) o della puerpera (Lev 12, 6 ss).
2. Il servizio della *parola.
- In Mesopotamia ed in Egitto, il sacerdote esercitava la divinazione; in nome
del suo dio, rispondeva alle consultazioni dei fedeli. Nell’antico Israele, il
sacerdote svolge una funzione analoga usando l’efod (1 Sam 30, 7 s), I’Urim e
Tummim (1 Sam 14, 36- 42; Deut 33, 8); ma non si parla più di questi
procedimenti dopo David. E questo perché in Israele la parola di Dio, adattata
alle diverse circostanze della vita, giunge al suo popolo per altra via: quella
dei *profeti spinti dallo *spirito. Ma esiste pure una forma tradizionale della
parola, che ha il suo punto di partenza nei grandi avvenimenti della storia
sacra e nelle clausola dell’*alleanza sinaitica. Questa tradizione sacra si
cristallizza da una parte nei racconti che richiamano i grandi ricordi del
passato, dall’altra nella *legge che trova in essi il suo significato. I
sacerdoti sono i ministri di questa parola come Aronne in Es 4, 14-16. Nella
liturgia delle *feste, essi ripetono ai fedeli i racconti su cui si fonda la
fede (Es 1 - 15, Gios 2 - 6 sono probabilmente echi di queste celebrazioni). In
occasione delle rinnovazioni dell’alleanza, essi proclamano la torah (Es 24, 7;
Deut 27; Neem 8); ne sono anche gli interpreti ordinari che, mediante istruzioni
pratiche, rispondono alle consultazioni dei fedeli (Deut 33, 10; Ger 18, 18; Ez
44, 23; Agg 2, 11 ss) ed esercitano una funzione giudiziaria (Deut 17, 8-13; Ez
44, 23 s). Come prolungamento di queste attività, essi assicurano la redazione
scritta della legge nei diversi codici: Deuteronomio, legge di santità (Lev
17-26), torah di Ezechiele (40 - 48), legislazione sacerdotale (Es, Lev, Num),
compilazione finale del Pentateuco (cfr. Esd 7, 14-26; Neem 8). Si comprende
così perché, nei libri sacri, il sacerdote appare come l’uomo della *conoscenza
(Os 4, 6; Mal 2, 6 s; Eccli 45, 17): egli è il *mediatore della parola di Dio,
nella sua forma tradizionale di storia e di codici. Tuttavia, negli ultimi
secoli del giudaismo, le sinagoghe si moltiplicano ed il sacerdozio si concentra
nelle sue funzioni rituali. Nello stesso tempo si vede aumentare l’autorità
degli scribi laici. Essi, per lo più collegati alla setta dei farisei, saranno
al tempo di Gesù i maestri principali in Israele.
III. VERSO IL SACERDOZIO PERFETTO
Il sacerdozio del VT, in complesso, è stato fedele alla sua missione: con le sue
liturgie, col suo insegnamento e con la redazione dei libri sacri, ha conservato
viva in Israele la *tradizione di Mosè e dei profeti, ed ha assicurato di età in
età la vita religiosa del popolo di Dio. Ma alla fine doveva essere superato.
1. La critica del sacerdozio.
- La missione sacerdotale comportava esigenze altissime; ora vi furono sempre
sacerdoti inferiori al loro compito. I profeti hanno stigmatizzato le loro
deficienze: contaminazione del *culto di Jahvè con gli usi cananei nei santuari
locali di Israele (Os 4, 4-11; 5, 1-7; 6, 9), sincretismo pagano a Gerusalemme (Ger
2, 26 ss; 23, 11; Ez 8), violazioni della torah (Sof 3, 4; Ger 2, 8; Ez 22, 26),
opposizione ai *profeti (Am 7, 10-17; Is 28, 7-13; Ger 20, 1-6; 23, 33 s; 26),
interesse personale (Mi 3, 11; cfr. 1 Sam 2, 12-17; 2 Re 12, 5-9), mancanza di
zelo per il culto del Signore (Mal 2, 1-9)... Sarebbe semplicistico vedere in
questi rimproveri soltanto la polemica di due caste opposte, profeti contro
sacerdoti. Geremia ed Ezechiele sono sacerdoti; i sacerdoti, che hanno redatto
il Deuteronomio e la legge di santità, hanno manifestamente cercato di riformare
la loro propria casta; negli ultimi secoli del giudaismo, la comunità di Qumrân,
che si stacca dal tempio opponendosi al «sacerdote empio», è una setta
sacerdotale.
2. L’ideale sacerdotale.
- L’interesse principale di queste critiche e di questi disegni di
riforma sta nel fatto che sono tutti ispirati da un ideale sacerdotale. I
profeti ricordano ai sacerdoti contemporanei i loro obblighi: esigono da essi il
*culto puro, la fedeltà alla torah. I legisti sacerdotali definiscono la
*purità, la *santità dei sacerdoti (Ez 44, 15-31; Lev 21; 10). Si sa tuttavia
per esperienza che l’uomo abbandonato a se stesso è incapace di questa purità,
di questa santità. Perciò da Dio stesso si spera in definitiva la realizzazione
del sacerdozio perfetto nel *giorno della restaurazione (Zac 3) e del *giudizio
(Mal 3, 14). Si attende il sacerdote fedele a fianco del *Messia figlio di David
(Zac 4; 6, 12 s; Ger 33, 17-22). Questa speranza dei due messia di Aronne e di
Israele appare più volte negli scritti di Qumrân, ed in un apocrifo, i
«Testamenti dei patriarchi». In questi testi, come in parecchi ritocchi
apportati a testi biblici (Zac 3, 8; 6, 11), il messia sacerdotale prende il
sopravvento sul messia regale. Questo primato del sacerdote è in armonia con un
aspetto essenziale della dottrina dell’alleanza: Israele è il «popolo-sacerdote»
(Es 19, 6; Is 61, 6; 2 Mac 2, 17 s), il solo popolo al mondo che assicuri il
culto del vero Dio; nel suo perfezionamento definitivo esso renderà al Signore
il culto perfetto (Ez 40 - 48; Is 60 - 62; 2, 1-5). come potrebbe farlo senza un
sacerdote alla testa? Tra Dio ed il suo popolo, il VT conosce mediazioni diverse
da quella del sacerdote. Il *re guida il popolo di Dio nella storia come suo
capo istituzionale, militare, politico e religioso. Il *profeta è chiamato
personalmente a portare una parola di Dio originale, adattata ad una situazione
particolare, in cui egli è responsabile della salvezza dei suoi fratelli. Il
sacerdote, come il profeta, ha una missione strettamente religiosa; ma la
esercita nella cornice delle istituzioni; è designato dal diritto ereditario, è
legato al santuario ed alle sue usanze. Porta al popolo la parola di Dio in nome
della *tradizione, e non di sua testa; commemora i grandi ricordi della storia
sacra ed insegna la legge di Mosè. Porta a Dio la preghiera del popolo nella
liturgia e risponde a questa preghiera con la benedizione divina. Assicura nel
popolo eletto la continuità della vita religiosa mediante la tradizione sacra.
NUOVO TESTAMENTO
I valori del VT assumono tutto il loro senso soltanto in Gesù che li *compie
superandoli. Questa legge generale della rivelazione si applica per eccellenza
nel caso del sacerdozio.
I. GESÙ, SACERDOTE UNICO
1. I vangeli sinottici.
- Personalmente Gesù non si attribuisce mai il titolo di sacerdote. E
lo si comprende bene: questo titolo designa nel suo ambiente una funzione
definita, riservata ai membri della tribù di Levi. Ora Gesù vede il suo ufficio
ben diverso dal loro, tanto più ampio e creatore. Preferisce chiamarsi *figlio e
*figlio dell’uomo. Tuttavia, per definire la sua missione, si serve dei termini
sacerdotali. Com’è sua abitudine, si tratta di espressioni implicite e figurate.
Il fatto è chiaro soprattutto quando Gesù parla della sua *morte. Per i suoi
nemici, essa è il castigo di una *bestemmia; per i suoi discepoli, un fallimento
scandaloso. Per lui, è un *sacrificio che egli descrive con le figure del VT: la
paragona ora al sacrificio espiatorio del *servo di Dio (Mc 10, 45; 14, 24; cfr.
Is 53), ora al sacrificio di *alleanza di Mosè ai piedi del Sinai (Mc 14, 24;
cfr. Es 24, 8); ed il sangue che egli dà al tempo della Pasqua evoca quello
dell’agnello pasquale (Mc 14, 24; cfr. Es 12, 7. 13. 22 s). Questa morte che gli
viene inflitta, egli l’accetta; l’offre egli stesso come il sacerdote offre la
vittima; e perciò ne attende l’espiazione dei peccati, l’instaurazione della
nuova alleanza, la salvezza del suo popolo. In breve, egli è il sacerdote del
suo proprio sacrificio. La seconda funzione dei sacerdoti del VT era il servizio
della torah. Ora Gesù ha una posizione chiara in rapporto alla *legge di Mosè:
viene a compierla (Mt 5, 17 s). Senza essere legato alla lettera, che egli
supera (Mt 5, 20-48), ne mette in luce il valore profondo, incluso nel primo
comandamento e nel secondo che gli è simile (Mt 22, 34-40). Questo aspetto del
suo ministero continua quello dei sacerdoti del VT, ma lo supera in tutti i
modi, perché la *parola di Gesù è la rivelazione suprema, il *vangelo della
salvezza che compie definitivamente la legge.
2. Da Paolo a Giovanni.
- Paolo, che ritorna così spesso sulla morte di Gesù, la presenta,
sull’esempio del maestro, sotto le *figure del sacrificio dell’*agnello pasquale
(1 Cor 5, 7), del *servo (Fil 2, 6-11), del giorno della *espiazione (Rom 3, 24
s). Questa interpretazione sacrificale riappare ancora nelle immagini della
comunione col *sangue di Cristo (1 Cor 10, 16- 22), della *redenzione in virtù
di questo sangue (Rom 5, 9; col 1, 20; Ef 1, 7; 2, 13). Per Paolo, la morte di
Gesù è l’atto supremo della sua libertà, il sacrificio per eccellenza, atto
propriamente sacerdotale, che egli ha offerto personalmente. Ma al pari del suo
maestro, e apparentemente per le stesse ragioni, l’apostolo non dà a Gesù il
titolo di sacerdote. La stessa cosa vale per tutti gli altri scritti del NT,
salvo la lettera agli Ebrei: essi presentano la morte di Gesù come il sacrificio
del servo (Atti 3, 13. 26; 4, 27. 30; 8, 32 s; 1 Piet 2, 22 ss), dell’agnello (1
Piet 1, 19). Evocano il suo sangue (1 Piet 1, 2. 19; 1 Gv 1, 7). Non lo chiamano
sacerdote. Gli scritti giovannei sono un po’ meno reticenti: descrivono Gesù in
abiti pontificali (Gv 19, 23; Apoc 1, 13), ed il racconto della passione, atto
sacrificale, si apre con la «preghiera sacerdotale» (Gv 17): come il sacerdote
che sta per offrire un sacrificio, Gesù «si santifica», cioè si consacra
mediante il sacrificio (Gv 17, 19), ed esercita così una mediazione efficace
alla quale aspirava invano il sacerdozio antico.
3. La Lettera agli Ebrei.
- La lettera agli Ebrei, sola, svolge ampiamente il sacerdozio di Cristo.
Riprende i temi già incontrati, presentando la *croce come il sacrificio
dell’espiazione (9, 1-14; cfr. Rom 3, 24 s), dell’alleanza (9, 18-24), del servo
(9, 28). Ma concentra la sua attenzione sulla funzione personale di Cristo
nell’offerta di questo sacrificio. E questo perché Gesù, come già Aronne, e più
ancora, è chiamato da Dio per intervenire a favore degli uomini ed offrire
sacrifici per i loro peccati (5, 1-4). Il suo sacerdozio era prefigurato in
quello di Melchisedech (Gen 14, 18 ss), conformemente all’oracolo del Sal 110,
4. Per mettere in luce questo punto, l’autore dà un’interpretazione sottile dei
testi del VT: il silenzio della Genesi sulla genealogia del resacerdote gli
sembra un indice dell’eternità del Figlio di Dio (7, 3); la decima che Abramo
gli offre segna l’inferiorità del sacerdozio di Levi nei confronti di quello di
Gesù (7, 4-10); il *giuramento di Dio nel Sal 110, 4 proclama la perfezione
immutabile del sacerdote definitivo (7, 20-25). Gesù è il sacerdote santo, il
solo (7, 26 ss). Il suo sacerdozio segna la fine del sacerdozio antico. Questo
sacerdozio ha radici nel suo stesso essere, che lo fa mediatore per eccellenza:
vero uomo (2, 10-18; 5, 7 s), che condivide la nostra povertà fino alla
tentazione (2, 18; 4, 15), e nello stesso tempo vero Figlio di Dio, superiore
agli angeli (1, 1-13), egli è il sacerdote unico ed eterno. Ha compiuto il suo
sacrificio una volta per sempre nel tempo (7, 27; 9, 12. 25-28; 10, 10-14).
Ormai egli è per sempre l’intercessore (7, 24 s), il mediatore della nuova
alleanza (8, 6- 13; 10, 12-18).
4. Nessun titolo esaurisce da solo il mistero di Cristo:
Figlio inseparabile dal Padre, figlio dell’uomo che condensa in sé tutta
l’umanità, Gesù è nello stesso tempo il sommo sacerdote della nuova alleanza, il
Messia-re ed il Verbo di Dio. Il VT aveva distinto le mediazioni del re e del
sacerdote (il temporale e lo spirituale), del sacerdote e del profeta
(l’istituzione e l’evento): distinzioni necessarie per comprendere i valori
propri della rivelazione. Poiché la sua trascendenza lo colloca al di sopra
degli equivoci della storia, Gesù riunisce nella sua persona tutte queste
mediazioni diverse: Figlio, egli è la parola eterna che porta a termine e supera
il messaggio dei profeti; figlio dell’uomo, egli assume tutta l’umanità, ne è il
re con un’autorità ed un amore fino a lui sconosciuti; mediatore unico tra Dio
ed il suo popolo, egli è il sacerdote perfetto per mezzo del quale gli uomini
sono santificati.
II. IL POPOLO SACERDOTALE
1. Gesù.
Gesù, come non attribuisce esplicitamente il sacerdozio a se stesso, così non lo
attribuisce al suo popolo. Ma non ha cessato di agire come sacerdote, e sembra
aver concepito il popolo della nuova alleanza come un popolo sacerdotale. Gesù
si rivela sacerdote mediante l’offerta del suo sacrificio e mediante il servizio
della parola. È sorprendente constatare che egli chiama ciascuno dei suoi a
prender parte a queste due funzioni del suo sacerdozio: ogni *discepolo deve
prendere la sua *croce (Mt 16, 24 par.) e bere il suo *calice (Mt 20, 22; 26,
27); ciascuno deve portare il suo messaggio (Lc 9, 60; 10, 1-16), rendergli
testimonianza fino alla morte (Mt 10, 17-42). Gesù, facendo partecipare tutti
gli uomini ai suoi titoli di Figlio e di re Messia, li fa sacerdoti assieme a
lui.
2. Gli Apostoli.
- Gli apostoli continuano questo pensiero di Gesù presentando la vita cristiana
come una liturgia, una partecipazione al sacerdozio del sacerdote unico. Paolo
considera la fede dei fedeli come un «sacrificio ed una oblazione» (Fil 2, 17);
gli aiuti pecuniari che egli riceve dalla Chiesa di Filippi sono «un profumo di
soave odore, un sacrificio accetto, gradito a Dio» (Fil 4, 18). Per lui, tutta
la vita dei cristiani è un atto sacerdotale; li invita ad offrire i loro corpi
«come ostia vivente, santa, gradita a Dio: questo è il *culto spirituale che voi
dovete rendere» (Rom 12, 1; cfr. Fil 3, 3; Ebr 9, 14; 12, 28). Questo culto
consiste pure sia nella lode del Signore che nella beneficenza e nel mettere in
comune i beni (Ebr 13, 15 s). La lettera di Giacomo enumera in modo
particolareggiato gli atti concreti che costituiscono il vero *culto: la
padronanza della lingua, la visita agli orfani ed alle vedove, l’astensione
dalle sozzure del mondo (Giac l, 26 s). La prima lettera di Pietro e
l’Apocalisse sono esplicite: attribuiscono al popolo cristiano il «sacerdozio
regale» di Israele (l Piet 2, 5- 9; Apoc 1, 6; 5, 10; 20, 6; cfr. Es 19, 6). Con
questo titolo i profeti del VT annunciavano che Israele doveva portare in mezzo
ai popoli pagani la parola del vero Dio, assicurarne il culto. Ormai il popolo
cristiano assume questo compito. Lo può fare grazie a Gesù che lo rende
partecipe della sua dignità messianica di re e di sacerdote.
III. I MINISTRI DEL SACERDOZIO DI GESÙ
Nessun testo del NT dà il nome di sacerdote all’uno o all’altro dei responsabili
della Chiesa. Ma il riserbo di Gesù nell’uso di questo titolo è così grande, che
tale silenzio non è affatto concludente. Gesù fa partecipare il suo popolo al
suo sacerdozio; nel NT, come nel VT, questo sacerdozio del popolo di Dio non può
essere esercitato concretamente se non da ministri chiamati da Dio.
1. Di fatto si constata che Gesù ha chiamato i Dodici per
affidare loro la responsabilità della sua Chiesa. Li ha preparati al servizio
della parola; ha trasmesso loro qualcuno dei suoi poteri (Mt 10, 8-40; 18, 18);
nell’ultima sera ha affidato loro l’eucaristia (Lc 22, 19). Queste sono
partecipazioni specifiche al suo sacerdozio.
2. Gli apostoli lo comprendono. A loro volta stabiliscono dei
responsabili per continuare la loro azione. Taluni di questi portano il titolo
di anziani, che è all’origine del nome attuale dei sacerdoti (presbiteri: Atti
14, 23; 20, 17; Tito l, 5). La riflessione di Paolo sull’*apostolato e sui
*carismi si orienta già verso il sacerdozio dei *ministri della Chiesa. Ai
responsabili delle comunità egli dà titoli sacerdotali: «amministratori dei
misteri di Dio» (1 Cor 4, 1 s), «ministri della nuova alleanza» (2 Cor 3, 6);
definisce la *predicazione apostolica come un servizio liturgico (Rom 1, 9; 15,
15 s). Qui sta il punto di partenza delle esplicitazioni ulteriori della
tradizione sul sacerdozio ministeriale. Esso non costituisce quindi una casta di
privilegiati. Non pregiudica né il sacerdozio unico di Cristo, né il sacerdozio
dei fedeli. Ma, al servizio dell’uomo e dell’altro, esso è una di quelle
*mediazioni subordinate che sono così numerose nel popolo di Dio.
A. GEORGE
→ altare - Aronne - culto VT I 2 - elezione VT I 3 c - espiazione 2 - eucaristia
IV 2, V 1 - imposizione delle mani NT 2 - legge B III 1.5 - mediatore I 1 -
Melchisedech - messia VT II 2; NT II 2 - ministero II 4 - olio 2 - profeta VT I
3 - re VT I 2 - sacrificio - unzione III 3 - vocazione I.
→ segno NT I 2.
Un rapido sguardo
alla Bibbia ci informa sull’importanza e l’universalità del sacrificio. Esso
costella tutta la storia: umanità primitiva (Gen 8, 20), vita dei patriarchi (Gen
15, 9...), epoca mosaica (Es 5, 3), periodo dei giudici e dei re (Giud 20, 26; 1
Re 8, 64), età postestlica (Es 3, 1-6). Ritma l’esistenza dell’individuo e della
comunità. L’episodio misterioso di Melchisedech (Gen 14, 18), in cui la
tradizione ravvisa un pasto sacrificale, l’attività liturgica di Jetro (Es 18,
12) allargano ancora l’orizzonte: fuori del popolo eletto (cfr. Giona 1, 16), il
sacrificio esprime la pietà personale e collettiva. I profeti, nelle loro
visioni del futuro, non dimenticano le offerte dei pagani (Is 56, 7; 66, 20; Mal
1, 11). Così, quando tracciano a grandi linee il loro affresco della storia, gli
scrittori del VT non concepiscono vita religiosa senza sacrificio. Il NT
preciserà questa intuizione e la consacrerà in modo originale e definitivo.
VECCHIO TESTAMENTO
I. SVILUPPO DEI RITI SACRIFICALI
1. Dalla semplicità originale...
- Nell’epoca più lontana che la storia biblica permetta di intravvedere, il
rituale è caratterizzato da una sobrietà rudimentale, conforme ai costumi dei
nomadi o seminomadi: erezione di *altari, invocazione del *nome divino, offerta
di animali o di prodotti del suolo (Gen 4, 3; 12, 7 s). Non c’è posto fisso: si
sacrifica dove Dio si manifesta. L’altare di terra primitivo, la tenda mobile (Es
20, 24; 23, 15) testimoniano a modo loro il carattere occasionale e provvisorio
degli antichi luoghi di *culto. Non ci sono ministri specializzati: il capo di
famiglia o della tribù e, sotto la monarchia, il re, immolano vittime. Ma ben
presto uomini meglio qualificati assumono questo ufficio (Deut 33, 8 ss; Giud
17). Come sotto Giosia il *tempio diventerà il centro unico di ogni attività
sacrificale, così i sacerdoti, con o senza il concorso dei leviti, riserveranno
a sé il monopolio dei sacrifici.
2. ... alla complessità dei riti.
- Questa complessità risulta dagli arricchimenti introdotti dalla
storia. Di fatto si constata una evoluzione nel senso della molteplicità, della
varietà e della specializzazione dei sacrifici. Cause molteplici spiegano questo
sviluppo: passaggio dallo stato nomade e pastorale alla vita sedentaria ed
agricola, influsso cananeo, crescente importanza del *sacerdozio. Israele
assimila elementi presi a prestito dai suoi vicini: filtra, rettifica,
spiritualizza. Nonostante gli abusi della religione popolare (Mi 6, 7; Giud 11,
30 s; 1 Re 16, 34), rigetta le vittime umane (Deut 12, 31; 18, 10; 1 Sam 15, 33
non descrive un sacrificio, ma l’esecuzione di un *anatema). Israele si
arricchisce dell’eredità cultuale degli altri popoli, ed esercita così la sua
funzione mediatrice orientando nuovamente verso il vero Dio pratiche sviate
dalle concezioni pagane. Il suo rituale si completa e si complica.
II. I DIVERSI ASPETTI DEL SACRIFICIO
1. Dai tipi vari che la storia presenta…
- La Bibbia attesta, fin dall’inizio, la coesistenza di tipi vari. L’olocausto
(‘ôlah), sconosciuto ai Mesopotamici, importato tardivamente in Egitto, figura
già nelle vecchie tradizioni e sotto i giudici (Gen 8, 20; Giud 6, 21; 11, 31;
13, 19). La vittima (toro, agnello, capretto, uccello, per esprimere il dono
totale e irrevocabile) era interamente bruciata. Un’altra categoria di
sacrificio, molto diffusa presso i Semiti, consisteva essenzialmente in un
*pasto sacro (zebah šelamîm): il fedele mangia e beve «dinanzi a Jahvè» (Deut
12, 18; 14, 16); l’alleanza del Sinai è suggellata da un sacrificio del genere.
Certamente, non ogni banchetto sacro suppone necessariamente un sacrificio; ma,
di fatto, nel VT questi banchetti di *comunione lo implicavano: una parte della
vittima (bestiame grosso o minuto) spettava di diritto a Dio, padrone della vita
(sangue effuso; grassi consumati = «alimento di Dio», «cibo di Jahvè»), mentre
la carne serviva da cibo ai commensali. Ben presto si praticarono pure riti
espiatori (1 Sam 3, 14; 26, 19; 2 Sam 24, 15...; cfr. Os 4, 8; Mi 6, 7). Secondo
una formula arcaica (Gen 8, 21), conservata e spiritualizzata (Lev 1, 9; 3, 16),
Dio gradiva offerte «dal *profumo soave».
2. ... alla sintesi del Levitico.
- Il Levitico espone in linguaggio tecnico ed in modo sistematico i «*doni»
offerti a Dio (Lev l, 7; 22, 17-30) cruenti o incruenti (minhah): olocausto,
offerte di cibo, sacrifici di comunione (*eucaristico, votivo, spontaneo),
sacrificio per il peccato (hatta’ah), sacrificio di riparazione (‘ašam). Ma le
rubriche non soffocano lo spirito: atti minuziosi assumono un senso sacro. Il
*ringraziamento, ed anche il desiderio di *espiazione (Lev 1, 4; cfr. Giob 1, 5)
ispirano l’olocausto. Dietro una terminologia talora fredda, si scopre un senso
affinato della *santità di Dio, l’ossessione del *peccato, un bisogno insaziato
di purificazione. In questo rituale la nozione di sacrificio tende a
concentrarsi attorno all’idea di espiazione. Il *sangue vi ha una grande parte,
ma la sua efficacia, in definitiva, deriva dalla volontà divina (Lev 17, 11;
cfr. Is 43, 25) e suppone sentimenti di *penitenza. La riparazione delle
impurità rituali, delle colpe incoscienti, iniziava praticamente i fedeli alla
purificazione del cuore, così come le leggi sul *puro e l’impuro orientavano le
anime verso l’astensione dal male. II pasto dei šelamîm traduce e realizza nella
*gioia e nell’euforia spirituale la comunione dei commensali tra loro e con Dio,
perché tutti partecipano della stessa vittima.
III. DAI RITI AL SACRIFICIO SPIRITUALE
1. I riti come segni del «sacrificio spirituale».
- Il Dio della Bibbia non trae profitto dai sacrifici: non si considera Jahvè
come il debitore dell’uomo, ma l’uomo come il cliente di Dio. I riti rendono
visibili i sentimenti interni: *adorazione (olocausto), preoccupazione di
intimità con Dio (šelamîm). Confessione dei peccato, desiderio del *perdono
(riti espiatori). II sacrificio interviene nelle cerimonie d’*alleanza con la
divinità (cfr. Gen 8, 20 ss) e specialmente al Sinai (Es 24, 5-8); consacra la
vita nazionale, familiare, individuale, soprattutto in occasione dei
*pellegrinaggi e delle *feste (1 Sam 1, 3; 20, 6; 2 Re 16, 15). Dialoghi (Es 12,
26; 13, 8; 24, 4- 8), professione di fede (Deut 26, 5-11), *confessione dei
peccati (1 Sam 7, 6; cfr. Lev 5, 5), salmi (cfr. Sal 22, 23-30; 27, 6; 54, 8)
esplicitano talvolta la portata spirituale dell’atto materiale. Secondo Gen 22,
che è forse la carta dei sacrifici del tempio, Dio rifiuta le vittime umane,
accetta l’immolazione degli animali; ma gradisce questi doni soltanto se l’uomo
li offre con un cuore capace di sacrificare, nella *fede, ciò che ha di più
caro, sull’esempio del patriarca *Abramo.
2. Primato della religione interiore.
- Sussisteva una tentazione: di attaccarsi al rito, trascurando il
segno. Di qui le ammonizioní dei *profeti. Ci si inganna talvolta sulle loro
intenzioni. Essi non condannano il sacrificio in quanto tale, ma le sue
contraffazioni ed in particolare le pratiche cananee (Os 2, 15; 4, 13). Di per
sé, la molteplicità dei riti non onora Dio. Un tempo questa proliferazione non
esisteva (Am 5, 25; Is 43, 23 s; Ger 7, 22 ss). Senza le disposizioni del cuore,
il sacrificio si riduce ad un atto vano ed *ipocrita; con sentimenti perversi,
dispiace a Dio (Am 4, 4; Is 1, 11-16). I profeti insistono con forza, secondo il
genio della loro lingua, sul primato dello spirito (*anima) (Am 5, 24; Os 6, 6;
Mi 6, 8). Non fanno innovazioni; continuano una tradizione antica (Es 19, 5; 24,
7 s) e costante (1 Sam 15, 22; 1 Cron 29, 17; Prov 15, 8; 21, 3. 27; Sal 40, 7
ss; 50, 16-23; 69, 31 s; Eccli 34, 18 ss). Il sacrificio interiore non è un
succedaneo, ma l’essenziale (Sal 51, 18 s); talvolta supplisce al rito (Eccli
35, 1-10; Dan 3, 38 ss). Questa corrente spirituale, che riappare a Qumrân,
denunciava la pietà superficiale, interessata od in disaccordo con la vita, ed
infine chiamava in causa i riti stessi. In questo senso i profeti anticipavano
la rivelazione del NT sull’essenza del sacrificio.
3. Il vertice della religione interiore nel VT.
- Accanto alla sintesi legislativa del Levitico, la Bibbia offre un’altra
sintesi, vivente, perché s’incarna in una persona. Il *servo di Jahvè, secondo
Is 53, offrirà la sua morte in sacrificio di espiazione. L’oracolo profetico
segna un progresso notevole sulle concezioni di Lev 16. li capro espiatorio, nel
grande giorno della *espiazione, portava via i peccati del popolo, ma,
nonostante il rito dell’*imposizione delle mani, non si identificava con la
vittima del sacrificio. La dottrina della sostituzione vicaria penale non
affiorava in questa liturgia. Il servo, invece, si sostituisce liberamente ai
peccatori. La sua oblazione senza difetti torna a vantaggio della «moltitudine»
secondo il disegno di Dio. Qui, il massimo di interiorità si unisce al massimo
del dono con il massimo di efficacia.
NUOVO TESTAMENTO
Gesù riprende l’idea profetica del primato dello spirito sul rito (Mt 5, 23 s;
Mc 12, 33). Con questo richiamo egli prepara gli spiriti a comprendere il senso
del suo proprio sacrificio. Tra i due Testamenti c’è continuità e superamento:
la continuità si manifesta con l’applicazione alla morte di Cristo del
vocabolario sacrificale nel NT; il superamento, con la originalità assoluta
dell’offerta di Gesù. Di fatto, questo superamento introduce nel mondo una
realtà essenzialmente nuova.
I. GESÙ SI OFFRE IN SACRIFICIO
Gesù annunzia la sua passione servendosi, parola per parola, dei
termini che caratterizzavano il sacrificio espiatorio del servo di Dio: viene
per «*servire», «dà la sua vita», muore «in riscatto», a vantaggio della
«moltitudine» (Mc 10, 45 par.; Lc 22, 37; Is 53, 10 ss). Inoltre, la cornice
*pasquale del pasto d’*addio (Mt 26, 2; Gv 11, 55 ss; 12, 1...; 13, 1)
stabilisce una relazione intenzionale, precisa, tra la morte di Cristo ed il
sacrificio dell’*agnello pasquale. Infine Gesù si richiama espressamente a Es
24, 8, facendo sua la formula di Mosè, «il sangue dell’alleanza» (Mc 14, 24
par.). Il triplice riferimento all’agnello il cui *sangue libera il popolo
giudaico, alle vittime del Sinai che suggellano l’antica *alleanza, alla morte
espiatrice del servo, dimostra chiaramente il carattere sacrificale della morte
di Gesù: essa procura alle folle la remissione dei peccati, consacra l’alleanza
definitiva e la nascita di un *popolo nuovo, assicura la *redenzione. Questi
effetti sottolineano l’aspetto fecondo della immolazione del Calvario: la
*morte, fonte di *vita. La formula pregnante di Gv 17, 19 riassume questa
dottrina: «Per essi io consacro me stessa, affinché anch’essi siano consacrati
in verità». L’*eucaristia, destinata a rendere presente in memoriam (cfr. Lev
24, 7), nella cornice di un pasto, l’unica oblazione della *croce, collega il
nuovo rito dei cristiani agli antichi sacrifici di comunione. Così l’offerta di
Gesù, nella sua realtà cruenta e nella sua espressione sacramentale, ricapitola
e *compie l’economia del VT: è, ad un tempo, olocausto, minhah, offerta
espiatrice, sacrificio di *comunione. La continuità dei due Testamenti è
innegabile. Ma per la sua unicità, a motivo della dignità del *Figlio di Dio e
della perfezione della sua offerta, per la sua efficacia universale, l’oblazione
di Cristo supera i sacrifici vari e molteplici del VT. Vocabolario antico,
contenuto nuovo. La realtà trascende le categorie di pensiero che servono ad
esprimerla.
II. LA CHIESA RIFLETTE SUL SACRIFICIO DI GESÙ
1. Dal sacrificio del calvario al pasto eucaristico.
- Gli scritti apostolici sviluppano sotto forme diverse queste idee
fondamentali. Gesù diventa «la nostra *Pasqua» (1 Cor 5, 7; Gv 19, 36);
«l’agnello immolato» (1 Piet l, 19; Apoc 5, 6) inaugura nel suo sangue la nuova
alleanza (1 Cor 11, 25), riscatta il gregge (Atti 20, 28), realizza
l’*espiazione dei peccati (Rom 3, 24 s), la *riconciliazione tra Dio e gli
uomini (2 Cor 5, 19 ss; Col 2, 14). Come nel Levitico, si insiste sulla funzione
del *sangue (Rom 5, 9; Col 1, 20; Ef 1, 7; 2, 13; 1 Piet 1, 2. 18 s; 1 Gv 1, 7;
5, 6 ss; Apoc 1, 5; 5, 9). Ma questo sangue è versato da un Figlio per
l’iniziativa del Padre suo. Gli apostoli abbozzano così un accostamento tra il
sacrificio di Isacco e quello di Gesù. Questo parallelo mette in rilievo la
perfezione dell’oblazione del Calvario: Cristo, agapetòs (cfr. Mc 12, 6; 1, 11;
9, 7), si offre alla morte, ed il Padre, per amore degli uomini, non risparmia
il suo proprio Figlio (Rom 8, 32; Gv 3, 16). Così la *croce rivela la natura
intima del sacrificio «di odore gradevole» (Ef 5, 2): nella sua sostanza
spirituale il sacrificio è un atto di *amore. Ormai la *morte, destino
dell’umanità peccatrice, è collocata in una prospettiva assolutamente originale
(Rom 5). Nel tempio era prevista una mensa per i pani di proposizione; esiste
pure, nella comunità cristiana, una «mensa del Signore». Paolo paragona
espressamente l’*eucaristia ai banchetti sacri di Israele (1 Cor 10, 18). Ma
quale differenza! I cristiani non partecipano più soltanto a cose «*sante» o
«santissime», ma comunicano con il corpo ed il sangue di Cristo (1 Cor 10, 16),
principio di vita eterna (Gv 6, 53-58). Questa partecipazione significa e
produce l’unione dei fedeli in un solo *corpo (1 Cor 10, 17). Di fatto, si
realizza così il sacrificio ideale previsto da Malachia (1, 11), valido per
tutti e per tutti i tempi.
2. Figure e realtà.
- Le molteplici allusioni dei vangeli e degli scritti apostolici al vocabolario
rituale del VT scoprono il senso profondo della liturgia antica: essa preparava
e *prefigurava il sacrificio redentore. La lettera agli Ebrei esplicita questa
dottrina mediante il paragone sistematico delle due economie. Gesù, sommo
sacerdote e vittima, crea, come Mosè sul Sinai, un’alleanza tra Dio ed il suo
popolo. Ormai questa alleanza è perfetta e definitiva (Ebr 8, 6-13; 9, 15 - 10,
18). Più ancora, Cristo, come il sommo sacerdote nel giorno della espiazione,
compie un’azione purificatrice. Ma questa volta egli elimina il peccato mediante
l’effusione del suo sangue, più efficace di quello delle vittime del tempio. I
credenti non ottengono più soltanto la «*purità della *carne», ma la
«purificazione delle coscienze» (9, 12 ss). La personalità del pontefice,
l’eccellenza del santuario in cui si consuma il sacrificio - il *cielo -
garantiscono il valore unico, l’efficacia assoluta ed universale dell’oblazione
di Cristo. Questo sacrificio, archetipo di tutti gli altri che erano soltanto
l’ombra della realtà, non ha bisogno di essere reiterato (10, 1. 10). La
liturgia che, secondo l’Apocalisse (5, 6...), si svolge in cielo attorno
all’agnello immolato, si collega alla rappresentazione della lettera agli Ebrei.
3. Dal sacrificio del capo al «sacrificio spirituale» delle membra.
- I profeti insistevano sui prolungamenti dell’atto rituale nella vita
quotidiana; più ancora, l’Ecclesiastico paragonava una condotta virtuosa al
sacrificio (Eccli 35, 1 ss). Si ritrova nel NT la stessa applicazione spirituale
alla vita cristiana ed apostolica (Rom 12, 1; 15, 16; Fil 2, 17; 4, 18; Ebr 13,
15). I credenti, stimolati dallo Spirito che li anima, in comunione vitale con
il loro Signore, formano «un *sacerdozio santo, allo scopo di offrire sacrifici
spirituali, bene accetti a Dio per mezzo di Gesù Cristo» (1 Piet 2, 5).
C. HAURET
→ Abramo I 2 - agnello di Dio - alleanza - altare - animali II 3 - colomba 1 -
comunione VT 1 - culto - dono VT 3; NT 2 - elemosina VT 3 - espiazione -
eucaristia IV 2, V - fuoco VT II 1 - martire - morte - nutrimento I - pace I 3 -
pace I 3 - pane II 3, III - Pasqua - pasto II - primizie I 2 a, II - profumo 2 -
redenzione NT 2 - sacerdozio VT II l; NT I 1.2 - sale 2 - sangue VT 3 b; NT 1 -
santo - servo di Dio II 2, III - tempio NT III 1 - vino I 2.
→ anatema VT - pasto II - puro VT I 1 - sacrificio - santo - sessualità II 1 - timore di Dio I.
→ farisei 1 - legge B III 5 - re VT II 3 - risurrezione VT III.
→ giustizia - grazia IV - lavoro II, III - regno NT II 3 - retribuzione.
1. Sale e
regione desertica.
- Gli abitanti della Palestina vivevano nei pressi del Mar Morto, chiamato,
secondo antichi testi, «mare di sale» (Gen 14, 3; Gios 3, 16; 12, 3...), che si
estendeva a sud con la valle del sale (2 Sam 8, 13; 2 Re 14, 7). Veri *deserti
in cui non abita nessuno (Ger 17, 6; Sal 107, 34; Giob 39, 6), queste terre
salate si direbbero vittime di qualche *castigo, di cui il sale sarebbe stato lo
strumento: la moglie di Lot fu infatti mutata in statua di sale (Gen 19, 26); si
dice anche che sulla città vinta si semina del sale (Giud 9, 45). La minaccia
incombe sugli empi (Sof 2, 9) e allora «niente potrà più spuntare su questi
luoghi» (Deut 29, 22). Tuttavia, un giorno, l’*acqua trionferà: mentre paludi e
lagune saranno abbandonate al sale (Ez 47, 11), dal lato destro del tempio
zampillerà il fiume che bonificherà il mare salato (47, 8), sicché anche in
questi luoghi vi sarà sovrabbondanza di vita (47, 8 s).
2. Riti e purificazione.
- Secondo gli antichi riti sacrificali, le offerte devono essere tutte salate (Lev
2, 13; Ez 43, 24). Si tratta in tal modo di dar sapore agli «alimenti di Dio» (Lev
21, 6. 8. 17. 22) oppure di confermare quel che indica «il sale dell’alleanza di
Dio» (Lev 2, 13), cioè, come viene rilevato più sotto, un’alleanza duratura?
Rispondere è difficile. Ma, come avviene per l’incenso, pare proprio che il sale
abbia una funzione *purificatrice; come testimonia Eliseo che rende salubre
un’«acqua cattiva» (2 Re 2, 19-22). Forse anche nell’usanza di sfregare con del
sale il neonato (Ez 16, 4) bisogna vedere piuttosto un gesto rituale affine
all’esorcismo, anziché una preoccupazione igienica. A questa funzione
purificatrice potrebbe far riferimento la frase di Gesù: «Saranno tutti salati
col fuoco» (Mc 9, 49); effettivamente, il *fuoco prova e purifica (1 Cor 3, 13).
3. Sapore e durata.
- Il sale è uno degli alimenti più necessari alla vita dell’uomo (Eccli 39, 26);
perciò «mangiare il sale del palazzo» (Esd 4, 14), significa ricevere dal re il
proprio «salario» (cfr. lat. sal). Il sale rende sapidi gli alimenti (Giob 6,
6). Avendo la proprietà di conservarli (Bar 6, 27), viene a significare il
valore duraturo di un contratto: un’«*alleanza di sale» (Num 18, 19) è un patto
perpetuo, come quello di Dio con David (2 Cron 13, 5). Tra le frasi di Gesù che
permangono oscure, sono note quelle riguardanti la metafora del sale. «Se il
sale perde sapore, con che cosa si condirà?» (Lc 14, 34; Mc 9, 50). Secondo un
primo significato possibile, in rapporto al «sale dell’alleanza», questo
significherebbe che, se viene a rompersi l’alleanza con il Signore, non la si
potrà più riallacciare. Secondo l’interpretazione di Matteo, il credente deve
essere «il sale della terra» (Mt 5, 13), cioè deve conservare e rendere saporito
il mondo degli uomini nella sua alleanza con Dio. Diversamente, non è più buono
a nulla, e i discepoli meritano di essere gettati fuori (Lc 14, 35). Ma «il sale
resta una buona cosa; abbiate dunque in voi stessi del sale e vivete in pace gli
uni con gli altri» (Mc 9, 50), frase di cui si potrebbe trovare un commento in
Paolo: «Il vostro linguaggio sia sempre amabile, condito di sale, per saper
rispondere a ciascuno come si deve» (Col 4, 6).
X. LÉON DUFOUR
→ deserto 0 - fuoco NT II 2 - nutrimento.
→ ascensione - Gerusalemme VT III 3; NT I 1.4 - monte - pellegrinaggio - via.
→ benedizione II 5 - David 3 - lode - preghiera II - ringraziamento VT 3.
→ pace II 2 - sapienza VT I 1; NT I 1 - tempio VT I 3.
→ malattia - guarigione - pace I 2.
→ Gesù Cristo II 1 b. 2 c - Giosuè 2 - salvezza.
L’idea di
salvezza (gr. sòzo e derivati) è espressa in ebraico da tutto un gruppo di
radici che si riferiscono alla stessa esperienza fondamentale: essere salvato
significa esser tratto da un pericolo in cui si rischiava di perire. Secondo la
natura del pericolo, l’atto di salvare si collega alla protezione, alla
liberazione, al riscatto, alla guarigione; e la salvezza, alla vittoria, alla
vita, alla pace... Partendo da questa esperienza umana, e riprendendo gli stessi
termini che la esprimevano, la rivelazione ha spiegato uno degli aspetti più
essenziali dell’azione di Dio in terra: Dio salva gli uomini, Cristo è nostro
salvatore (Lc 2, 11), il vangelo apporta la salvezza ad ogni credente (Rom 1,
16). C’è dunque qui un termine chiave del linguaggio biblico, ma le sue
risonanze finali non devono far dimenticare il suo lento processo di
elaborazione.
VECCHIO TESTAMENTO
I. LA SALVEZZA DI DIO NELLA STORIA E NELLA ESCATOLOGIA
L’idea di un Dio che salva i suoi fedeli è comune a tutte le religioni. Nel VT è
un tema corrente ed antico, come dimostrano i nomi propri composti con la radice
«salvare» (*Giosuè, Isaia, Eliseo,Osea, per non citare che la radice principale
jaša’). Ma l’esperienza storica del popolo di Dio gli dà una tinta particolare
che spiega per una parte il suo uso nell’escatologia profetica.
1. L’esperienza storica.
- Israele, quando si trova in momenti critici e Dio lo libera sia
mediante un concorso provvidenziale di circostanze che può giungere fino al
*miracolo, sia mandandogli un capo umano che lo porta alla *vittoria,
esperimenta la «salvezza di Dio». L’assedio di Gerusalemme da parte di
Sennacherib ne offre un esempio classico: il re di Assiria lancia a Jahvè la
sfida di salvare Israele (2 Re 18, 30-35); Isaia promette la salvezza (2 Re 19,
34; 20, 6); ed effettivamente Dio salva il suo popolo. Ora gli storici sacri
mettono in rilievo nel passato molteplici esperienze dello stesso genere. Dio ha
salvato David (cioè: gli ha dato la vittoria) dovunque andasse (2 Sam 8, 6. 14;
23, 10. 12). Per mezzo di David ha salvato il suo popolo dalla mano dei suoi
nemici (2 Sam 3, 18), come aveva già fatto per mezzo di Saul (1 Sam 11, 13), di
Samuele (1 Sam 7, 8), di Sansone (Giud 13, 5), di Gedeone (Giud 14), di tutti i
giudici (Giud 2, 16. 18). Soprattutto al momento dell’esodo egli salvò Israele
riscattandolo e *liberandolo (Es 14, 13; cfr. Is 63, 8 s; Sal 106, 8. 10- 21).
E, risalendo nel passato oltre questa esperienza capitale, lo vediamo che salva
i figli di Giacobbe per mezzo di Giuseppe (Gen 45, 5), salva la vita di Lot (Sap
10, 6), salva Noè al tempo del diluvio (Sap 10, 4; cfr. Gen 7, 23)... Si
comprende quindi come in ogni pericolo urgente Israele si rivolga a Jahvè «per
essere salvato» (Ger 4, 14) e si lamenti se la salvezza sperata non giunge (Ger
8, 20). Egli sa che, fuori del suo Dio, non c’è salvatore (Is 43, 11; cfr. 47,
15; Os 13, 4), e, pensando alle salvezze passate, ama invocarlo sotto questo
titolo (cfr. Is 63, 8; 1 Mac 4, 30). È vero che, in questa stessa storia, si
vede delinearsi in più di un caso una legge provvidenziale, le cui conseguenze
si manifesteranno nel quadro dell’escatologia: nei pericoli causati dal *peccato
umano, solo un *resto viene salvato (come Noè, al momento del diluvio). La
salvezza non si realizza senza che l’accompagni un *giudizio divino e senza che
i giusti siano separati dai peccatori.
2. Le promesse escatologiche.
- Proprio nel momento della grande prova nazionale Israele guarda con più
fiducia al Dio che lo salverà (cfr. Mi 7, 7). Il suo titolo di salvatore diventa
un motivo dominante dell’escatologia profetica (Sof 3, 17; Is 33, 22; 43, 3; 45,
15. 21; 60, 16; Bar 4, 22), e gli oracoli relativi agli «ultimi tempi»
descrivono sotto aspetti diversi la salvezza finale di Israele. Jahvè, dice
Geremia, salverà il suo popolo riconducendolo nella sua *terra (Ger 31, 7) ed
inviandogli il *re-*Messia (Ger 23, 6). Jahvè, dice Ezechiele, salverà le sue
opere riconducendole ad un buon pascolo (Ez 34, 22); salverà il suo popolo da
tutte le sue immondezze mediante il dono del suo *spirito (Ez 36, 29). Il
messaggio di consolazione e la letteratura affine evocano costantemente il Dio
che viene a salvare il suo popolo (Is 35, 4) e, al di là di Israele, la terra
intera (Is 45, 22). La salvezza è l’atto essenziale della sua *giustizia
vittoriosa (cfr. Is 63, l); proprio per realizzarla egli manderà il suo *servo (Is
49, 6-8). Il binomio «giustizia-salvezza» tende quindi a diventare una
designazione tecnica della sua opera escatologica, promessa e salutata in
anticipo con entusiasmo (Is 46, 13; 52, 7-40; 56, 1; 59, 17; 61, 10; 62, 1). Ma
più ancora che nella storia di Israele, l’esperienza di questa salvezza sarà
riservata a un *resto (Am 3, 12; 5, 15; 9, 8; Is 10, 20 s; 25, 8): prima del suo
avvento, quaggiù si opererà il giudizio di Dio. Le descrizioni postesiliche del
*giorno di Jahvè canteranno la *gioia di questa salvezza (Is 12, 2; 25, 9)
accordata a tutti coloro che invocano il *nome del Signore (Gioe 3, 5), a tutti
coloro che sono scritti nel suo *libro (Dan 12, 1). Infine la sapienza
alessandrina descriverà la salvezza dei giusti nell’ultimo giorno (Sap 5, 2).
Lungo i testi l’idea di salvezza si è così arricchita di tutta una gamma di
risonanze. Legata al *regno di Dio, essa è sinonimo di *pace e di felicità (Is
52, 7), di *purificazione (Es 36, 29) e di *liberazione (Ger 31, 7). Il suo
artefice umano, il *re escatologico, merita quindi il titolo di salvatore (Zac
9, 9 LXX), perché salverà i poveri oppressi (Sal 72, 4. 13). Tutti questi
aspetti della profezia preparano direttamente il NT.
II. LA SALVEZZA DI DIO NELLA PREGHIERA DI ISRAELE
Con un simile sfondo di esperienza storica e di profezia, la preghiera
di Israele dà un posto importantissimo al tema della salvezza.
1. Le certezze della fede.
- La salvezza è un *dono di Dio: questa è la certezza fondamentale, a sostegno
della quale si può invocare l’esperienza della conquista (Sal 44, 4. 7 s).
Inutile nutrire una *fiducia presuntuosa nelle *forze umane (Sal 33, 16-19): la
salvezza dei giusti viene da Jahvè (Sal 37, 39 s); egli stesso è la salvezza (Sal
27, 1; 35, 3; 62, 7). Questa dottrina è corroborata da numerose esperienze.
Quanti uomini in pericolo sono stati salvati da Dio quando lo hanno invocato (Sal
107, 13. 19. 28; cfr. 22, 6)! Parecchie preghiere di ringraziamento testimoniano
fatti di questo genere (ad es. Sal 118, 14): preghiere di persone salvate dal
pericolo (Sal 18, 20), dalla prova (Eccli 51, 11), dalla minaccia di morte (Sal
116, 6). I libri di epoca tarda si compiacciono nel raccontare storie simili: i
tre fanciulli salvati dal fuoco (Dan 3, 28 = 95), e Daniele dalla fossa dei
leoni (Dan 6, 28); perché Dio salva sempre chi spera in lui (Dan 13, 60). Lo
assicura ad ognuno dei suoi servi (Sal 91, 14 ss), come ha promesso di farlo per
il suo popolo (Sal 69, 36) e per il suo unto (Sal 20, 7). Ed i salmi enumerano
tutti i clienti di Dio, che egli abitualmente salva quando lo invocano: i
*giusti (34, 16. 19), i *poveri (34, 7; 109, 31), gli *umili (18, 28; 76, 10;
149, 4), i piccoli (116, 6), i *perseguitati (55, 17), i cuori retti (7, 11),
gli spiriti abbattuti (34, 19) ed in generale tutti coloro che lo temono (145,
19). C’è qui di che dare fiducia ed incitare alla preghiera.
2. Gli appelli al Dio salvatore.
- I supplicanti invocano Dio sotto il titolo di salvatore (Eccli 51, 1;
«salvatore dei disperati», Giudit 9, 11) o di «Dio di salvezza» (Sal 51, 16; 79,
9). La loro preghiera consiste in una sola parola: «Salva, o Jahvè!» (Sal 118,
25), «Salvami, ed io sarò salvato» (Ger 17, 14). Il seguito evoca generalmente
circostanze concrete, simili a quelle in cui tutti gli uomini vengono a trovarsi
un giorno o l’altro: *prova ed angoscia (Sal 86, 2), pericolo imminente e
mortale (69, 2. 15), *persecuzione dei nemici (22, 22; 31, 12. 16; 43, 1; 59,
2). E talvolta Jahvè stesso risponde alla supplica mediante un oracolo di
salvezza (Sal 12, 2. 6). Al di là delle richieste individuali, lo spirito
israelitico invoca d’altronde la salvezza escatologica promessa dai profeti
(cfr. Sal 14, 7; 80, 3 s. 8. 20): «Salvaci, o Jahvè nostro Dio, e raccoglici di
tra le nazioni!» (Sal 106, 47). Anche qui si dà il caso che Jahvè risponda
mediante un oracolo (Sal 85, 5. 8. 10). L’influsso del messaggio di consolazione
è così grande che taluni salmi cantano in anticipo la manifestazione di salvezza
che esso annunziava (Sal 96, 2; 98, 1 ss), mentre altri esprimono la speranza di
sperimentarne la gioia (Sal 51, 14). Attraverso tutti questi testi, si vede come
lo spirito di Israele, alle soglie del NT, era teso verso la salvezza che Cristo
apporterà al mondo.
NUOVO TESTAMENTO
I. LA RIVELAZIONE DELLA SALVEZZA
1. *Gesù Cristo salvatore degli uomini.
a) Gesù si rivela come salvatore dapprima con atti
significativi. Salva i *malati guarendoli (Mt 9, 21 par.; Mc 3, 4; 5, 23; 6,
56); salva Pietro che cammina sulle acque ed i discepoli in balia della tempesta
(Mt 8, 25; 14, 30). L’essenziale è credere in lui: a salvare gli ammalati è la
loro *fede (Lc 8, 48; 17, 19; 18, 42), ed i discepoli vengono rimproverati per
aver dubitato (Mt 8, 26; 14, 31). Questi fatti mostrano già qual è la economia
della salvezza. Tuttavia bisogna vedere più in là della salvezza corporale. Gesù
apporta agli uomini una salvezza, molto più importante: la peccatrice è salvata
perché egli le rimette i peccati (Lc 7, 48 ss), e la salvezza entra nella casa
di Zaccheo penitente (Lc 19, 9). Per essere salvati, occorre dunque accogliere
con fede il vangelo del regno (cfr. Lc 8, 12). Quanto a Gesù, la salvezza è lo
scopo della sua vita: egli è venuto in terra per salvare ciò che era perduto (Lc
9, 56; 19, 10), per salvare il mondo e non per condannarlo (Gv 3, 17; 12, 47).
Se parla, lo fa per salvare gli uomini (Gv 5, 34). Egli è la *porta: chi entra
per lui sarà salvato (Gv 10, 9).
b) Queste parole fanno vedere che la salvezza degli uomini è il
problema essenziale. Il peccato li espone al pericolo della perdizione. *Satana
è pronto a tutto tentare per perderli e per impedire che siano salvati (Lc 8,
12). Sono pecore perdute (Lc 15, 4. 7); ma Gesù è stato proprio mandato per esse
(Mt 15, 24): non si perderanno più, se entrano nel suo gregge (Gv 10, 28; cfr.
6, 39; 17, 12; 18, 9). Tuttavia la salvezza che egli offre ha una contropartita:
per chi non ne afferra l’occasione, il rischio di perdizione è imminente ed
irreparabile. Bisogna fare *penitenza in tempo, se non si vuole andare alla
perdizione (Lc 13, 3. 15). Bisogna entrare per la porta stretta, se si vuole
appartenere al numero di salvati (Lc 13, 23 s). Bisogna perseverare in questa
via sino alla fine (Mt 24, 13). L’obbligo del distacco è tale che i discepoli si
domandano: «Ma allora chi sarà salvato?». Effettivamente ciò sarebbe impossibile
agli uomini, occorre un atto della onni*potenza di Dio (Mt 19, 25 s par.).
Infine la salvezza che Gesù offre si presenta sotto la forma di un paradosso.
Chi vuole salvarsi, si perderà; chi accetta di perdersi, si salverà per la vita
eterna (Mt 10, 39; Lc 9, 24; Gv 12, 25). Questa è la legge, e Gesù stesso vi si
sottomette: egli, che ha salvato gli altri, non salva se stesso nell’ora della
*croce (Mc 15, 30 s). Certamente il Padre potrebbe salvarlo dalla morte (Ebr
5,7); ma proprio per quest’*ora egli è venuto in terra (Gv 12, 27). Chi cercherà
la salvezza nella fede in lui, dovrà dunque *seguirlo fin là.
2. Il vangelo della salvezza.
a) Dopo la risurrezione e la Pentecoste, il messaggio della comunità
apostolica ha come oggetto la salvezza realizzata conformemente alle Scritture.
Con la sua *risurrezione, Gesù è stato stabilito da Dio «capo e salvatore» (Atti
5, 31; cfr. 13, 23). I *miracoli operati dagli apostoli confermano il messaggio:
se gli ammalati sono salvati in virtù del *nome di Gesù, si è perché non c’è
alcun altro nome per mezzo del quale noi possiamo essere salvati (Atti 9, 9-12;
cfr. 14, 3). Il *vangelo quindi viene definito come la «parola della salvezza»
(Atti 13, 26; cfr. 11, 14), rivolta dapprima ai Giudei (Atti 13, 26) poi alle
altre nazioni (Atti 13, 47; 28, 28). In cambio, gli uomini sono invitati a
credere «per salvarsi da questa *generazione sviata» (Atti 2, 40). La condizione
della salvezza è la *fede nel Signore Gesù (Atti 16, 30 s; cfr. Mc 16, 16),
l’invocazione del suo nome (Atti 2, 21; cfr. Gioe 3,5). A questo riguardo Giudei
e pagani sono in identica posizione. Non si salvano da soli; li salva la *grazia
del Signore Gesù (Atti 15, 11). Gli apostoli apportano quindi agli uomini
l’unica «via della salvezza» (Atti 16, 17). I convertiti ne sono coscienti a tal
punto che considerano se stessi come il *resto che dev’essere salvato (Atti 2,
47).
b) Questa importanza del tema della salvezza nella predicazione
primitiva spiega come gli evangelisti Matteo e Luca abbiano voluto sottolineare
fin dall’infanzia di Gesù la sua futura funzione di salvatore. Matteo pone
questa funzione in rapporto con il suo nome, che significa «Jahvè salva» (Mt 1,
21). Luca gli dà il titolo di salvatore (Lc 2, 11); fa salutare da Zaccaria
l’alba vicina della salvezza promessa dai profeti (1, 69. 71. 77), e da Simeone
la sua comparsa in terra in una prospettiva di universalismo totale (2, 30).
Infine la predicazione di Giovanni Battista, secondo le Scritture, prepara le
vie del Signore affinché «ogni carne veda la salvezza di Dio» (3, 2-6; cfr. Is
40, 3 ss; 52, 10). I ricordi conservati nel seguito dei vangeli presentano in
modo concreto questa manifestazione della salvezza che culminerà nella croce e
nella risurrezione.
II. TEOLOGIA CRISTIANA DELLA SALVEZZA
Benché gli scritti apostolici ricorrano ad un vocabolario vario per
descrivere l’opera *redentrice di Gesù, si può tentare di costruire una sintesi
di dottrina cristiana attorno all’idea di salvezza.
1. Senso della vita di Cristo.
- «Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini» (1 Tim 2, 4; cfr. 4, 10). Perciò
ha mandato il suo Figlio come salvatore del *mondo (1 Gv 4, 14). Quando è
apparso in terra «il nostro Dio e salvatore» (Tito 2, 13), che veniva a salvare
i peccatori (1 Tim 1, 15), si sono manifestati la grazia e l’amore di Dio nostro
salvatore (Tito 2, 11; 3, 4); infatti con la sua morte e la sua risurrezione
Cristo è diventato per noi «principio di salvezza eterna» (Ebr 5, 9), salvatore
del *corpo che è la *Chiesa (Ef 5, 23). Il titolo di salvatore conviene così
ugualmente sia al Padre (1 Tim 1, 1; 2, 3; 4, 10; Tito 1, 3; 2, 10) che a Gesù
(Tito 1, 4; 2, 13; 3, 6; 2 Piet 1, 11; 2, 20; 3, 2. 18). Perciò il vangelo che
riferisce tutti questi fatti è «una *forza di Dio per la salvezza di ogni
credente» (Rom 1, 16). Annunziandolo, 1’*apostolo non ha altro scopo che la
salvezza degli uomini (1 Cor 9, 22; 10, 33; 1 Tim 1, 15), sia che si tratti di
pagani (Rom 11, 11) oppure dei Giudei, un *resto dei quali almeno è stato
salvato (Rom 9, 27; 11, 14) in attesa che infine lo sia tutto Israele (Rom 11,
26).
2. Senso della vita cristiana.
- Una volta che il vangelo è proposto loro dalla parola apostolica, gli uomini
devono fare una scelta, che determinerà la loro sorte: la salvezza o la
perdizione (2 Tess 2, 10; 2 Cor 2, 15), la *vita o la *morte. Coloro che credono
e *confessano la loro fede sono salvati (Rom 10, 9 s. 13), e la loro *fede viene
d’altronde suggellata col ricevere il *battesimo che è una vera esperienza della
salvezza (1 Piet 3, 21). Dio li salva per pura *misericordia, senza considerare
le loro opere (2 Tim 1, 9; Tito 3, 5), per *grazia (Ef 2, 5. 8), donando loro lo
Spirito Santo (2 Tess 2, 13; Ef 1, 13; Tito 3, 5 s). A partire da questo momento
il cristiano deve custodire con fedeltà la *parola che può salvare la sua *anima
(Giac 1, 21); deve nutrire la sua fede mediante la conoscenza delle Scritture (2
Tim 3, 15) e farla fruttificare in *opere buone (Giac 2, 14); deve lavorare con
*timore e tremore a «compiere la sua salvezza» (Fil 2, 12 ). Ciò suppone un
esercizio costante delle virtù salutari (1 Tess 5, 8), grazie alle quali egli
*crescerà in vista della salvezza (1 Piet 2, 2). Non è permessa nessuna
negligenza; la salvezza viene offerta ad ogni istante della vita (Ebr 2, 3);
«ora è il *giorno della salvezza» (2 Cor 6, 2).
3. L’attesa della salvezza finale.
- Se noi siamo così eredi della salvezza (Ebr 1, 14) e pienamente *giustificati
(Rom 5, 1), tuttavia non siamo ancora salvati se non nella *speranza (Rom 8,
24). Dio ci ha riservati per la salvezza (1 Tess 5, 9), ma si tratta di
un’*eredità che non si rivelerà se non alla fine dei *tempi (1 Piet 1, 5). Lo
sforzo della vita cristiana si impone, perché ogni giorno che passa ce
l’avvicina (Rom 13, 11). La salvezza, nel senso stretto della parola, si deve
quindi considerare nella prospettiva escatologica del *giorno del Signore (1 Cor
3, 1 ss; 5, 5). Già *riconciliati con Dio mediante la morte del suo Figlio e
*giustificati mediante il *sangue suo, noi allora saremo salvati per mezzo suo
dall’*ira (Rom 5, 9 ss). Cristo apparirà per darci la salvezza (Ebr 9, 28).
Attendiamo quindi questa manifestazione finale del salvatore, che porterà a
termine la sua opera trasformando il nostro *corpo (Fil 3, 20 s); in tal senso
la nostra salvezza è oggetto di speranza (Rom 8, 23 ss). Allora saremo salvati
dalla *malattia, dalla *sofferenza, dalla *morte; tutti i mali, da cui i
salmisti domandavano di essere liberati e di cui Gesù, durante la sua vita,
trionfava mediante il miracolo, saranno definitivamente aboliti. Il compimento
di una simile opera sarà la *vittoria per eccellenza di Dio e di Cristo. In
questo senso le acclamazioni liturgiche dell’Apocalisse attestano: «La salvezza
appartiene al nostro Dio e all’agnello» (Apoc 7, 10; 12, 10; 19, 1).
C. LESQUIVIT e P. GRELOT
→ beatitudine - calice 3 - cielo IV - culto NT III 1 - diluvio -
disegno di Dio - fede NT III - gioia NT I 1 - giorno del Signore - Giosuè -
giudizio - giustizia 0; A II NT; B I - legge C III 2 - liberazione-libertà -
malattia-guarigione VT II 2.3; NT II - miracolo II 2 - misericordia VT I 2 -
mondo VT II 3, III 2 - morte VT III - nazioni VT III 2; NT - Noè - opere VT I 1;
NT I 2 - pace I 3, III 1 - parola di Dio NT II 1 - perdono II 1.2 - potenza IV -
predestinare 2.3 - profeta VT IV 2 - redenzione - riconciliazione I 3 -
rivelazione NT II 1 a - servo di Dio III 1.2 - speranza VT III - Spirito di Dio
VT I - vangelo IV 2 a - visita - vittoria - volontà di Dio.
SANGUE (inizio)
Nel tardo
giudaismo e nel NT il binomio «*carne e sangue» designa l’uomo nella sua natura
caduca (Eccli 14, 18; 17, 31; Mt 16, 17; Gv 1, 13), la condizione che il Figlio
di Dio ha assunto venendo in terra (Ebr 2, 14). Ma al di fuori di questo caso,
la Bibbia non si occupa se non del sangue versato (cruor), sempre legato alla
vita perduta o sacrificata, a differenza del pensiero greco che collega il
sangue (nel senso del latino sanguis) alla generazione ed alla emotività
dell’uomo.
VECCHIO TESTAMENTO
La religione di Israele, al pari di tutte le religioni antiche, riconosce al
sangue un carattere sacro, perché il sangue è la *vita (Lev 17, 11. 14; Deut 12,
23), e tutto ciò che concerne la vita è in stretto rapporto con Dio, solo
padrone della vita. Di qui tre conseguenze: il divieto dell’omicidio, il divieto
alimentare del sangue, l’uso del sangue nel culto.
1. Divieto dell’omicidio.
- L’uomo è stato fatto ad immagine di Dio, e perciò Dio solo ha potere
sulla sua vita; se uno ne versa il sangue, Dio gliene domanderà conto (Gen 9, 5
s). Ciò costituisce il fondamento religioso del precetto del Decalogo: «Non
uccidere» (Es 20, 13). In caso di omicidio il sangue della vittima, come quello
di *Abele, «grida *vendetta» contro l’uccisore (Gen 4, 10 s; cfr. 2 Sam 21, 1;
Ez 24, 7 s; 35, 6). Il diritto consuetudinario ritiene allora legittima l’azione
del «vendicatore del sangue» (Gen 9, 6). Cerca soltanto di evitare la vendetta
illimitata (cfr. Gen 4, 15. 23 s) e di assegnarle delle regole (Deut 19, 6-13;
Num 35, 9- 34). D’altronde Dio stesso si incarica di questa vendetta, facendo
ricadere il sangue innocente sul capo di coloro che lo versano (Giud 9, 23 s; 1
Re 2, 32). Perciò i fedeli perseguitati fanno appello a lui, affinché vendichi
il sangue dei suoi servi (Sal 79, 10; 2 Mac 8, 3; cfr. Giob 16, 18- 21), ed egli
stesso promette che lo farà, quando verrà il suo *giorno (Is 63, 1-6).
2. Divieto alimentare del sangue.
- Il divieto di mangiare il sangue e la carne non ritualmente dissanguata (Deut
12, 16; 15, 23; cfr. 1 Sam 14, 32-35) è molto anteriore alla rivelazione biblica
(cfr. Gen 9, 4). Qualunque ne sia il senso originale, esso riceve nel VT
motivazioni precise: il sangue, al pari della vita, appartiene soltanto a Dio;
costituisce la parte che gli è propria nei sacrifici (Lev 3, 17); l’uomo non può
servirsene se non per fare l’espiazione (Lev 17, 11 s). Questo divieto del
sangue durerà per un certo tempo nelle origini cristiane, per facilitare la
comunanza di mensa tra Giudei e pagani convertiti (Atti 15, 20-29).
3. Uso cultuale del sangue.
- Il carattere sacro del sangue determina infine i suoi diversi usi cultuali.
a) *L’alleanza tra Jahvè ed il suo popolo è suggellata da un
rito cruento: il sangue delle vittime è per metà asperso sull’*altare, che
rappresenta Dio, per metà sul popolo. Mosè spiega il rito: «Questo è il sangue
dell’alleanza che Jahvè ha concluso con voi...» (Es 24, 3-8). Con ciò è
stabilito un legame indissolubile tra Dio ed il suo popolo (cfr. Zac 9, 11; Ebr
9, 16-21).
b) Nei *sacrifici il sangue è quindi l’elemento essenziale. Sia
che si tratti dell’olocausto, del sacrificio di comunione oppure dei riti
consacratori, i sacerdoti lo versano sull’altare ed attorno ad esso (Lev 1, 5.
11; 9, 12; ecc.). Nel rito pasquale il sangue dell’*agnello assume un altro
valore: se ne pone sul frontone e sugli stipiti della porta (Es 12, 7. 22) per
preservare la casa dai flagelli distruttori (12, 13. 23).
c) I riti di sangue hanno un’importanza eccezionale nelle
liturgie di *espiazione, perché «è il sangue che espia» (Lev 17, 11). Lo si
versa in aspersioni (4, 6 s; ecc.). Soprattutto nel giorno della espiazione, il
sommo sacerdote entra nel santissimo con il sangue delle vittime offerte per i
suoi peccati e per quelli del popolo (16).
d) Infine il sangue sacrificale ha un valore consacratorio. Nei
riti di consacrazione dei sacerdoti (Es 29, 20 s; Lev 8, 23 s. 30) e dell’altare
(Ez 43, 20) connota l’appartenenza a Dio.
NUOVO TESTAMENTO
Se il NT pone termine ai sacrifici cruenti del culto giudaico ed abroga le
disposizioni legali relative alla vendetta del sangue, si è perché riconosce il
significato ed il valore del «sangue innocente», del «sangue prezioso» (1 Piet
1, 19), versato per la redenzione degli uomini.
1. Vangeli sinottici.
- Nel momento di affrontare lucidamente la morte, Gesù pensa alla responsabilità
di Gerusalemme: i profeti antichi sono stati assassinati, egli stesso sarà messo
a morte, i suoi inviati saranno a loro volta uccisi. Il giudizio di Dio non può
che essere severo contro la città colpevole: tutto il sangue innocente versato
in terra a partire dal sangue di Abele ricadrà su questa generazione (Mt 23,
29-36). La passione si inserisce in questa prospettiva drammatica: Giuda
riconosce di aver tradito il sangue innocente (27, 4), Pilato se ne lava le
mani, mentre la folla ne assume la responsabilità (27, 24 s). Ma il dramma ha
pure un altro aspetto. Nell’ultima cena Gesù ha presentato il calice
*eucaristico come «il sangue dell’alleanza versato per una moltitudine in
remissione dei peccati» (26, 28 par.). Il suo corpo offerto ed il suo sangue
versato fanno dunque della sua morte un sacrificio doppiamente significativo:
sacrificio di *alleanza, che sostituisce la nuova alleanza a quella del Sinai;
sacrificio di *espiazione, secondo la profezia del *servo di Jahvè: il sangue
innocente ingiustamente versato diventa così il sangue della *redenzione.
2. S. Paolo.
- Paolo esprime volentieri il senso della *croce di Cristo evocandone il sangue
redentore. Gesù, coperto del suo proprio sangue, svolge ormai per tutti gli
uomini la funzione abbozzata un tempo dal propiziatorio nella cerimonia della
*espiazione (Rom 3, 25): è il luogo della presenza divina ed assicura il perdono
dei peccati. Infatti il suo sangue ha una virtù *salutare: per mezzo suo noi
siamo *giustificati (Rom 5, 9), redenti (Ef 1, 7), acquistati a Dio (Atti 20,
28); per mezzo suo si realizza l’*unità tra i Giudei ed i pagani (Ef 2, 13), tra
gli uomini e le potenze celesti (Col 1, 20). Ora a questo sangue della nuova
alleanza gli uomini possono partecipare quando bevono il *calice eucaristico (1
Cor 10, 16 s; 11, 25-28). Si instaura allora tra essi ed il Signore una unione
profonda di carattere escatologico: viene ricordata la morte del Signore ed
annunziata la sua venuta (11, 26).
3. Lettera agli Ebrei.
- L’ingresso del sommo sacerdote nel santo dei santi con il sangue espiatorio è
considerato, nella lettera agli Ebrei, come la *figura profetica di Cristo che
entra in cielo con il suo proprio sangue per ottenere la nostra redenzione (Ebr
9, 1-14). Questa immagine si mescola a quella del sacrificio di alleanza offerto
da Mosè sul Sinai: il sangue di Gesù, sangue della nuova alleanza, è offerto per
rimettere i *peccati degli uomini (Ebr 9, 18-28). Per mezzo suo i peccatori
ottengono l’accesso presso Dio (10, 19); più eloquente di quello di Abele (12,
24), esso assicura la loro santificazione (10, 29; 13, 12) ed il loro ingresso
nel gregge del buon pastore (13, 20).
4. S. Giovanni.
- L’Apocalisse fa eco alla dottrina tradizionale quando parla del sangue
dell’*agnello: questo sangue ci ha lavati dai nostri peccati (Apoc 1, 5; cfr. 7,
14) e, riscattandoci per Dio, ha fatto di noi un regno di sacerdoti (5, 9).
Dottrina tanto più importante in quanto, nel momento in cui il veggente scrive,
*Babilonia, la città del male, si inebria del sangue dei *martiri (18, 24). I
martiri hanno vinto Satana grazie al sangue dell’agnello (12, 11), ma il loro
sangue versato grida nondimeno giustizia. Dio lo *vendicherà dando sangue da
bere agli uomini che lo hanno versato (16, 3-7), in attesa che il loro sangue
sia versato a sua volta e diventi l’ornamento trionfale del Verbo giudice (19,
13; cfr. Is 63, 3). Totalmente diversa è la meditazione dell’evangelista
Giovanni sul sangue di Gesù. Dal costato di Cristo, trafitto dalla lancia, egli
ha visto uscire l’acqua ed il sangue (Gv 19, 31-37), duplice testimonianza
dell’amore di Dio, che corrobora la testimonianza dello Spirito (1 Gv 5, 6 ss).
Ora quest’*acqua e questo sangue continuano ad esercitare nella Chiesa il loro
potere di vivificazione. L’acqua è il segno dello Spirito, che fa rinascere e
che disseta (Gv 3, 5; 4, 13 s). Il sangue è distribuito agli uomini nella
celebrazione *eucaristica: «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la
vita eterna... rimane in me ed io in lui» (Gv 6, 53-56).
C. SPICQ e P. GRELOT
→ Abele - agnello di Dio 2 - alleanza VT I 3; NT I - anima I 1 - calice 3 -
carne I 1.3 b - circoncisione VT 2 - espiazione - eucaristia - magia NT II 2 -
redenzione NT 1.2 - sacrificio - testimonianza NT III 2 - vendetta 1.4 - vino II
2 b - violenza - vita II 3.
SANTO (inizio)
La liturgia
acclama il Dio tre volte santo; proclama Cristo «solo santo»; festeggia i santi.
Parliamo pure dei santi vangeli, della settimana santa; e siamo chiamati a
diventare santi. La santità appare quindi una realtà complessa che concerne il
mistero di Dio, ma anche il culto e la morale; implica le nozioni di sacro e di
puro, ma le supera. Sembra riservata a Dio, inaccessibile, ma è costantemente
attribuita a creature. La parola semitica qôdeš, cosa santa, santità, derivante
da una radice che significa indubbiamente «tagliare, separare», orienta verso
un’idea di separazione dal profano; le cose sante sono quelle che non si
toccano, o a cui non ci si avvicina se non in determinate condizioni di *purità
rituale. Essendo cariche di un dinamismo, di un mistero e di una maestà in cui
si può vedere il soprannaturale, esse provocano un sentimento misto di spavento
e di fascino, che fa prendere coscienza all’uomo della sua piccolezza dinanzi a
queste manifestazioni del «numinoso». La nozione biblica di santità è molto più
ricca. Non contenta di presentare le reazioni dell’uomo dinanzi al divino, e di
definire la santità mediante negazione del profano, la Bibbia contiene la
rivelazione di *Dio stesso; definisce la santità alla sua stessa sorgente, in
Dio, dal quale deriva ogni santità. Ma con ciò la Scrittura pone il problema
della natura della santità, che in definitiva è quello del mistero di Dio e
della sua comunicazione agli uomini. Dapprima esteriore alle persone, ai luoghi
e agli oggetti che essa rende «sacri», questa santità derivata non diventa reale
ed interna se non mediante il dono dello stesso Spirito Santo; allora l’*amore
che è Dio stesso (1 Gv 4, 18) sarà comunicato, trionfando del *peccato che
fermava la irradiazione della sua santità.
VECCHIO TESTAMENTO
I. DIO È SANTO, SI RIVELA SANTO
La santità di Dio è inaccessibile all’uomo. Affinché egli la riconosca, è
necessario che Dio «si santifichi», cioè «si riveli santo», manifestando la sua
*gloria. Creazione, teofanie, *prove, *castighi e *calamità (Num 20, 1-13; Ez
38, 21 ss), ma anche protezione miracolosa e liberazioni insperate rivelano in
qual senso Dio è santo (Ez 28, 25 s). Manifestata dapprima nel corso delle
maestose teofanie del Sinai (Es 19, 3-20), la santità di Jahvè appare come una
potenza ad un tempo spaventosa e misteriosa, pronta ad annientare tutto ciò che
le si avvicina (1 Sam 6, 19 s), ma anche capace di benedire coloro che ricevono
l’arca dove risiede (2 Sam 6, 7-11). Essa quindi non si confonde con la
trascendenza o con l’*ira divine, perché si manifesta pure nell’*amore e nel
*perdono: «Io non darò corso all’ardore della mia ira... poiché io sono Dio e
non un uomo: in mezzo a te è il santo» (Os 11, 9). Nel tempio Jahvè appare ad
Isaia come un *re dalla maestà infinita, come il *creatore la cui gloria riempie
tutta la terra, come l’oggetto di un culto che soltanto i serafini gli possono
rendere. D’altronde questi non sono abbastanza santi per contemplare la sua
*faccia, e l’uomo non la può *vedere senza morire (Is 6, 1-5; Es 33, 18-23). E
tuttavia questo Dio inaccessibile colma la distanza che lo separa dalle
creature: egli è il «santo di Israele», *gioia, *forza, sostegno, *salvezza,
*redenzione di quel popolo al quale si è unito mediante l’*alleanza (Is 10, 20;
17, 7; 41, 14-20). Così, lungi dal ridursi alla separazione od alla
trascendenza, la santità divina include tutto ciò che Dio possiede di ricchezza
e di vita, di potenza e di bontà. Essa è più che un attributo divino tra altri,
caratterizza Dio stesso. Quindi il suo *nome è santo (Sal 33, 21; Am 2, 7; cfr.
Es 3, 14), Jahvè giura per la sua santità (Am 4, 2). La lingua stessa riflette
questa convinzione, quando, ignorando l’aggettivo «divino», considera come
sinonimi i nomi di Jahvè e di santo (Sal 71, 22; Is 5, 24; Ab 3, 3).
II. DIO VUOLE ESSERE SANTIFICATO
Geloso del suo diritto esclusivo al *culto ed all’*obbedienza, Dio vuole essere
riconosciuto come santo, essere trattato come solo vero Dio, e manifestare così
per mezzo degli uomini la sua propria santità. Se regola minuziosamente i
particolari dei sacrifici (Lev 1-7) e le condizioni di *purità necessarie al
culto (Lev 12 -15), se esige che il suo santo nome non sia profanato (Lev 22,
32), si è perché una liturgia ben celebrata fa risplendere la sua gloria (Lev 9,
6-23; 1 Re 8, 10 ss; cfr. Lev 10, 1 ss; 1 Sam 2, 17; 3, 11 ss) e mette in
rilievo la sua maestà. Ma questo culto ha valore soltanto se esprime
l’obbedienza alla *legge (Lev 22, 31 ss), la fede profonda (Deut 20, 12), la
lode personale (Sal 99, 3-9): questo significa *temere Dio, santificarlo (Is 8,
13).
III. DIO SANTIFICA, COMUNICA LA SANTITÀ
1. Santità e consacrazione.
- Prescrivendo le regole *cultuali mediante le quali si rivela santo, Jahvè si è
riservato dei luoghi (*terra santa, santuari, *tempio), delle persone
(sacerdoti, leviti, primogeniti, nazirei, *profeti), degli oggetti (offerte,
vesti e oggetti di *culto), dei *tempi (*sabati, anni giubilari) che gli sono
consacrati mediante riti precisi (offerte, *sacrifici, dedicazioni, *unzioni,
aspersioni di sangue) e, per ciò stesso, sono interdetti agli usi profani. Così
l’*arca dell’alleanza non deve neppure essere guardata dai leviti (Num 4, 1.
20); i sabati non devono essere «profanati» (Ez 20, 12-24); il comportamento dei
sacerdoti è disciplinato da regole particolari, più esigenti delle leggi comuni
(Lev 21). Tutte queste cose sono sante, ma possono esserlo in grado diverso,
secondo il legame che le unisce a Dio. La santità di queste persone e di questi
oggetti consacrati non è della stessa natura della santità di Dio. Di fatto, a
differenza della impurità contagiosa (Lev 11, 31; 15, 4-27), essa non è ricevuta
automaticamente per contatto con la santità divina. È il risultato di una libera
decisione di Dio, secondo la sua legge, secondo i riti da lui fissati. La
distanza infinita, che la separa dalla santità divina (Giob 15, 15), si esprime
nei riti: così il sommo sacerdote non può penetrare che una volta all’anno nel
santissimo dopo minuziose purificazioni (Lev 16, 1-16). Bisogna quindi
distinguere tra la santità vera, che è propria di Dio, ed il carattere sacro che
sottrae al campo profano talune persone e taluni oggetti, collocandoli in uno
stato intermedio, che nello stesso tempo vela e manifesta la santità di Dio.
2. Il popolo santo.
- Eletto, separato tra le *nazioni, Israele diventa il dominio particolare di
Dio, popolo di *sacerdoti, «popolo santo». Per un amore inesplicabile, Dio vive
e cammina in mezzo al suo popolo (Es 33, 12-17); gli si manifesta per mezzo
della *nube, dell’*arca dell’alleanza, del *tempio o semplicemente della sua
*gloria che lo accompagna anche in esilio (Ez 1, 1-28): «in mezzo a te io sono
il santo» (Os 11, 9). Questa *presenza attiva di Dio conferisce al popolo una
santità che non è semplicemente rituale, ma una vera dignità che lo obbliga alla
santità morale. Per santificare il popolo Jahvè promulga la *legge (Lev 22, 31
ss). Israele, ad esempio, non potrebbe abbandonarsi ai vizi delle popolazioni
cananee; deve rifiutare ogni matrimonio con le donne straniere ed annientare per
*anatema tutto ciò che lo potrebbe contaminare (Deut 7, 1-6). La sua *forza non
risiede negli eserciti od in un’abile diplomazia, ma nella sua fede in Jahvè, il
santo di Israele (Is 7, 9), che non gli dà soltanto ciò che lo distingue dagli
altri popoli, ma tutto ciò che possiede di sicurezza (Is 41, 14-20; 54, 1-5), di
fierezza (Is 43, 3-14; 49, 7), ed infine di speranza invincibile (Is 60, 9-14).
IV. ISRAELE DEVE SANTIFICARSI
Alla libera scelta di Dio che vuole la sua santificazione, Israele deve
rispondere santificandosi.
1. Deve anzitutto purificarsi, cioè lavarsi da ogni immondezza
incompatibile con la santità di Dio, prima di assistere a teofanie o di
partecipare al culto (Es 19, 10-15). Ma, in definitiva, Dio solo gli dà la
*purità mediante il sangue del sacrificio (Lev 17, 11), o purificando il suo
cuore (Sal 51).
2. I profeti ed il Deuteronomio hanno ripetuto continuamente
che i sacrifici per il peccato non erano sufficienti per piacere a Dio, ma
occorreva la *giustizia, 1’*obbedienza e l’amore (Is 1, 4- 20; Deut 6, 4-9).
Così il comandamento: «Siate santi, perché io, Jahvè, sono santo» (Lev 19, 2;
20, 26) dev’essere inteso non soltanto di una purità cultuale, ma bensì di una
santità vissuta secondo le molteplici prescrizioni familiari, sociali ed
economiche, nonché rituali, contenute nei diversi codici (ad es. Lev 17-26).
3. Infine la santificazione degli uomini è suscettibile di
progresso; potranno quindi essere chiamati «santi» soltanto coloro che saranno
passati attraverso la *prova, e beneficeranno del regno escatologico (Dan 7,
18-22). Saranno i sapienti che avranno temuto Jahvè (Sal 34, 10), il «piccolo
resto» dei superstiti di Sion, coloro che Dio avrà «scritto nel libro della
vita» (Is 4, 3).
NUOVO TESTAMENTO
La comunità apostolica ha assimilato le dottrine ed il vocabolario del VT. Così
Dio è il Padre santo (Gv 17, 11), il pantokràtor trascendente ed il giudice
escatologico (Apoc 4, 8; 6, 10). Santo è il suo nome (Lc 1, 49), e così pure la
sua legge (Rom 7, 12) e la sua alleanza (Lc 1, 72). Santi sono pure gli angeli
(Mc 8, 38), i profeti e gli agiografi (Lc 1, 70; Mc 6, 20; Rom 1, 2). Santo è il
suo tempio, e così pure la Gerusalemme celeste (1 Cor 3, 17; Apoc 21, 2). Poiché
egli è santo, coloro che ha *eletto devono essere santi (1 Piet 1, 15 s; Lev 19,
2), e la santità del suo *nome dev’essere manifestata nell’avvento del suo regno
(Mt 6, 9). Sembra tuttavia che all’origine della concezione propriamente
neotestamentaria della santità stia la *Pentecoste, manifestazione dello Spirito
di Dio.
I. GESÙ, IL SANTO
La santità di Cristo è intimamente legata alla sua *filiazione divina
ed alla presenza in lui dello Spirito di Dio: «concepito di Spirito Santo, egli
sarà santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc 1, 35; Mt 1, 18). Al battesimo di
Giovanni, il «Figlio diletto» riceve l’*unzione dello Spirito Santo (Atti 10,
38; Lc 3, 22). Egli scaccia gli spiriti immondi, e questi lo proclamano «il
santo di Dio» o «il Figlio di Dio» (Mc 1, 24; 3, 11), due espressioni ormai
equivalenti (Gv 6, 69; cfr. Mt 16, 16). «Ripieno dello Spirito Santo» (Lc 4, 1),
Cristo si manifesta mediante le sue *opere; miracoli ed insegnamenti non
vogliono essere tanto *segni di potenza da ammirare, quanto segni della sua
santità; dinanzi a lui ci si sente peccatori come dinanzi a Dio (Lc 5, 8; cfr.
Is 6, 5). «Santo *servo» di Dio (Atti 4, 27. 30), avendo sofferto la morte
benché autore della vita, Cristo è per eccellenza «il santo» (Atti 3, 14 s).
«Perciò Dio lo ha esaltato» (Fil 2, 9); risorto secondo lo spirito di santità
(Rom 1, 4), egli non è di questo mondo (Gv 17, 11). Colui quindi che è assiso
alla destra di Dio (Mc 16, 19) può essere chiamato «il santo», proprio come Dio
(Apoc 3, 7; 6, 10). La santità di Cristo è quindi di ordine completamente
diverso da quella, del tutto relativa, dei santi personaggi del VT; è identica a
quella di Dio, suo Padre santo (Gv 17, 11): stessa potenza spirituale, stesse
manifestazioni prodigiose, stessa profondità misteriosa; essa gli fa amare i
suoi fino a comunicare loro la gloria che ha ricevuto dal Padre e fino a
sacrificarsi per essi; così egli si rivela santo: «Io mi santifico... affinché
essi siano santificati» (Gv 17, 19-24).
II. CRISTO SANTIFICA I CRISTIANI
A differenza delle vittime e del culto del VT, che non purificavano gli
Ebrei se non esternamente (Ebr 9, 11-14; 10, 10), il *sacrificio di Cristo
santifica i credenti «in verità» (Gv 17, 19), comunicando loro veramente la
santità. I cristiani partecipano di fatto alla vita di Cristo risorto mediante
la *fede e mediante il *battesimo che dà loro «l’unzione venuta dal santo» (1
Cor 1, 30; Ef 5, 26; 1 Gv 2, 20). Sono quindi «santi in Cristo» (1 Cor 1, 2; Fil
1, 1), per la presenza in essi dello Spirito Santo (1 Cor 3, 16 s; Ef 2, 22);
sono di fatto «battezzati nello Spirito Santo», come aveva annunziato Giovanni
Battista (Lc 3, 16 par.; Atti 1, 5; 11, 16).
III. LO SPIRITO SANTO
L’agente principale della santificazione del cristiano è quindi lo
*Spirito Santo, il quale colma le prime comunità di *doni e di *carismi.
Tuttavia la sua azione nella Chiesa differisce da quella dello spirito di Dio
nel VT. L’ampiezza e l’universalità della sua effusione significano che i tempi
messianici sono compiuti con la risurrezione di Cristo (Atti 2, 16-38). D’altra
parte la sua venuta è legata al battesimo ed alla fede nel mistero di Cristo
morto e risorto (Atti 2, 38; 10, 47; 19, 1-7). La sua presenza è permanente, e
Paolo può affermare che i redenti sono i «*templi dello Spirito Santo», «i
templi di Dio» (1 Cor 6, 11. 20; cfr. 3, 16 s) ed hanno una vera comunione con
lui (2 Cor 13, 13). E poiché «tutti coloro che lo Spirito di Dio anima sono
figli di Dio» (Rom 8, 14-17), i cristiani non sono soltanto dei profeti soggetti
all’azione temporanea dello spirito (Lc 1, 15; 7, 28), ma figli di Dio che hanno
sempre in sé la fonte della santità divina.
IV. I SANTI
Usata in senso assoluto, questa parola era eccezionale nel VT; era
riservata agli eletti dei tempi escatologici. Nel NT designa i cristiani.
Attribuita dapprima ai membri della comunità primitiva di Gerusalemme ed in modo
speciale al piccolo gruppo della *Pentecoste (Atti 9, 13; 1 Cor 16, 1; Ef 3, 5),
essa fu estesa ai fratelli di Giuda (Atti 9, 31-41), poi a tutti i fedeli (Rom
16, 2; 2 Cor 1, 1; 13, 12). Mediante lo Spirito Santo il cristiano partecipa di
fatto alla santità stessa divina. Formando la vera «nazione santa» ed il
«*sacerdozio regale», costituendo il «tempio santo» (1 Piet 2, 9; Ef 2, 21), i
cristiani devono rendere a Dio il vero *culto, offrendosi con Cristo in
«sacrificio santo» (Rom 12, 1; 15, 16; Fil 2, 17). Infine la santità dei
cristiani, che proviene da una *elezione (Rom 1, 7; 1 Cor 1, 2), esige da essi
la rottura col *peccato e con i costumi pagani (1 Tess 4, 3): essi devono agire
«secondo la santità che viene da Dio e non secondo una sapienza carnale» (2 Cor
1, 12; cfr. 1 Cor 6, 9 ss; Ef 4, 30 - 5, 1; Tito 3, 4-7; Rom 6, 19). Questa
esigenza di vita santa sta alla base di tutta la tradizione ascetica cristiana;
si fonda non sull’ideale di una legge ancora esterna, ma sul fatto che il
cristiano «afferrato da Cristo» deve «partecipare alle sue sofferenze ed alla
sua morte per giungere alla sua risurrezione» (Fil 3, 10-14).
V. LA CITTÀ SANTA
La santità di Dio, già acquisita di diritto, lotta di fatto con il peccato. Non
è ancora giunto il tempo in cui «i santi giudicheranno il mondo» (1 Cor 6, 2 s).
I santi possono e devono ancora santificarsi per esser pronti alla parusia del
Signore (1 Tess 3, 13; Apoc 22, 11). In quel *giorno apparirà la Gerusalemme
nuova, «città santa» (Apoc 21, 2) in cui fiorirà l’*albero della vita, e donde
sarà escluso tutto ciò che è impuro e profano (Apoc 21 - 22, cfr. Zac 14, 20 s);
ed il Signore Gesù sarà glorificato nei suoi santi (2 Tess 1, 10; 2, 14) «perché
Dio è *amore» (1 Gv 4, 8). Questo è senza dubbio il segreto dell’inaccessibile
santità di Dio comunicata agli uomini.
J. DE VAULX
→ altare 3 - anatema VT - benedizione II 3 - Chiesa VI - culto VT III -
Dio VT III 2.5; IV - esempio - giustizia 0; A I NT 2 - gloria III - ira A 2; B
VT II; NT III 1 - nuovo I, III 3 b - Paraclito 1 - perfezione VT - primizie I 2
b - puro - sacrificio - scrittura III - sessualità II - spirito di Dio - verità
NT 3 c - zelo I.
→ arca d’alleanza - culto - pellegrinaggio VT 1 - tempio.
→ conoscere – sapienza.
La ricerca della
sapienza è comune a tutte le civiltà dell’Oriente antico. Raccolte di
letteratura sapienziale ci sono state lasciate sia dall’Egitto che dalla
Mesopotamia, ed i sette sapienti erano leggendari nella Grecia antica. Questa
sapienza ha una mira pratica: si tratta per l’uomo di comportarsi con prudenza
ed abilità per riuscire nella vita. Ciò implica una certa riflessione sul mondo
e porta pure alla elaborazione di una morale, in cui non manca il riferimento
religioso (specialmente in Egitto). Nella Grecia del sec. VI la riflessione
prenderà un indirizzo più speculativo e la sapienza si trasformerà in filosofia.
Accanto ad una scienza embrionale ed a tecniche che si sviluppano, la sapienza
costituisce quindi un elemento importante della civiltà. È l’umanesimo
dell’antichità. Nella rivelazione biblica, la parola di Dio assume pure forma di
sapienza. Fatto importante, ma che bisogna interpretare correttamente. Esso non
significa che la rivelazione, ad un certo stadio del suo sviluppo, si trasformi
in umanesimo. La sapienza ispirata, anche quando integra il meglio della
sapienza umana, è di natura diversa. Già sensibile nel VT, questo fatto appare
evidente nel NT.
VECCHIO TESTAMENTO
I. SAPIENZA UMANA E SAPIENZA SECONDO DIO
1. Inizio della sapienza in Israele.
- A parte le eccezioni di Giuseppe (Gen 41, 39 s) e di Mosè (Es 2, 10; cfr. Atti
7, 21 s), Israele non ha preso contatto con la sapienza dell’Oriente se non dopo
essersi stabilito in Canaan, e bisogna attendere l’epoca regia per vederlo
aprirsi ampiamente all’umanesimo del tempo. Qui l’iniziatore è Salomone: «La
sapienza di Salomone fu maggiore di quella di tutti gli orientali e di tutta
quella dell’Egitto» (1 Re 5, 9-14; cfr. 10, 6 s. 23 s). La parola indica ad un
tempo la sua cultura personale e la sua arte di ben governare. Ora, per gli
uomini di fede, questa sapienza regale non costituisce un problema: è un dono di
Dio, che Salomone ha ottenuto con la preghiera (1 Re 3, 6-14). Apprezzamento
ottimistico, di cui si ritrovano altrove gli echi: mentre gli scribi di corte
coltivano i generi sapienziali (cfr. gli elementi antichi di Prov 10 - 22 e 25 -
29), gli storici sacri fanno l’elogio di Giuseppe, l’accorto amministratore che
aveva da Dio la sua sapienza (Gen 41; 47).
2. La sapienza in discussione.
- Ma c’è sapienza e sapienza. La vera viene da Dio, che dà all’uomo «un *cuore
capace di discernere il bene dal male» (1 Re 3, 9). Ma tutti gli uomini, come il
loro primo padre, sono tentati di usurpare questo privilegio divino, di
acquistare con le loro proprie forze «la *conoscenza del bene e del male» (Gen
3, 5 s). Sapienza fallace, verso la quale li attira l’astuzia del serpente (Gen
3, 1). È quella degli scribi che giudicano di tutto secondo viste umane e
«cambiano in menzogna la legge di Jahvè» (Ger 8, 8), quella dei consiglieri regi
che fanno una politica del tutto umana (cfr. Is 29, 15 ss). I profeti insorgono
contro questa sapienza: «Guai a coloro che si credono sapienti, si reputano
intelligenti» (Is 5, 21). Dio farà sì che la loro sapienza perisca (Is 29, 14).
Essi saranno presi in trappola per aver disprezzato la parola di Jahvè (Ger 8,
9). Infatti questa *parola è la sola fonte della sapienza autentica. Gli spiriti
sviati l’impareranno dopo il castigo (Is 29, 24). Il re figlio di David che
regnerà «negli ultimi tempi» la possederà in pienezza, ma l’avrà dallo *spirito
di Jahvè (Is 11, 2). L’insegnamento profetico respinge così la tentazione di un
umanesimo che pretenderebbe di bastare a se stesso: la salvezza dell’uomo viene
da Dio solo.
3. Verso la vera sapienza.
- La rovina di Gerusalemme conferma le minacce dei profeti: la falsa sapienza
dei consiglieri regi ha dunque condotto il paese alla catastrofe! Dissipato in
tal modo l’equivoco, la vera sapienza potrà manifestarsi liberamente in Israele.
Suo fondamento sarà la *legge divina, che fa di Israele il solo popolo sapiente
ed intelligente (Deut 4, 6). Il *timore di Jahvè ne sarà il principio ed il
coronamento (Prov 9, 10; Eccli 1, 14-18; 19, 20). Senza mai lasciare le
prospettive di questa sapienza religiosa, gli scribi ispirati vi inseriranno
ormai tutto ciò che la riflessione umana può loro offrire di buono. La
letteratura sapienziale pubblicata o composta dopo l’esilio è il frutto di
questo sforzo. Guarito dalle sue pretese orgogliose, l’umanesimo vi fiorirà alla
luce della *fede.
II. ASPETTI DELLA SAPIENZA
1. Un’arte di ben vivere.
- Il sapiente della Bibbia è curioso delle cose della natura (1 Re 5,
13). Le ammira, e la sua fede gli insegna a vedervi la mano potente di Dio (Giob
36, 22 - 37, 18; 38 - 41; Eccli 42, 15 - 43, 33). Ma egli si preoccupa
innanzitutto di sapere come condurre la propria vita per ottenere la vera
felicità. Ogni uomo esperto nel suo mestiere merita già il nome di sapiente (Is
40, 20; Ger 9, 16; 1 Cron 22, 15); il sapiente per eccellenza è l’esperto
nell’arte di ben vivere. Egli posa sul mondo circostante uno sguardo lucido e
senza illusioni; ne conosce le tare, il che non vuol dire che le approvi (ad es.
Prov 13, 7; Eccli 13, 21 ss). Psicologo, egli sa ciò che si nasconde nel cuore
umano, ciò che costituisce per esso gioia o pena (ad es. Prov 13, 12; 14, 13;
Eccli 7, 2-6). Ma non si limita a questa funzione di osservatore. *Educatore
nato, egli traccia regole per i suoi *discepoli: prudenza, moderazione nei
desideri, lavoro, umiltà, ponderazione, modestia, lealtà di linguaggio, ecc...
Tutta la morale del decalogo passa nei suoi consigli pratici. Il senso sociale
del Deuteronomio e dei profeti gli ispira ammonizioni sull’elemosina (Eccli 7,
32 ss; Tob 4, 7-11), sul rispetto della giustizia (Prov 11, 1; 17, 15),
sull’amore dei poveri (Prov 14, 31; 17, 5; Eccli 4, 1-10). Per avvalorare i suoi
consigli, egli fa appello quanto più è possibile all’esperienza, in particolare
a quella dei *vecchi; ma la sua ispirazione profonda viene da più in alto che
l’esperienza. Avendo acquistato la sapienza a prezzo di un duro sforzo, egli non
desidera che trasmetterla agli altri (Eccli 51, 13-20), ed invita i suoi
discepoli a farne con coraggio il difficile apprendistato (Eccli 6, 18-37).
2. Riflessione sull’esistenza.
- Non bisogna attendersi dal maestro di sapienza israelitica una
riflessione di carattere metafisico sull’uomo, sulla sua natura, sulle sue
facoltà, ecc. In compenso, egli ha un senso acuto della sua situazione
nell’esistenza e scruta con attenzione il suo destino. I *profeti si dedicavano
soprattutto alla sorte del popolo di Dio in quanto tale; i testi di Ezechiele
sulla responsabilità individuale figurano come eccezioni (Ez 14, 12-20; 18; 33,
10- 20). Senza cessare di essere attenti al destino globale del popolo
dell’alleanza (Eccli 44 - 50; 36, 1-17; Sap 10-12; 15-19), i sapienti si
interessano soprattutto alla vita degli individui. Sono sensibili alla grandezza
dell’uomo (Eccli 16, 24 - 17, 14) come alla sua miseria (Eccli 40, 1-11), alla
sua solitudine (Giob 6, 11-30; 19, 13-22), alla sua *angoscia dinanzi al dolore
(Giob 7; 16) ed alla morte (Eccle 3; Eccli 41, 1-4), all’impressione del nulla
che gli lascia la sua vita (Giob 14, 1-12; 17; Eccle 1, 4-8; Eccli 18, 8-14),
alla sua inquietudine dinanzi a Dio che gli sembra incomprensibile (Giob 10) od
assente (23; 30, 20-23). In questa prospettiva non può non essere affrontato il
problema della *retribuzione, perché le concezioni tradizionali portano a negare
la giustizia (Giob 9, 22-24; 21, 7-26; Eccle 7, 15; 8, 14; 9, 2 s). Ma saranno
necessari lunghi sforzi perché, al di là della retribuzione terrena, così
fallace, il problema si risolva nella fede nella *risurrezione (Dan 12, 2 s) e
nella *vita eterna (Sap 5, 15).
3. Sapienza e *rivelazione.
- Accordando così ampio spazio all’esperienza ed alla riflessione
umana, l’insegnamento dei sapienti è evidentemente di tipo diverso dalla *parola
profetica, nata da una ispirazione divina, di cui il profeta stesso è cosciente.
Ciò non impedisce che esso faccia pure progredire la dottrina, proiettando sui
problemi la luce delle *Scritture lungamente meditate (cfr. Eccli 39, 1 ss).
Ora, in epoca tarda, profezia e sapienza si congiungono nel genere apocalittico,
per rivelare i segreti del futuro. Se Daniele «rivela i *misteri divini» (Dan 2,
28 ss. 47), non lo fa mediante sapienza umana (2, 30), ma perché lo spirito
divino, che in lui risiede, gli dà una sapienza superiore (5, 11. 14). La
sapienza religiosa del VT riveste qui una forma caratteristica, di cui l’antica
tradizione israelitica presentava già un esempio significativo (cfr. Gen 41, 38
s). Il sapiente vi appare come ispirato da Dio alla pari del profeta.
III. LA SAPIENZA DI DIO
1. La sapienza personificata.
- Negli scribi postesilici il culto della sapienza è tale che essi si
compiacciono nel personificarla per darle più rilievo (già Prov. 14, 1). È una
diletta che si cerca avidamente (Eccli 14, 22 ss), una madre che protegge (14,
26 s) ed una sposa che nutre (15, 2 s), un’ospite munifica che invita al suo
banchetto (Prov 9, 1-6), all’opposto della signora *follia, la cui casa è il
vestibolo della morte (9, 13-18).
2. La sapienza divina.
- Ora questa rappresentazione femminile non deve essere intesa come una semplice
figura retorica. La sapienza dell’uomo ha una sorgente divina. Dio la può
comunicare a chi vuole, perché egli stesso è il sapiente per eccellenza. Gli
autori sacri contemplano quindi in Dio questa sapienza da cui deriva la loro. È
una realtà divina che esiste da sempre e per sempre (Prov 8, 22-26; Eccli 24,
9). Uscita dalla bocca dell’Altissimo come il suo respiro o la sua *parola (Eccli
24, 3), essa è «un soffio della *potenza divina, un’effusione della *gloria
dell’Onnipotente, un riflesso della *luce eterna, uno specchio dell’attività di
Dio, un’immagine della sua eccellenza» (Sap 7, 25 s). Essa abita nel cielo (Eccli
24, 4), condivide il trono di Dio (Sap 9, 4), vive nella sua intimità (8, 3).
3. L’attività della sapienza.
- Questa sapienza non è un principio inerte. È associata a tutto ciò
che Dio fa nel mondo. Presente al momento della creazione, essa si rallegrava al
suo fianco (Prov 8, 27-31; cfr. 3, 19 s; Eccli 24, 5), e continua a governare
l’universo (Sap 8, 1). Lungo tutta la storia della salvezza, Dio l’ha mandata in
missione quaggiù. Essa si è stabilita in Israele, a Gerusalemme, come un *albero
di vita (Eccli 24, 7-19), manifestandosi sotto la forma concreta della *legge (Eccli
24, 23-34). Da allora risiede familiarmente tra gli uomini (Prov 8, 31; Bar 3,
37 s). È la *provvidenza che dirige la storia (Sap 10, 1 - 11, 4), ed assicura
agli uomini la salvezza (9, 18). Svolge una funzione analoga a quella dei
profeti, rivolgendo i suoi rimproveri ai noncuranti di cui annunzia il *giudizio
(Prov 1, 20-33), invitando coloro che sono docili a beneficiare di tutti i suoi
beni (Prov 8, 1-21. 32-36), a sedersi alla sua tavola (Prov 9, 4 ss; Eccli 24,
19-22). Dio agisce per mezzo suo come agisce mediante il suo *spirito (cfr. Sap
9, 17); accoglierla ed essere docili allo spirito è quindi la stessa cosa. Se
questi testi non fanno ancora della sapienza una persona divina nel senso del
NT, scrutano nondimeno in profondità il mistero del Dio unico e ne preparano una
rivelazione più precisa.
4. I doni della sapienza.
- Non è sorprendente che questa sapienza sia per gli uomini un tesoro
superiore ad ogni cosa (Sap 7, 7-14). Essendo essa stessa un dono di Dio (8,
21), è la distributrice di tutti i beni (Prov 8, 21; Sap 7, 11): vita e felicità
(Prov 3, 13-18; 8, 32-36; Eccli 14, 25-27), sicurezza (Prov 3, 21-26), grazia e
gloria (4, 8 s), ricchezza e giustizia (8, 18 ss), e tutte le *virtù (Sap 8,
7s)...Come l’uomo non si sforzerebbe di averla per sposa (8, 2)? Effettivamente
essa fa gli amici di Dio (7, 27 s). L’intimità con essa non si distingue
dall’intimità con Dio stesso. Quando il NT identificherà la sapienza con Cristo,
Figlio e Verbo di Dio, troverà in questa dottrina l’esatta preparazione di una
rivelazione completa. Unito a Cristo, l’uomo partecipa alla sapienza divina e si
vede introdotto nella intimità di Dio.
NUOVO TESTAMENTO
I. GESÙ E LA SAPIENZA
1. Gesù, maestro di sapienza.
- Gesù si è presentato ai suoi contemporanei sotto aspetti complessi: *profeta
di penitenza, ma più che profeta (Mt 12, 41); *messia, ma che deve passare
attraverso la sofferenza del *servo di Jahvè prima di conoscere la gloria del
*figlio dell’uomo (Mc 8, 29 ss); dottore, ma non al modo degli scribi (Mc 1, 21
s). Ciò che meglio richiama il suo modo di *insegnare, è quello dei maestri di
sapienza del VT: egli riprende volentieri i loro generi (proverbi, *parabole),
dà, al pari di essi, regole di vita (cfr. Mt 5 - 7). Gli spettatori non si
ingannano, quando stupiscono di questa sapienza senza pari, accreditata da opere
miracolose (Mc 6, 2); Luca la nota già fin dall’infanzia di Cristo (Lc 2, 40.
52). Gesù, da parte sua, lascia capire che essa pone un problema: la regina del
mezzogiorno si è mossa per ascoltare la sapienza di Salomone, ed ecco che qui
c’è più che Salomone (Mt 12, 42 par.).
2. Gesù, sapienza di Dio.
- Effettivamente Gesù promette ai suoi il dono della sapienza in nome proprio (Lc
21, 15). Misconosciuto dalla sua *generazione incredula, ma accolto dai cuori
docili a Dio, egli conclude misteriosamente: «La sapienza è stata giustificata
dai suoi figli» (Lc 7, 35; oppure «dalle sue opere» (Mt 11, 19). Il suo segreto
traspare ancora meglio quando egli modella il suo linguaggio su quello che il VT
attribuiva alla sapienza divina: «Venite a me...» (Mt 11, 28 ss; cfr. Eccli 24,
19); «Chi viene a me, non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete» (Gv
6, 35; cfr. 4, 14; 7, 37; Is 55, 1 ss; Prov 9, 1-6; Eccli 24, 19-22). Questi
appelli superano ciò che si aspetta da un sapiente comune; fanno intravvedere la
misteriosa personalità del *Figlio (cfr. Mt 11, 25 ss par.). La lezione è stata
raccolta dagli scritti apostolici. Se Gesù vi è chiamato «sapienza di Dio» (1
Cor 1, 24. 30), non è soltanto perché egli comunica la sapienza agli uomini, ma
perché è egli stesso la sapienza. Per parlare della sua preesistenza presso il
Padre, si riprendono quindi i termini stessi che definivano un tempo la sapienza
divina: egli è il primogenito prima di ogni creatura e l’artefice della
*creazione (Col 1, 15 ss; cfr. Prov 8, 22- 31), lo splendore della *gloria di
Dio e l’impronta della sua sostanza (Ebr 1, 3; cfr. Sap 7, 25 s). Il Figlio è la
sapienza del Padre, come ne è pure il Verbo (*parola) (Gv 1, 1 ss). Questa
sapienza personale un tempo era nascosta in Dio, quantunque governasse
l’universo, dirigesse la storia, si manifestasse indirettamente nella legge e
nell’insegnamento dei sapienti. Ora è rivelata in Gesù Cristo. Così tutti i
testi sapienziali del VT assumono in lui la loro portata definitiva.
II. SAPIENZA DEL MONDO E SAPIENZA CRISTIANA
1. La sapienza del mondo condannata.
- Nel momento di questa rivelazione suprema della sapienza, ricomincia il dramma
che i profeti avevano già posto in evidenza. Divenuta stolta dopo che aveva
disconosciuto il Dio vivente (Rom 1, 21 s; 1 Cor 1, 21), la sapienza di questo
mondo ha portato al colmo la sua *follia quando gli uomini «hanno crocifisso il
Signore della gloria» (1 Cor 2, 8). Perciò Dio ha condannato questa sapienza dei
sapienti (1, 19 s; 3, 19 s), che è «terrena, animale, diabolica» (Giac 3, 15);
per schernirla, egli ha deciso di salvare il mondo mediante la follia della
*croce (1 Cor 1, 17-25). Quando si annuncia agli uomini il *vangelo della
*salvezza, si può quindi lasciar da parte tutto ciò che deriva dalla sapienza
umana, dalla cultura e dal parlare forbito (1 Cor 1, 17; 2, 1-5): la follia
della croce non tollera mistificazioni.
2. La vera sapienza.
- La rivelazione della vera sapienza avviene quindi in modo
paradossale. Essa non è accordata ai sapienti ed agli scaltri, ma ai piccoli (Mt
11, 25); per confondere i sapienti inorgogliti, Dio ha scelto ciò che vi era di
stolto nel mondo (1 Cor 1, 27). Bisogna quindi rendersi stolti agli occhi del
mondo, per diventare sapienti secondo Dio (3, 18). Infatti la sapienza cristiana
non si acquista mediante sforzo umano, ma per rivelazione del Padre (Mt 11, 25
ss). Essa è, in sé, cosa divina, misteriosa e nascosta, che non è possibile
sondare mediante l’intelligenza umana (1 Cor 2, 7 ss; Rom 11, 33 ss; Col 2, 3).
Manifestata mediante il compimento storico della salvezza (Ef 3, 10), essa può
essere comunicata soltanto dallo *Spirito di Dio agli uomini che gli sono docili
(1 Cor 2, 10-16; 12, 8; Ef 1, 17).
III. ASPETTI DELLA SAPIENZA CRISTIANA
1. Sapienza e rivelazione.
- La sapienza cristiana, qual è stata descritta, presenta nette affinità con le
apocalissi giudaiche: non è in primo luogo regola di vita, ma *rivelazione del
*mistero di Dio (1 Cor 2, 6 ss), vertice della *conoscenza religiosa che Paolo
chiede a Dio per i fedeli (Col 1, 9) e di cui questi possono istruirsi
reciprocamente (3, 16), «con un linguaggio insegnato dallo Spirito» (1 Cor 2,
13).
2. Sapienza e vita morale.
- Tuttavia l’aspetto morale della sapienza non è eliminato. Alla luce della
rivelazione di Cristo, sapienza di Dio, tutte le regole di condotta, che il VT
collegava alla sapienza secondo Dio, acquistano al contrario la pienezza del
loro significato. Non soltanto ciò che deriva dalle funzioni apostoliche (1 Cor
3, 10; 2 Piet 3, 15); ma anche ciò che concerne la vita cristiana di ogni giorno
(Ef 5, 15; Col 4, 5), in cui bisogna imitare la condotta delle vergini prudenti,
non quella delle vergini stolte (*follia) (Mt 5, 1-12). I consigli di morale
pratica, enunziati da S. Paolo nelle finali delle sue lettere, sostituiscono qui
l’insegnamento dei sapienti antichi. Il fatto è ancora più evidente per la
lettera di Giacomo, che, su questo preciso punto, oppone la falsa sapienza alla
«sapienza dall’alto» (Giac 3, 13-17). Quest’ultima implica una perfetta
rettitudine morale. Bisogna sforzarsi di conformarvi i propri atti, pur
domandandola a Dio come un dono (Giac 1, 5). Questa è la sola prospettiva in cui
le conquiste dell’umanesimo possono inserirsi nella vita e nel pensiero
cristiani. L’uomo peccatore deve lasciarsi crocifiggere con la sua sapienza
orgogliosa, se vuol rinascere in Cristo. Se lo fa, tutto il suo sforzo umano
assumerà un senso nuovo, perché si effettuerà sotto la guida dello spirito.
A. BARUCQ e P. GRELOT
→ conoscere VT 4 - creazione VT II 3; NT I 2 - discepolo VT 2 - disegno di Dio
VT IV - donna VT 3 - educazione - figlio dell’uomo VT II 1 - follia - Gesù
Cristo II 1 d - giustizia A I VT 4 - gustare 1 - immagine III - insegnare VT I
4, II 1 - latte 3 - legge B III 4 - luce e tenebre VT I 3 - madre II 1 - mistero
VT 2 b; NT II 1 - opere VT I 3; NT I 1 - paradiso 2 c - parola di Dio VT I 1, IV
- peccato IV 3 d - pienezza 2 - predestinare 2 - promesse II 6 - rivelazione VT
I 3 - semplice 1 - sposo-sposa VT 3; NT 1 - timore di Dio IV - vecchiaia 2 -
verità VT 3 - volontà di Dio VT I 2 b.
SAPORE (inizio)
→ gustare - sale 2.3.
Con il nome di
Satana (ebr. satan, l’avversario) o di diavolo (gr. diàbolos, il calunniatore) -
i due nomi ricorrono con frequenza pressoché uguale nel NT - la Bibbia designa
un essere personale, per sé invisibile, ma la cui azione od influsso si
manifesta sia nell’attività di altri esseri (*demoni o spiriti impuri), sia
nella *tentazione. Su questo punto d’altronde, a differenza del tardo giudaismo
e della maggioranza delle letterature dell’Oriente antico, essa rivela
un’estrema sobrietà, limitandosi ad informarci dell’esistenza di questo
personaggio e delle sue astuzie, nonché dei mezzi per premunirci contro di esse.
I. L’AVVERSARIO DEL DISEGNO DI DIO CIRCA L’UMANITÀ
1. Il VT non parla di Satana che molto raramente e sotto una forma che,
salvaguardando la trascendenza del Dio unico, evita accuratamente tutto ciò che
avrebbe potuto inclinare Israele verso un dualismo, al quale era anche troppo
portato. Più che un avversario propriamente detto, Satana appare come uno degli
*angeli della corte di Jahvè, che svolge nel tribunale celeste una funzione
analoga a quella del pubblico accusatore, incaricato di far rispettare in terra
la giustizia e i diritti di Dio. Tuttavia, sotto questo preteso servizio di Dio,
si scorge già in Giob 1 - 3 una volontà ostile, se non a Dio stesso, almeno
all’uomo e alla sua *giustizia: egli non crede all’amore disinteressato (Giob 1,
9); senza essere un «tentatore», si aspetta che Giobbe soccomba; segretamente lo
desidera, e si capisce che ne gioirebbe. In Zac 3, 1-5, l’accusatore si
trasforma in vero avversario dei disegni d’amore di Dio circa Israele: affinché
questi sia salvato, l’angelo di Jahvè deve prima imporgli silenzio in nome
stesso di Dio: «Ti comandi il Signore!» (Giuda 9: Volg.).
2. Ora, il lettore della Bibbia sa per altra via che un
misterioso personaggio ha avuto una parte fondamentale fin dalle origini umane.
La Genesi non parla che del serpente. Creatura di Dio «come tutte le altre» (Gen
3, 1), questo serpente è tuttavia dotato di una scienza e di un’abilità che
superano quelle dell’uomo. Soprattutto, fin dal suo ingresso sulla scena, esso è
presentato come il nemico della natura umana. Invidioso della felicità dell’uomo
(cfr. Sap 2, 24), esso giunge ai suoi fini usando già le armi che gli saranno
sempre proprie, astuzia e *menzogna: «il più astuto di tutte le bestie
selvatiche» (Gen 3, 1), «seduttore» (Gen 3, 13; Rom 7, 11; Apoc 12, 9; 20, 8
ss), «omicida e bugiardo fin dall’origine» (Gv 8, 44). A questo serpente la
sapienza dà il suo vero nome: è il diavolo (Sap 2, 24).
II. L’AVVERSARIO DI CRISTO
Fin da questo primo episodio della sua storia, l’umanità vinta
intravvede tuttavia che un giorno trionferà del suo avversario (Gen 3, 15). La
*vittoria dell’uomo su Satana, tale è di fatto lo scopo stesso della missione di
Cristo, venuto «a ridurre alla impotenza colui che aveva il potere della morte,
il diavolo» (Ebr 2, 14), «a distruggere le sue opere» (1 Gv 3, 8), in altre
parole, a sostituire il regno del Padre suo a quello di Satana (1 Cor 15, 24-28;
Col 1, 13 s). I vangeli presentano quindi la sua vita pubblica come una lotta
contro Satana. Essa incomincia con l’episodio della *tentazione in cui, per la
prima volta dopo la scena del paradiso, un *uomo, rappresentante l’umanità,
«figlio di Adamo» (Lc 3, 38), viene a trovarsi faccia a faccia con il diavolo.
Si inasprisce con le liberazioni degli indemoniati (cfr. *demoni), prova che «il
regno di Dio è giunto» (Mc 3, 22 ss par.) e che quello di Satana ha avuto
termine (cfr. Lc 10, 17-20), nonché con le guarigioni di semplici *malati (cfr.
Atti 10, 38). Continua pure, più dissimulata, nello scontro che oppone Cristo ai
Giudei increduli, a questi veri «figli del diavolo» (Gv 8, 44; cfr. Mt 13, 38),
a questa «razza di vipere» (Mt 3, 7 ss; 12, 34; 23, 33). Raggiunge il suo
parossismo nell’ora della passione. Coscientemente Luca la collega alla
tentazione (Lc 4, 13; 22, 53), e Giovanni non vi sottolinea la funzione di
Satana (Gv 13, 2. 27; 14, 30; cfr. Lc 22, 3. 31) se non per proclamarne la
sconfitta finale. Satana sembra condurre il gioco; ma in realtà «non ha su
Cristo alcun potere»: tutto è opera dell’amore e dell’obbedienza del Figlio (Gv
14, 30; cfr. *redenzione). Nel momento preciso in cui si crede certo della
vittoria, il «principe di questo mondo» è «gettato fuori» (Gv 12, 31; cfr. 16,
11; Apoc 12, 9- 13); il dominio del mondo, che una volta egli aveva osato
offrire a Gesù (Lc 4, 6), appartiene ormai al Cristo morto e glorificato (Mt 28,
18; cfr. Fil 2, 9).
III. L’AVVERSARIO DEI CRISTIANI
Se la risurrezione di Cristo consacra la sconfitta di Satana, la lotta non
terminerà, secondo Paolo, se non con l’ultimo atto della «storia della
salvezza», nel «*giorno del Signore», quando «il Figlio, dopo aver ridotto
all’impotenza ogni principato ed ogni potestà e la *morte stessa, consegnerà il
regno al Padre suo, affinché Dio sia tutto in tutti» (1 Cor 15, 24-28). Al pari
di Cristo, il cristiano si scontrerà quindi con l’avversario. È lui che
impedisce a Paolo di andare a Tessalonica (l Tess 2, 18), e «la spina conficcata
nella sua carne», ostacolo al suo apostolato, è «un messaggero di Satana» (2 Cor
12, 7-10). Già il vangelo lo aveva identificato con il *nemico che semina la
zizzania nel campo del padre di famiglia (Mt 13, 39), o che strappa dal cuore
degli uomini il seme della parola di Dio, «per tema che credano e siano salvati»
(Mc 4, 15 par.). A sua volta Pietro lo rappresenta come un leone affamato che
gira continuamente attorno ai fedeli, cercando qualcuno da divorare (1 Piet 5,
8). come nel *paradiso, egli fa essenzialmente la parte di tentatore,
sforzandosi di indurre gli uomini al peccato (1 Tess 3, 5; 1 Cor 7, 5) e di
opporli in tal modo a Dio stesso (Atti 5, 3). Più ancora, dietro questa potenza
personificata che egli chiama il *peccato, Paolo sembra supporre ordinariamente
l’azione di Satana, padre del peccato (cfr. Rom 5, 12 e Sap 2, 24; Rom 7, 7 e
Gen 3, 13). Infine, se è vero che l’anticristo è già all’opera in terra, dietro
la sua azione malefica si nasconde la potenza di Satana (2 Tess 2, 7 ss). Così
il cristiano - e questo è il lato tragico del suo destino - deve scegliere tra
Dio e Satana, tra Cristo e Belial (2 Cor 6, 14), tra il «maligno» ed il «vero»
(1 Gv 5, 18 s). Nell’ultimo giorno egli sarà per sempre con l’uno o con l’altro.
Spirito temibile per le sue «astuzie», le sue «insidie», i suoi «inganni», le
sue «manovre» (2 Cor 2, 11; Ef 6, 11; 1 Tim 3, 7; 6, 9...), che ama «camuffarsi
da angelo di luce» (2 Cor 11, 14), Satana è nondimeno un nemico già vinto. Unito
a Cristo mediante la fede (Ef 6, 10) e la preghiera (Mt 6, 13; 26, 41 par.), il
cristiano - la cui preghiera d’altronde è sostenuta dalla preghiera di Gesù (Lc
22, 32; cfr. Rom 8, 34; Ebr 7, 25) - è certo di trionfare: sarà vinto soltanto
chi avrà acconsentito ad esserlo (Giac 4, 7; Ef 4, 27). Al termine della
rivelazione, l’Apocalisse, specialmente a partire dal cap. 12, offre come una
sintesi dell’insegnamento biblico su questo avversario, contro il quale,
dall’origine (Apoc 12, 9) fino al termine della storia della salvezza, l’umanità
deve combattere. Impotente dinanzi alla *donna ed a colui che essa partorisce
(12, 5 s), Satana si è rivolto contro «il resto della sua discendenza» (12, 17);
ma l’apparente trionfo che gli procurano i portenti dell’*anticristo (13 - 17)
terminerà con la vittoria definitiva dell’*agnello e della Chiesa, sua sposa (18
- 22): assieme alla *bestia ed al falso profeta, assieme alla *morte ed all’Ade,
assieme a tutti gli uomini che saranno stati vittime delle sue astuzie, Satana
sarà «gettato nel lago di zolfo ardente», il che è la «seconda» *morte (Apoc 20,
10. 14 s).
S. LYONNET
→ angeli VT 2 - anticristo - astri 4 - Babele-Babilonia 6 - bene e male I 4 -
bestemmia - bestie e Bestia - calamità 1 -. demoni - donna VT 1; NT 3 - errore
NT - guerra VT IV; NT - ira B VT I 2; NT III 2 - luce e tenebre NT II 1 -
malattiaguarigione VT I 2; NT I 1 - maledizione I - mare 2.3 - menzogna III -
miracolo II 2 b - mondo NT I 2 - morte VT II 1;NT I 1, II 3 - nemico III 2 -
odio I 1 - orgoglio 5 - peccato - persecuzione I 1.4 a - potenza III 2 -
prigionia II – provatentazione - segno NT II 3 - vegliare II 2 - vittoria NT.
→ Abramo I 3 - frutto - gioia - messe I - pasto - ricchezza I 3.4.
Scandalizzare
significa far cadere, essere per uno occasione di caduta. Lo scandalo è in
concreto l’insidia che si pone sulla strada del nemico per farlo cadere. In
verità vi sono parecchi modi di «far cadere» uno nel campo morale e religioso:
la tentazione che esercitano *Satana o gli uomini, la *prova in cui Dio pone il
suo popolo od il suo figlio, sono «scandali». Ma si tratta sempre della fede in
Dio.
I. CRISTO, SCANDALO PER L’UOMO
1. Già il VT rivela che Dio può essere causa di scandalo per
Israele: «Egli è la *pietra di scandalo e la *roccia che fa cadere le due case
di Israele... molti vi inciamperanno, cadranno e si sfracelleranno» (Is 8, 14
s). E questo perché col suo modo di agire, Dio mette alla prova la fede del suo
popolo. Così anche Gesù è apparso agli uomini come un segno di contraddizione.
Pur essendo stato mandato per la salvezza di tutti, di fatto è occasione di
*indurimento per molti: «Questo bambino è posto per la caduta e la risurrezione
di molti in Israele, per *segno contraddetto» (Lc 2, 34). Nella sua persona e
nella sua vita, tutto costituisce scandalo. Egli è il figlio del falegname di
Nazaret (Mt 13, 57); vuole salvare il mondo non mediante un qualche messianismo
vendicatore (11, 2-5; cfr. Gv 3, 17) o politico (Gv 6, 15), ma mediante la
passione e la croce (Mt 16, 21); gli stessi discepoli vi si oppongono come
Satana (16, 22 s) e, scandalizzati, abbandonano il loro maestro (Gv 6, 66). Ma
Gesù risorto li raduna (Mt 26, 31 s).
2. Giovanni mette in rilievo il carattere scandaloso del
vangelo: Gesù è in tutto un uomo simile agli altri (Gv 1, 14), del quale si
pensa di conoscere l’origine (1, 46; 6, 42; 7, 27) e del quale non si può
comprendere il disegno redentore mediante la *croce (6, 52) e mediante
l’*ascensione (6, 62). Gli uditori inciampano tutti nella rivelazione del
triplice mistero dell’incarnazione, della redenzione e dell’ascensione; ma gli
uni sono rialzati da Gesù, gli altri si ostinano: il loro peccato è senza scusa
(15, 22 ss).
3. Presentandosi agli uomini, Gesù li ha posti in condizione di
optare per lui o contro di lui: «Beato colui per il quale io non sono occasione
di scandalo» (Mt 11, 6 par.). La comunità apostolica ha quindi applicato a Gesù
in persona l’oracolo di Is 8, 14 che parlava di Dio. Egli è «la pietra di
scandalo» e nello stesso tempo «la pietra d’angolo» (1 Piet 2, 7 s; Rom 9, 32 s;
Mt 21, 42). Cristo è ad un tempo fonte di vita e causa di morte (cfr. 2 Cor 2,
16).
4. Paolo ha dovuto affrontare questo scandalo sia nel mondo
greco che nel mondo giudaico. D’altronde, non ne aveva forse fatta egli stesso
l’esperienza prima della sua conversione? Ha scoperto che Cristo, o se si
preferisce la *croce, è «*follia per coloro che si perdono, ma per coloro che si
salvano è la *potenza di Dio» (1 Cor 1, 18). Infatti Cristo crocifisso è
«scandalo per i Giudei, e follia per i pagani» (1 Cor 1, 23). La sapienza umana
non può comprendere che Dio voglia salvare il mondo per mezzo di un Cristo
umiliato, *sofferente, crocifisso. Soltanto lo Spirito di Dio permette all’uomo
di superare lo scandalo della croce, o meglio, di riconoscervi la suprema
*sapienza (l Cor 1, 25; 2, 11-16).
5. Lo stesso scandalo, la stessa prova della fede continuano
attraverso tutta la storia della Chiesa. La Chiesa è sempre nel mondo un segno
di contraddizione, e l’odio, la *persecuzione sono per molti un’occasione di
caduta (Mt 13, 21; 24, 10), benché Gesù li abbia annunziati affinché i suoi
discepoli non soccombano (Gv 16, 1).
II. L’UOMO, SCANDALO PER L’UOMO
L’uomo è scandalo per il proprio fratello quando cerca di allontanarlo dalla
*fedeltà a Dio. chi abusa della debolezza del fratello, o del potere ricevuto da
Dio su di lui, per allontanarlo dall’alleanza, è colpevole verso il proprio
fratello e verso Dio. Dio ha in orrore i principi che hanno distolto il popolo
dal *seguire Jahvè: Geroboamo (1 Re 14, 16; 15, 30. 34), Achab o Gezabele (1 Re
21, 22. 25), e così pure coloro che hanno voluto trascinare Israele sulla china
della ellenizzazione, fuori della vera fede (2 Mac 4, 7...). Sono invece degni
di lode coloro che resistono allo scandalo per mantenere la fedeltà all’alleanza
(Ger 35). Gesù, sebbene personalmente segno di contraddizione, con il compimento
dell’alleanza viene a mettere fine al grande scandalo della rottura tra l’uomo e
Dio. Perciò è implacabile verso i fautori di scandalo: «Guai a chi scandalizza
uno di questi piccoli che credono in me! Sarebbe meglio per lui se gli
appendessero al collo una macina e lo precipitassero nel profondo del mare!» (Mt
18, 6). Ma Gesù sa che questi scandali sono inevitabili: falsi dottori (2 Piet
2, 1) o seduttori, come l’antica Gezabele (Apoc 2, 20), sono sempre all’opera.
Questo scandalo può venire anche dallo stesso discepolo; Gesù quindi esige con
forza e senza pietà la rinuncia a tutto ciò che può creare ostacolo al regno di
Dio. «Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo e gettalo lontano da te» (Mt 5, 29
s; 18, 8 s). Sull’esempio di Gesù che non voleva turbare le anime semplici (Mt
17, 26), Paolo vuole che si eviti di scandalizzare le *coscienze deboli e poco
formate: «Badate che la libertà di cui fate uso non diventi occasione di caduta
per i deboli» (1 Cor 8, 9; Rom 14, 13-15. 20). La *libertà cristiana non è
autentica se non è pervasa di carità (Gal 5, 13); la fede non è vera se non
sostiene la fede dei fratelli (Rom 14, 1-23).
C. AUGRAIN
→ croce I 1-2 - incredulità II - pietra 5 - roccia 1 - sofferenza VT II.
→ bene e male - elezione - eresia 1 - liberazione-libertà I - via II.
La schiavitù era
praticata in Israele. Molti schiavi erano di origine straniera: prigionieri di
guerra ridotti in schiavitù, secondo l’usanza generale dell’antichità (Deut 21,
10), oppure schiavi comperati da mercanti che ne facevano traffico (Gen 17, 12).
Anche degli Ebrei venivano venduti oppure si vendevano come schiavi (Es 21,
1-11; 22, 2; 2 Re 4, 1). Tuttavia la schiavitù non ha mai raggiunto in Israele
né l’ampiezza, né la forma che conobbe nell’antichità classica. Di fatto Israele
restava segnato dalla sua duplice esperienza iniziale: la sua miseria nel paese
della schiavitù e la meravigliosa storia della sua *liberazione ad opera di Dio
(Deut 26, 6 ss; Es 22, 20). Ne conseguiva da una parte il suo snodo particolare
di considerare il problema sociale della schiavitù e dall’altra parte la
riflessione religiosa suscitata da questa realtà.
I. IL PROBLEMA SOCIALE
È utile osservare anzitutto che nella Bibbia la stessa parola designa
ad un tempo il servo e lo schiavo. Certamente la *legge accetta la schiavitù
propriamente detta, come un uso corrente (Es 21, 21); ma ha sempre mirato ad
attenuarne il rigore, testimoniando in tal modo un autentico senso di umanità.
Pur essendo proprietario del suo schiavo, il padrone non ha tuttavia il diritto
di maltrattarlo a piacer suo (Es 21, 20. 26 s). Se si tratta di uno schiavo
ebreo, la, legge si mostra ancora più restrittiva. Salvo il consenso
dell’interessato, proibisce la schiavitù a vita: il codice dell’alleanza ordina
la liberazione settennale (Es 21, 2); più tardi, il Deuteronomio correda questa
liberazione di attenzioni fraterne (Deus 15, 13 s); dal canto suo la
legislazione levitica istituirà una liberazione generale in occasione dell’anno
giubilare, forse per supplire alla non applicazione delle misure precedenti (Lev
25, 10; cfr. Ger 34, 8). Infine la legge vuol far passare lo schiavo ebreo allo
statuto di salariato (Lev 25, 39-55), perché i figli di Israele, liberati da Dio
dalla schiavitù di *Egitto, non possono più essere schiavi di un uomo. Il
problema della schiavitù si è nuovamente posto nelle comunità cristiane del
mondo grecoromano. Paolo l’ha incontrato specialmente a Corinto. La sua risposta
è fermissima: quel che ormai ha importanza non è questa o quella condizione
sociale, ma la chiamata di Dio (1 Cor 7, 17...). Lo schiavo farà dunque il suo
dovere di cristiano servendo al suo padrone «come a Cristo» (Ef 6, 5-8). Il
padrone cristiano comprenderà che lo schiavo è suo *fratello in Cristo; lo
tratterà fraternamente e saprà anche affrancarlo (Ef 6, 9; Filem 14-21). Di
fatto nell’*uomo nuovo non esiste più la vecchia antinomia schiavo-uomo libero;
ciò che soltanto importa «è di essere una nuova creatura» (Gal 3, 28; 6, 15).
II. IL TEMA RELIGIOSO
Liberato dalla schiavitù ad opera di Dio, Israele vi ricadeva se era infedele (Giud
3, 7 s; Neem 9, 35 s). Ha così imparato che *peccato e schiavitù vanno di pari
passo, ed ha sentito il bisogno di essere liberato dalle sue colpe (Sal 130;
141, 3 s). Il NT rivela ancor meglio questa miseria più profonda: dopo che, per
opera di Adamo, il peccato è entrato nel mondo, tutti gli uomini gli sono
interiormente asserviti e nello stesso tempo piegano sotto il timore della
morte, suo inevitabile salario (Rom 5, 12..., 7, 13-24; Ebr 2, 14 s). La legge
stessa non faceva che rafforzare questa schiavitù. Soltanto Cristo era in grado
di spezzarla, perché egli era il solo su cui il principe di questo mondo non
avesse potere alcuno (Gv 14, 30). Egli è venuto a liberare i peccatori (Gv 8,
36). Per spezzare la loro schiavitù ha accettato di assumere egli stesso una
condizione di schiavo (Fil 2, 7), una carne simile a quella del peccato (Rom 8,
3), e di essere obbediente fino alla morte di croce (Fil 2, 8). Si è fatto il
servo non soltanto di Dio, ma degli uomini, che in tal modo ha redento (Mt 20,
28 par; cfr. Gv 13, 1-17). Meglio degli Ebrei liberati dall’Egitto, i battezzati
sono quindi divenuti i liberti del Signore, o se si vuole, gli schiavi di Dio e
della *giustizia (1 Cor 7, 22 s; Rom 6, 16-22; cfr. Lev 25, 55). Ormai sono
liberati dal peccato, dalla morte, dalla legge (Rom 6 - 8; Gal 5, 1). Da
schiavi, sono divenuti figli nel Figlio (Gv 8, 32-36; Gal 4, 4-7. 21-31). Ma,
liberi nei confronti di tutti, si fanno nondimeno servi e schiavi di tutti,
sull’esempio del loro Signore (1 Cor 9, 19; Mt 20, 26-27 par.; Gv 13, 14 ss).
Perché se il servizio dell’uomo è incidentale e se la schiavitù del peccato e
della carne è anormale, il servizio di Dio e dei fratelli costituisce la
vocazione stessa del cristiano.
C. AUGRAIN
→ autorità NT II 2 - lavoro - liberazione-libertà - prigionia - servire I.
→ conoscere - coscienza - Dio NT II 2 - sapienza.
→ follia - riso 1.
Una semplice
sfumatura distingue in 1 Cor lo scisma (scissione) dall’eresia. Raffigurati da
quelli esistiti in Israele e che contraddicevano la sua natura di «assemblea di
Jahvè», questi dissensi frazionano la Chiesa in clan rivali e contraddicono la
sua natura di corpo di Cristo.
VECCHIO TESTAMENTO
1. Il peccato trasforma in scismi le divisioni naturali.
- La divisione (ripartizione) degli uomini in popoli, lingue, habitat
distinti, è un processo naturale (Gen 1, 28; 9, 1; 10), che prepara alla storia
della salvezza (Deut 32, 8 s), ma il *peccato ne fa la fonte di numerosi
conflitti. Per questa ragione, le parole che esprimono la divisione assumono
spesso il significato peggiorativo di una frattura dell’unità (Sal 55, 10; cfr.
Gen 49, 7; Lam 4, 16), di una *dispersione che castiga l’orgoglio umano (Gen 11,
1-9). Con *Abramo, nella cui discendenza tutte le nazioni saranno benedette (Gen
12, 7; 13, 15; 22, 17 s; cfr. Gal 3, 16), si inaugurano l’unione dei credenti
(Gal 3, 7 ss) e la restaurazione dell’unità umana. Ma quanti conflitti ancora,
prima del raduno finale intorno all’agnello (Apoc 7, 9)!
2. Lo scisma minaccia la vita di fede del popolo eletto e ne compromette
la testtmonianza.
- L’unità del *popolo eletto, precaria sul piano sociologico (2 Sam 5,
5; 15, 6. 13; 19, 41- 20, 2), era basata su una comunità di fede: era
innanzitutto l’*alleanza con Jahvè a legare le tribù confederate in una stessa
legge e in un medesimo culto (Es 24, 4-8; Gios 24). I *pellegrinaggi e i
periodici raduni intorno a un santuario centrale (Sichem, Silo..., poi il tempio
di Gerusalemme) alimentavano l’unità delle tribù e la mantenevano sul piano
religioso. Per contrasto, per una tribù, è peccato sottrarsi alla guerra santa (Num
32, 23; Giud 5, 23) ed erigere un luogo di culto che rivaleggi col santuario
centrale (Gios 22, 29); mentre la scissione in due regni distinti non è mai
biasimata come evento politico, bensì presentata come un’iniziativa di Dio (1 Re
11, 31-39; 12, 24; 2 Re 17, 21) che in tal modo castiga le colpe di Salomone (1
Re 11, 33). Quindi la rottura viene condannata proprio nel suo aspetto di scisma
religioso: il peccato di Geroboamo fu quello di aver distolto gli Israeliti dal
santuario centrale di Gerusalemme erigendo dei santuari in concorrenza con esso
(12, 27 s), di far posare la presenza divina su un piedestallo a forma di toro,
favorendo con ciò confusioni idolatriche (12, 28. 32; 14, 9; 16, 26; 2 Re 10,
29; 17, 16; Os 8, 5 s) e di insediare a Bethel dei sacerdoti non della stirpe di
Levi (1 Re 12, 31; 13, 33; cfr. 2 Cron 13, 4-12). Certi testi esilici,
annuncianti la riunificazione di Israele e Giuda, suggeriscono che lo scisma non
ostacola soltanto la vita di fede del popolo santo, ma anche la forza della sua
testimonianza di fronte alle nazioni (Is 43, 10 ss; 44, 8). Perché queste
possano riunirsi a Sion (Ger 3, 17), bisogna che Giuda cammini con Israele (3,
18; cfr. Is 11, 12 ss; Ez 37, 11 s. 28). L’unità del popolo santo è in un certo
senso il riflesso e l’attestato dell’unicità del suo Dio.
NUOVO TESTAMENTO
«*Segno contraddetto» (Lc 2, 34), Gesù apporta la divisione (12, 51) persino
nelle famiglie (v. 52 s), tra coloro che sono dalla sua parte e coloro che sono
contro di lui (cfr. Gv 7, 43; 9, 16; 10, 19). Ma in tal modo viene a turbare una
*pace solo illusoria o troppo naturale, perché è venuto a «radunare i dispersi»
(Gv 11, 52; cfr. 10, 16), ad «uccidere l’odio», a distruggere le barriere, a
instaurare tra gli uomini l’autentica pace, facendoli figli dello stesso Padre,
membra dello stesso corpo, animati dallo stesso Spirito (Ef 2, 14-18). In questo
corpo, la eventuale divisione appare una mostruosità (1 Cor 12, 25): è un frutto
della «*carne» (Gal 5, 20; cfr. 1 Cor 3, 3 s), origine del peccato.
1. Gli scismi originati dai carismi.
- S. Paolo incontra soprattutto a Corinto il male delle divisioni tra
fedeli (1 Cor 1, 10; 11, 18 s; 12, 25). Ora, scrive, «Cristo è forse diviso?».
Non è forse nel suo solo nome che sono stati *battezzati, non è lui solo ad
averli salvati con la sua morte (1, 13)? I fautori di cricche non sono realmente
né dei «sapienti» (2, 6), né degli «spirituali» (3, 1), e Paolo condanna i
dissensi provocati da un disordinato entusiasmo per i carismi spettacolari; si
dimentica l’unica fonte divina dei vari doni, e l’edificazione perseguita dallo
Spirito che li distribuisce a suo piacere (12, 11). Tutti infine misconoscono il
maggiore dei doni spirituali (12, 31), l’unico indispensabile (13, 1 ss):
l’*amore fraterno che, producendo direttamente l’unione e 1’edificazione (8, 1),
esclude la divisione.
2. Gli scismi alterano la testimonianza della Chiesa.
- Anche se risparmiano l’unità di fede (che tuttavia minacciano
ogniqualvolta seguono o precedono una propaganda eretica), le scissioni interne
contraddicono quindi la natura della Chiesa e ledono la carità. Giovanni
suggerisce una conseguenza importante di questo secondo effetto: la
testimonianza che la Chiesa è tenuta a rendere a Cristo viene compromessa per il
fatto che, solo dall’amore reciproco, i cristiani si potranno riconoscere come
suoi discepoli (Gv 13, 35). La tunica senza cucitura e non «lacerata» (19, 23 s)
sta forse a significare che Gesù è il sommo sacerdote del proprio sacrificio»,
che la sua Chiesa è indivisa; comunque, egli si è sacrificato (17, 19) perché i
suoi fossero uno e rivelassero così al mondo la comunione d’amore instaurata
dall’Inviato del Padre (17, 21. 23).
P. TERNANT
→ carismi II 1 - Chiesa IV 3 - dispersione - eresia 1 - Israele VT 2 a
- unità II, III.
→ anatema NT.