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La parola greca
«Pentecoste» significa che la festa celebrata in quel giorno ha luogo cinquanta
giorni dopo la Pasqua. L’oggetto di questa festa ha subito evoluzioni: dapprima
festa agricola, essa in seguito commemora il fatto storico dell’alleanza, per
diventare infine la festa del dono dello Spirito, inaugurando sulla terra la
nuova alleanza.
I. VT E GIUDAISMO
Con la Pasqua ed i Tabernacoli, la Pentecoste è una delle tre *feste in cui
Israele deve presentarsi dinanzi a Jahvè nel luogo da lui scelto per farvi
abitare il suo *nome (Deut 16, 16).
1. All’origine è la festa della *messe, giorno di gioia e di
ringraziamento (Es 23, 16; Num 28, 26; Lev 23, 16 ss); in essa si offrono le
*primizie di quanto la terra ha prodotto (Es 34, 22, dove la festa è chiamata
festa delle settimane, appellativo che la colloca sette settimane dopo la Pasqua
e l’offerta del primo covone: cfr. Lev 23, 15).
2. Poi la festa è un anniversario. L’*alleanza era stata
conclusa una cinquantina di giorni (Es 19, 146) dopo l’uscita dall’Egitto,
celebrata con la Pasqua; la Pentecoste divenne naturalmente l’anniversario
dell’alleanza, senza dubbio sin dal sec. II a. C., perché, come tale, appare
generalizzata all’inizio della nostra era, in base agli scritti rabbinici ed ai
manoscritti di Qumrân.
II. LA PENTECOSTE CRISTIANA
1. La teofania.
- Il dono dello Spirito con i segni che lo accompagnano, il vento, il *fuoco,
richiama le teofanie del VT. Un duplice miracolo sottolinea il senso
dell’avvenimento: anzitutto gli apostoli, per cantare le meraviglie di Dio, si
esprimono in «lingue» (Atti 2, 3); il parlare in *lingua è una forma
*carismatica di preghiera che si ritrova nelle comunità cristiane primitive.
Questo parlare in lingua, quantunque per sé inintelligibile (cfr. 1 Cor 14,
1-25), in quel giorno è compreso dalle persone presenti; questo miracolo di
audizione è un segno della vocazione universale della Chiesa, perché questi
uditori provengono dalle più diverse regioni (Atti 2, 5- 11).
2. Senso dell’avvenimento.
a) Effusione escatologica dello Spirito. - Pietro, citando il
profeta Gioele, fa vedere che la Pentecoste realizza le *promesse di Dio: negli
ultimi *tempi, lo Spirito sarebbe stato dato a tutti (cfr. Ez 36, 27). Il
precursore aveva annunziato che era presente colui che doveva battezzare nello
Spirito Santo (Mc 1, 8). E Gesù, dopo la risurrezione, aveva confermato queste
promesse: «Tra pochi giorni, sarete battezzati nello Spirito Santo» (Atti 1, 5).
b) Coronamento della Pasqua di Cristo. - Secondo la
catechesi primitiva, Cristo morto, risorto ed esaltato alla destra del Padre,
porta a termine la sua opera effondendo lo Spirito sulla comunità apostolica
(Atti 2, 23-33). La Pentecoste è la pienezza della *Pasqua.
c) Raduno della comunità messianica. - I profeti
annunziavano che i *dispersi sarebbero stati radunati sul monte Sion e che in
tal modo l’assemblea di Israele sarebbe stata unita attorno a Jahvè; la
Pentecoste realizza a Gerusalemme l’*unità spirituale dei Giudei e dei proseliti
di tutte le nazioni; docili all’*insegnamento degli apostoli, essi partecipano
(cfr. *comunione) nell’*amore fraterno alla mensa *eucaristica (Atti 2, 42 ss).
d) Comunità aperta a tutti i popoli. - Lo Spirito è
dato in vista di una testimonianza che dev’essere portata fino alle estremità
della terra (Atti 1, 8); il miracolo di audizione sottolinea che la prima
comunità messianica si estenderà a tutti i popoli (Atti 2, 5-11). La «Pentecoste
dei pagani» (Atti 10, 44 ss) lo dimostrerà. La divisione operata a *Babele (Gen
11, 1-9) trova qui la sua antitesi ed il suo termine.
e) Inizio della missione. - La Pentecoste che raduna
la comunità messianica è pure il punto di partenza della sua missione: il
discorso di Pietro, «in piedi con gli Undici», è il primo atto della *missione
data da Gesù: «Riceverete una forza, lo Spirito Santo... Allora sarete miei
*testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, e fino ai confini
della terra» (Atti 1, 8). I Padri hanno paragonato questo «battesimo nello
Spirito Santo», specie di investitura apostolica della Chiesa, al battesimo di
Gesù, teofania solenne all’inizio del suo ministero pubblico. Fanno vedere nella
Pentecoste il dono della nuova *legge alla Chiesa (cfr. Ger 31, 33; Ez 36, 27) e
la nuova *creazione (cfr. Gen 1, 2): questi temi non sono espressi in Atti 2, ma
si fondano sulla realtà (l’azione interna dello Spirito e la ricreazione che
egli effettua).
3. La Pentecoste, mistero di salvezza.
- Se l’aspetto esterno della teofania fu passeggero, il *dono fatto alla Chiesa
è definitivo. La Pentecoste inaugura il tempo della *Chiesa che, nel suo
pellegrinaggio incontro al Signore, riceve costantemente da lui lo Spirito che
lo raduna nella fede e nella carità, la santifica e la manda in missione. Gli
Atti, «vangelo dello Spirito Santo», rivelano l’attualità permanente di questo
dono, il *carisma per eccellenza, sia per il posto che compete allo Spirito
nella direzione e nell’attività missionaria della Chiesa (Atti 4, 8; 13, 2; 15,
28; 16, 6), sia per le sue manifestazioni più visibili (4, 31; 10, 44 ss). Il
dono dello Spirito qualifica gli «ultimi *tempi», periodo che incomincia con
I’*ascensione e troverà il suo compimento nell’ultimo *giorno, quando il Signore
ritornerà.
P. DE SURGY
→ carismi I 1 - Chiesa IV 1 - dispersione 2 - feste VT II 1 - fuoco NT II 2 -
lingua 2 - messe I, III 2 c - missione NT III 2 - nazioni NT II 1 a - primizie I
1 - santo NT 0 - segno NT II 1 - settimana 1 - Spirito di Dio NT III, IV.
→ battesimo I 3, III 2 - confessione NT 2 - penitenza-conversione - perdono.
→ Babele-Babilonia 5.6 - carcere III - empio VT 3; NT 3 - indurimento - inferi e inferno 0; VT II; NT I, III - morte - peccato - salvezza NT I 1 b - via II.
Nella Bibbia, il
peccatore è un debitore cui Dio, col suo perdono, rimette il debito (ebr. salah:
Num 14, 19); remissione così efficace che Dio non vede più il peccato che è come
gettato dietro le sue spalle (Is 38, 17), è tolto (ebr. nasa’: Es 32, 32),
espiato, distrutto (ebr. kipper: Is 6, 7). Cristo, usando lo stesso vocabolario,
sottolinea che la remissione è gratuita ed il debitore insolvibile (Lc 7, 42; Mt
18, 25 ss). La predicazione primitiva ha come oggetto, insieme al dono dello
Spirito, la remissione dei peccati, che ne è il primo effetto, e che essa chiama
«àfesis» (Lc 24, 47; Atti 2, 38; cfr. il Post-communio del martedì di
Pentecoste). Altri termini: purificare, lavare, giustificare, compaiono negli
scritti apostolici che insistono sull’aspetto positivo del perdono,
riconciliazione e riunione.
I. IL DIO DI PERDONO
Proprio di fronte al peccato il Dio geloso (Es 20, 5) si rivela un Dio
di perdono. La apostasia, che segue all’alleanza e che meriterebbe la
distruzione del popolo (Es 32, 30 ss), è per Dio l’occasione di proclamarsi «Dio
di *tenerezza e di pietà, tardo all’ira, ricco di grazia e di fedeltà... che
tollera colpa, trasgressione e peccato, ma non lascia nulla impunito...»; Mosè
quindi può pregare con sicurezza: «È un popolo di dura cervice. Ma perdona le
nostre colpe ed i nostri peccati, e fa’ di noi la tua eredità!» (Es 34, 6-9).
Umanamente e giuridicamente, il perdono non trova giustificazione. Il Dio santo
non deve rivelare la sua santità mediante la sua giustizia (Is 5, 16) e colpire
coloro che lo disprezzano (5, 24)? Come potrebbe contare sul perdono la sposa
infedele all’alleanza che non arrossisce della sua prostituzione (Ger 3, l-5)?
Ma il cuore di Dio non è quello dell’uomo, ed il Santo non si compiace nel
distruggere (Os 11, 8 s); lungi dal volere la morte del peccatore, egli ne vuole
la conversione (Ez 18, 23) per poter prodigare il suo perdono; infatti «le sue
vie non sono le nostre vie», e «i suoi pensieri superano i nostri pensieri» di
tutta l’altezza del cielo (Is 55, 7 ss). Questo appunto rende così fiduciosa la
preghiera dei salmisti: Dio perdona al peccatore che si accusa (Sal 32, 5; cfr.
2 Sam 12, 13); lungi dal volere la sua perdita (Sal 78, 38), lungi dal
disprezzarlo, egli lo ricrea, purificando e colmando di gioia il suo cuore
contrito ed umiliato (Sal 51, 10-14. 19; cfr. 32, 1-11); fonte abbondante di
redenzione, egli è un padre che perdona tutto ai suoi figli (Sal 103, 3. 8-14).
Dopo l’esilio non si cessa di invocare il «Dio dei perdoni» (Neem 9, 17) e
«delle misericordie» (Dan 9, 9), sempre pronto a pentirsi del male di cui ha
minacciato il peccatore, se questi si converte (Gioe 2, 13); ma Giona, che è il
tipo del particolarismo di Israele, è sconcertato nel vedere questo perdono
offerto a tutti gli uomini (Giova 3, 10; 4, 2); al contrario, il libro della
Sapienza canta il Dio che ama tutto ciò che ha fatto ed ha pietà di tutti, che
chiude gli occhi sui peccati degli uomini affinché si pentano, li castiga a poco
a poco e ricorda loro ciò in cui essi peccano affinché credano in lui (Sap 11,
23 - 12, 2); manifesta in tal modo di essere l’onnipotente di cui è proprio il
perdonare (Sap 11, 23. 26; cfr. la colletta della domenica X dopo Pentecoste e
l’Oremus delle litanie dei santi).
II. IL PERDONO DI DIO PER MEZZO DI CRISTO
Al pari di Israele (Lc 1, 77), Giovanni Battista attende quindi la
remissione dei peccati e predica un battesimo che ne è la condizione: «Fate
penitenza, altrimenti colui che viene vi battezzerà nel fuoco»; per lui questo
fuoco è quello dell’ira e del giudizio, quello che consuma la pula, una volta
separato il buon grano (Mt 3, 1-12). Questa prospettiva rimane quella dei
discepoli di Giovanni che hanno seguito Gesù; essi vogliono far cadere il fuoco
dal cielo su coloro che si chiudono alla predicazione del maestro (Lc 9, 54). E
Giovanni Battista si pone un interrogativo (cfr. Lc 7, 19-23), sentendo che Gesù
non soltanto invita i peccatori a convertirsi ed a credere (Mt 1, 15), ma
proclama di essere venuto soltanto per guarire e perdonare.
1. L’annunzio del perdono.
- Di fatto Gesù, pur essendo venuto a gettare il fuoco sulla terra (Lc
12, 49), non è mandato dal Padre suo come giudice, ma come salvatore (Gv 3, 17
s; 12, 47).Egli chiama alla *conversione tutti coloro che ne hanno bisogno (Lc
5, 32 par.) e suscita questa conversione (Lc 19, 1-10) rivelando che Dio è un
Padre la cui gioia sta nel perdonare (Lc 15) e la cui volontà è che nessuno si
perda (Mt 18, 12 ss). Gesù non annunzia soltanto questo perdono al quale si apre
l’umile fede, mentre l’orgoglio vi si chiude (Lc 7, 47-50; 18, 9-14), ma lo
esercita ed attesta mediante le sue opere che dispone di questo potere riservato
a Dio (Mc 2, 5- 11 par.; cfr. Gv 5, 21).
2. Il sacrificio per la remissione dei peccati.
- Cristo corona la sua opera ottenendo ai peccatori il perdono del Padre suo.
Prega (Lc 23, 34) e versa il suo sangue (Mc 14, 24) in remissione dei peccati
(Mt 26, 28). Vero servo di Dio, egli giustifica la moltitudine di cui porta i
peccati (l Piet 2, 24; cfr. Mc 10, 45; Is 53, 11 s), perché è l’agnello che
toglie il peccato del mondo (Gv 1, 29) salvando il mondo. Per mezzo del suo
sangue noi siamo purificati, lavati dalle nostre colpe (1 Gv 1, 7; Apoc 1, 5).
3. La comunicazione del potere di perdonare.
- Avendo ogni potere in cielo e sulla terra, Cristo risorto comunica
agli apostoli il potere di rimettere i peccati (Gv 20, 22 s; cfr. Mt 16, 19; 18,
18). La prima remissione dei peccati sarà accordata, nel battesimo, a tutti
coloro che si convertiranno e crederanno nel nome di Gesù (Mt 28, 19; Mc 16, 16;
Atti 2, 38; 3, 19). Gli apostoli predicano quindi la remissione dei peccati
(Atti 2, 38; 5, 31; 10, 43; 13, 38; 26, 18), ma nei loro scritti non insistono
tanto sull’aspetto giuridico del perdono, quanto sull’amore divino che per mezzo
di Gesù ci salva e ci santifica (ad es. Rom 5, l-11). Si noterà la funzione
della preghiera della Chiesa e della confessione mutua delle colpe, come mezzo
per ottenere la guarigione ed il perdono dei propri peccati (Giac 5, 15 s).
III. IL PERDONO DELLE OFFESE
Già nel VT, non soltanto la legge pone un limite alla *vendetta con la
regola del taglione (Es 21, 25), ma vieta anche l’odio per il fratello, la
vendetta ed il rancore verso il prossimo (Lev 19, 17 s). Il sapiente Ben Sira ha
meditato queste prescrizioni; ha scoperto il legame che unisce il perdono
accordato dall’uomo al suo simile col perdono che egli chiede a Dio: «Perdona al
tuo prossimo i suoi torti; allora, per la tua preghiera, ti saranno rimessi i
tuoi peccati. Se uno nutre ira contro un altro, come può chiedere a Dio la
guarigione? Egli è senza compassione per un uomo, suo simile, e pregherebbe per
le sue proprie colpe?» (Eccli 27, 30 - 28, 7). Il libro della Sapienza completa
questa lezione ricordando al giusto che, nei suoi giudizi, deve prendere come
modello la *misericordia di Dio (Sap 12, 19. 22). Gesù riprenderà e trasformerà
questa duplice lezione. Come il Siracide, egli insegna che Dio non può perdonare
a chi non perdona, e che, per domandare il perdono di Dio, occorre perdonare al
proprio fratello. La parabola del debitore spietato inculca con forza questa
verità (Mt 18, 23-35), sulla quale Cristo insiste (Mt 6, 14 s) e che ci
impedisce di dimenticare, facendocela ripetere ogni giorno: nel Pater, dobbiamo
poter dire che perdoniamo; questa affermazione è collegata alla nostra domanda
ora con un perché, che ne fa la condizione del perdono divino (Lc 11, 4), ora
con un come, che ne fissa la misura (Mt 6, 12). Gesù va più lontano: come il
libro della Sapienza, egli presenta Dio quale modello di misericordia (Lc 6, 35
s) a coloro di cui è il Padre e che lo devono imitare per essere suoi veri figli
(Mt 5, 43 ss. 48). Il perdono non è soltanto una condizione preliminare della
nuova vita; ne è uno degli elementi essenziali: Gesù quindi comanda a Pietro di
perdonare instancabilmente, in opposizione al peccatore che tende a vendicarsi
senza misura (Mt 18, 21 s; cfr. Gen 4, 24). Seguendo l’*esempio del Signore (Lc
23, 34), Stefano è morto perdonando (Atti 7, 60). Per vincere come essi il male
con il bene (Rom 12, 21; cfr. 1 Piet 3, 9), il cristiano deve sempre perdonare,
e perdonare per amore, come Cristo (Col 3, 13), come il Padre suo (Ef 4, 32).
J. GIBLET e M.F. LACAN
→ Abele 2 - amore I VT 2; II NT 2 - confessione VT 2; NT 2 - espiazione 3 -
giustizia B II VT - maledizione V - memoria 2 - misericordia - nemico II 3, III
1 - pazienza I 1, II 2 - peccato III 3, IV 1 c d - penitenza-conversione VT I 2;
NT III 1 - riconciliazione - tenerezza - vendetta 2 a. 4 - violenza IV 3.
Una frase del
vangelo presenta Dio stesso come modello di perfezione da imitare: «Siate
perfetti com’è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5, 48). Questo precetto
sorprendente occupa nel NT il posto che nel VT occupava quello del Levitico:
«Siate santi, perché io sono santo» (Lev 11, 45; 19, 2). Dall’uno all’altro si
manifesta nettamente un mutamento di punto di vista.
VECCHIO TESTAMENTO
1. Santità di Dio e perfezione.
- Il VT, più che di perfezione, parla di santità. Dio è *santo, cioè appartiene
ad un ordine totalmente diverso dagli esseri di questo mondo; è grande, potente,
terribile (Deut 10, 17; Sal 76); si rivela pure meravigliosamente buono e fedele
(Es 34; Sal 136); interviene nella storia con una giustizia sovrana (Sal 99).
Non viene qualificato come «perfetto»: in ebraico il termine conviene soltanto
ad esseri limitati (come «completo» in italiano). Ma si parla di perfezione per
le sue opere (Deut 32, 4), per la sua legge (Sal 19, 8), per le sue vie (2 Sam
22, 31).
2. Esigenza di perfezione.
- Quando il Dio di santità si sceglie un popolo, questo popolo diventa a sua
volta santo, cioè separato dal campo profano, e consacrato. Per ciò stesso gli
si impone un’esigenza di perfezione: ciò che è consacrato dev’essere integro e
senza difetti. Anzitutto integrità fisica: questa è richiesta negli animali
offerti in sacrificio: «Non offrirete a Jahvè animali ciechi, storpi, feriti...»
(Lev 22, 22). La stessa legge vale per i sacerdoti (Lev 21, 17-23) ed in un
certo grado per tutto il popolo: le regole sul *puro e l’impuro ne precisano le
modalità (Lev 11-15). Quando si tratta di persone, all’integrità fisica si deve
aggiungere l’integrità morale. Israele sa che bisogna servire Jahvè «con un
*cuore perfetto», in tutta sincerità e fedeltà (1 Re 8, 61; cfr. Deut 6, 5; 10,
12), e che questo servizio comprende l’obbedienza ai comandamenti e la lotta
contro il male: «Farai scomparire il male di mezzo a te» (Deut 17, 7. 12). Le
deviazioni del senso religioso furono aspramente combattute dai profeti (Am 4,
4...; Is 1, 10-17; 29, 13): bisogna ricercare la vera *giustizia, eliminando
violenza ed egoismo, vivendo nella fede in Dio, nel rispetto del diritto e
facendo il bene (Is 58). In tal modo l’ingiunzione di Dio ad Abramo: «cammina
alla mia presenza e sii perfetto» (Gen 17, 1), ripresa in Deut 18, 13, manifesta
sempre più la ricchezza del suo contenuto.
3. Pratica della perfezione.
- Meditando gli esempi degli antenati (Sap 10; Eccli 44 - 49), i Giudei
pii cercavano la perfezione nell’osservanza della *legge: «Beati, perfetti nella
loro via, coloro che camminano nella legge di Jahvè» (Sal 119). Ma il loro
stesso attaccamento all’ideale acuiva taluni problemi. Giobbe è un modello di
perfezione, «uomo integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male» (Giob 1,
1); perché la sventura non lo risparmia? Questa dolorosa questione teneva gli
animi aperti e nell’attesa.
NUOVO TESTAMENTO
1. Perfezione della legge.
- Il vangelo rende omaggio a questa perfezione aperta ad un’attesa, che è quella
dei genitori di Giovanni Battista, «irreprensibili» nella loro fedeltà alla
legge (Lc 1, 6), o quella di Simeone e di Anna. Ma se la pratica della legge
pretende di rinchiudersi compiacentemente in se stessa, non è più che una falsa
perfezione e suscita l’opposizione irriducibile di Gesù (ad es. Lc 18, 9-14; Gv
5, 44), continuata da quella di Paolo (cfr. Rom 10, 3 s; Gal 3, 10).
2. Gesù e la perfezione.
- Di fatto la legge deve trovare il suo *compimento in un modo
completamente diverso. Rivelando pienamente che il Dio santissimo è un Dio di
amore, Gesù dà un nuovo orientamento all’esigenza di perfezione suscitata dal
rapporto con Dio. Non si tratta più di integrità da preservare, si tratta dei
doni di Dio, si tratta dell’amore di Dio, da ricevere e da effondere. Gesù non
si allinea con i «giusti» che fuggono il contatto dei peccatori: è venuto per i
peccatori (Mt 9, 12 s). certamente egli è «l’agnello senza difetti» (1 Piet 1,
19) prefigurato dalle prescrizioni del Levitico, ma prende su di sé i nostri
peccati, per la cui remissione versa il suo sangue; in tal modo diventa il
nostro sacerdote «perfetto» (Ebr 5, 9 s; 7, 26 ss), capace di renderci perfetti
a nostra volta (Ebr 10, 14).
3. Perfezione nell’umiltà.
- Chi vuole approfittare della *salvezza che egli apporta deve quindi
riconoscersi peccatore (1 Gv 1, 8) e rinunciare a far valere qualunque vantaggio
personale, per non confidare che nella sua *grazia (Fil 3, 7-11; 2 Cor 12, 9).
Senza la *umiltà ed il distacco non si può *seguire Gesù (Lc 9, 23 par.; 22, 26
s). Non tutti sono chiamati alle stesse forme di rinunzia effettiva (cfr. Mt 19,
11 s; Atti 5, 4), ma chi vuole avanzare verso la perfezione deve camminare
generosamente in questa via; le parole rivolte al giovane ricco si impongono
alla sua attenzione: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi ciò che hai... e
vieni, seguimi» (Mt 19, 21; cfr. Atti 4, 36 s).
4. Perfezione dell’amore.
- La perfezione a cui sono chiamati i figli di Dio è quella dell’amore (Col 3,
14; Rom 13, 8-10). Nel passo di Lc parallelo a Mt 5, 48, invece di «perfetto» si
legge «misericordioso» (Lc 6, 36), ed il contesto di Mt parla anch’esso di
carità universale, di *amore esteso perfino al nemico ed al persecutore.
Certamente il cristiano deve guardarsi dal male (Mt 5, 29 s; 1 Piet l, 14 ss);
ma, per rassomigliare al *Padre suo (Mt 5, 45; Ef 5, 1 s), deve nello stesso
tempo preoccuparsi del malvagio (cfr. Rom 5, 8), amare il Padre stesso e, a
qualunque costo, «vincere il male col bene» (Rom 12, 21; 1 Piet 3, 9).
5. Perfezione e progresso.
- Questa generosità conquistatrice non si ritiene mai soddisfatta del risultato
ottenuto. L’idea di progresso è ormai legata a quella di perfezione. I discepoli
di Cristo devono sempre progredire, *crescere nella conoscenza e nell’amore (Fil
1, 9), anche quando fanno parte della categoria dei cristiani formati (in greco
«i perfetti»; 1 Cor 2, 6; 14, 20; cfr. Fil 3, 12. 15).
6. Perfezione alla parusia.
- Essi non cessano di prepararsi per la venuta del loro Signore, sperando che
Dio concederà loro di essere trovati irreprensibili in quel *giorno (1 Tess 3,
12 s). Si preoccupano di rispondere al desiderio di Cristo, che è di vedersi
presentare allora una Chiesa «tutta splendente...» (Ef 5, 27); dimenticando ciò
che è già realizzato, essi si protendono quindi in avanti (cfr. Fil 3, 13), fino
a «giungere tutti assieme... a costituire l’*uomo perfetto, nella forza
dell’età, che realizza la *pienezza di Cristo» (Ef 4, 13).
A. VANHOYE
→ compiere - crescita 3 - giustizia 0 - pienezza - puro - santo - tempo VT III 1
- virtù e vizi.
→ salvezza - timore di Dio Il.
Il popolo di Dio,
nel corso della sua storia, fa l’esperienza della persecuzione; essa non
risparmia il Figlio di Dio venuto a salvare il mondo che lo odia (Gv 3, 17; 15,
18), e culmina nella sua passione (Mt 23, 31 s); essa sarà infine il retaggio
dei suoi discepoli: «Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv
15, 20). Il mistero della persecuzione, pur essendo connesso al mistero della
*sofferenza, ne è distinto; la sofferenza costituisce problema perché tocca
tutti gli uomini, anche i giusti; il problema è più acuto di fronte alla
persecuzione che colpisce i giusti perché sono giusti. La persecuzione si
distingue dalle altre tribolazioni per la sua origine. Mediante la sofferenza
Dio vuole purificare il peccatore e provare il giusto in un disegno di amore;
mediante la persecuzione, un essere malvagio tenta di opporsi a questo disegno e
di separare l’uomo da Dio. Tuttavia la persecuzione, come ogni sofferenza, è
utilizzata da Dio: «crocifiggendo il Signore della gloria, i principi di questo
mondo» non sapevano di essere gli strumenti della sua sapienza (1 Cor 2, 6 ss).
Ed il giusto perseguitato (Atti 3, 14) ha vinto per sempre il mondo (Gv 16, 33).
Sicuri di essere perseguitati (2 Tim 3, 12), i suoi discepoli se ne rallegrano
(Mt 5, 11 s); questo è il segno che non appartengono al mondo persecutore (Gv
15, 19), bensì al numero di coloro nei quali sarà glorificato il Signore Gesù,
nel giorno in cui trionferà di ogni persecuzione (2 Tess 1, 4-12).
I. IL MISTERO DELLA PERSECUZIONE
1. Nel Vecchio Testamento
- Nel VT non soltanto il popolo santo nel suo complesso subisce
l’opposizione violenta dei pagani, dal soggiorno in Egitto (Es 1, 8-14) fino
alla dominazione romana, passando attraverso le diverse crisi della sua storia
(cfr. Sal 44, 10-17; 79, 1-4; 80, 5 ss), ma i grandi personaggi, capi, re, e
soprattutto profeti, sono spesso perseguitati a motivo del loro amore per Jahvè
e della loro fedeltà alla sua parola: Mosè è rigettato dai suoi (Es 2, 14; Atti
7, 27. 35) e deve far fronte continuamente alle loro mormorazioni (Es 5, 21; 14,
11-12; 15, 24; 16, 3...; Ez 20, 13. 21; Sal 78, 17-42); David è perseguitato (1
Sam 19 - 24) e così pure Elia (l Re 19), Amos (Am 7, 10- 17), Geremia (Ger 11,
18 - 12, 6; 26; 37 - 38), i martiri maccabei (2 Mac 6 - 7; 1 Mac 1, 57-60; Dan
11, 33-35), ecc. Queste persecuzioni appaiono a Geremia come inseparabili dalla
sua *missione, e proprio grazie ad esse il *servo compie il *disegno di Dio (Is
53, 10). Così anche il libro di Daniele fa vedere che la persecuzione dei
giusti, la loro resistenza e la loro *fedeltà preparano il *giorno del *giudizio
e la venuta del *regno (Dan 7, 25 ss; 8, 24 s; 11, 32-35). Infine il libro della
Sapienza pone in luce il motivo profondo di ogni persecuzione: 1’*empio *odia il
*giusto perché costituisce per lui un «rimprovero vivente» (Sap 2, 12 ss), e
nello stesso tempo un *testimone del Dio che egli disconosce (2, 16-20);
appartenendo al demonio, il persecutore, attraverso il suo testimone, ha di mira
Dio, e la salvezza del giusto nell’ultimo giorno giudicherà l’*incredulità del
persecutore (3, 7-10; 5, 1-6).
2. Gesù perseguitato.
- Egli termina e corona questa serie di sofferenti, ingiustamente
oppressi da quegli stessi a cui erano mandati. Condannandolo, i capi di Israele
colmano la misura dei delitti dei loro padri e testimoniano che sono veramente i
figli di coloro che hanno assassinato i profeti (Mt 23, 31 s). Ma questa
persecuzione, come tutte le *sofferenze di Cristo, è necessaria al compimento
della sua missione ed alla realizzazione del disegno di salvezza.
3. I discepoli.
- I discepoli non possono pretendere un trattamento diverso dal loro maestro:
*seguendo lui, come lui e per causa sua, essi sono perseguitati (Gv 15, 20; 16,
1 ss), devono bere il suo *calice ed essere battezzati col suo *battesimo (Mc
10, 39 par.); in essi Gesù rivive la sua persecuzione (Atti 9, 4 s; cfr. Col 1,
24): questa è per essi una *grazia (Fil 1, 29) e quindi una fonte di *gioia (1
Piet 4, 12 ss). In primo luogo li opprimono i Giudei (Atti 4, 1-3; 5, 17-41; 8,
1-31; 13, 50), proprio come un tempo «il figlio della carne perseguitava il
figlio dello spirito» (Gal 4, 29). Come Gesù tradito dai suoi (Gv 13, 18; 18,
35; cfr. Ger 12, 6), i *discepoli devono essere perseguitati dalla loro stessa
famiglia (Mt 10, 34 ss). Qui c’è qualcosa di più che un semplice parallelismo
delle situazioni: «I Giudei, che hanno messo a morte il Signore Gesù ed i
profeti, e ci hanno perseguitati..., colmano in tal modo sempre più la misura
dei loro peccati» (1 Tess 2, 15 s). Anche i *pagani perseguitano i discepoli di
Gesù. Roma, nuova *Babilonia a sua volta «si inebrierà del *sangue dei santi e
del sangue dei testimoni di Gesù» (Apoc 17, 6), poiché è vero che «tutti coloro
che vogliono vivere piamente in Cristo saranno perseguitati» (2 Tim 3, 12).
4. Il fondo del problema.
a) La persecuzione degli amici di Dio non è che un aspetto
della *guerra secolare che oppone *Satana e le potenze del male a Dio ed ai suoi
servi, e che si risolverà con lo schiacciamento del serpente. Dall’apparizione
del peccato (Gen 3) fino alla lotte finali descritte nell’Apocalisse, il dragone
«perseguita» la *donna e la sua discendenza (Apoc 12; cfr. 17; 19). Questa lotta
si estende a tutta la storia, ma si amplifica sempre più a mano a mano che il
tempo avanza. Raggiunge il vertice al momento della passione di Gesù, che è
nello stesso tempo l’*ora del principe delle tenebre e l’ora di Gesù, l’ora
della sua morte e l’ora della sua glorificazione (Lc 22, 53; Gv 12, 23; 17, 1).
Nella Chiesa, le persecuzioni sono il segno e la condizione della *vittoria
definitiva di Cristo e dei suoi. A questo titolo hanno un significato
escatologico, perché sono un prodromo del *giudizio (1 Piet 4, 17 ss) e della
instaurazione completa del *regno. Legati alla «grande tribolazione» (Mc 13,
9-13. 14-20), esse preludono alla fine del *mondo e condizionano la nascita di
una nuova era (Apoc 7, 13-17).
b) Se i perseguitati rimasti fedeli nella *prova (Apoc 7, 14)
sono fin d’ora vincitori e «sovrabbondano di gioia», la loro sorte gloriosa non
deve far dimenticare l’aspetto tragico del *castigo dei persecutori. L’*ira di
Dio, che si rivela fin d’ora nei confronti dei peccatori (Rom 1, 18), alla fine
dei tempi cadrà su coloro che si saranno *induriti, specialmente sui persecutori
(1 Tess 2, 16; 2 Tess 1, 5-8; Apoc 6, 9 ss; 11, 17 s; 16, 5 s; 19, 2). La loro
sorte era già annunziata nella fine tragica di Antioco Epifane (2 Mac 9; Dan 7,
11; 8, 25; 11, 45) che quella di Erode Agrippa ripete (Atti 12, 21 ss). Questo
nesso delle persecuzioni con il castigo escatologico è sottolineato nelle
parabole dei vignaioli omicidi (Mt 21, 33-46 par.) e del banchetto nuziale (22,
l-14). L’ultimo delitto dei vignaioli ed i cattivi trattamenti subiti dagli
ultimi servi costituiscono l’anello finale di una serie di oltraggi e scatenano
l’ira del padrone o del re. «Poiché hanno versato sangue dei santi, sangue hai
dato loro da bere; ne sono meritevoli» (Apoc 16, 6; 19, 2).
II. IL CRISTIANO DI FRONTE ALLA PERSECUZIONE
Il credente, la cui *fede penetra il mistero della persecuzione, trova nella sua
*speranza la forza di sostenerla con gioia; già il VT gli offriva modelli di
questo atteggiamento a cui Gesù conferisce la *perfezione con il suo *esempio e
con i suoi consigli.
1. I modelli.
- Dinanzi alla persecuzione i giusti del VT hanno adottato tutti un
atteggiamento di *pazienza e di *fedeltà coraggiosa nella *speranza. Geremia è
il tipo del perseguitato fedele ed orante; le sue «confessioni» sono tanto
proteste di fedeltà, quanto lamenti dolorosi; egli sa che, qualunque cosa gli
capiti, Jahvè «è con lui» per proteggerlo e salvarlo (ad es. Ger l, 8. 19). La
stessa cosa vale per il servo sofferente (Is 52-53) e per i salmisti
perseguitati: «Signore, salvami da coloro che mi perseguitano» (Sal 7, 2):
questo grido di angoscia e di fiducia echeggia in tutto il salterio.
Accompagnata sovente da imprecazioni contro i *nemici (Sal 35; 55; 69; 70; 109)
o da appelli alla vendetta di Dio (Ger 11, 20; 15, 15; 17, 18), una simile
preghiera si fonda sulla certezza della *salvezza che il Dio fedele accorda ai
suoi (Sal 31, 6; cfr. 23, 4; 91, 15). Gesù, perseguitato, non soltanto confida
nel Padre suo che è con lui (Mt 26, 53; Gv 16, 32), ma prega per i suoi
persecutori (Lc 23, 34); in tal modo dà ai suoi discepoli un *esempio supremo
della carità che sopporta ogni persecuzione (1 Cor 13, 7). Soggetti alle
persecuzioni, gli apostoli ed i primi cristiani pregano per essere liberi e
poter così annunziare il *vangelo (Atti 4, 29; cfr. 12, 5); al pari del loro
maestro si mostrano pazienti in mezzo alle persecuzioni (2 Tess 1, 4) e come lui
pregano Dio di perdonare ai loro carnefici (Atti 7, 60).
2. I consigli dati da Gesù.
- Corrispondono all’atteggiamento di cui ha dato egli stesso l’esempio. come
lui, il discepolo deve pregare per coloro che lo perseguitano (Mt 5, 44 par.;
cfr. Rom 12, 14). Deve affrontare la persecuzione con coraggio; se non deve
essere temerario e saper fuggire da una città dov’è ricercato (Mt 10, 23; Atti
13, 50 s), deve aspettarsi pure di essere imprigionato, percosso e messo a morte
(Mt 10, 16-39; Gv 16, 1-4). Ma dinanzi a simili prospettive non deve aver paura:
il suo maestro ha vinto il *mondo (Gv 16, 33), ed alla fine trionferà degli
*empi persecutori «con i suoi, i chiamati, gli eletti, i fedeli» (Apoc 17, 34).
I *nemici del discepolo non possono nulla contro la sua anima (Mt 10, 28-31). Lo
*Spirito di Dio lo assisterà quando sarà trascinato dinanzi ai tribunali, perciò
egli non deve preoccuparsi della propria difesa in occasione del *processo (Mt
10, 19 s). Tuttavia occorre sempre *vegliare e pregare, perché la persecuzione è
una *prova, una tentazione, e se lo spirito è pronto, la carne è debole (Mt 26,
41 par.). Paolo riprende i mandati di Gesù. Nulla, egli dice, ci può separare
dall’amore di Cristo, neppure la persecuzione o la spada (Rom 8, 35). In
sintesi, il discepolo fa fronte alla persecuzione con una speranza che lo rende
fedele, costante e lieto (Rom 12, 12; 2 Tess 1, 4; cfr. Mt 13, 21 par.). Sa in
chi ha posto la sua *fiducia (2 Tim 1, 12). Perciò, circondato dagli
innumerevoli *martiri del VT e del NT, con gli occhi fissi su Cristo «che ha
subito da parte dei peccatori una simile ostilità contro la sua persona», corre
verso la meta, con pazienza, senza scoraggiarsi (Ebr 11, 1- 12 3).
3. La *gioia della *speranza (Rom 12, 12).
- Essa è il frutto della persecuzione così sopportata: «Beati sarete voi quando
vi oltraggeranno, vi perseguiteranno... per causa mia. Gioite ed esultate...»
(Mt 5, 11 s). Questa promessa di Gesù si realizza nel cristiano che «si gloria
nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce la costanza, la costanza
la virtù provata, la virtù provata la speranza, e la speranza non delude...»
(Rom 5, 3 ss; cfr. Giac 1, 2 ss). Egli «sovrabbonda di gioia nelle tribolazioni»
(2 Cor 7, 4; 12, 10; Col 1, 24; cfr. Atti 5, 41; Ebr 10, 34). La *consolazione
nella tribolazione (2 Cor 1, 3-10) è un frutto dello Spirito (1 Tess l, 6; Atti
13, 52; cfr. Gal 5, 22), e nello stesso tempo il segno della presenza del regno.
Scritta durante una terribile *prova, l’Apocalisse, specchio della vita della
Chiesa, alimenta questa gioiosa speranza nel cuore dei perseguitati,
assicurandoli della *vittoria di Gesù e della instaurazione del regno. Ad ognuno
di essi, come a tutta la Chiesa il Signore risorto rivolge sempre questo
messaggio: «Non temere le sofferenze che ti aspettano; il demonio sta per
gettare alcuni di voi in carcere per tentarvi ed avrete dieci giorni di prova.
Rimani fedele fino alla morte, ed io ti darò la corona della vita» (Apoc 2, 10).
R. DEVILLE
→ anticristo - Babele-Babilonia 2 - beatitudine NT II - bestemmia NT 2 - correre
2 - croce II 3 - gioia NT II 2 - guerra VT IV 1 - martire 2 - mondo NT III 2 -
nemico - odio I 2, III 2 - pazienza I NT l; II 1 - prova-tentazione NT II -
sofferenza III - testimonianza NT III 2 - violenza II, IV 2.
→ fedeltà - fiducia 3 - pazienza.
→ anima I 3 - corpo 0, I 1 - cuore 0 - faccia - Gesù (nome di) I - nome - veste I 1 - visita VT 2.
→ bene e male I 4 - desiderio II - peccato - virtù e vizi 2.
→ calamità - castighi - ira B VT I 1 - lebbra - malattia-guarigione VT - miracolo I 1 - Pasqua I 2.
→ consolare - morte VT I 1.3 - penitenza-conversione VT I 2 - sofferenza - tristezza.
→ disegno di Dio - volontà di Dio.
→ edificare I 2, III 2.3 - messe II - seminare - vite-vigna.
→ bambino - poveri - umiltà.
A designare la
potenza salvatrice di Cristo, che ha ricevuto ogni potere in cielo ed in terra,
è particolarmente adatto il termine pienezza, che evoca la *perfezione
nell’abbondanza. Tuttavia il vocabolo greco soggiacente (plèroma) presenta una
maggior varietà di senso: significando primitivamente sia il contenuto che
riempie uno spazio, il mare (1 Cron 16, 32) o la terra (Sal 24, l; cfr. 1 Cor
10, 26), sia ciò che completa qualcosa (Mt 9, 16; Mc 2, 21; Col 1, 24), può
designare parimenti il contenente od anche la totalità (Rom 11, 12),
l’abbondanza (Rom 15, 29), il compimento (Rom 13,10).
1. La pienezza dei tempi.
- Come per Elisabetta (Lc 1, 57) e per Maria (Lc 2, 6) «si compiono» i
giorni in cui devono partorire, così per la terra i tempi sono «*compiuti» (Mc
1, 15), e si può parlare della pienezza dei *tempi messianici ed escatologici
(Gal 4, 4; Ef 1, 10). Questa misura infine, completa, che fa pensare al
contenuto di una clessidra ripiena, non corrisponde ad una maturità o ad una
perfezione raggiunta dagli uomini, ma ad un tempo fissato da Dio. Allora Gesù
«adempie» «*compie» le profezie.
2. La pienezza che abita in Cristo.
- Dio si è compiaciuto di far abitare in Cristo risorto tutta la
pienezza (Col 1, 19). Per spiegare questa espressione meritano di essere
indicate, tra le altre, due interpretazioni. Secondo la prima, più statica, il
«pleroma» sarebbe l’universo riempito dalla *presenza di Dio. In questo caso
Paolo sarebbe stato influenzato nello stesso tempo dallo stoicismo volgarizzato
e dall’ambiente sapienziale; di fatto la sapienza «riempie l’universo e tiene
unite tutte le cose» (Sap 1, 7). Secondo l’altra interpretazione, più dinamica,
Paolo rifletterebbe altre immagini della letteratura sapienziale: la sapienza,
al pari delle acque dei più grandi fiumi, scorre gonfia, trabocca e si espande.
Più vasta del mare, più grande dell’abisso, essa riempie il sapiente, e questi
da prima semplice canale di derivazione, è trasformato anch’esso in fiume ed in
mare (Eccli 24, 25-31; cfr. Prov 8, 12 ss). D’altra parte Dio ha fatto abitare
in Israele la sapienza (Eccli 24, 8-12). Ora, precisamente in Cristo, nel quale
abita tutta la pienezza (Col 1, 19; 2, 9), si trovano nascosti tutti i tesori
della sapienza (Col 2, 3). Questi tesori non hanno nulla a che vedere con
ricchezze ammassate e cupidamente conservate, ma, simili ad acque vive che si
espandono, sono pienezza di *vita che si oppone al vuoto della morte (Fil 2, 7),
*potenza salvatrice sovrabbondante che fluisce dal *nome che è al di sopra di
ogni nome (Fil 2, 9). Questa sovrabbondanza traspare dovunque nelle lettere
paoline, specialmente nei passi più lirici, come Rom 5, l5-21; 8, 31-39; 11,
33-36; Fil 2, 9 ss; prorompe in modo particolarissimo nell’inno agli Efesini,
dove lo stile inesauribile si sforza di tradurre la ricchezza traboccante della
*grazia di cui Dio ci ha ricolmati nel suo Figlio diletto.
3. La Chiesa, pienezza di Cristo.
- In Cristo, perfettamente ricolmo della onnipotenza divina (Col 1, 19; 2, 9), i
fedeli si trovano associati alla sua pienezza (Col 2, 10; Ef 3, 19). Infatti, la
vita eterna e la santificazione sovrabbondante che risiedono nel corpo
glorificato di Cristo (Col 2, 9) si comunicano alla Chiesa, che diventa suo
corpo. Per questo fin d’ora la Chiesa può essere chiamata la pienezza di Cristo
(Ef 1, 23). Questi due appellativi, corpo e pienezza, non sono applicabili
all’universo ma solo alla Chiesa. Questa, tuttavia, deve svilupparsi
ulteriormente per raggiungere le dimensioni della pienezza di Cristo (4, 13).
Questa crescita avverrà sia in profondità (cfr. 4, 14 ss) sia in estensione.
Infatti, la Chiesa è destinata ad estendersi a tutta la creazione, che geme
nell’attesa (cfr. Rom 8, 19-23), per riunire tutto e salvare tutto: per mezzo
suo, quindi, Cristo riempie progressivamente l’universo della propria pienezza (Ef
1, 20 ss; 4, 10). S. Giovanni, nel suo prologo, riprende in termini più semplici
questa dottrina: nella sua gloria, il Figlio unico «pieno di grazia e di verità»
(Gv 1, 14) effonde sugli uomini l’abbondanza inesauribile della benevolenza
divina. «Noi tutti abbiamo ricevuto dalla pienezza di Cristo» (Gv 1, 16).
P. LAMARCHE
→ benedizione - Chiesa V 2 - compiere - corpo di Cristo III 2 - crescita -
disegno di Dio NT I - figura NT - numeri II 1 - perfezione NT 6 - ricchezza -
rivelazione NT 1 3, II 3, III 3 - tempo NT.
Per i moderni, la
pietà è la fedeltà ai doveri religiosi, spesso ridotti agli esercizi di pietà.
Nella Bibbia, la pietà ha maggior estensione: implica anche le relazioni
dell’uomo con gli altri uomini.
VECCHIO TESTAMENTO
1. La pietà nelle relazioni umane.
- In ebraico, la pietà (hesed) designa innanzitutto la mutua relazione
che unisce familiari (Gen 47, 29), amici (1 Sam 20, 8), alleati (Gen 21, 23); è
un attaccamento che implica un reciproco aiuto efficace e fedele. L’espressione
«fare hesed» indica che la pietà si manifesta mediante atti. Nel binomio hesed ‘emet,«pietà-fedeltà»
(Gen 24, 49; Prov 20, 28; Sal 25, 10), i due termini si compenetrano: il secondo
designa un atteggiamento d’animo senza il quale la bontà, designata dal primo,
non sarebbe perfetta. Per i LXX, che traducono hesed con èleos (= compassione),
l’essenziale della pietà sembra essere la bontà compaziente.
2. La pietà nelle relazioni con Dio.
- Questo legame umano così forte, che è lo hesed, permette di
comprendere quello che Dio, mediante l’alleanza, stabilì tra sé ed il suo
popolo. Alla pietà di Dio, cioè al suo amore misericordioso per Israele, suo
primogenito (Es 34, 6; cfr. 4, 22; Ger 31, 3; Is 54, 10), deve rispondere
un’altra pietà, cioè l’attaccamento filiale che si manifesterà con (‘*obbedienza
fedele ed il *culto amoroso (cfr. Deut 10, 12 s). D’altronde, da questo amore
praticato verso Dio deve derivare un amore fraterno fra gli uomini, imitazione
della bontà di Dio e della sua sollecitudine per i poveri. Michea quindi, per
definire la vera pietà, l’associa alla giustizia, all’amore ed all’umiltà (Mi 6,
8). Questa definizione è quella dei profeti e dei sapienti. Per Osea, la pietà
non sta nei riti, ma nell’amore che li anima (Os 6, 6 = Mt 9, 13), inseparabile
dalla *giustizia (Os 12, 7) e dalla *fedeltà alla legge (Os 2, 21 s; 4, 1 s).
Per Geremia, Dio si offre a noi come modello di pietà e di giustizia (Ger 9,
23). Altrove si vede che la pietà è compromessa quando i poveri sono oppressi e
la giustizia è violata (Mi 7, 2; Is 57, 1; Sal 12, 2-6). Nei Salmi, il culto
dell’uomo pio (ebr. hasîd; gr. hòsios o eusebès) si esprime in una *lode
amorosa, fiduciosa, gioiosa (Sal 31, 24; 149), che magnifica la pietà di Dio (Sal
103). Tuttavia questo culto non è accetto se non è unito alla fedeltà (Sal 50).
Dio accorda la sapienza (Eccli 43, 33) agli uomini pii che non separano culto e
carità (Eccli 35, l-10), ed essi traggono profitto da tutti i beni creati da Dio
(Eccli 39, 27). Questa pietà integrale, all’epoca maccabaica, anima gli Assidei
(da hasîdim: «pii»; 1 Mac 2, 42), che lottano per la loro fede sino alla morte;
la pietà che li rende forti è certa della risurrezione (2 Mac 12, 45). Tale è
pure «la pietà più forte di tutto» di cui la Sapienza canta la vittoria nel
giudizio finale (Sap 10, 12; cfr. l’opposizione giusto/ empio in Sap 2 - 5). Di
questa pietà sarà dotato il messia che stabilirà in terra il regno di Dio (Is
11, 2; LXX eusèbeia).
NUOVO TESTAMENTO
1. La pietà di Cristo.
- All’attesa di coloro che desideravano «servire Dio nella pietà (hosiòtes)
e nella giustizia» pone termine la pietà (èleos) di Dio che manda Cristo (Lc 1,
65. 78). Cristo è il «pio» per eccellenza (Atti 2, 27; 13, 35: hòsios = Sal 16,
10: hasîd). La pietà filiale gli fa compiere in tutto la *volontà di Dio, suo
Padre (Gv 8, 29; 9, 31); lo induce ad offrirgli un *culto perfetto (Ebr 10,
5-10); ispira l’ardente preghiera della sua agonia e l’offerta del doloroso
sacrificio mediante il quale ci santifica (Mc 14, 35 s par.); essendo in tal
modo il sommo pontefice pio che ci occorreva (Ebr 7, 26), egli è esaudito da Dio
«a motivo della sua pietà» (5, 7). Perciò il mistero di Cristo è chiamato «il
mistero della pietà» (1 Tim 3, 16: eusèbeia): in lui la pietà di Dio realizza il
suo disegno di salvezza; in lui la pietà del cristiano trova la sua fonte ed il
suo modello.
2. La pietà del cristiano.
- A Dio erano già accetti gli uomini di ogni nazione che, con le loro preghiere
e le loro elemosine animate dal timor di Dio, partecipavano alla pietà ebraica
nei suoi due elementi, il culto divino e la pratica della giustizia; tali sono
il giudeo Simeone (Lc 2, 25), gli uomini venuti a Gerusalemme per la Pentecoste
(Atti 2, 5), il centurione Cornelio (Atti 10, 2. 4. 22. 34 s). Questa pietà è
rinnovata da Gesù e dal dono dello Spirito. Negli Atti si vedono alcuni di
questi uomini pii (eulabès), come Anania (Atti 22, 12) od i cristiani che
provvedono alla sepoltura di Stefano (Atti 8, 2). Secondo il linguaggio paolino,
il loro culto è ora animato da uno spirito *finale verso Dio (cfr. Gal 4, 6), e
la loro giustizia è quella della *fede che opera per mezzo della carità (Gal 5,
6). Tale è la pietà (hosiòtes) dell’*uomo nuovo, la vera pietà cristiana (Ef 4,
24) che Paolo oppone alle pratiche vane di una pietà falsa e puramente umana
(Col 2, 16- 23); con essa noi rendiamo a Dio un culto accetto, con religione (eulàbeia)
e *timore (Ebr 12, 28). Nelle lettere pastorali e nella seconda lettera di
Pietro, la pietà (eusèbeia) è nel novero delle *virtù fondamentali del *pastore,
dell’uomo di Dio (1 Tim 6, 11; Tito 1, 8); essa è necessaria anche ad ogni
cristiano (Tito 2, 12; 2 Piet 1, 6 s). Vengono sottolineati due dei suoi
caratteri. Innanzitutto essa libera dall’amore del danaro; in opposizione alla
falsa pietà, avida di guadagni, si accontenta del necessario, ed il suo guadagno
è questa stessa libertà (1 Tim 6, 5-10). In secondo luogo, dà la forza per
sopportare le *persecuzioni che sono il retaggio di coloro, dei quali la pietà
di Cristo è il modello (2 Tim 3, 10 ss). Senza questo distacco e questa
costanza, non si hanno che le apparenze della pietà (3, 5). Alla vera pietà sono
promessi l’aiuto di Dio nelle *prove di questa vita, e la vita eterna (2 Piet 2,
9; 1 Tim 4, 7 s). Così intesa, la pietà designa infine la vita cristiana con
tutte le sue esigenze (cfr. 1 Tim 6, 3; Tito 1, 1): per rispondere all’amore di
colui che è «il solo pio» (Apoc 15, 4: hòsios), il cristiano lo deve imitare, e
rivelare così ai suoi fratelli il volto del loro Padre celeste.
M. F. LACAN
→ creazione VT IV 1 - culto - digiuno 2 - elemosina VT 3; NT 1 - empio
- fedeltà - giustizia A I VT 2, NT - misericordia - poveri VT III; NT II -
preghiera - timore di Dio IV - zelo II 1.
A motivo della sua incredibile
abbondanza in Palestina, la pietra si trova sempre presente sotto la mano e
nello spirito degli Ebrei. D’altronde nella mentalità primitiva e nel
simbolismo comune a tutti gli uomini, la pietra, solida, duratura, pesante,
è segno di forza. Questi due fatti riuniti fanno comprendere perché la
Bibbia si è servita. delle immagini fornite dalle pietre, nelle loro diverse
forme, per applicarle al messia.
1. Le pietre sacre e l’altare di Cristo.
- Il culto delle pietre sacre, svíluppatissimo nelle religioni
primitive, fu vietato in Israele. Tuttavia, sotto l’influsso idolatrico dei
popoli vicini, non mancano le colpe e sono necessarie le ammonizioni (Lev
26, 1; Deut 16, 22; Is 57, 6). Fuori del suo contesto idolatrico, l’uso
delle pietre sacre sussiste con un significato non più *magico, ma
simbolico, e riceve la sua efficacia da un Dio trascendente. Così Giacobbe a
Bethel erige una stele sacra (Gen 28, 16 ss); così sono rizzate pietre che
raffigurano le dodici tribù santificate dalla vicinanza dell’altare (Es 28,
10. 21); così con pietre grezze sono edificati *altari, mediante i quali Dio
tocca e santifica la terra (Es 20, 25; cfr. Mt 23, 19). Ora tutte queste
pietre sacre, *segni più o meno efficaci della presenza divina,
costituiscono altrettante *figure di Cristo, nel quale Dio si rende presente
sulla terra. Per allusione nel NT (cfr. Ebr 13, 10; 1 Cor 10, 18), più
esplicitamente nei Padri della Chiesa e nella liturgia, Cristo viene ad
essere identificato con l’altare.
2. La pietra-memoriale e la perennità dell’alleanza.
- La distinzione tra la pietra sacra e la pietra- *memoriale non è
sempre molto netta; tuttavia sembra che soprattutto l’idea di immutabile e
di duraturo sia connessa non soltanto alle pietre rizzate per testimoniare
un trattato (Gen 31, 45- 52), o per perpetuare il ricordo di persone defunte
(Gios 8, 29; 2 Sam 18, 17), ma soprattutto a quelle che ricordano
l’*alleanza conclusa tra Dio ed il suo popolo (Gios 4, 7. 20-24; 24, 26),
alleanza la cui legge è scritta su tavole di pietra (Es 24, 12). Ma ciò che
era il segno della perennità dell’alleanza si è in qualche modo degradato al
contatto degli Israeliti dal *cuore duro come la pietra (Ez 11, 19), fino a
diventare il segno di questa durezza di cuore e di una fredda esteriorità.
In opposizione a questo stato di cose, la nuova legge è scritta dallo
Spirito (2 Cor 3, 3) all’interno del cuore di *carne, come hanno predetto
Geremia ed Ezechiele (Ger 31, 33; Ez 11, 19; 36, 26).
3. La roccia del deserto e Cristo salvatore.
- Nella *roccia del deserto, da cui Mosè fece uscire l’acqua, Paolo ha visto
Cristo che fa sgorgare da sé l’acqua vivificatrice della salvezza (1 Cor 10,
4). con ciò Paolo si collegava non soltanto alle interpretazioni rabbiniche
che identificavano questa roccia con Jahvè che accompagnava il suo popolo,
ma prolungava tutta la tradizione del VT. Di fatto gli autori del VT si sono
compiaciuti continuamente nel ricordare questo *miracolo di Mosè (Sal 78,
15; 105, 41; Sap 11, 4; ecc.), perché molto giustamente vi hanno visto in
azione la potenza misericordiosa di Jahvè, capace di trarre l’acqua feconda
e vivificatrice da una pietra secca, arida, e senza vita; forse anche per
essi questa roccia era l’immagine di Jahvè che effonde le sue benedizioni
(cfr. nello stesso senso Ez 47, 1-12; Zac 14, 8; Apoc 22, 1). L’accostamento
tra l’acqua della roccia e l’*acqua della salvezza che sgorga dal costato di
Cristo morto è stato forse suggerito da S. Giovanni (Gv 19, 34; cfr. 7, 37
s); è stato esplicitamente proposto da numerosi Padri della Chiesa.
4. Cristo pietra angolare, ed i cristiani pietre viventi.
- La salvezza apportata da Cristo deve compiersi attraverso le
prove ed il fallimento apparente: «La pietra rigettata dai costruttori è
diventata la *testa d’angolo», annunziava già il Sal 118, 22. Rigettato dai
suoi, come egli stesso predice nella parabola dei vignaioli omicidi, Cristo
diventa la pietra angolare, cioè le fondamenta dell’edificio o più
probabilmente la pietra principale della costruzione (Mt 21, 42 par.; Atti
4, 11; 1 Piet 2, 4. 7). Assicura così la coesione del sacro *tempio; in esso
si *edifica e si ingrandisce la dimora di Dio (Ef 2, 20 s). Secondo un’altra
metafora, Cristo è una pietra incrollabile (Is 28, 16; Rom 9, 33; 1 Cor 3,
11; 1 Piet 2, 6), sulla quale ci si può appoggiare con fede, di modo che i
fedeli, simili a pietre viventi (1 Piet 2, 5), sono inseriti nella
costruzione della dimora di Dio (Ef 2, 21).
5. Cristo, pietra d’inciampo e di distruzione.
- Con la rivelazione dell’amore e della santità di Dio, Cristo
obbliga l’uomo a scegliere la luce o le tenebre. Per gli orgogliosi
increduli, diventa una pietra di inciampo (Is 8, 14; Rom 9, 33; 1 Piet 2,
8), una pietra di *scandalo. Ed i nemici di Cristo sono alla fine
schiacciati; l’immagine della pietra rigettata, diventata pietra angolare, è
in effetti continuata da Luca: «Chiunque cadrà su questa pietra, vi si
sfracellerà, e colui sul quale essa cadrà, sarà schiacciato» (20, 17 s).
Forse qui si fa allusione alla pietra con cui Daniele simboleggia il messia
e il suo regno che trionfano delle potenze di questo mondo: «Ed ecco si
staccò una pietra, senza l’intervento di una mano, e venne a colpire la
statua, i suoi piedi di ferro e di argilla, e li stritolò... E la pietra che
aveva colpito la statua divenne un grande monte che riempi tutta la terra»
(Dan 2, 34 s).
6. Le pietre preziose e la nuova Gerusalemme.
- Segno splendido della trasformazione gloriosa che attende la
nuova Gerusalemme: la città santa sarà costruita in pietre preziose (Tob 13,
16 s; Apoc 21, 10-21).
P. LAMARCHE
→ altare 1 - edificare II, III 1 - indurimento - Pietro (S.) - roccia 1 -
scandalo I 1.3 - tempio - testa 1.4.
1.
Vocazione.
- Nonostante la sua traduzione classica, il nome di Cefa imposto da
Cristo a Simone (Mt 16, 18; Gv 1, 12; cfr. 1 Cor 1, 12; 15, 5; Gal 1, 18)
significa «*roccia» piuttosto che «pietra». In virtù di questo nuovo *nome,
Simon-Pietro è partecipe della saldezza duratura e della fedeltà incrollabile di
Jahvè e del suo Messia. Ciò indica la sua situazione eccezionale. La scelta di
Pietro non è dovuta alla sua personalità, per quanto interessante, od a qualche
merito (non ha forse rinnegato il suo maestro?). Questa elezione gratuita gli ha
conferito una grandezza, e questa grandezza poggia sulla missione che Cristo gli
ha affidato e che egli doveva compiere nella fedeltà dell’amore (Gv 21, 15 ss).
2. Primato.
- Se non per primo, almeno tra i primi, Simone fu chiamato da *Gesù a
*seguirlo (Gv 1, 35-42). I sinottici rivelano persino la tendenza a trasporre
nel tempo il primato di Pietro ed a fare di lui il primo discepolo chiamato (Mt
4, 18-22 par.). Comunque sia, Pietro occupa tra i discepoli un posto preminente,
in testa alle liste di *apostoli (Mt 10, 2) od al gruppo dei tre privilegiati
(ad es. Mt 17, 1 par.); a Cafarnao Gesù dimora ordinariamente nella casa di
Pietro (ad es. Mc 1, 29); è Pietro a prendere la parola a nome di tutti (Mt 16,
16 par.; Gv 6, 68) soprattutto nel momento solenne in cui riconosce la
*messianicità di Gesù (Mt 16, 16 par.; Gv 6, 68); il messaggio affidato dagli
angeli della risurrezione alle sante donne (Mc 16, 7) contiene una menzione
speciale di Pietro; Giovanni lo lascia entrare per primo nel sepolcro (Gv 20, 1-
10); infine, e soprattutto, Cristo risorto appare a Cefa prima di manifestarsi
ai Dodici (Lc 24, 34; 1 Cor 15, 5). Dovunque, nel NT, è messa in rilievo questa
preminenza di Pietro. Essa tuttavia non esclude né la ricerca laboriosa del
disegno di Dio (cfr. Atti 10 - 15 e Gal 2 a proposito dell’universalismo), né la
responsabilità collegiale degli apostoli, né le iniziative di un Paolo. Questi,
dopo la conversione, pur avendo coscienza della propria particolare vocazione
(Gal 1, 15 s), si reca a Gerusalemme per prendere contatto con Pietro (Gal 1,
18); e pur ricordando l’incidente di Antiochia (Gal 2, 11-14), quando Pietro
pusillanime esitò sulla condotta da tenere in un caso pratico, Paolo si rivolge
a Pietro come a colui la cui *autorità trascina con sé tutta la Chiesa.
3. Missione.
- Questo primato di Pietro è fondato sulla sua *missione, espressa in
parecchi testi evangelici.
a) Mt 16, 13-23. - Nuovo *Abramo, cava da cui vengono
estratte pietre viventi (cfr. Is 51, 1 ss e Mt 3, 9), fondamento sul quale
Cristo edifica la propria comunità escatologica, Pietro riceve una missione di
cui deve beneficiare tutto il popolo. Contro le forze del male, che sono potenze
di morte, la Chiesa edificata su Pietro ha l’assicurazione della vittoria. Così
la missione suprema di radunare gli uomini in una comunità, in cui ricevono la
vita beata ed eterna, è affidata a Pietro, che ha riconosciuto in Gesù il Figlio
del Dio vivente. Come in un corpo una funzione vitale non può fermarsi, così
nella Chiesa, organismo vivente e vivificatore, bisogna che Pietro, in un modo o
nell’altro, sia sempre presente per comunicare senza sosta ai fedeli la vita di
Cristo.
b) Lc 22, 31 s e Atti. - Alludendo senza dubbio al suo
nome, Gesù annuncia a Pietro che dovrà «confermare» i suoi fratelli, dopo
essersi ravveduto del suo rinnegamento; la sua *fede, grazie alla preghiera di
Cristo, non verrà meno. Questa è appunto la missione di Pietro, descritta da
Luca negli Atti: egli sta alla testa del gruppo riunito nel cenacolo (Atti 1,
13); presiede all’elezione di Mattia (1, 15); giudica Anania e Safira (5, 1-11);
in nome degli altri apostoli, che sono con lui, proclama alle folle la
glorificazione messianica di Cristo risorto ed annunzia il dono dello Spirito
(2, 14-36); invita al battesimo tutti gli uomini (2, 37-41), compresi i «pagani»
(10, 1- 11, 18) ed ispeziona tutte le chiese (9, 32). Come segni del suo potere
sulla vita, in nome di Gesù guarisce gli ammalati (3, 1-10) e risuscita un morto
(9, 36-42). D’altra parte, il fatto che Pietro sia tenuto a giustificare la sua
condotta in occasione del battesimo di Cornelio (11, l-18), lo svolgimento del
concilio di Gerusalemme (15, 1-35), nonché le allusioni di Paolo nella lettera
ai Galati (Gal 1, 28 - 2, 14), rivelano che nella direzione, in gran parte
collegiale, della Chiesa di Gerusalemme, Giacomo aveva una posizione importante
ed il suo accordo era fondamentale. Ma questi fatti e la loro relazione, lungi
dal creare ostacolo al primato ed alla missione di Pietro, ne illuminano il
senso profondo. Di fatto l’autorità di Giacomo non ha le stesse radici, né la
stessa espressione di quella di Pietro: è a titolo particolare che questi ha
ricevuto, con tutto quello che ciò comporta, la missione di trasmettere una
regola di fede integra (cfr. Gal 1, 18), ed è il depositario delle promesse di
vita (Mt 16, 18 s).
c) Gv 21. - In forma solenne, e forse giuridica,
Cristo risorto per tre volte affida a Pietro la cura di tutto il gregge, agnelli
e pecore. Questa missione deve essere intesa alla luce della parabola del buon
pastore (Gv 10, 1-28). Il buon *pastore salva le sue pecore, raccolte in un sol
gregge (10, 16; 11, 52), e queste hanno la vita in abbondanza; egli dà anche la
propria vita per le sue pecore (10, 11); perciò Cristo, annunziando a Pietro il
suo futuro martirio, aggiunge: «Seguimi». Egli deve camminare sulle orme del suo
maestro, non soltanto dando la vita, ma comunicando la vita eterna alle sue
pecore, affinché non periscano mai (10, 28). «Seguendo» Cristo, roccia, pietra
vivente (1 Piet 2, 4), pastore che ha il potere di ammettere nella Chiesa, cioè
di salvare dalla morte i fedeli e di comunicare loro la vita divina, Pietro,
inaugurando una funzione essenziale alla Chiesa, è veramente il «vicario» di
Cristo. Questa è la sua missione e la sua grandezza.
P. LAMARCHE
→ apostoli - Chiesa III 2 c, IV 2, V 2 - edificare III 1 - pastore e gregge NT 2
- roccia 1 - seguire 2 b.
→lavoro I 2 - sonno II - vegliare 0, I.
→ acqua - cielo I - deserto 0 - diluvio - frutto II - uragano 1.
→ Chiesa V 1 - pienezza.
→ adulterio 1 - matrimonio VT II 2.3.
→ Adamo I 1 - cenere - morte VT I 2.
Il tema del
popolo di Dio, nel quale si organizzano in sintesi tutti gli aspetti della vita
di *Israele, è così centrale nel VT come lo sarà nel NT il tema della *Chiesa,
nuovo popolo di Dio ma anche *corpo di Cristo. Tra i due, l’escatologia
profetica serve da collegamento: nella cornice dell’antica *alleanza, essa
annunzia e descrive in anticipo il popolo della nuova alleanza, atteso per la
«fine dei tempi».
A. IL POPOLO DELL’ANTICA ALLEANZA
Per indicare i gruppi umani di una certa estensione, le parole ebraiche
‘am e goy mettevano in evidenza in origine due elementi costitutivi di essi: la
comunità di sangue e la struttura sociologica stabile. Ma nel linguaggio del VT
esse sono andate a poco a poco specializzandosi: ‘am (al sing.) ha designato di
preferenza Israele, popolo di Dio, mentre gojim (al pl.) era riservato alle
*nazioni straniere, ai pagani (già Num 23, 9); tuttavia quest’uso conosce
eccezioni. Similmente nella Bibbia greca laòs ha designato il popolo di Dio (più
raramente dèmos quando si insisteva sulla sua organizzazione politica) mentre
èthne (al pl.) era applicato alle nazioni pagane; ma vi sono ancora eccezioni.
Questo fatto linguistico fa vedere che si è sentito il bisogno di una parola
speciale per esprimere il carattere particolare di Israele, popolo così diverso
dagli altri per il mistero della sua vocazione che la sua esperienza nazionale
ha acquistato un significato religioso, ed un aspetto essenziale del disegno di
salvezza ha cominciato a rivelarsi in esso.
I. TRASCENDENZA DEL POPOLO DI DIO
1. *Elezione, *vocazione, *alleanza.
- Israele, come tutti gli altri popoli, appartiene alla storia umana;
ma, sin dalla sua origine, la rivelazione lo presenta come trascendente l’ordine
della storia. Esso esiste perché Dio lo ha scelto (Deut 7, 7; Is 41, 8) e
chiamato (Is 48, 12) non per il suo numero, per la sua forza od i suoi meriti (Deut
7, 7; 8, 17; 9, 4), ma per *amore (Deut 7, 8; Os 11, 1). Avendolo così distinto
tra gli altri, lo ha riscattato e liberato al tempo dell’esodo (Deut 6, 12; 7,
8; 8, 14...; 9, 26). Costituendolo nazione indipendente, lo ha in qualche modo
*creato (cfr. Is 43, 15), formato come un bambino nel seno materno (Is 44, 2.
24). La coscienza viva di una dipendenza totale nei confronti di Dio accompagna
quindi in Israele la presa di coscienza della nazione come tale. In seguito
viene l’*alleanza, e questo atto di fondazione sottolinea che ormai, per Israele
tutto sarà collocato su un duplice piano: quello della storia e quello della
fede. Un patto sacro, in cui le dodici tribù sono parti contraenti, è suggellato
nel *sangue di un *sacrificio (Es 24, 8); con ciò Jahvè diventa il Dio di
Israele, ed Israele il popolo di Jahvè (cfr. Deut 29, 12; Lev 26, 12; Ger 7, 23
ecc.; Ez 11, 20 ecc.). Un legame unico s’intreccia in tal modo tra Dio ed una
comunità umana; chiunque, con la *circoncisione, sarà aggregato a questa
comunità, parteciperà pure a questo legame (cfr. Gen 17, 10...).
2. Titoli e funzioni del popolo di Dio.
- Israele è il popolo *santo, consacrato a Jahvè, separato per lui (Deut 7, 6;
14, 2), sua proprietà (Es 19, 5; Ger 2, 3), sua *eredità (Deut 9, 26). È il suo
gregge (Sal 80, 2; 95, 7), la sua *vigna (Is 5, 1; Sal 80, 9), il suo *figlio (Es
4, 22; Os 11, l), la sua *sposa (Os 2, 4; Ger 2, 2; Ez 16, 8). È un «*regno di
sacerdoti» (Es 19, 6), in cui Dio regna su sudditi votati al suo servizio.
Questa finalità cultuale dell’alleanza fa vedere nello stesso tempo la funzione
che Israele svolge nei confronti delle altre nazioni: *testimone del Dio unico
presso di esse (Is 44, 8), esso è il popolo *mediatore per mezzo del quale si
riannoderà il legame tra Dio e l’insieme dell’umanità, di modo che salga a Dio
la lode di tutta la terra (Is 45, 14 s. 23 s) e tutte le nazioni abbiano parte
alla *benedizione di Dio (Gen 12, 3; Ger 4, 2; Eccli 44, 21).
II. SIGNIFICATO RELIGIOSO DI UNA ESPERIENZA NAZIONALE
In virtù dell’alleanza Israele realizza quindi in seno alla storia umana un
paradosso: comunità specificamente religiosa, trascendente per la sua stessa
natura, il popolo di Dio è nello stesso tempo un’entità di questo mondo, che
assume tutti gli elementi temporali che compongono quaggiù la vita dei popoli.
Di conseguenza, la sua esperienza nazionale, in cui tutti gli altri potranno
riconoscere il loro volto, assumerà un significato religioso illuminante per la
fede.
1. Una comunanza di stirpe.
- Il popolo di Israele si raffigura la propria unità interna come
derivante dalla sua unità di origine. I patriarchi *ebrei sono i *padri della
stirpe, ed i ricordi della storia anteriore all’esodo si cristallizzano nella
cornice di una genealogia che, da *Abramo, porta, attraverso Isacco, a
Giacobbe-Israele, padre dei dodici figli, eponimi delle dodici tribù. È vero che
nel corso delle età la stirpe ha assimilato molti elementi eterogenei: già
all’uscita dall’Egitto (Es 12, 38), nel deserto (Num 11, 4; Giud 4, 11), dopo la
conquista di Canaan (Gios 9; Giud 3, 1...). Ma in epoca tarda si nota piuttosto
l’accentuarsi della preoccupazione della *purità del sangue ebraico: vengono
proibiti i matrimoni misti, per difendere la «stirpe santa» (Esd 9, 2) contro i
popoli pagani che hanno l’idolatria nel sangue. Si idealizza perfino il passato
collegando alla genealogia patriarcale taluni stranieri assimilati da molto
tempo, come i clan calebiti (1 Cron 2, 18; cfr. Num 32, 12 e Gen 15, 19). E
questo perché l’elezione di Israele è passata attraverso i suoi padri: non si
vedono forse, ad ogni tappa della loro genealogia, i popoli vicini scartati nei
loro padri dal disegno della salvezza (Gen 19, 30; 21, 8...; 25, 1...; 36)? Per
partecipare alle promesse ed alla alleanza divina occorre quindi appartenere
alla stirpe di Abramo, l’amico di Dio (Is 41, 8; 51, 2; cfr. 63, 16; Ger 33, 26;
Sal 105, 6; 2 Cron 20, 7). Un certo universalismo sussiste all’orizzonte del
pensiero, perché Abramo deve diventare «padre di numerosi popoli» (Gen 17, 5 s).
Ma praticamente gli *stranieri che si convertono al giudaismo, i proseliti (Is
56, 8), di fatto si aggregano alla stirpe eletta per partecipare ai suoi
privilegi religiosi. La fede comune non è ancora sufficiente per costituire il
popolo di Dio; esso ha come base concreta un ramo etnico scelto da Dio in mezzo
agli altri.
2. Una comunanza di istituzioni.
- La stirpe dei patriarchi non è una massa amorfa, ma una società organizzata.
Le sue cellule fondamentali, famiglia e clan (mišpaha), in cui si ritrova la
comunanza del sangue, perdurano nei secoli e sopravvivono persino allo
sradicamento della dispersione (Esd 2; Neem 7). Ora, in materia economica, esse
determinano la proprietà delle greggi, delle terre, dei diritti di pascolo;
determinano usanze come la *vendetta del sangue (Num 35, 19), il levirato (Deut
25, 5 ...), il diritto di riscatto (Rut 4, 3). Per mezzo di esse ciascun
individuo prende coscienza di un’appartenenza sociale che lo protegge e nello
stesso tempo lo obbliga. I clan si raggruppano a loro volta in tribù, unità
politiche di base, e la prima forma che la nazione organizzata assume è quella
di una confederazione di dodici tribù, legate assieme dal patto dell’alleanza (Es
24, 4; Gios 24). Quando lo stato israelitico prenderà maggior consistenza, la
monarchia centralizzata vi si sovrapporrà senza abolirla (2 Sam 2, 4; 5, 3),
tanto che, dopo la rovina dell’edificio monarchico, quando la nazione sarà
dispersa, la confederazione delle tribù rimarrà l’ideale dei restauratori
giudaici (cfr. Ez 48). Ora, se questa evoluzione delle istituzioni è determinata
da fattori storici diversi, dipende innanzitutto da un principio che trascende
la pressione dei fatti: la *legge, di cui Mosè ha posto i fondamenti essenziali
e che, sviluppandosi, assicura nel corso delle età la permanenza di uno stesso
spirito negli usi e costumi (cfr. Neem 8). Per mezzo di essa, tutte le
istituzioni di Israele acquistano un senso ed un valore in funzione del disegno
di Dio: essa è il «pedagogo» provvidenziale del popolo dell’alleanza (Gal 3,
24).
3. Una comunanza di destino.
- Parallelamente alle istituzioni che strutturano la nazione, la
comunanza di destino dà ai suoi membri uno spirito comune: esperienza della vita
nomade, dell’oppressione e della liberazione, delle peregrinazioni nel deserto e
delle lotte per il possesso di una patria, dell’unità nazionale pagata a caro
prezzo e dell’apogeo imperiale, della divisione politica che prelude alla rovina
delle due frazioni dello stato, del disastro e della dispersione... Ora queste
esperienze hanno un significato religioso; a loro modo sono un’esperienza
concreta delle vie di Dio. Il loro lato luminoso mostra chiaramente i *doni di
Dio al suo popolo e fa presagire le sue intenzioni segrete; il loro lato oscuro
fa sentire l’*ira divina, che si manifesta in *giudizi esemplari. Con ciò la
storia diventa *rivelazione. Dalle sue esperienze secolari il popolo di Dio trae
schemi di pensiero fondamentali in cui vengono a sistemarsi le esperienze
successive (cfr. 1 Mac 2, 51 ...; 2 Mac 8, 19); esso trova nel suo passato
termini di riferimento per raffigurarsi il proprio avvenire e per esprimere
l’oggetto delle sue speranze (cfr. Is 63, 8..).
4. II radicamento in una patria.
- Dal deserto, sua dimora primitiva, il popolo di Dio è stato condotto in Canaan.
È la *terra dove i suoi padri vissero e dove hanno le loro tombe (Gen 23; 25, 9;
ecc.); è la terra promessa (Gen 12, 7; 13, 15) e poi data da Dio in *eredità (Es
23, 27 ...; Deut 9, 1...; Ger 2, 7; Sal 78, 54 s); è la terra conquistata nel
corso di un’impresa umana che realizzava il disegno di Dio (Gios 1, 13...; 24,
11...). Non è quindi più Canaan, un paese pagano; è la terra di Israele, la
terra santa dove Dio stesso, presente in mezzo al suo popolo, ha posto la sua
residenza (1 Re 8, 15). *Gerusalemme, dimora di Jahvè e capitale politica, è un
segno sensibile di unità insieme nazionale e religiosa (Sal 122). Perciò la
*dispersione, conseguente alla catastrofe nazionale, non fa che rafforzare
l’attaccamento del popolo di Dio alla sua terra. La mistica sionistica nasce già
con il decreto di Ciro (Esd 1, 2) e rimane viva nei secoli seguenti (Esd 7).
Anche quando soggiornano in mezzo agli stranieri, i Giudei non si sentono mai
totalmente sradicati, perché laggiù hanno ancora una *patria, dove sono le tombe
dei loro padri (Neem 2, 3), e verso la quale si volgono per pregare (Dan 6, 11).
5. La comunanza di lingua.
- Conquistando la terra santa, Israele ha fatto della «lingua di Canaan»
(Is 19, 18) la propria lingua. In un popolo, la *lingua è fattore di unità,
assicura una mentalità comune, è veicolo di una cultura e di una concezione del
mondo; è una vera patria spirituale. Ora, in Israele, la stessa rivelazione
divina si esprime in ebraico, assumendo le categorie di pensiero coniate dalla
cultura semitica e beneficiando del carattere concreto e dinamico dell’ebraico.
Di secolo in secolo prende forma una vera cultura nazionale, in cui si
riconoscono apporti umani molto diversi (cananeo, assirobabilonese, iranico, ed
anche greco); ma la rivelazione vi effettua sempre una cernita, eliminando gli
elementi non assimilabili, dando alle parole ed alle concezioni dello spirito
nuovi contenuti, in rapporto con il disegno di Dio. Infine, quando i Giudei
parlano aramaico o greco, l’ebraico rimane la «lingua santa»; tuttavia la
pratica dei targum e la versione dei Settanta permettono allora all’aramaico ed
al greco di trasmettere a loro volta la dottrina rivelata senza tradirla. In tal
modo l’evoluzione culturale di Israele è dominata dalla parola di Dio, fissata
nelle Sacre Scritture; ma per rendersi intelligibile, la parola di Dio ha preso
forma in uno stampo giudaico.
6. La comunità cultuale.
- Nelle società dell’antico Oriente il culto era un aspetto essenziale
della vita della città. In Israele il *culto del Dio unico è, per via
dell’alleanza, la funzione suprema della nazione. La lingua ebraica possiede
termini tecnici per designare il popolo radunato in questa funzione cultuale.
Esso forma una comunità ‘edah), una convocazione santa (miqra), una assemblea (qahal),
e questi termini, tradotti in greco, hanno dato origine alle parole synagoghè ed
ekklesìa. Cercando il suo ideale nella comunità santa del deserto, qual è
descritta dal Pentateuco, il giudaismo non è ancora certamente una *Chiesa, nel
senso stretto della parola, perché rimane legato alle strutture temporali di una
nazione particolare; ma ne abbozza già i tratti, poiché i caratteri specifici
del popolo di Israele si rivelano nettamente soprattutto nella sua qualità di
comunità cultuale (qahal/ekklesìa).
III. L’ANTICA ALLEANZA: VALORE E LIMITI
Già nell’antica alleanza si è quindi rivelata la struttura sociale del disegno
della salvezza: l’uomo non sarà salvato da Dio evadendo dalla storia; non
troverà Dio nella solitudine di una vita religiosa tagliata fuori del mondo.
Sarà legato a Dio condividendo la vita ed il destino della comunità scelta da
Dio per essere il suo popolo. Questo disegno divino riceve un inizio di
realizzazione in Israele, perché i membri del popolo dell’alleanza posseggono
già effettivamente una vita di *fede, che ha come basi le istituzioni e la
storia nazionale, nonché la parola di Dio e le assemblee cultuali. Qui appare il
carattere imperfetto di questa realizzazione provvisoria. La vita di fede, come
esperienza del rapporto di alleanza con Dio, vi costituisce già una realtà
positiva, che reca in sé la promessa della salvezza definitiva. Ma resta ancora
legata a condizioni che la limitano a due punti di vista: le sue prospettive non
trascendono né l’ordine delle cose temporali, né l’orizzonte di una sola
nazione. È tuttavia, mediante questa stessa unione di una realtà trascendente
(il «popolo do Dio») con una realtà nazionale e temporale in cui essa trova una
base visibile, qualcosa del suo mistero profondo è divenuto intelligibile agli
uomini: in base alle esperienze di Israele come popolo di questo mondo, i
diversi aspetti della società santa, in cui il disegno di salvezza giungerà
infine a compimento, si sono a poco a poco delineati sotto il velo delle
*figure.
B. LA PROMESSA DEL NUOVO POPOLO
L’economia fondata sull’antica alleanza non aveva soltanto i limiti che
si sono detti; ma era incapace di a rendere *perfetto» alcunché (Ebr 7, 19; 9,
9; 10, 1), incapace di realizzare quaggiù il «popolo *santo» che Israele era
chiamato a diventare. Lo hanno dimostrato i fatti stessi, poiché i peccati di
Israele gli attirarono il *castigo radicale dell’esilio e della *dispersione.
Tuttavia il *disegno di Dio non è divenuto caduco; perciò l’escatologia
profetica annunzia per gli «ultimi *tempi» l’avvento di una *nuova economia in
cui Dio troverà il popolo perfetto di cui l’antico era l’abbozzo ed il germe.
I. IL POPOLO DELLA NUOVA ALLEANZA
1. Superiorità della nuova alleanza.
- Come già Israele, il nuovo popolo deve nascere da una iniziativa di Dio. Ma
questa volta Dio trionferà del *peccato che aveva contrastato il suo primo
disegno: purificherà il suo popolo, ne muterà il *cuore, infonderà su di esso il
suo *spirito (Ez 36, 26...); ne eliminerà i peccatori per conservare un *resto
umile e giusto (ls 10, 20 s; Sof 3, 13; Giob 3, 5). con questo popolo, da lui
«*creato» (Is 65, 18) concluderà una nuova *alleanza (Ger 31, 31...; Ez 37, 26).
Questo popolo sarà il «popolo santo» (Is 62, 12), il gregge (Ger 31, 10) e la
*sposa (Os 2, 21) di Jahvè. La rettitudine interiore così descritta contrasta
con lo stato spirituale di Israele, popolo peccatore; evoca uno stato
dell’umanità anteriore al peccato del suo primo *padre (Gen 2).
2. Universalità del nuovo popolo.
- Nello stesso tempo le frontiere del disegno di Dio si allargano, perché le
*nazioni si uniranno ad Israele (Is 2, 2...); parteciperanno con esso alla
*benedizione promessa ad Abramo (Ger 4, 2; cfr. Gen 12, 3) ed all’alleanza di
cui il misterioso *servo di Jahvè sarà il mediatore (Is 42, 6). La separazione
di Israele appare così come uno stadio provvisorio nello svogimento del disegno
divino; alla fine dei tempi, sarà raggiunto l’universalismo primitivo.
II. EVOCAZIONE SIMBOLICA DEL NUOVO POPOLO
Per evocare in modo concreto il nuovo popolo, i profeti non hanno che da
interrogare l’esperienza passata del popolo di Israele: se ne vengono eliminate
le imperfezioni e le ombre, essa appare come una *figura anticipata degli
«ultimi tempi».
1. Una nuova stirpe.
- Israele entrerà nel nuovo popolo in qualità di stirpe di *Abramo (Is 41, 8).
Ma anche le *nazioni si uniranno al popolo del Dio di Abramo (Sal 47, 10), come
per diventare a loro volta la posterità spirituale del patriarca. A Sion, *madre
simbolica del popolo santo, tutti diranno: «Madre!» (Sal 87). Tutta la stirpe
umana ritroverà quindi la sua *unità primitiva, quando si raduneranno i
superstiti delle nazioni disperse dopo l’avventura di Babele (Is 66, 18 ss; cfr.
Gen 10-11; Zac 14, 17).
2. Nuove istituzioni.
- Per descrivere in anticipo il nuovo popolo come una comunità
organizzata, si fa ancora appello alle istituzioni figurative: nuova *legge,
scritta questa volta nei cuori (Ger 31, 33; Ez 36, 27); riunione delle dodici
tribù (Ez 48) e fine dell’antagonismo tra Israele e Giuda (Ez 37, 15...); regno
del germoglio di David (Is 9; 11; Ger 23, 5; Ez 34, 23; Zac 9, 9), ecc. Anche
qui l’universalismo infrange i limiti delle istituzioni passate. Il *re, figlio
di David, regna su tutte le nazioni (cfr. Sal 2; 72); soprattutto, esse
riconoscono tutte il Dio unico come *re (Zac 14, 16; Sal 96, 10), il cui diritto
è insegnato loro perché apporti la *luce (Is 2, 2...; 42, 1. 4). Così, senza
perdere la loro personalità, esse si aggregano al popolo di Dio in modo
organico.
3. Gli avvenimenti della salvezza.
- L’esperienza storica di Israele fornisce parimenti il mezzo per rappresentare
gli avvenimenti della salvezza: nuovo *esodo, che sarà, come il primo,
*redenzione e liberazione (Ger 31, 1; Is 43, 16...; 44, 23); nuova marcia
attraverso il *deserto, rinnovando i prodigi di un tempo (Os 2, 16; Ger 31, 2;
Is 40, 3; 43, 14; 48, 21; 49, 10), ritorno nella *terra promessa (Os 2, 17; Ger
31, 12; Ez 37, 21), trionfo del re sui nemici all’intorno per inaugurare un
regno pacifico (Is 9)... Ma ancora una volta l’orizzonte si allarga: non
soltanto Samaria parteciperà alla restaurazione promessa, ma anche Sodoma (Ez
16, 53...), tipo della città peccatrice! La *pace universale così ristabilita
alla fine della storia della *salvezza (Is 2) riporterà il genere umano in uno
stato che non conosceva più dopo il peccato di Caino (cfr. Gen 4, 8).
4. La nuova terra santa.
- La *terra santa sarà naturalmente il luogo di raduno del nuovo
Israele (Ez 34, 14; Ger 31, 10...). Ma allora avrà una *fecondità meravigliosa
che supererà di molto le descrizioni più entusiastiche del Deuteronomio (Ez 47,
12; Gioe 4, 18). Sarà, letteralmente, un *paradiso ritrovato (Ez 36, 35; Is 51,
3). *Gerusalemme, sua capitale, diventerà il centro del mondo intero (Is 2).
Così, in un universo «ricreato» (Is 65, 17), Dio realizzerà l’unità di tutte le
*patrie per assicurare ai suoi eletti una felicità ed una *pace paradisiache (Os
2, 20; Is 65, 17- 25).
5. Il raduno di tutte le lingue.
- Non invano Dio ha fatto della lingua di Canaan la lingua santa;
quando negli ultimi tempi l’Egitto si convertirà, invocherà Jahvè nella lingua
santa (Is 19, 18...). Ma l’escatologia profetica va più lontano: Dio purificherà
le *labbra di tutti i popoli, affinché ciascuno possa lodarlo nella sua propria
*lingua (Sof 3, 9). Così, in un *culto tornato unanime, si compirà il raduno
delle nazioni e delle lingue (Is 66, 18); esso porrà termine alla divisione del
genere umano e sarà il segno della ritrovata unità spirituale, come alle origini
del disegno di Dio (Gen 11, 1).
6. Il nuovo culto di Dio.
- Il *culto escatologico è evidentemente descritto con i tratti del
culto israelitico (cfr. Ez 40-48). Ma è notevole il fatto che l’universalismo vi
si afferma costantemente. L’umanità ritroverà la sua unità mediante il comune
*servizio del Dio unico (Is 2, 2...; 56, 6 s; 66, 20 s). Il suo raduno finale
assumerà la forma dei pellegrinaggi in cui il popolo di Dio si raduna per la
*festa dei tabernacoli (Zac 14, 16), e quella dei *pasti cultuali con cui entra
in *comunione con Dio (Is 25, 6). Benché il termine non compaia nei testi, si
pensa ad una nuova «assemblea santa» analoga al qahal (= ekklesìa) del deserto,
dove le nazioni si uniranno al resto di Israele.
III. IL POPOLO ESCATOLOGICO E L’ISRAELE DELLA STORIA
Il popolo della nuova alleanza è quindi evocato in anticipo sulla base
dell’esperienza storica d’Israele, di cui si vede così chiaramente il valore di
prefigurazione. Su due punti tuttavia si va oltre i dati dell’esperienza: la
cornice nazionale è superata, ed il nuovo popolo si apre a tutta l’umanità;
l’umanità e lo stesso universo ritrovano la loro perfezione originale, perduta a
motivo del peccato umano. Ma in questo quadro simbolico sussistono talune
ambiguità, di cui è in parte responsabile il richiamo all’esperienza di Israele.
La restaurazione della *unità umana attorno al popolo dell’antica alleanza, al
suo re, alla sua città santa, conserva talvolta limitazioni (cfr. Is 52, 1),
risonanze nazionalistiche (Is 60, 12), persino un aspetto *guerresco (Sal 2; 72)
che tenderà a svilupparsi sotto l’aspetto della *guerra escatologica (Ez 38 -
39). E soprattutto, anche se la felicità promessa al nuovo popolo implica la
soppressione di ogni male morale e fisico (la *sofferenza: Is 65, 19; la stessa
*morte: Is 25, 8), l’orizzonte rimane per lo più temporale, legato alle *gioie
terrene. Perfino il «popolo dei *santi dell’altissimo» (Dan 7, 22. 27), che
tende a superare questi limiti ed assumere un aspetto trascendente, si vede
attribuire un dominio che rassomiglia a quello dei potenti di questo mondo (Dan
7, 27; cfr. 14). Perché l’ambiguità si dissipi, occorrerà che con Cristo e la
sua Chiesa il popolo escatologico entri a sua volta nel campo dell’esperienza
umana.
C. IL POPOLO DELLA NUOVA ALLEANZA
Nel greco del NT, meglio ancora che nei Settanta, si ritrova la distinzione dei
termini laòs, popolo di Dio, e ethne, nazioni pagane. Ma per definire la
comunità della salvezza, legata a Dio dalla nuova alleanza, il tema della
ekklesìa («assemblea cultuale») prende il sopravvento su tutti gli altri.
Tuttavia la *Chiesa di Cristo, dove il popolo dell’antica alleanza è invitato ad
entrare, e poi al suo seguito le altre nazioni, rimane veramente un popolo, con
tutte le risonanze che il termine contiene, perché, succedendo alle sue
prefigurazioni, la realtà escatologica non ne abolisce il senso, ma lo porta a
*compimento.
I. IL NUOVO POPOLO
Mediante la nuova *alleanza, suggellata nel sangue di Gesù, Dio ha quindi creato
un nuovo popolo, per il quale si realizza pienamente la parola della Scrittura:
«Sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio» (2 Cor 6, 16; cfr. Lev 26, 12;
Ebr 8, 10; cfr. Ger 31, 33; Apoc 21, 3). Questo è il popolo di cui Gesù ha
*espiato i peccati (Ebr 2, 17), il popolo che egli ha santificato con il suo
*sangue (13, 12). Perciò i titoli di Israele sono ora riferiti ad esso: popolo
particolare di Dio (Tito 2, 14; cfr. Deut 7, 6), stirpe eletta, nazione santa,
popolo di acquisto (1 Piet 2, 9; cfr. Es 19, 5 e Is 43, 20 s); gregge (Atti 20,
28; 1 Piet 5, 2; Gv 10, 16) e *sposa del Signore (Ef 5, 25; Apoc 19, 7; 21, 2).
E poiché il popolo dell’antica alleanza aveva esperimentato le vie di Dio negli
avvenimenti della sua storia, l’esperienza della salvezza accordata al nuovo
popolo si può esprimere in categorie di pensiero che ricordano quegli eventi
figurativi: questo popolo deve entrare nel *riposo divino prefigurato dalla
*terra promessa (Ebr 4, 9); deve uscire da *Babilonia, città del male (Apoc 18,
4), per radunarsi in *Gerusalemme, residenza di Dio (Apoc 21, 3). Ma questa
volta il livello della vita temporale in cui si muovono le *nazioni è superato.
La trascendenza del popolo di Dio è totale: «*regno sacerdotale» (1 Piet 2, 9),
esso non appartiene a questo *mondo (Gv 18, 36); la sua *patria è nei cieli (Ebr
11, 13...), dove i suoi membri hanno diritto di cittadinanza (cfr. *città) (Fil
3, 20), perché sono i figli della *Gerusalemme di lassù (Gal 4, 26), la stessa
che alla fine dei tempi discenderà dal cielo sulla terra (Apoc 21, 1 ss).
Tuttavia questo popolo soggiorna ancora quaggiù. Per mezzo suo lo spirituale e
l’escatologico si articolano quindi sul temporale e sullo storico. Dopo il
paradosso di Israele, ecco il paradosso della Chiesa: nella sua condizione
terrena, essa rimane un popolo visibile chiamato a svilupparsi nel tempo.
II. ISRAELE E LE NAZIONI NEL NUOVO POPOLO
È naturale che *Israele sia chiamato per primo a far parte del nuovo
popolo; è la sua vocazione già nella prima alleanza. Gesù è stato mandato come
«il *profeta simile a *Mosè» (Atti 3, 23) per «salvare il suo popolo» (Mt l,
21), portargli *luce (Mt 4, 15 s), *redenzione (Lc l, 68), conoscenza della
*salvezza (Lc 1, 77), *gioia (Lc 2, 10), *gloria (Lc 2, 32). Egli è il capo che
lo deve governare (Mt 2, 6), e infine morrà per esso (Gv 11, 50). Ma attorno a
Gesù, e poi all’annunzio del *vangelo, si rinnova il dramma del «popolo dalla
dura cervice», di cui il VT forniva già esempi evidenti (Mt 13, 15; 15, 8; Atti
13, 45; 28, 26; Rom 10, 21; 11, 1 s). Proprio allora il disegno di salvezza
raggiunge il suo obiettivo completo. Di fatto la morte di Gesù, che porta al
colmo il peccato del popolo dell’antica alleanza (Mt 23, 32-36; cfr. Atti 7, 51
s), pone termine a questa prima economia. Essa abbatte la barriera che separava
Israele dalle altre *nazioni (Ef 2, 14...): Gesù muore «non soltanto per la sua
nazione, ma per radunare nell’*unità tutti i *figli di Dio dispersi» (Gv 11,
52). Del primo popolo di Dio un *resto si convertirà e passerà nel nuovo popolo;
ma Dio ha deciso di «trarre pure di mezzo alle nazioni un popolo per il suo
nome» (Atti 15, 14); di coloro che non erano il suo popolo, egli ora vuol fare
il suo popolo (Rom 9, 25 s; 1 Piet 2, 10), «affinché tutti abbiano una parte di
eredità con i santificati» (Atti 26, 18). Mediante questa unione di Israele e
delle nazioni si realizza quindi la riunione escatologica della «nuova umanità»
(Ef 2, 15), stirpe eletta (1 Piet 2, 9) che è ancora spiritualmente la stirpe di
Abramo (Rom 4, 11 s), ma che di fatto comprende tutta la razza umana, ora che
Cristo, nuovo *Adamo, ricapitola in sé tutta la discendenza del primo Adamo (1
Cor 15, 45; Rom 5, 12 ...). Il popolo santo è ormai costituito da uomini «di
tutte le tribù, popoli, nazioni e lingue» (Apoc 5, 9; 7, 9; 11, 9; 13, 7; 14,
6), e l’antico Israele è incluso in questa enumerazione. Tale è il volto eterno
della Chiesa, che il veggente dell’Apocalisse completa nel cielo. Tale è pure la
sua realtà terrena, perché non essendo più «né greca, né ebraica» (Gal 3, 28),
essa costituisce un tertium genus, come dicevano i cristiani dei primi secoli.
III. IL NUOVO POPOLO IN CAMMINO VERSO LA SUA CONSUMAZIONE
La Chiesa rimane così un «popolo» radicato nella storia. Come i figli di
Israele, i suoi membri hanno comunanza di origine, comunanza di istituzioni e di
destino, comunanza di patria verso la quale camminano (Ebr 11, 16), comunanza di
lingua assicurata dalla parola di Dio, comunanza di culto, che è la finalità
suprema della ekklesìa (cfr. 1 Piet 2, 9; Apoc 5, 10). Il destino terreno di
questo popolo separato presenta ancora sorprendenti parallelismi con quello di
Israele: stesse infedeltà dei suoi membri peccatori (cfr. Ebr 3, 7...); stesse
persecuzioni provenienti dalle potenze terrene che incarnano la *bestia
diabolica (Apoc 13, 1-7; cfr. Dan 7); stessa necessità di lasciare *Babilonia
per sfuggire alla rovina che la minaccia (Apoc 18, 4...; cfr. Is 48, 20). La
storia sacra e le Scritture del VT rimangono così pregne di senso per il nuovo
popolo, finché esso è in cammino verso la sua consumazione celeste.
P. GRELOT
→ alleanza VT I 1 - autorità VT II - Chiesa - comunione VT 5 - crescita
2 b - dispersione - ebreo - edificare I - elezione - fratello - generazione -
giudeo - Israele VT 1 - nascita (nuova) 1 - nazioni - padri e Padre, I II -
parola di Dio VT I 2 - pastore e gregge VT - patria - prova-tentazione VT I -
sacerdozio NT II - santo VT III 2 - scisma VT 2 - servo di Dio I - terra VT II -
testimonianza VT III - unità II - visita VT 1.
PORTA (inizio)
Aperta, la porta
lascia passare, entrare ed uscire, permettendo la libera circolazione: esprime
l’accoglienza (Giob 31, 32), una possibilità offerta (l Cor 16, 9). Chiusa,
impedisce di passare: protegge (Gv 20, 19) od esprime un rifiuto (Mt 25, 10).
Suggerisce quindi anche l’idea di un vaglio.
VECCHIO TESTAMENTO
I. LA PORTA DELLA CITTÀ
La città custodisce il suo ingresso mediante una porta monumentale,
fortificata, che protegge dagli attacchi del nemico ed introduce gli amici: «lo
*straniero che è nelle porte» (Es 20, 10) partecipa ai privilegi di Israele. La
porta garantisce così la sicurezza degli abitanti e permette alla città di
costituirsi in comunità; vicino alla porta si concentra la vita della città: su
questa piazza hanno luogo incontri (Giob 29, 7; Sal 69, 13), affari commerciali
(Rut 4, 1-11), partenze per la guerra (1 Re 22, 10), manovre politiche (2 Sam
15, 1-6) e soprattutto giudizi (Deut 21, 19; 22, 15; 25, 7; Am 5, 10- 15; Giob
5, 4; 31, 31, 21; Prov 22, 22; 24, 7). Giustizia e sicurezza qualificano la
porta (Is 28, 6). La porta si identifica quindi in qualche modo con la città, ed
il termine può designare la stessa città (Deut 28, 52-57), e giunge perfino a
connotare la *potenza della città. Impadronirsi della porta significa diventare
padrone della città (Gen 22, 17); riceverne le chiavi, significa essere
investiti del potere (Is 22, 22). Per analogia, le porte dello sheol o della
*morte designano il soggiorno misterioso dove ogni uomo è condotto (Sal 107, 18;
Is 38, 10), di cui Dio solo conosce l’ingresso (Giob 38, 17), ma anche la
potenza su cui è il solo a poter prevalere (Sal 9, 14; Sap 16, 13; cfr. Mt 16,
18). Gerusalemme è la città santa per eccellenza dalle porte antiche (Sal 24, 7
ss) che Jahvè ama in modo particolare (Sal 87), perché egli stesso le ha
rafforzate (Sal 147, 13). Il *pellegrino che le varca ha la sensazione
dell’unità e della pace (Sal 122). Ritenuta inespugnabile, essa può offrire ai
suoi abitanti la sicurezza chiudendo le sue porte; tuttavia manca che a queste
porte si amministri la giustizia (Is 1, 21 s; 29, 21). I profeti allora
intravvedono una Gerusalemme nuova aperta alle nazioni e nello stesso tempo
salda nella pace e nella giustizia (Is 26, 1-5; 60, 11; Ez 48, 30 ss; Zac 2, 8
s).
II. LA PORTA DEL CIELO
Indubbiamente Jahvè apre le porte del cielo per mandare la pioggia, la manna (Sal
78, 23) ed ogni specie di *benedizioni alla terra (Mal 3, 10); ma dopo che il
paradiso è stato chiuso, l’uomo non comunica più familiarmente con Dio. È il
*culto a stabilire una relazione tra i due mondi, quello divino e quello
terreno: così Giacobbe aveva riconosciuto in Bethel «la porta del cielo» (Gen
28, 17). L’israelita che si presenta alle porte del tempio desidera avvicinarsi
a Jahvè (Sal 100, 4); ma udrà il sacerdote ricordargli le condizioni d’ingresso:
la fedeltà all’alleanza, la giustizia (Sal 15; 24; Is 33, 15 s; cfr. Mi 6, 6-8;
Zac 8, 16 s): «La porta di Jahvè è qui, i giusti vi entreranno» (Sal 118, 19 s).
Geremia, dal canto suo, riferendosi a queste stesse porte, dichiara che la
condizione è ben lungi dall’essere adempiuta: l’incontro con Dio è illusorio, il
tempio sarà respinto (Ger 7; cfr. Ez 8 - 11). Gerusalemme perde la propria
ragion d’essere. Sarà «togliendo il male di mezzo ad essa», e non già
chiudendone le porte alle nazioni, che la città sarà santa. Quando il tempio
viene distrutto, Israele si rende conto che l’uomo non può salire al cielo;
perciò, nella sua preghiera, chiede a Dio di squarciare i cieli e di scendere
lui stesso (Is 63, 19): prenda dunque la guida del gregge e gli faccia varcare
le porte (Mi 2, 12 s; cfr. Gv 10, 4).
NUOVO TESTAMENTO
Gesù esaudisce questo desiderio; al battesimo il cielo si apre ed egli stesso
diventa la vera porta del cielo, discesa sulla terra (Gv 1, 51; cfr. Gen 28,
17), la porta che introduce ai pascoli dove i beni divini sono liberamente
offerti (Gv 10, 9), l’unico *mediatore: per mezzo suo Dio si comunica agli
uomini, per mezzo suo gli uomini hanno accesso al Padre (Ef 2, 18; Ebr 10, 19).
Gesù mentre detiene la chiave di David (Apoc 3, 7), nello stesso tempo
stabilisce delle esigenze: l’ingresso nel regno di cui ha consegnato le chiavi a
Pietro (Mt 16, 19); l’ingresso nella vita, nella salvezza presentate come una
città o una sala di banchetti, ingresso che è una porta angusta, la conversione
(Mt 7, 13 s; Lc 13, 24), la fede (Atti 14, 27; Ef 3, 12). colui che non starà in
guardia, troverà la porta chiusa (Mt 25, 10; Lc 13, 25). Ma Gesù, che si è
impadronito della chiave della morte e dell’inferno (Apoc 1, 18), è vincitore
del male e ha concesso alla sua Chiesa di essere più forte delle potenze
malvagie (Mt 16, 18). Alla fine dei tempi, città e cielo coincidono.
L’Apocalisse ci fa vedere realizzati gli annunci di Isaia, Ezechiele e Zaccaria:
la Gerusalemme celeste ha dodici porte; esse sono sempre aperte, e tuttavia il
male non vi entra più; sono la giustizia e la pace in pienezza; è lo scambio
perfetto tra Dio e la umanità (Apoc 21, 12-27 e 22, 14-15).
J. BRIÈRE
→ inferi e inferno - morte VT I 2 - pastore e gregge I 1 - salvezza NT I 1.
POSSESSIONI DEMONIACHE (inizio)
→ demoni NT - malattia-guarigione - miracolo II 2 b - Satana II.
→ Abramo 1 3, II - beatitudine VT II 1 - donna VT 1 - eredità NT I - fecondità - padri e Padre I, II.
In tutte le
religioni, la potenza è un attributo essenziale della divinità. La fede
cristiana formula così il primo articolo della rivelazione biblica: «credo in
Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra». Questa formula indica
tre aspetti della onnipotenza del vero Dio: è universale, perché Dio ha creato
tutto (Gen 1, l; Gv 1, 3); amorosa, perché Dio è il Padre che è nei cieli (Mt 6,
9); misteriosa, perché soltanto la fede la può discernere nelle sue
manifestazioni talvolta sconcertanti ed aprirsi alla sua azione salvatrice (1
Cor 1, 18; 2 Cor 12, 9 s). Essa si dispiega nella storia della salvezza.
I. LA POTENZA DI JAHVÈ, DIO DI ISRAELE
1. Dio manifesta la sua onnipotenza con i suoi interventi in terra. Nei
racconti concernenti la vita dei patriarchi, questa potenza si esercita sovrana:
nulla è impossibile a Dio (Gen 18, 14); dovunque egli può proteggere i suoi
eletti e realizzare in loro favore ciò che vuole (Gen 12, 2 s; 28, 13 ss). Con
questo Dio onnipotente deve lottare Giacobbe; al termine della lotta, Dio lo
benedice e gli dà il nome di *Israele (Gen 32, 27-30), *nome che il popolo
eletto porterà come un augurio: «Dio si riveli forte!». Di fatto la forza di
Israele risiede nella invocazione e nel soccorso del Dio che lo ha scelto (Sal
20, 2. 8 ss; 44, 5-9; 105, 3 s; 124, 8), che è «il potente di Giacobbe» (Gen 49,
24; Is l, 24; 49, 26; 60, 16; Sal 132, 2). Questo Dio, con la sua mano forte (Es
3, 19) e con il suo *braccio teso (Deut 4, 34), *libera il suo popolo nell’atto
dell’*esodo; con questa liberazione senza precedenti, *Jahvè, Dio di Israele, si
rivela come il solo onnipotente in cielo e sulla terra (Deut 4, 32-39). Capo
degli eserciti di Israele (Es 12, 41), Jahvè è un guerriero che dà al suo popolo
la *vittoria; tale è il senso primo del suo nome Sabaoth (Sal 24, 8 ss; Es 15,
12 ss; 1 Sam 17, 45; 2 Sam 5, 10; Am 5, 14 s); per mezzo dell’*arca,
l’onnipotente assicura al suo popolo la sua presenza (2 Sam 6, 2; Sal 132, 8).
2. Talvolta Jahvè interviene rendendo forte il suo popolo (Deut
8, 17 s) ed i suoi capi: giudici come Gedeone (Giud 6, 12 ss), re come David (2
Sam 7, 9; 22, 30 ss; 1 Sam 2, 10). I Maccabei conteranno su questa forza che
viene da Dio e che rende invincibili (1 Mac 3, 18 s; 2 Mac 8, 18). Altre volte
Dio, dietro preghiera del suo popolo, interviene in modo tale che il popolo non
ha nulla da fare (2 Re 19, 35; 2 Cron 20, 15 ss. 24). Le due forme di intervento
sono riunite al momento della battaglia di Gabaon, sotto Giosuè (Gios 10, 8-11).
In ogni modo Jahvè è la *forza del popolo; i Salmi lo cantano nelle loro lodi (Sal
144, 1 s; 28, 7 s; 46, 2; 68, 34 ss) o nei loro appelli al soccorso (Sal 29,
11). Israele certamente sarà salvato, perché questa forza è quella del Dio che
ama Israele (Sal 59, 17 s; 86, 15 ss) e che fa «tutto ciò che vuole» (Sal 115,
3; Is 46, 10).
II. LA POTENZA DEL CREATORE E DELL’UOMO, SUA IMMAGINE
1. Il Dio di Israele è onnipotente in cielo e sulla terra perché li ha
fatti (Gen 2, 4); nulla quindi gli è impossibile (Ger 32, 17), ed egli dispone a
suo piacere dell’*opera sua (Ger 27, 5), *creata mediante la sua parola ed il
suo soffio (Sal 33, 6. 9; Gen 1). Egli dà all’universo la sua stabilità (Sal
119, 90) e domina le forze che potrebbero turbarne l’ordine, come il *mare in
tempesta (Sal 65, 8; 89, 10 s); ma se ha stabilito quest’ordine (Giob 28, 25 s;
Prov 8, 27 ss; Eccli 43), lo modifica a suo piacere: fa danzare o sciogliere i
*monti (Sal 114, 4; 144, 5), cambia il *deserto in sorgente ed inaridisce il
mare (Sal 107, 33 ss; Is 50, 2). Il suo sguardo fa tremare tutto (Eccli 16, 18
s).
2. La potenza di Dio è quindi manifestata dalla sua creazione (Sal
19, 2; 104; Sap 13, 4; Rom 1, 20), ed agisce in favore di coloro che hanno una
*fede perfetta in essa. Così Abramo crede che colui che chiama il nulla
all’esistenza può risuscitare i morti (Rom 4, 16-21; Ebr 11, 19); Dio quindi gli
concede di essere il padre della moltitudine innumerevole dei credenti (Gen 22,
16 ss). È pure il caso di Giuditta, per mano della quale l’onnipotente si rivela
padrone del cielo e della terra (Giudit 9, 12 ss; 16, 1-17), perché essa ha dato
ad Israele l’esempio di una fiducia e di una sottomissione incondizionate (8,
11-27; 13, 19). Come non confidare in colui, la cui parola può tutto (Est 4, 17;
Sap 18, 15), che manovra i cuori a piacer suo (Prov 21, 1) ed alla mano del
quale nessuno può sfuggire (Tob 13, 2; Sap 11, 17; 16, 15)? Questa potenza è
infinitamente sapiente nella sua opera di creazione e di governo del mondo (Sap
7, 21. 25; 8, 1); ma di questa *sapienza infinita e del tuono della sua potenza
la creazione fa sentire soltanto una debole eco (Giob 26, 7-14); eco tuttavia
sufficiente perché, anche nella prova più pesante, il giusto non si scandalizzi,
ma si affidi all’onnipotente nell’adorazione silenziosa (Giob 38, 1- 42, 6).
3. L’uomo che ha fede in Dio diventa il collaboratore
dell’onnipotente, di cui non è soltanto la creatura, ma anche l’*immagine (Gen
1, 26 ss). Lo fa vedere particolarmente con il dominio che esercita sulla terra
e sugli animali (Eccli 17, 2 ss). Lungi dal *temere le potenze della natura,
egli deve padroneggiarle; il che può fare, se rimane sottomesso al suo creatore
con una umiltà fiduciosa. Ora, pretendendo l’indipendenza, Adamo ha commesso il
peccato fondamentale ed ha disconosciuto il mistero della onnipotenza amorosa di
Dio (Gen 2, 17; 3, 5; Rom 1, 20 s); per via di conseguenza, ha perso il suo
potere sul mondo (Gen 3, 17 s).
III. LE POTENZE MALVAGIE CHE ASSERVISCONO L’UOMO
L’inizio della Genesi pone in luce gli effetti della volontà di potenza
che fa insorgere l’uomo contro Dio. Caino si serve della sua forza per uccidere
il fratello, e Lamec si vendica senza misura (Gen 4, 8- 23 s); la *violenza
riempie la terra (6, 11). Il peccato collettivo di *Babele è della stessa natura
del peccato di Adamo; gli uomini vogliono raggiungere il cielo con la loro
propria potenza. Dio, non senza ironia, esprime la loro pretesa: «Nulla sarà
loro impossibile» (11, 4 ss). Questa pretesa porta l’uomo ad un duplice
asservimento. I potenti asserviscono i deboli; ed asserviscono se stessi a
potenze malvagie, ai demoni.
1. L’oppressione dell’uomo da parte dell’uomo appare di fatto
non appena i potenti dimenticano che il loro potere viene da Dio (Rom 13, 1; 1
Piet 2, 13; Gv 19, 11) e che essi devono rispettare in ogni uomo l’immagine
dell’onnipotente (Gen 9, 6). Il faraone, che non riconosce Jahvè, pretende di
mantenere il suo popolo in schiavitù e di imporgli norme di lavoro sempre più
dure (Es 5, 2. 6-18). I tiranni, che pretendono di troneggiare in cielo e di
uguagliare Dio, pretendono pure di soggiogare le nazioni (Is 14, 12 ss). Gli
*orgogliosi abusano della loro potenza esercitando violenze che i profeti
denunciano sia in Israele che nei pagani (Am 1, 3 - 2, 7). Il fatto che Jahvè si
serva delle *nazioni pagane per castigare il suo popolo non scusa la loro
ingiusta violenza (Is 47, 6); ancor più colpevoli sono coloro che hanno il
potere in Israele e ne abusano per dissanguare i poveri, ai quali rifiutano di
rendere giustizia (Is 3, 14 s; 10, 1 s; Mi 3, 9 ss; Sal 58, 2 s). I potenti si
ricordino di colui che li «giudicherà con potenza». Egli è il padrone di tutti e
vuole che essi amino la *giustizia (Sap 1, 1; 6, 3-8).
2. D’altronde, coloro che disconoscono l’onnipotente che li ha
creati, onorano degli dèi che si fabbricano e che non possono essere che
impotenti; profeti e sapienti vanno a gara nel deridere gli *idoli e la loro
impotenza (Is 44, 17 ss; Ger 10, 3 ss; Sal 115, 4-7; Dan 14, 3-27; Sap 13, 10-
19). Onorando gli *astri o le diverse creature di cui si fanno immagini, con
pratiche di *magia o di stregoneria, i pagani cercano di conciliarsi le forze
naturali che divinizzano, e disconoscono il padrone che ne è l’autore (Sap 13,
1-8). Ora, dietro questi falsi dèi delle nazioni, si nascondono potenze
*demoniache (Sal 106, 36 s; Deut 32, 17; 1 Cor 8, 4; 10, 19). Il demonio, dopo
aver spinto l’uomo a peccare (Gen 3, 5; Sap 2, 24), cerca di farsi adorare sotto
maschere diverse, seducendo gli uomini per mezzo della potenza che Dio gli
lascia per un tempo (2 Tess 2, 9; Apoc 12, 2-8; cfr. Mt 4, 8 s). La sua potenza
agisce in coloro che resistono a Dio (Ef 2, 2); è una potenza di *morte, e
mediante il timore della morte egli asservisce gli uomini (Ebr 2, 14 s). Di
fronte ai falsi dèi, il nome di Jahvè Sabaoth assume un senso nuovo; il vero
*Dio è il Dio degli eserciti, cioè di tutte le potenze dell’universo, eserciti
degli astri (Is 40, 26; Sal 147, 4) ed eserciti degli *angeli (Sal 103, 20 s;
148, 2; Lc 2, 13 s). Egli interverrà per liberare gli uomini.
IV. LA POTENZA DEL SALVATORE E DEL SUO SERVO
1. Il modo in cui l’onnipotente pone termine alla *schiavitù sociale
dei deboli ed all’asservimento spirituale dei peccatori è già rivelato
dall’esodo, *liberazione che è il tipo di tutte le altre, e di cui la Pasqua
conserva per sempre il ricordo in Israele (Es 13, 3). La resistenza del faraone
oppressore è per Jahvè l’occasione per mostrare meglio la sua potenza a tutta la
terra con nuovi prodigi (Es 9, 14 s). Quanto allo strumento di questi prodigi e
della liberazione di Israele, di un uomo cosciente della sua debolezza, il più
*umile degli uomini, *Mosè (Es 4, 10-13; Num 12, 3), Dio fa un profeta senza
uguale (Deut 34, 10 ss). Il popolo liberato resiste anch’esso al suo liberatore;
Dio *castiga coloro che, malgrado tanti prodigi non hanno creduto nella sua
potenza; essi moriranno nel deserto, dopo avervi soggiornato per quarant’anni (Num
14, 22 s). Ma Dio, dietro preghiera di Mosè, non distrugge questo popolo ribelle
per tema che i pagani dubitino della sua potenza (Num 14, 16), o per lo meno
della salvezza che essa apporta (Es 32, 12); perciò la manifesta *perdonando (Num
14, 17 ss).
2. Le vie di Dio rimangono identiche lungo tutta la storia; per
compiere il suo disegno egli suscita i potenti di questo mondo. Quando vuole
castigare il suo popolo con l’esilio, Nabuchodonosor è il suo servo (Ger 25, 9);
e quando la prova è finita, Ciro riceve da lui il suo potere universale per
ordinare il ritorno a Sion (Is 44, 28-45, 4; 2 Cron 36, 22 s); questo nuovo
*esodo è opera dell’onnipotente che dà nuove forze a coloro che sperano in lui (Is
40, 10 s. 29 ss). Per mezzo del suo *spirito, forza divina che i profeti
oppongono alla debolezza dell’uomo che è «*carne» (Is 31, 3; Zac 4, 6), o per
mezzo della sua *parola sempre efficace (Is 55, 11), Dio rende forti gli umili
strumenti che ha scelto. *David, il pastore, ripieno dello spirito per mezzo
dell’unzione regale (1 Sam 16, 13), libera Israele da tutti i suoi nemici (2 Sam
7, 8-11); dalla sua stirpe nascerà il *messia il cui nome sarà «Dio forte», sul
quale riposerà lo spirito di Dio (Is 9, 5 s; 11, 1 s) e che avrà Dio per padre
(2 Sam 7, 14; Sal 89, 27 ss). Geremia, benché inetto a parlare, proclama con una
forza invincibile le parole che la mano di Dio gli pone in bocca (Ger 1, 6-10.
18 s). Lo stesso popolo di Israele, del quale l’esilio sembra aver fatto perire
la speranza, sarà *risuscitato dallo spirito di Dio (Ez 37, 11-14). Salvando
questo popolo, che le nazioni disprezzavano e che era lo schiavo dei tiranni,
popolo che è il suo servo e di cui egli è la forza (Is 49, 3-7), Jahvè si
rivela, di fronte agli *idoli impotenti a salvare, il salvatore unico ed
onnipotente che tutte le nazioni devono adorare (Is 45, 14 s. 20-24).
3. Dal peccato Dio vuole salvare tutte le nazioni; il braccio
di Jahvè realizza questo disegno di salvezza mediante un *servo misterioso, che
muore saturo di sofferenza e di disprezzo (Is 53), ma dalla sua morte la potenza
divina fa uscire la vita delle moltitudini giustificate; essa è una potenza di
risurrezione. Poiché la *morte è la conseguenza del peccato, Dio libererà dalla
morte coloro che libera dal peccato. Il giusto risorgerà per una vita eterna;
questo è l’insegnamento dei sapienti in un tempo in cui i giusti devono morire
per la loro fede (Dan 12, 2 s); la speranza di essere risuscitati dalla potenza
del loro creatore rende forti i perseguitati (2 Mac 7, 99. 14. 23). Al tempo
stabilito avrà termine il potere degli oppressori; allora il popolo dei santi
avrà parte al dominio eterno che sarà dato al *figlio dell’uomo che viene sulle
nubi (Dan 7, 12 ss. 18. 27).
4. Al termine dell’antica alleanza un sapiente, meditando sulla
storia della salvezza, così delinea il ritratto dell’onnipotente che la dirige:
egli ama tutto ciò che ha creato (Sap 11, 24 ss); giusto e pieno di
misericordia, egli fa posto al pentimento e lo suscita (11, 23; 12, 2. 10-18);
protegge i giusti e darà loro la vita eterna, perché essi sono in mano sua ed
egli è il loro Padre (2, 16 ss; 3, 1; 5, 15 s; cfr. Mt 22, 29-32). Tuttavia li
lascia morire agli occhi degli insensati ed in tal modo mette alla prova la loro
speranza, affinché la loro corona sia la ricompensa del loro olocausto (Sap 3,
2-9).
V. LA POTENZA DELLO SPIRITO IN COLORO CHE CREDONO IN CRISTO
1. Di fatto un olocausto suggellerà la nuova alleanza, quello di Gesù,
in cui l’onnipotente si rivela pienamente e per mezzo del quale porta a termine
la sua opera. *Gesù Cristo è la parola onnipotente che si fa carne nel seno di
una umile vergine (Lc 1, 27. 48 s; Gv 1, 14; Ebr 1, 2 s); questa venuta è
l’opera dello Spirito Santo, forza dell’altissimo a cui nulla è impossibile (Lc
1, 35 ss; Mt 1, 20). Figlio dell’uomo, Gesù è *unto con spirito e con potenza
(Atti 10, 38). Lo spirito riposa su di lui e gli è dato senza misura (Lc 3, 22
par.; Gv 1, 32 ss; 3, 34 s; cfr. Is 11, 2; 42, 1; 61, 1). Gesù manifesta la sua
potenza mediante *miracoli che lo accreditano (Atti 2, 22) e che provano non
soltanto che Dio è con lui (Gv 3, 2; 9, 33) e che egli è l’inviato del Padre (5,
36), ma anche che egli è «Dio con noi» (Mt 1, 23).
2. Ora, lungi dall’esercitare la sua potenza per la propria
*gloria, secondo le concezioni di un messianismo temporale (Mt 4, 3-7; Gv 8,
50), Gesù non cerca che la gloria del Padre suo ed il compimento della sua
volontà (Gv 5, 30; 17, 4). Questa *umiltà è la fonte dei suoi poteri. La
creazione gli è sottomessa (Mt 8, 27 par.; 14, 19 ss par.); egli guarisce gli
ammalati e risuscita i morti (Mt 4, 23 s par.; 9, 25 par.); rimette i peccati
(Mt 9, 6 ss par.) e, mediante lo spirito di Dio, scaccia i demoni (Mt 12, 28
par.). Afferma il suo potere di date e di riprendere la propria vita (Gv 10,
18), cioè di sacrificarsi liberamente sulla croce e di risorgere. Infine
annunzia la sua venuta nell’ultimo giorno per esercitare il suo potere di
giudice sovrano (Mc 13, 26 par.; Gv 5, 21-29). «Vedrete il figlio dell’uomo
sedere alla destra della potenza e venire sulle nubi del cielo» (Mt 26, 64
par.). Questa affermazione è fatta dinanzi al sinedrio nel momento in cui la
potenza delle tenebre sembra trionfare (Lc 22, 53). Ma, come aveva detto, «una
volta innalzato» Gesù manifesta chi egli è (Gv 8, 28) e qual è la sua potenza:
depone dal trono le potenze (Col 2, 15) nonché il principe di questo *mondo, ed
attira tutto a sé (Gv 12, 31 s). Per questo manda i suoi *discepoli ad attestare
che egli ha ogni potere in cielo e sulla terra ed a sottomettere tutte le
nazioni, mediante la fede e l’obbedienza, al suo regno spirituale (Mt 28, 18
ss). Affinché essi compiano questa *missione non soltanto egli confermerà la
loro *predicazione mediante miracoli (Mc 16, 20), ma «sarà sempre con essi sino
alla fine dei tempi». Sarà con essi mediante il suo Spirito, forza dall’alto, di
cui promette loro l’invio (Lc 24, 49; Atti 1, 8).
3. Lo Spirito che riempì gli *apostoli il giorno della
Pentecoste (Atti 2, 4) è un dono che fa loro il Cristo risorto e che manifesta
la sua potenza di salvatore (Atti 2, 32-36; 4, 7-12). Quando la loro parola
potente ha convertito i cuori (Atti 2, 37. 43; 4, 4. 33), gli apostoli
esercitano il loro potere di rimettere i peccati (Gv 20, 21 ss) e di dare lo
Spirito (Atti 8, 17). L’espansione della Chiesa conferma la promessa di Gesù ai
suoi discepoli: essi compiono *opere superiori alle sue ed ottengono dal Padre
tutto ciò che gli domandano nel *nome del Figlio suo (Gv 14, 12 ss; 16, 23 s).
Di fatto la fede rende la *preghiera onnipotente (Mc 9, 23; 10, 27; 11, 22 ss).
Paolo fa eco a Gesù insegnando che, per mezzo della *fede, l’uomo si apre alla
potenza di salvezza che è il *vangelo (Rom 1, 16). La fede permette di
«*conoscere Cristo e la potenza della sua risurrezione e la partecipazione alle
sue sofferenze» (Fil 3, 9 s). Gesù crocifisso salva i credenti; per essi, egli è
potenza di Dio (1 Cor 1, 18. 23 s); infatti la debolezza di Dio è più forte
degli uomini, e la sua potenza si dispiega nella debolezza dei suoi testimoni (1
Cor 1, 25; 2 Cor 12, 9); quando questi sono consegnati alla morte a motivo di
Gesù, la vita di Gesù è manifestata in essi (2 Cor 4, 10 ss), che hanno creduto
nella potenza di Dio che ha risuscitato Cristo (Col 2, 12; 2 Cor 13, 4); essi
sono potentemente fortificati dal suo Spirito (Ef 3, 16), il quale fa sì che la
loro parola sia la parola di Dio e ne abbia la potenza (1 Tess 2, 5; 2, 13); in
essi agisce la incommensurabile grandezza della potenza divina che supera ogni
domanda ed ogni pensiero (2 Cor 4, 7; Ef 1, 19 ss; 3, 20).
4. Questa stessa potenza li custodisce per la salvezza che si
rivelerà negli ultimi tempi (1 Piet 1, 5). Dio rende incrollabili coloro che si
umiliano sotto la sua mano onnipotente e che, mediante la fede, resistono al
demonio (1 Piet 5, 5-10). Gli increduli, invece, saranno sedotti da coloro la
cui potenza viene dal demonio (2 Tess 2, 9-12; Apoc 13, 2-7) e che il Signore
distruggerà col soffio della sua bocca nel *giorno della sua venuta (2 Tess 2,
8). In quel giorno sarà distrutta la morte assieme ad ogni potenza nemica (1 Cor
15, 24 ss); con la sua potenza Dio risusciterà i *corpi di coloro nei quali
abita il suo Spirito (1 Cor 6, 14; Rom 8, 11); egli sarà tutto in tutti (1 Cor
15, 28). Nell’Apocalisse si sentono gli eletti cantare il Signore Iddio,
l’onnipotente (gr. Pantokràtor), di cui 1’*agnello condivide il trono e che farà
un universo nuovo «dove non ci sarà più *mare», cioè potenza di disordine (Apoc
21, 1. 5): «Alleluia! Il Signore nostro Dio, l’onnipotente, ha stabilito il suo
*regno!» (Apoc 19, 6). Regno di *amore, perché questo onnipotente è il Padre di
«colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati col suo sangue. A lui
gloria e potenza nei secoli dei secoli. Amen» (Apoc 1, 5 s).
M. F. LACAN
→ autorità - braccio e mano - creazione VT III; NT I, II - destra 1 - Dio VT III
5; NT II 2 - forza - Gesù (nome di) IV - gloria - imposizione delle mani 0; NT 2
- magia 1 - mare - miracolo - monte I 2 - nome VT 1; NT 1 - ombra II - orgoglio
- parola di Dio VT II 2; NT I 1, II 1 - porta VT I - risurrezione NT II - roccia
- sigillo - Spirito di Dio - violenza - vita IV 1 - vittoria - volontà di Dio VT
I 2 a.
→ angeli - ascensione II 2 - astri - cielo - potenza III 2 - riconciliazione II 1.
→ autorità - bestie e Bestia 3 b - diritto VT 1 – potenza.
I poveri, sovente
dimenticati nelle nostre letterature classiche, occupano nella Bibbia un posto
notevole. I1 vocabolario concreto dell’ebraico permette già di evocare la loro
pietosa sfilata: accanto a raš «l’indigente», ecco Dal, il «magro» od il
«debole», ‘ebjôn, il «mendicante» non satollo, ‘anî e ‘anaw (al plurale ‘anawîm),
l’uomo «abbassato» ed afflitto. Ma la «povertà» di cui parla la Bibbia non è
soltanto una condizione economica e sociale; può essere anche una disposizione
interna, un atteggiamento dell’animo; il VT ci rivela così le ricchezze
spirituali della povertà, ed il NT riconosce nei veri poveri gli eredi
privilegiati del regno di Dio.
VECCHIO TESTAMENTO
I. LO SCANDALO DELLA POVERTÀ
Lungi dal considerare spontaneamente la povertà come un ideale spirituale,
Israele vi vedeva piuttosto un male da sopportare, ed anche uno stato
spregevole, nella misura in cui una concezione per molto tempo imperfetta della
*retribuzione divina considerava le *ricchezze materiali come una ricompensa
certa della fedeltà a Dio (cfr. Sal 1, 3; 112, 1.3). Certo, i sapienti non
ignorano l’esistenza dei poveri virtuosi (Prov 19, 1. 22; 28, 6), ma si rendono
conto che la miseria è sovente la conseguenza della pigrizia (Prov 6, 6-11; 10,
4 s) o del disordine (Prov 11, 16; 13, 4. 18; 21, 17), e denunciano severamente
la pigrizia che conduce alla miseria (Prov 6, 6-11; 10, 4 s; 20, 4. 13; 21, 25;
ecc.). D’altra parte, la povertà stessa può divenire occasione di peccato e
l’ideale sembrerebbe risiede in un giusto mezzo, ossia «né povertà, né
ricchezza» (Prov 30, 8 s; cfr. Tob 5, 18 ss).
II. I RIGUARDI DOVUTI AI POVERI
Un altro fatto si impone con non minor evidenza: molti poveri sono
soprattutto le vittime della sorte o della *cupidigia degli uomini, come il
proletariato rurale di cui Giob 24, 2-12 descrive la spaventosa miseria. Questi
diseredati hanno trovato nei profeti i loro difensori qualificati. Sull’esempio
di Amos che «ruggisce» contro i delitti di Israele (Am 2, 6 ss; 4, 1; 5, 11), i
portavoce di Jahvè denunciano senza tregua «la violenza ed il brigantaggio» (Ez
22, 29) da cui il paese è contaminato: frodi spudorate nel commercio (Am 8, 5 s;
Os 12, 8), accaparramento delle terre (Mi 2, 2; Is 5, 8), asservimento dei
piccoli (Ger 34, 8-22; cfr. Neem 5, 1-13), abusi di potere e pervertimento della
stessa giustizia (Am 5, 7; Is 10, 1 s; Ger 22, 13-17). Sarà uno dei compiti del
messia difendere i diritti dei miseri e dei poveri (Is 11, 4; Sal 72, 2 ss. 12
ss). In questo d’altronde i profeti andavano d’accordo con la legge (cfr. Es 20,
15 ss; 22, 21-26; 23, 6); il Deuteronomio in particolare prescrive tutto un
complesso di atteggiamenti caritatevoli e di misure sociali per attenuare la
sofferenza degli indigenti (Deut 15, 1-15; 24, 10-15; 26, 12). Neanche i
sapienti omettono di ricordare i diritti sacri del povero (Prov 14, 21; 17, 5;
19, 17), di cui il Signore è il difensore potente (Prov 22, 22 s; 23, 10 s). E
si sa che l’elemosina è un elemento essenziale della vera pietà biblica (Tob 4,
7-11; Eccli 3, 30 - 4, 6).
III. LA PREGHIERA E L’ANIMO DEI «POVERI DI JAHVÈ»
«Il grido dei poveri» che sale alle orecchie di Dio (cfr. Giob 34, 28) echeggia
sovente nei salmi. È vero che non vi sentiamo soltanto i lamenti degli
indigenti, ma anche la preghiera dei perseguitati, degli sventurati, degli
afflitti; tutti costoro fanno anche essi parte della famiglia dei poveri, ed i
salmi ci rivelano il loro animo comune (Sal 9 - 10; 22; 25; 69). A volte essi
esprimono violentemente le loro aspirazioni ad un domani migliore, in cui le
situazioni saranno invertite (54, 7 ss; 69, 23-30), ma aspettano la loro
salvezza da Jahvè con cui sanno di essere solidali, come il «povero» Geremia che
rimette a lui la sua causa (Ger 20, 12 s). I loro *nemici sono quelli di Dio,
gli *orgogliosi (cfr. Sal 18, 28) e gli *empi (9, 14-19). E la loro miseria è un
titolo al suo amore (cfr. 10, 14). Il povero dei salmi appare così come l’amico
ed il *servo di Jahvè (cfr. 86,1 s), nel quale si rifugia con *fiducia, che
*teme e che *cerca (cfr. 34, 5-11). I traduttori greci del salterio hanno ben
compreso che qui non si tratta della sola miseria materiale: per tradurre ‘anaw,
non si sono serviti di ptochòs, «indigente», oppure di pènes, povero
«bisognoso», ma hanno preferito pràys che evoca l’idea dell’uomo «mite»,
«calmo», anche nella prova. A buon diritto quindi anche noi possiamo spesso
tradurre ‘anawîm con «umili» (Sal 10, 17; 18, 28; 37, 11; cfr. Is 26, 5 s). Di
fatto la loro disposizione fondamentale è l’*umiltà, quella ‘anawah che taluni
testi del VT accostano alla giustizia (Sof 2, 3), al «timore di Dio» (Prov 15,
33; 22, 4) ed alla fede od alla fedeltà (Eccli 45, 4 ebr.; cfr. l, 27; Num 12,
3). Coloro che soffrono e che pregano con simili sentimenti meritano bene il
nome di «poveri di Jahvè» (cfr. Sal 74, 19; 149, 4 s): essi sono l’oggetto del
suo amore benevolo (cfr. Is 49, 13; 66, 2), e costituiscono le primizie del
«popolo umile e modesto» (Sof 3, 12 s), della «Chiesa dei poveri» che il messia
radunerà.
NUOVO TESTAMENTO
I. IL MESSIA DEI POVERI
Iniziando il suo discorso inaugurale con la *beatitudine dei poveri (Mt
5, 3; Lc 6, 20), Gesù vuol fare riconoscere in essi gli eredi privilegiati del
regno che annunzia (cfr. Giac 2, 5). Come cantava Maria, l’umile serva del
Signore (Lc 1, 46-55), ormai è giunta l’ora in cui stanno per realizzarsi le
promesse antiche: «i poveri mangeranno e saranno saziati» (Sal 22, 27), saranno
invitati alla mensa di Dio (cfr. Lc 14, 21). Gesù appare così come il messia dei
poveri, consacrato dall’unzione per portar loro la buona novella (Is 61, 1; Lc
4, 18; cfr. Mt 11, 5). Infatti, sono soprattutto gli umili che sono tenuti da
Gesù (Mt 11, 25; Gv 7, 48 s). D’altronde il messia dei poveri è egli stesso un
povero. Betlemme (Lc 2, 7), Nazaret (Mt 13, 55), la vita pubblica (8, 20), la
croce (27, 35), sono altrettante forme diverse della povertà, abbracciata e
consacrata da Gesù, fino allo spogliamento totale. Ed egli può invitare tutti
coloro che soffrono a venire a lui, perché è «mite ed umile di cuore» (Mt 11,
29: pràys e tapeinòs, cfr. ‘anaw e ‘anî nei salmi). Anche nel suo trionfo della
domenica delle palme egli rimane il re «modesto» annunziato da Zac 9, 9 (= Mt
21, 5). E soprattutto, nella sua passione, egli assume la sofferenza e riprende
la preghiera di tutti i poveri di Jahvè (Sal 22; cfr. Mt 27, 35. 43. 46).
II. LA POVERTÀ SPIRITUALE
Se già nel VT una élite religiosa considerava la povertà come un
atteggiamento spirituale, è normale che lo stesso avvenga per i discepoli di
Gesù, e tale è appunto l’aspetto sottolineato da S. Matteo: «Beati i poveri in
spirito» (5, 3), cioè «coloro che hanno un animo di povero». Gesù esige dai suoi
il distacco interno nei confronti dei beni temporali (sia che li posseggano
oppure ne siano sprovvisti), per essere capaci di desiderare e di ricevere le
vere ricchezze (cfr. Mt 6, 24. 33; 13, 22). Nella prosperità economica, si
rischia considerevolmente di farsi delle illusioni sulla propria indigenza
spirituale (Apoc 3, 17); ad ogni modo, conviene usare di questo *mondo come se
in realtà non se ne usasse, «perché la figura di questo mondo passa» (1 Cor 7,
31). D’altronde i possessi materiali non sono che uno degli oggetti della
rinunzia totale, alla quale bisogna acconsentire, almeno internamente, per
essere discepoli di Gesù (cfr. Lc 14, 26. 33). Ma per abbozzare la fisionomia
completa dei «poveri in spirito», eredi degli ‘anawîm, occorre pure notare la
coscienza che essi hanno della loro miseria personale sul piano religioso, del
loro bisogno dell’aiuto di Dio. Lungi dal manifestare la sufficienza illusoria
del *fariseo fiducioso nella propria *giustizia, essi condividono l’umiltà del
pubblicano della parabola (Lc 18, 9-14). Mediante il sentimento della loro
indigenza e della loro debolezza, essi si avvicinano così ai *bambini, e, come a
questi ultimi, il regno di Dio appartiene loro (cfr. Lc 18, 15 ss; Mt 19,
13-24).
III. LA POVERTÀ EFFETTIVA
L’accento posto dal vangelo sull’aspetto spirituale della povertà non deve far
dimenticare il valore religioso della povertà effettiva, nella misura in cui
essa è segno e mezzo di distacco interiore. Questa povertà materiale è buona
quando è ispirata dalla fiducia filiale in Dio, dal desiderio di seguire Gesù,
dalla generosità nei confronti dei nostri fratelli; essa può permettere di
accogliere con maggior libertà il dono di Dio, e di consacrarsi più
completamente al servizio del suo regno: ecco altrettanti motivi che, tra gli
scrittori del NT, soprattutto S. Luca si è compiaciuto di ricordare (ad es. Lc
12, 32 ss).
1. La povertà volontaria.
- Se Gesù mette in guardia tutti i suoi discepoli contro il pericolo
delle *ricchezze (Mt 6, 19 ss; Lc 8, 14), da coloro che lo vogliono seguire più
da vicino, ed anzitutto dai suoi apostoli, esige che abbraccino la povertà
effettiva (Lc 12, 33; Mt 19, 21. 27 par.). Tuttavia se i missionari della «casa
di Israele» non devono prendere con sé «né oro, né argento, né spiccioli» (Mt
10, 9; cfr. Atti 3, 6), questo si spiega in parte con le condizioni sociali
della Palestina in cui è largamente praticata la ospitalità. Nel mondo
greco-romano, una consegna del genere non potrà più venir applicata alla
lettera, e S. Paolo avrà un bilancio missionario e caritativo (cfr. 2 Cor 8, 20;
11, 8 s; Atti 21, 24; 28, 30); tuttavia anche allora l’apostolo continua ad
annunziare gratuitamente il vangelo (1 Cor 9, 18; cfr. Mt 10, 8), e sa vivere
nella privazione (Fil 4, 11 s). La comunità dei primi cristiani raggruppati a
Gerusalemme attorno agli apostoli si sforzava anch’essa di imitare la loro
povertà, e la Chiesa ha sempre conservato la nostalgia e la pratica di quella
vita apostolica, in cui «nessuno chiamava suo ciò che gli apparteneva» (Atti 4,
32; cfr. 2, 44 s).
2. La paziente sopportazione della povertà.
- Al pari dei poveri «volontari», coloro di cui la povertà effettiva è il
retaggio in conseguenza delle circostanze o della persecuzione, sono anch’essi
beati nel regno di Dio, purché rimangano generosi nella loro indigenza (cfr. Mc
12, 41-44), ed accettino volentieri la loro sorte «in vista di una ricchezza
migliore e stabile» (Ebr 10, 34). Fin d’ora, malgrado la loro povertà materiale,
in realtà sono ricchi grazie alla loro fedeltà nella prova (Apoc 2, 9 s); Luca
ha posto in evidenza i meravigliosi compensi che Dio riserva loro nella vita
futura (Lc 6, 20 s); troveranno presso di lui, come il povero Lazzaro, una
consolazione eterna (16, 19-25).
3. Il servizio cristiano dei poveri.
-Ma la miseria rimane nondimeno una condizione inumana, ed il vangelo
conserva le stesse esigenze di giustizia sociale dei profeti (cfr. Mt 23, 23;
Giac 5, 4). I ricchi hanno quaggiù imperiosi doveri nei confronti dei poveri, e
saranno associati alla loro felicità eterna a condizione di accoglierli
sull’esempio di Dio (Lc 14, 13. 21) e di farsene degli amici con la «ricchezza
iniqua» (16, 9). Più ancora, il servizio dei poveri è ormai una espressione del
nostro amore per Gesù: in essi noi soccorriamo veramente lui, nell’attesa del
suo ritorno glorioso (Mt 25, 34-46; 26, 11). «Se uno... vede un suo *fratello
nel bisogno e gli rifiuta ogni pietà, in che modo l’amore di Dio potrà dimorare
in lui?» (1 Gv 3, 17). Dai profeti a Gesù, la Bibbia si è chinata sulla
sofferenza dei poveri, e soprattutto ce ne ha rivelato il senso. C’è una povertà
spirituale e beata, che è apertura al dono di Dio, nella fede fiduciosa e
nell’*umiltà paziente. Di questa povertà d’animo, la povertà reale rimane
certamente una via privilegiata. Ma il suo principio e la sua fine è la
partecipazione al mistero della «liberalità del nostro Signore Gesù Cristo»:
«per voi egli, ricco qual era, si è fatto povero per arricchirvi mediante la sua
povertà» (2 Cor 8, 9).
L. ROY
→ beatitudine NT II - cupidigia VT 1; NT 1 - David 2 - diritto VT 3; NT -
elemosina - fame e sete VT 2; NT 1.3 - fede - resto VT 4 - ricchezza -
solitudine I 1 - umiltà II - vedove 1.
Il verbo
«predestinare» (prohorìzo) compare solo nel NT, una volta negli Atti (4, 28),
cinque volte in Paolo (Rom 8, 29. 30; 1 Cor 2, 7; Ef 1, 5. 11). Il sostantivo
«predestinazione» non viene usato, a differenza dei termini come «piano,
disegno» (boulè, pròthesis), prescienza (prògnosis), elezione (eklogè): tutto
avviene, come se, nel nostro caso, solo l’azione divina importasse, e non la
nostra teoria. Con tutto rigore, si potrebbe affermare che nella Bibbia non
esiste una dottrina meditata della predestinazione. Paolo tuttavia ha riservato
a questa attività divina una parte importante nella propria comprensione del
*disegno di Dio. Per questo è opportuno esporre il suo pensiero prima di
ricercare i presupposti biblici e le equivalenze giovannee.
1. Predestinati per amore ad essere i suoi figli adottivi.
- A conclusione del suo esposto profetico sul disegno di Dio (Rom 1 - 8), Paolo
vuole rendere certa la speranza dei credenti rivelando loro «la sapienza di Dio,
misteriosa, rimasta nascosta, quella che, fin da prima dei secoli, Dio ha
predestinato per la nostra gloria» (1 Cor 2, 7): «Dio fa concorrere tutto al
bene di coloro che lo amano, di coloro che sono chiamati in base al suo disegno.
Quelli che ha “preconosciuti”, egli li ha “predestinati” ad essere conformi alla
immagine di suo Figlio, affinché egli fosse il primogenito di una moltitudine di
fratelli» (Rom 8, 28 s). Nel disegno globale di Dio, Paolo distingue quindi due
aspetti: a priori, Dio conosce; a priori, destina. Aspetti che non devono venir
confusi.
a) Secondo la mentalità biblica, la *conoscenza consiste non
già in un atto speculativo, ma nel rapporto tra due esseri. Tra Dio e certi
uomini esiste nel pensiero divino un rapporto d’amore, fin da prima della
creazione: essi sono «conosciuti da lui» (1 Cor 8, 3; Gal 4, 9; cfr. Mt 7, 23).
Tra questa prescienza e l’elezione si può stabilire una equivalenza: coloro che
«Dio ha scelto fin da principio» (2 Tess 2, 13) sono «gli eletti secondo la
prescienza di Dio Padre» (1 Piet 1, 1). All’origine della predestinazione, c’è
quindi questa prescienza, questa *elezione.
b) Ora, e questo è il secondo aspetto del disegno di Dio,
l’elezione viene fatta in vista di uno scopo, di una precisa destinazione.
Compiuta a sua volta fin da principio, può anche essere chiamata
«predestinazione». Ma è possibile capirla, risalendo così all’origine, solo
perché ora si conosce la fine dei tempi: il sacrificio redentore è valso la
*riconciliazione con Dio e l’adozione filiale: «Dio ci ha predestinati, secondo
il beneplacito della sua volontà, ad essere suoi figli adottivi, in virtù di
Gesù Cristo» (Ef 1, 5). Questo è il contesto in cui si inquadra la teologia
paolina: benevolenza (Ef 1, 9), *grazia (Rom 11, 5; Ef 1, 6 s; 2, 5 ss),
*misericordia (Rom 11, 30 ss; Tito 3, 5), infine *amore (1 Tess 1, 4; 2 Tess 2,
13; Rom 11, 28; Ef 1, 4). Se quindi essere predestinato significa essere amato
da Dio, non c’è nulla di spaventoso in questo mistero; anzi, l’uomo ha la gioia
di conoscere non soltanto la origine, ma anche la conclusione del disegno di
Dio. La storia religiosa acquista il proprio significato: gli eletti «sono stati
in anticipo preparati per la gloria» (Rom 9, 23).
2. Predestinati nella libertà.
- Paolo in seguito descrive le due tappe temporali del disegno di Dio: «Quelli
che ha predestinati, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche
giustificati; e quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati» (Rom 8,
30). All’atto di predestinazione fanno seguito, nel tempo presente, la
*vocazione concreta e la giustificazione, e nel tempo futuro, la
*glorificazione. Immerso nel mistero di Dio, Paolo esprime la propria assoluta
certezza usando verbi al passato. Lasciamo da parte le sfumature che distinguono
queste due attività ed esaminiamo la situazione in cui ci viene a porre Paolo.
Tutto è puramente opera di Dio: «In Cristo, noi, predestinati secondo il disegno
di colui che opera ogni cosa conforme al consiglio della sua volontà, siamo
stati scelti come sua parte» (Ef 1, 11). Ora, in questo disegno, a che cosa si
riduce la *libertà dell’uomo? Essa sembra esclusa, e Paolo d’altronde dichiara:
«Ma allora, dirai, di che cosa si lamenta ancora Dio? Perché, infine, chi
potrebbe resistere alla sua volontà?» (Rom 9, 19). Il problema, per la verità,
si presentava a Paolo non in funzione degli individui, ma di tutto il popolo di
Israele che rifiutava Cristo. Ed egli, alla fine, lo risolve facendo appello
alla *sapienza misteriosa e insondabile di Dio, di fronte alla quale il credente
deve estasiarsi e tacere. Tuttavia, se Paolo distingue nettamente due frazioni
nell’umanità - gli eletti e gli altri, - li colloca comunque entrambi nel piano
di Dio: mentre gli eletti sono «preparati in anticipo per la gloria» (9, 23) gli
altri sono stati soltanto trovati «pronti per la perdizione» (9, 22). Dio non
predestina alla perdizione. Paolo si colloca quindi in una prospettiva che noi
riusciamo con difficoltà a fare nostra: noi pensiamo agli individui, lui
considera Israele; per lui, le figure della storia sacra, Esaù o il Faraone (Rom
9, 13. 17), sono dei prototipi, la cui salvezza personale non è in causa. Il
problema del rapporto tra le due attività, divina e umana, qui non viene quindi
risolto. Trova tuttavia un abbozzo di soluzione nella serenità con cui Paolo
afferma sia l’una che l’altra senza vedervi contraddizione. Così quando associa
l’indicativo di situazione (col quale afferma uno stato di fatto) all’imperativo
di comportamento (col quale enuncia il dovere di agire): «Voi siete morti in
Cristo, quindi morite!», si pone un problema di linguaggio per noi, ma non per
Paolo, il quale può affermare: «Lavorate con timore e trepidazione alla vostra
*salvezza; è Dio, infatti, che suscita in voi e il volere e l’operare, per
l’esecuzione del suo beneplacito» (Fil 2, 12). «Noi siamo la sua opera, creati
in Cristo Gesù in vista delle buone opere che Dio ha preparato in anticipo per
noi affinché le praticassimo» (Ef 2, 10). Tutto quaggiù avviene quindi come se
la libertà umana consistesse nel realizzare nel tempo quel che tuttavia è
previsto da Dio da tutta l’eternità. Questo è lo schema apocalittico di
*rivelazione che la mentalità contemporanea non confonderebbe con il fatalismo
se riconoscesse in Dio la priorità dell’amore.
3. Alla fonte biblica del pensiero paolino.
- Nel VT si trova già enunciato il fondamento della predestinazione, e cioè
l’attività di Dio, che «pre-vede» tutto e coopera a tutto. Infatti, tutto
proviene dal Signore (Eccli 11, 4); anche la sventura (Am 3, 6; Is 45, 7). Dio
ha da sempre un piano (Is 37, 26), che realizza nel corso della storia (Is 14,
24), in tempi stabiliti (Atti 17, 26. 31). In questo ultimo testo viene
utilizzato il verbo semplice horìzo, che si ritrova a proposito dell’atto
mediante il quale Dio ha costituito Gesù Figlio di Dio (Rom 1, 4) e giudice
sovrano (Atti 10, 42). Non succede nulla che non sia previsto o voluto da Dio
(Atti 4, 28; cfr. Mt 25, 41). Dio ha disposto, preparato tutto in favore dei
suoi eletti (Mt 20, 23; 25, 34). Nessun caso che non sia controllato da Dio (Prov
16, 33), perché «Jahvè fece ogni cosa in vista di un fine» (16, 4). Ma tutte
queste affermazioni riguardano la prescienza e la *provvidenza. Per arrivare
alla predestinazione, occorre qualcosa di più: c’è una credenza che la prepara
da vicino: quella dell’iscrizione nel *libro della vita. Non il libro dei conti
in cui sono registrate le opere buone in vista del *giudizio finale (Dan 7, 10;
Apoc 20, 12), ma il libro preesistente di cui parla il salmista: «Le mie azioni,
i tuoi occhi le vedevano, erano iscritte tutte nel tuo libro; i miei giorni,
scritti e definiti prima che uno solo di essi sorgesse» (Sal 139, 16). Lo si
potrebbe intitolare «libro dei predestinati»: «E gli abitanti della terra, il
cui nome non fu scritto nel libro della vita fin dall’origine del mondo, si
meraviglieranno allo spettacolo della Bestia» (Apoc 17, 8; cfr. 13, 8; Dan 12,
1). Gesù condivide questa convinzione: «Rallegratevi del fatto che i vostri nomi
si trovino scritti nei cieli» (Lc 10, 20). Per raggiungere Paolo, manca una cosa
sola: la salvezza realizzata da Gesù. Facendo accedere alla fine della storia
della salvezza, Gesù consente di risalire alla sua origine e di tracciare con
precisione il pensiero di Dio che, nel suo amore, predestina i suoi eletti ad
essere conformi all’immagine di suo Figlio.
4. Equivalenze giovannee.
- Sarebbe tuttavia sorprendente se il pensiero paolino non trovasse nei
vangeli qualche corrispondenza che l’autorizzasse maggiormente. Non intendiamo
parlare del terreno biblico nel quale si radica il pensiero stesso di Gesù: come
quando evoca il libro dei predestinati (Lc 10, 20) o quando utilizza il
linguaggio della conoscenza per esprimere l’*elezione (Mt 7, 23; 25, 12). In
Giovanni, più esplicitamente, è il Padre che *dona al Figlio i credenti (Gv 10,
29; 17, 2. 6. 9. 24); «Nessuno può venire a me se il Padre che mi ha inviato non
l’attira» (6, 44). Si trova qui impostato il problema della predestinazione
applicata agli individui, e non soltanto al popolo. Il credente è inserito in un
mondo che lo avvolge e lo investe da tutte le parti. Sfugge all’impressione di
fatalismo solo colui che riconosce all’origine del comportamento divino un amore
universale (3, 17; 12, 47).
5. Linguaggio e interpretazione.
- Questo linguaggio biblico, coerente e confortante, è completamente
comprensibile anche ai giorni nostri? Il lettore contemporaneo inciampa
nell’imprecisione dell’ebraico biblico che non riesce a fare una chiara
distinzione tra finalità e conseguenza: dicendo «Dio vuole», l’ebraico può
intendere non una volontà, ma una concessione («lascia fare»). Ma questa nota
grammaticale lascia aperta la porta a interpretazioni arbitrarie e edulcoranti.
Bisogna aver eliminato due difficoltà notevoli. La prima, estrinseca, proviene
dal fatto che noi in pratica non riusciamo a pensare al problema della
predestinazione in termini prima di tutto di popolo e non di individui: per
questo le espressioni dure di Paolo nella lettera ai Romani hanno determinato
tanti errori e a volte provocato la disperazione, inducendo a credersi, secondo
l’infelice frase di S. Agostino, «predestinati alla perdizione eterna». Più in
profondità, dimentichiamo spesso che il linguaggio della Bibbia si avvale, per
esprimere una esperienza religiosa, di categorie spazio-temporali, e presta
quindi a Dio comportamenti umani. Erigere questo linguaggio a dottrina
metafisica, significa eternare ciò che per essenza è temporale. Dire: «Dio
predestina gli eletti a essere suoi figli adottivi», significa usare un
linguaggio antropomorfico: tuttavia non equivale ad affermare che Dio è legato a
categorie le quali, strutturando la condizione umana del linguaggio, tentino di
esprimere il gioco della nostra libertà. La pre-dilezione divina, vista così
attraverso il prima della nostra temporalità, non può mancare di apparire come
una «pre-destinazione» implicante anche il rifiuto e il disconoscimento dei non
eletti: ma non è che un modo di parlare, una trasposizione nello spazio e nel
tempo di una realtà che non vi è sottomessa. In queste condizioni, il prefisso «pre-»,
spesso utilizzato per costruire i termini di questa problematica (cfr.
pre-destinazione, pre-scienza, prevedere, pre-conoscere, predilezione…),
manifesta soltanto lo sforzo dell’uomo per affermare che l’iniziativa non è sua
ma di Dio. Trasposto così in termini personali, il linguaggio temperale trova il
proprio vero senso, quello così ben espresso da Giovanni: «Quanto a noi, amiamo,
poiché lui ci ha amati per primo» (1Gv 4, 19).
X. LÉON-DUFOUR
→ amore – conoscere VT 1 – disegno di Dio NT III 1 – dono 0 – elezione
– grazia II 3 – liberazione-libertà I – libro III – Provvidenza 1 – sapienza VT
III – vocazione – volontà di Dio.