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La figura di
David, come uomo e come re, ha un rilievo tale da rimanere per sempre per
Israele come tipo del Messia che deve nascere dalla sua stirpe. A partire da
David, 1’*alleanza con il popolo passa oramai attraverso il *re, come ricorda
Ben Sira al termine del ritratto che ne delinea (Eccli 47, 2-11). Quindi il
trono di Israele è il trono di David (Is 9, 6; Lc 1, 32); le sue *vittorie
annunziano quella che il *Messia, pieno dello spirito che riposò sul figlio di
Jesse (1 Sam 16, 13; Is 11, 1-9), riporterà sull’ingiustizia. Con la vittoria
della sua risurrezione, Gesù adempirà le promesse fatte a David (Atti 13, 32-37)
e darà alla storia il suo senso (Apoc 5, 5). Come ha fatto il personaggio di
David ad assumere questo posto di elezione nella storia della salvezza?
1. L’eletto di Dio.
- Chiamato da Dio e consacrato mediante l’*unzione (1 Sam 16, 1-13), David è
costantemente il «*benedetto» da Dio, colui che Dio assiste con la sua
*presenza; perché Dio è con lui, egli riesce in tutte le sue imprese (1 Sam 16,
18), nella sua lotta con Golia (17, 45 ss), nelle sue guerre al servizio di Saul
(18, 14 ss) ed in quelle che condurrà come re e liberatore di Israele: «Dovunque
andava, Jahvè gli concedeva la vittoria» (2 Sam 8, 14). Come *Mosè, David,
incaricato di essere il *pastore di Israele (2 Sam 5, 2), eredita le *promesse
fatte ai patriarchi, ed in primo luogo quella di possedere la *terra di Canaan.
Egli è l’artefice di questa presa di possesso con la lotta contro i Filistei,
iniziata al tempo di Saul e proseguita sotto il suo proprio regno (2 Sam 5,
17-25; cfr. 10- 12). La conquista definitiva è coronata dalla occupazione di
*Gerusalemme (2 Sam 5, 6-10), che sarà chiamata «città di David». Essa diventa
la capitale di tutto Israele, attorno alla quale si fa l’*unità delle tribù. E
questo perché l’*arca, introdotta da David, ne fa una nuova *città santa (6,
1-19) e David vi compie le funzioni sacerdotali (6, 17 s). Così «David e tutta
la casa di Israele» non formano che un solo *popolo attorno al loro Dio.
2. L’eroe di Israele.
- David risponde alla sua vocazione con un profondo attaccamento a Dio. La sua
religione è caratterizzata dall’attesa dell’ora di Dio; egli quindi si astiene
dall’attentare alla vita di Saul, anche quando ha l’occasione di sbarazzarsi del
suo persecutore (1 Sam 24; 26). Perfettamente abbandonato alla volontà di Dio, è
pronto ad accettare da parte sua qualsiasi cosa (2 Sam 15, 25 s) e spera che il
Signore voglia trasformare in benedizioni tutte le sventure che è costretto a
subire (16, 10 ss). Rimane l’umile servo, confuso dai privilegi che Dio gli
accorda (2 Sam 7, 18-29), e con ciò è il modello dei «poveri» che, imitando il
suo abbandono in Dio e la sua speranza piena di certezza, prolungano la sua
preghiera nelle lodi e nelle suppliche del Salterio. Tuttavia, le profonde
intuizioni della sua pietà non tolgono nulla al carattere arcaico della sua
religione, sia che si tratti dell’efod utilizzato come strumento divinatorio (1
Sam 23, 9; 30, 7) o della presenza in casa di un terafim (19, 13). Al «cantore
dei cantici di Israele» (2 Sam 23, 1) i leviti attribuiscono, oltre a numerosi
salmi, il progetto del tempio (1 Cron 22; 28), nonché l’organizzazione del culto
(1 Cron 23-25) e dei suoi canti (Neem 12, 24. 36) e inoltre, già al tempo di
Amos, l’invenzione degli strumenti musicali (Am 6, 5). La gloria religiosa di
David non deve far dimenticare l’uomo, che ebbe le sue debolezze e le sue
grandezze: guerriero rude ed anche astuto (1 Sam 27, 10 ss), egli commette colpe
gravi e si dimostra debole con i figli, ancora prima della vecchiaia. La sua
morale è ancora rozza: durante la sua permanenza presso i Filistei, si comporta
come il capo di una banda di briganti (1 Sam 27, 8-12) ed è abbastanza subdolo
perché dopo più di un anno Achish non si sia ancora accorto di nulla (29, 6 s).
Non si possono passare sotto silenzio le sue reazioni spietate dopo l’incendio
di Ziklag (30, 17) e durante la sua lotta contro Moab (2 Sam 8, 2). Infine,
legato dalla parola data che gli impedisce di infierire contro coloro che gli
hanno fatto del male, affida le proprie *vendette postume a Salomone (1 Re 2,
5-9). Ma quale magnanimità nella sua *amicizia fedele per Gionata, nel rispetto
che sempre dimostra verso Saul; taluni particolari rivelano la sua nobiltà
d’animo: rispetto dell’arca (2 Sam 15, 24-29), rispetto della vita dei suoi
soldati (23, 13- 17), generosità (1 Sam 30, 21-25) e perdono (2 Sam 19, 16-24).
Si rivela d’altronde politico accorto; che si conquista simpatie alla corte di
Saul e presso gli anziani di Giuda (1 Sam 30, 26- 31), disapprovando
l’assassinio di Abner (2 Sam 3, 28-37) e vendicando l’uccisione di Ishbaal (4,
9-12).
3. Il Messia, figlio di David.
- Il successo di David avrebbe potuto far credere che le promesse di Dio fossero
realizzate. Una nuova e solenne profezia dà allora nuovo slancio alla speranza
messianica (2 Sam 7, 12-16). A David, che progetta di costruire un *tempio, Dio
risponde di volergli costruire una discendenza eterna: «io ti costruirò una
casa» (7, 27); in ebraico, banah può riferirsi tanto a un edificio di pietra
quanto a una casata di figli, ben. Dio rivolge così lo sguardo di Israele verso
il futuro. Promessa incondizionata, che non distrugge l’*alleanza del Sinai, ma
la conferma concentrandola sul re (7, 24). Ormai Dio, presente in Israele, lo
guida e lo conserva nell’unità mediante la dinastia di David. Il Sal 132 canta
il legame stabilito tra l’arca, simbolo della presenza divina, e il discendente
di David. Si comprende allora l’importanza del problema della successione sul
trono davidico e gli intrighi che essa solleva (cfr. 2 Sam 9 - 20; 1 Re 1).
Meglio ancora si comprende il posto di David negli oracoli profetici (Os 3, 5;
Ger 30, 9; Ez 34, 23 s). Evocare David significa per essi affermare l’amore
geloso di Dio per il suo popolo (Is 9, 6) e la sua fedeltà all’alleanza (Ger 33,
20 ss), «alleanza eterna, fatta delle grazie promesse a David» (Is 55, 3). Di
questa *fedeltà non si può dubitare neppure nel bel mezzo della *prova (Sal 89,
4 s. 20-46). Quando i tempi sono compiuti, Cristo è quindi chiamato «figlio di
David» (Mt 1, 1); questo titolo messianico non era mai stato rifiutato da Gesù,
ma non esprimeva pienamente il mistero della sua persona. Perciò, venendo a
compiere le promesse fatte a David, Gesù proclama di essere più grande di lui: è
il suo *Signore (Mt 22, 42-45). Egli non è soltanto «il servo David», pastore
del popolo di Dio (Ez 34, 23 s), è Dio stesso che viene a pascere ed a salvare
il suo popolo (Ez 34, 15 s), quel Gesù, «rampollo della stirpe di David», di cui
lo Spirito e la sposa attendono ed invocano il ritorno (Apoc 22, 16 s).
R. MOTTE
→ alleanza VT II 1 - casa II 1 - elezione VT 13 c - forza 0 -
Gerusalemme - Gesù Cristo II 1 c - Israele VT 2 a - Melchisedec 2 - messia -
numeri II - preghiera II 1 - promesse II 3 - re - regno VT II - Servo di Dio I -
tempio VT I 2 - unità II - unzione III 2.
→ peccato IV 1 a - perdono - retribuzione.
→ bambino - carne I 3 b - donna VT 3 - forza - malattia-guarigione - potenza IV, V 3 - poveri - responsabilità 1 - vedove 1.
→ legge - parola di Dio II 1 a.
→ dono VT - elemosina VT 2; NT 1 - primizie I 3.
→ feste VT I; NT I - santo VT III 1 - tempio VT.
La Bibbia non si
limita a conoscere la delusione, ma molto spesso la grida. Anche i Greci sono
profondamente sensibili agli insuccessi della vita. Ma se ritornano spesso su
questo destino, lo fanno in un certo senso di sfuggita e pensando soprattutto a
sopportarlo con dignità. Alla Bibbia invece questa forma di discrezione è
estranea; essa sembra compiacersi nel far risuonare le grida di Giobbe o i
sarcasmi dell’Ecclesiaste. Differenza di temperamento e di cultura tra la
moderazione del Greco e la passionalità dell’Ebreo. Soprattutto differenza di
atteggiamento religioso: alla sua fede, infatti, Israele attinge la percezione
acuta del valore della creazione, ma anche della sua precarietà, un senso del
fallimento, doloroso ma mai rassegnato, e l’assoluta certezza di una vittoria
definitiva.
I. VERGOGNA, MENZOGNA E VANITÀ
Nel vocabolario ebraico della delusione, sono particolarmente
accentuate due sfumature della delusione: la vanità dell’oggetto che delude, la
confusione del soggetto che prova la delusione.
1. La menzogna delle cose vane.
- L’Ebreo avverte profondamente il bisogno di solidità, l’orrore per
l’inconsistenza e le apparenze illusorie. Quel che biasima nella *menzogna, è
forse più il suo nulla fondamentale, che non la sua slealtà. Menzogna, vanità,
nulla sono i termini abituali per definire gli esseri deludenti, gli
improduttivi, la «gente di Belial» (la LXX ha trascritto senza tradurre, cfr.
Deut 13, 14). Le immagini più frequenti sono quelle del soffio (hebel, la
«vanità», dell’Ecclesiaste), della polvere (‘afar), del vuoto (rîq).
2. La vergogna d’esser stato confuso.
- In un mondo in cui tutta l’esistenza viene vissuta sotto lo sguardo altrui, la
delusione copre fatalmente la sua vittima di *vergogna: chi ha riposto la
propria *fiducia in chi non se lo meritava, si trova ad essere pubblicamente
confuso. Terribile prova per la *fierezza di un uomo, per la sua necessità di
essere riconosciuto dai suoi pari. Così i sinonimi più correnti per designare la
delusione sono i termini di vergogna e confusione, in particolare i derivati
dalla radice bûš. Noi ci lasciamo sfuggire con troppa facilità questa sfumatura
essenziale; così traduciamo di solito la frase di Paolo: «la speranza non
delude» (Rom 5, 5), mentre sarebbe più opportuna dire «la speranza non provoca
confusione» (in greco: ou kataiskýnei), il che spiega la fierezza dell’apostolo
nell’annunciare il vangelo e la croce.
II. TUTTO È DELUSIONE
Due tipi di esseri sono particolarmente deludenti, in quanto pretendono di
meritare la fiducia degli uomini e di garantirne il destino: le grandi potenze e
i falsi dèi, in altre parole l’Egitto e gli idoli. Sotto brillanti sembianze,
l’Egitto, «Rahab l’oziosa», non è che «vanità e nulla» (Is 30, 7), la sua
possente cavalleria non è che *carne e l’Egiziano è solo un uomo (Is 31, 1 ss;
cfr. Ger 2, 37). E questi cavalli e questi soldati sono ancora degli esseri
reali, ma i falsi dèi non sono nulla, e i loro *idoli, menzogna e impotenza. Per
questo i loro servi e i loro artefici sono votati alla vergogna (Ger 2, 28; Is
44, 9 ss). Ma Qohelet si spinge oltre e generalizza l’esperienza della
delusione: «Sotto il sole... tutto è vanità... vanità delle vanità», ripete (1,
2. 14; ecc.), deluso della vita al punto da mettere quest’affermazione in bocca
a Salomone, il re colmato di tutti i *doni. Qohelet tuttavia non disprezza le
cose di questo mondo; al contrario si aspettava molto da esse; e di qui deriva
la sua radicale amarezza, in cui tuttavia esiste uno spiraglio: saper accettare
da Dio tutto, il male come il *bene (7, 13 s).
III. DIO NON DELUDE
L’uomo è fonte di delusione per l’uomo (Ger 17, 5; Sal 118, 8) ma lo è
anche per Dio. La *vigna che era stata curata con amore non ha prodotto che uva
acerba (Is 5, 4). Gesù che «conosceva quel che c’è nell’uomo» (Gv 2, 25) ha
fatto l’esperienza della delusione (Mc 6, 3 s), vede chiudersi i cuori a mano a
mano che tenta di penetrarvi (Mt 23, 37 s; Gv 12, 37-40) e vede fuggire i
discepoli nel momento in cui si immola per loro (Mc 14, 50). Persino Dio, in
certi momenti, appare deludente. I suoi servi più fedeli sperimentano la
tentazione di credere falliti i loro sforzi e di pensare che Dio li abbia
abbandonati a loro stessi. Elia, quando scopre di non essere migliore dei suoi
padri, desidera morire (1 Re 19, 4). Geremia arriva a dubitare della solidità di
Dio: «Saresti forse per me come un ruscello ingannatore dalle acque deludenti?»
(Ger 15, 18 che fa riscontro a Ger 2, 13; Is 58, 11). Anche Gesù ha fatto
l’esperienza di dove può spingersi l’abbandono di Dio (Mc 15, 34). Affermare che
solo Dio non delude è un passo che deve superare tutte le apparenze; è
un’esperienza della *fede, vissuta spesso nella notte, acquisita a prezzo di
delusioni aspramente sofferte. Questa fondamentale certezza può essere infusa
nell’uomo solo dall’adesione alla *salvezza apportata da Gesù Cristo che,
rimettendo il proprio spirito nelle mani del Padre (Lc 23, 46), rivela la
*fedeltà di un Dio che può apparire assente e indifferente. Se facciamo leva su
questa fede, niente potrà più deluderci (cfr. Rom 8, 31-39), perché Dio è
fedele; e il pegno di questa fedeltà, la garanzia contro ogni delusione è il
dono di suo Figlio, in cui siamo chiamati e custoditi fino al suo avvento (1 Cor
1, 9; 1 Tess 5, 23 s).
J. GUILLET
→ fiducia - menzogna II I - speranza - tristezza - vergogna I 1.
Il volto dei
demoni, esseri spirituali malefici, nella rivelazione si è illuminato solo
lentamente. All’inizio, i testi biblici si sono serviti di taluni elementi
desunti dalle credenze popolari, senza metterli ancora in rapporto con il
mistero di *Satana. Al termine, tutto ha preso un senso nella luce di Cristo,
venuto quaggiù per liberare l’uomo da Satana e dai suoi subalterni.
VECCHIO TESTAMENTO
1. Alle origini della credenza.
- L’Oriente antico dava un volto personale alle mille forze oscure, la
cui presenza è sospettata dietro i mali che assalgono l’uomo. La religione
babilonese aveva una demonologia complicata, e vi si praticavano numerosi
esorcismi per liberare le persone, le cose, i luoghi stregati; questi riti
essenzialmente magici costituivano una parte importante della medicina, poiché
ogni *malattia era attribuita all’azione di uno spirito maligno. II VT, ai suoi
inizi, non nega l’esistenza e l’azione di esseri di tal fatta. Si serve del
folclore che popola le rovine ed i luoghi *deserti di presenze fosche, mescolate
alle bestie selvatiche: satiri villosi (Is 13, 21; 34, 13 LXX), Lilit, demone
delle notti (Is 34, 14)... Riserva loro dei luoghi maledetti come Babilonia (Is
13) od il paese di Edom (Is 34). Il rituale dell’espiazione ordina di
abbandonare al demone Azazel il capro carico dei peccati di Israele (Lev 16,
10). Attorno all’uomo ammalato si avverte pure la presenza di forze malvagie che
lo tormentano. Primitivamente, mali come la peste (Sal 91, 6; Ab 3, 5) o la
febbre (Deut 32, 24; Ab 3, 5) sono considerati come flagelli di Dio, che li
manda agli uomini colpevoli, come manda il suo spirito cattivo su Saul (1 Sam
16, 14 s. 23; 18, 10; 19, 9) e l’*angelo sterminatore sull’Egitto, su
Gerusalemme o sull’esercito assiro (Es 12, 23; 2 Sam 24, 16; 2 Re 19, 35). Ma
dopo l’esilio si attua più chiaramente la divisione tra il mondo angelico e il
mondo diabolico. Il libro di Tobia sa che sono i demoni a tormentare l’uomo (Tob
6, 8) e che gli angeli hanno la missione di combatterli (Tob 8, 3). Tuttavia,
per presentare il peggiore di essi, quello che uccide, l’autore non teme di
ricorrere ancora al folclore persiano dandogli il nome di Asmodeo (Tob 3, 8; 6,
14). Si vede che il VT, pur essendo sicuro dell’esistenza e dell’azione sia
degli spiriti maligni che degli *angeli, per molto tempo non ebbe che un’idea
molto vaga della loro natura e dei loro rapporti con Dio: per parlarne ricorse a
rappresentazioni correnti, piuttosto convenzionali.
2. I demoni divinizzati.
- Ora, per i pagani, era una tentazione costante quella di cercare di
conciliarsi questi spiriti elementari rendendo loro un culto sacrificale, in una
parola, di fame degli dèi. Israele non era al riparo dalla tentazione.
Abbandonando il suo creatore, si rivolgeva anch’esso agli «altri dei» (Deut 13,
3. 7. 14), in altre parole, ai demoni (Deut 32, 17), giungendo fino ad offrire
loro sacrifici umani (Sal 106, 37). Si prostituiva ai satiri (Lev 17, 7), che
frequentavano le sue alture illegali (2 Cron 11, 15). I traduttori greci della
Bibbia hanno sistematizzato questa interpretazione demoniaca dell’idolatria,
identificando formalmente gli dèi pagani con i demoni (Sal 96, 5; Bar 4, 7),
introducendoli persino in contesti dove l’originale ebraico non ne parlava (Sal
91, 6; Is 13, 21; 65, 3). In tal modo il mondo dei demoni diventava un universo
rivale di Dio.
3. L’esercito satanico.
- Nel pensiero del tardo giudaismo questo mondo si organizza in modo più
sistematico. I demoni sono considerati come angeli decaduti, complici di *Satana
e divenuti suoi ausiliari. Per evocate la loro caduta ora si ricorre
all’immagine mitica della *guerra degli *astri (cfr. Is 14, 12) o del
combattimento primordiale tra Jahvè e le *bestie che personificano il *mare, ora
si riprende l’antica tradizione dei figli di Dio innamoratisi delle figlie degli
uomini (Gen 6, 1 ss; cfr. 2 Piet 2, 4), ora li si rappresenta in ribellione
sacrilega contro Dio (cfr. Is 14, 13 s; Ez 28, 2). In ogni modo i demoni sono
considerati come spiriti impuri, caratterizzati dall’orgoglio e dalla lussuria.
Essi tormentano gli uomini e si sforzano di trascinarli al male. Per combatterli
si ricorre agli esorcismi (Tob 6, 8; 8, 2 s; cfr. Mt 12, 27), che non sono più,
come un tempo a Babilonia, di ordine magico, bensì di ordine deprecatorio: si
spera in effetti che Dio reprimerà Satana ed i suoi alleati, se si fa appello
alla potenza del suo *nome (cfr. Zac 3, 2; Giuda 9). Si sa d’altronde che
Michele ed i suoi eserciti celesti sono in lotta perpetua contro di essi e
vengono in aiuto agli uomini (cfr. Dan 10, 13). Nella letteratura apocalittica,
come nelle credenze popolari, il linguaggio utilizzato per rappresentare
simbolicamente l’azione del male nel mondo conosce quindi una considerevole
evoluzione, senza mai giungere a una perfetta coerenza.
NUOVO TESTAMENTO
1. Gesù, vincitore di Satana e dei demoni.
- La vita e l’azione di Gesù si collocano nella prospettiva di questo
duello tra due mondi, la cui posta è in definitiva la salvezza dell’uomo. Gesù
affronta personalmente Satana e riporta su di lui la vittoria (Mt 4, 11 par.; Gv
12, 31). Affronta pure gli spiriti maligni che hanno potere sull’umanità
peccatrice, e li vince nel loro dominio. Tale è il senso di numerosi episodi in
cui sono di scena degli indemoniati: quello della sinagoga di Cafarnao (Mc 1,
23-27 par.) e quello di Gadara (Mc 5, 1-20 par.), la figlia della sirofenicia
(Mc 7, 25-30 par.) ed il ragazzo epilettico (Mc 9, 14-29 par.), l’indemoniato
muto (Mt 12, 22 ss par.) e Maria di Magdala (Lc 8, 2). Per lo più, possessione
diabolica e malattia sono mescolate (cfr. Mt 17, 15. 18); quindi ora si dice che
Gesù guarisce gli indemoniati (Lc 6, 18; 7, 21) ed ora che scaccia i demoni (Mc
1, 34-39). Senza porre in dubbio i casi nettissimi di possessione (Mc 1, 23 s;
5, 6) bisogna tener conto dell’opinione del tempo, che attribuiva direttamente
al demonio fenomeni che oggi rientrano nella psichiatria (Mc 9, 20 ss). Bisogna
soprattutto ricordare che ogni *malattia è un segno della potenza di Satana
sugli uomini (cfr. Lc 13, 11). Affrontando la malattia, Gesù affronta *Satana;
dando la guarigione, trionfa di Satana. I demoni si credevano insediati quaggiù
da padroni; Gesù è venuto a perderli (Mc 1, 24). Dinanzi all’autorità che egli
manifesta nei loro confronti, le folle sono stupefatte (Mt 12, 23; Lc 4, 35 ss).
I suoi nemici l’accusano: «Egli scaccia i demoni in virtù di Beelzebul, principe
dei demoni» (Mc 3, 22 par.); «non sarebbe per caso anch’egli posseduto dal
demonio?» (Mc 3, 30; Gv 7, 20; 8, 48 s. 52; 10, 20 s). Ma Gesù dà la vera
spiegazione: egli scaccia i demoni in virtù dello Spirito di Dio, e ciò prova
che il *regno di Dio è giunto fino agli uomini (Mt 12, 25-28 par.). Satana si
credeva forte, ma è scacciato da uno più forte (Mt 12, 29 par.). Ormai gli
esorcismi si faranno quindi nel *nome di Gesù (Mt 7, 22; Mc 9, 38 s). Mandando
in *missione i suoi discepoli, egli comunica loro il suo potere sui demoni (Mc
6, 7. 13 par.). Di fatto essi constatano che i demoni sono loro soggetti: prova
evidente della caduta di Satana (Lc 10, 17-20). Questo sarà, in tutti i secoli,
uno dei segni che accompagneranno la predicazione del vangelo, unitamente ai
miracoli (Mc 16, 17).
2. Il combattimento della Chiesa.
- Effettivamente le liberazioni degli indemoniati ricompaiono negli
Atti degli Apostoli (8, 7; 19, 11-17). Tuttavia il duello degli inviati di Gesù
con i demoni vi assume pure altre forme: la lotta contro la *magia, le
superstizioni di ogni specie (13, 8 ss; 19, 18 s) e la credenza negli spiriti
divinatori (16, 16); -lotta contro l’idolatria in cui i demoni si fanno adorare
(Apoc 9, 20) ed invitano gli uomini alla loro mensa (1 Cor 10, 20 s); lotta
contro la falsa sapienza (Giac 3, 15), contro le dottrine diaboliche che si
sforzeranno in ogni tempo di ingannare gli uomini (1 Tim 4, 1), contro gli
operatori di falsi prodigi arruolati al servizio della *bestia (Apoc 16, 13 s).
Satana ed i suoi ausiliari agiscono dietro tutti questi fatti umani che si
oppongono al progresso del vangelo. Persino le prove dell’apostolo sono
attribuibili ad un angelo di Satana (2 Cor 12, 7). Ma, grazie allo Spirito
Santo, ora si sa discernere gli spiriti (1 Cor 12, 10) e non ci si lascia più
ingannare dai falsi prodigi del mondo diabolico (cfr. 1 Cor 12, 1 ss).
Impegnata, sull’esempio di Gesù, in una *guerra a morte, la Chiesa conserva
un’invincibile speranza: Satana, già vinto, ha solo più un potere limitato; la
fine dei tempi vedrà la sua disfatta definitiva e quella di tutti i suoi
ausiliari (Apoc 20, 1 ss 7-10).
J. B. BRUNON e P. GRELOT
→ angeli VT 2 - astri 4 - bestie e Bestia 1 - deserto 0 - idoli II 2 -
malattia-guarigione VT I 2; NT I 1 - mare 2.3 potenza III 2 - Satana 0 - spirito
VT 4; NT 1
→ cupidigia - orgoglio 3 - poveri NT III - ricchezza - servire III 0.
→ esilio - prigionia I.
→ tradizione.
Il significato
religioso del deserto ha un diverso orientamento, a seconda che si pensi ad un
luogo geografico oppure ad un’epoca privilegiata della storia della salvezza.
Dal primo punto di vista il deserto è una terra che Dio non ha benedetto;
l’acqua vi è rara, come nel giardino del paradiso prima che piovesse (Gen 2, 5),
la vegetazione minuta, l’abitazione impossibile (Is 6, 11); fare d’un paese un
deserto, significa renderlo simile al caos originario (Ger 2, 6; 4, 20-26), cosa
che meritano i peccati di Israele (Ez 6, 14; Lam 5, 18; Mt 23, 38). In questa
terra sterile abitano *demoni (Lev 16, 10; Lc 8, 29; 11, 24), satiri (Lev 17, 7)
ed altre *bestie malefiche (Is 13, 21; 14, 23; 30, 6; 34, 11- 16; Sof 2, 13 s).
In breve, in questa prospettiva, il deserto, terra *salata, si oppone alla terra
abitata come la *maledizione alla *benedizione. Ora, e questo è il punto di
vista biblico dominante, Dio ha voluto far passare il suo popolo per questa
«terra spaventosa» (Deut 1, 19), per farlo entrare nella terra in cui scorrono
latte e miele. Questo avvenimento trasformerà il simbolismo precedente. Il
deserto, pur conservando sempre il suo carattere di luogo desolato, evoca
innanzitutto un’epoca della storia sacra: la nascita del popolo di Dio. II
simbolismo biblico del deserto non può quindi confondersi con una qualche
mistica della *solitudine o della fuga dalla civiltà; non ha di mira un ritorno
al deserto ideale, ma un passaggio attraverso il tempo del deserto di cui
l’esodo di Israele è la *figura definitiva.
VECCHIO TESTAMENTO
I. IN CAMMINO VERSO LA TERRA PROMESSA
A differenza dei ricordi collegati all’uscita dall’Egitto propriamente detta,
quelli che concernono l’attraversamento del deserto non sono stati idealizzati
che in epoca tarda. Nella loro forma attuale le tradizioni mostrano ad un tempo
che fu un periodo di prova per il popolo e persino di apostasia, ma sempre un
tempo di gloria per il Signore. Tre elementi dominano questi ricordi: il disegno
di Dio, l’infedeltà del popolo, il trionfo di Dio.
1. Il disegno di Dio.
- Una duplice intenzione domina la traversata del deserto. È una *via
scelta espressamente da Dio, pur non essendo la più breve (Es 13, 17), perché
Dio voleva essere la guida del suo popolo (13, 21). Poi, nel deserto del Sinai,
gli Ebrei devono adorare Dio (Es 3, 17 s = 5, 1 ss); di fatto vi ricevono la
*legge e concludono la *alleanza che fa di questi uomini erranti un vero *popolo
di Dio: lo si può persino censire (Num 1, 1 ss). Dio ha quindi voluto che il suo
popolo nascesse nel deserto; tuttavia gli ha promesso una terra, facendo così
del soggiorno nel deserto un’epoca privilegiata, ma provvisoria.
2. L’infedeltà del popolo.
- La via di Dio non aveva nulla che potesse essere paragonato alla buona terra
d’*Egitto, dove non mancavano cibo e sicurezza; era la via della fede pura in
colui che guidava Israele. Ora, fin dalle prime tappe, gli Ebrei mormorano
contro la disposizione del Signore: non c’è sicurezza, non c’è acqua, non c’è
carne. Questo mormorio si ritrova in tutti i racconti (Es 14, 11; 16, 2 s; 17, 2
s; Num 14, 2 ss; 16, 13 s; 20, 4 s; 21, 5), ed è sollevato sia dalla prima che
dalla seconda generazione del deserto. La ragione ne è chiara: si rimpiange la
vita ordinaria; per quanto essa in Egitto fosse penosa, la si preferirebbe a
questa vita straordinaria, affidata alla sola cura di Dio; vale meglio una vita
di schiavi che la morte incombente, il pane e la carne che la *manna insipida.
Il deserto rivela in tal modo il cuore dell’uomo, incapace di trionfare della
*prova cui è sottoposto.
3. Il trionfo della. misericordia divina.
- Ma Dio, se lascia perire nel deserto tutti coloro che si sono
ostinati (cfr. *indurimento) nella loro infedeltà e nella loro mancanza di
fiducia, non abbandona tuttavia il suo disegno, e trae il bene dal male. Al
popolo che mormora dà un cibo ed un’acqua meravigliosi; se deve *castigare i
peccatori, egli offre loro mezzi inattesi di salvezza, come il serpente di
bronzo (Num 21, 9). E questo perché Dio manifesta sempre la sua santità e la sua
gloria (20, 13). Quest’ultima si mostrerà soprattutto quando, con Giosuè, un
vero popolo entrerà nella *terra promessa. Questo trionfo finale permette di
vedere nel deserto non tanto l’epoca dell’infedeltà del popolo, quanto piuttosto
il tempo della fedeltà misericordiosa di Dio, che previene sempre i ribelli e
porta a termine il suo disegno.
II. RETROSPETTIVA SUL TEMPO DEL DESERTO
Insediato nella terra promessa, il popolo l’ha ben presto trasformata in un
luogo di prosperità idolatrica ed empia, tendendo a preferire i doni
dell’alleanza all’alleanza del donatore. Allora il tempo del deserto apparirà
privilegiato ed aureolato dalla gloria divina.
1. Invito alla conversione.
- Mediante il tema della *memoria il Deuteronomio attualizza gli
avvenimenti del deserto (Deut 8, 2 ss. 15-18): tempi meravigliosi della
sollecitudine paterna di Dio; in essi il popolo non è perito, ma è stato messo
alla prova, affinché riconoscesse che l’uomo non vive soltanto di pane, ma di
tutto ciò che esce dalla bocca di Dio. Così pure la sobrietà del culto al tempo
del deserto invita Israele a non accontentarsi di una pietà formalistica (Am 5,
25 = Atti 7, 42). Viceversa, il ricordo delle disobbedienze è un appello alla
conversione ed alla fiducia in Dio solo, oggi almeno si cerchi di non aver più
la cervice dura, e di non tentare Dio (Sal 78, 17 s. 40; 95, 7 ss; Atti 7, 51),
si sappia pazientare al ritmo di Dio (Sal 106, 13 s), e contemplare il trionfo
della misericordia (Neem 9; Sal 78; 106; Ez 20).
2. «Le meraviglie di Dio».
- Anche ricordando queste infedeltà, non si pensava a presentare il
soggiorno nel deserto come un *castigo. Meno ancora ricordando le meraviglie che
contrassegnarono il tempo del fidanzamento di Dio con il suo popolo: è il tempo
idillico del passato in opposizione al tempo presente di Canaan. Così Elia,
andando all’Horeb, non vi va soltanto a cercare un rifugio nel deserto, ma un
ritorno alle fonti (1 Re 19). Poiché i castighi non sono sufficienti a far
tornare la *sposa infedele, Dio la condurrà nel deserto e le parlerà al cuore (Os
2, 16), e sarà nuovamente il tempo del fidanzamento (2, 21 s). Le meraviglie del
passato si abbelliscono nelle memorie: la *manna diventa un cibo (cfr.
*nutrimento) celeste (Sal 78, 24), un *pane dai gusti molteplici (Sap 16, 21).
Ora questi doni sono pure il pegno d’una presenza attuale, perché Dio è fedele.
E un padre amoroso (Os 11), un *pastore (Is 40, 11; 63, 11-14; Sal 78, 52). A
motivo di quest’epoca in cui il popolo visse così vicino a Dio, come non avere
piena fiducia in colui che ci guida e ci nutre (Sal 81, 11)?
3. II deserto ideale.
- Se il tempo del deserto è un tempo ideale, perché non prolungarlo
senza posa? Così i Recabiti vivevano sotto la tenda, per manifestare la loro
riprovazione della civiltà cananea (Ger 35) e i monaci di Qumrân hanno rotto con
il sacerdozio ufficiale di Gerusalemme. Questa mistica della fuga nel deserto ha
la sua grandezza - può anche dare un senso a una situazione di perseguitati (1
Mac 2, 28 ss; Ebr 11, 38) - ma, nella misura in cui si isolasse dall’avvenimento
concreto che l’ha fatta nascere, tenderebbe a degenerare in una evasione
sterile: Dio non ha chiamato Israele a vivere nel deserto, ma ad attraversare il
deserto per vivere nella terra promessa. D’altronde il deserto conserva il suo
valore *figurativo. La salvezza sperata dagli esiliati di Babilonia è concepita
come un nuovo *esodo: il deserto fiorirà sotto i loro passi (Is 32, 15 s; 35, 1
s; 41, 18; 43, 19 s). La salvezza della fine dei tempi in talune apocalissi è
presentata come la trasformazione del deserto in *paradiso; il Messia apparirà
allora nel deserto (cfr. Mt 24, 26; Atti 21, 38; Apoc 12, 6. 14).
NUOVO TESTAMENTO
I. CRISTO ED IL DESERTO
Mentre le comunità esseniche, come quella di Qumrân, predicavano una separazione
dalla *città e si rifugiavano nel deserto, *Giovanni Battista non vuole
consacrare una qualche mistica del deserto. Se vi proclama il suo messaggio, lo
fa per rivivere il tempo privilegiato; e quando l’acqua ha rinnovato i cuori,
rimanda i battezzati al loro lavoro (Lc 3, 10-14). Il deserto non è che
un’occasione per convertirsi in vista del Messia che viene.
1. Cristo nel deserto.
- Gesù ha voluto rivivere le diverse tappe del popolo di Dio. Perciò, come un
tempo gli Ebrei, è spinto dallo Spirito di Dio nel deserto per esservi messo
alla prova (Mt 4, 1- 11 par.). Ma, a differenza dei suoi padri, egli supera la
prova e rimane fedele al Padre suo, preferendo la parola di Dio al pane, la
fiducia al miracolo meraviglioso, il servizio di Dio ad ogni speranza di
dominazione terrena. La prova fallita al tempo dell’esodo trova ora il suo
senso: Gesù è il figlio primogenito nel quale si compie il destino di Israele.
Non è impossibile che il tema del paradiso ritrovato si legga nel racconto di
Marco (1, 12 s).
2. Cristo, nostro deserto.
- Nel corso della sua vita pubblica Gesù ha indubbiamente utilizzato il deserto
come un rifugio contro la folla (Mt 14, 13; Mc 1, 45; 6, 31; Lc 4, 42), propizio
alla preghiera solitaria (Mc 1, 35 par.); ma questi atti non si inseriscono
direttamente nel simbolismo del deserto. Per contro, Gesù si presenta come colui
che nella sua persona realizza i doni meravigliosi di un tempo. È l’acqua viva,
il pane del cielo, la via e la guida, la luce nella notte, il serpente che dà la
vita a tutti coloro che lo guardano per essere salvati; infine è colui nel quale
si realizza la conoscenza intima di Dio, mediante la comunione con la sua carne
e con il suo sangue. In un certo senso si può dire che Cristo è il nostro
deserto: in lui noi abbiamo superato la prova, in lui abbiamo la comunione
perfetta con Dio. Ormai il deserto come luogo e come tempo è realizzato in Gesù;
la figura cede alla realtà.
II. LA CHIESA NEL DESERTO
I simbolismi del deserto continuano a svolgere una funzione nel far comprendere
la condizione della Chiesa, che vive nascosta nel deserto fino al ritorno di
Cristo, il quale porrà termine alla potenza di Satana (Apoc 12, 6. 14). Tuttavia
il simbolo è in rapporto più stretto con il suo sfondo biblico quando Gesù
moltiplica i pani nel deserto per mostrare ai suoi discepoli non che bisogna
vivere nel deserto, ma che un nuovo tempo è inaugurato, in cui si vive
meravigliosamente della parola stessa di Cristo (Mt 14, 13-21 par.). Paolo si
colloca nella stessa prospettiva. Insegna che i fatti verificatisi un tempo
avvennero per nostra istruzione, di noi che siamo giunti alla fine dei *tempi (1
Cor 10, 11). Un tempo gli Ebrei erano stati *battezzati nella *nube e nel *mare;
oggi, battezzati in Cristo, noi siamo nutriti col pane vivo ed abbeverati con
l’acqua dello Spirito che zampilla dalla *roccia; e questa roccia è Cristo.
Nessuna illusione: viviamo ancora nel deserto, ma sacramentalmente. La figura
del deserto rimane quindi indispensabile per comprendere la natura della vita
cristiana. Questa vita rimane sotto il segno della prova, finché non siamo
entrati nel *riposo di Dio (Ebr 4, 1). Perciò, ricordando i fatti di un tempo,
non rendiamo *ostinati (cfr. *indurimento) i nostri cuori; il nostro «oggi» è
sicuro del trionfo, perché siamo «partecipi di Cristo» (3, 14), che rimase
fedele nella prova.
C. THOMAS e X. LÉON-DUFOUR
→ acqua III 1 - città VT 1 - demoni VT 1 - Elia VT 1 - esodo VT 1 - fame e sete
VT 1 a b - incredulità I 1 - manna 1 - monte III 1 - prova-tentazione VT I 1; NT
I - roccia 2 - sale 1 - solitudine II 2
La perfezione
suprema per il buddismo è «uccidere il desiderio». Gli uomini della Bibbia,
anche i più vicini a Dio, quanto appaiono lontani da questo sogno! Al contrario,
la Bibbia è piena del tumulto e del conflitto di tutte le forme del desiderio.
Certo, è ben lontana dall’approvarle tutte, ed i desideri più puri devono
conoscere una purificazione radicale, ma in tal modo prendono tutta la loro
forza e danno tutto il suo valore all’esistenza dell’uomo.
I. IL DESIDERIO DI VIVERE
Alla radice di tutti i desideri dell’uomo c’è la sua indigenza essenziale ed il
suo bisogno fondamentale di possedere la *vita nella *pienezza e nello sviluppo
del suo essere. Questo dato di natura è normale, e Dio lo consacra. La massima
del Siracide: «Non rifiutarti la felicità presente, non lasciar sfuggire nulla
d’un desiderio legittimo» (Eccli 14, 14), non esprime la *sapienza biblica più
alta; tuttavia, se non canonizzata come un ideale, è almeno presupposta come una
reazione normale da Gesù Cristo, il quale, se sacrifica la sua vita, lo fa
appunto perché le sue pecore «abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,
10). II linguaggio della Scrittura conferma questa presenza naturale e questo
valore positivo del desiderio. Molti paragoni evocano i desideri più ardenti:
«Come una cerva anela all’acqua viva» (Sal 42, 2), «come gli occhi di una serva
nelle mani della sua padrona» (123, 2), «più di quanto il guardiano notturno
attende l’aurora» (130, 6), «rendimi il suono della gioia e della festa» (51,
10). Più di una volta i profeti ed il Deuteronomio appoggiano le loro minacce o
le loro promesse sulle aspirazioni permanenti dell’uomo: piantare, costruire,
sposare (Deut 28, 30; 20, 5 ss; Am 5, 1; 9, 14; Is 65, 21). Anche il vegliardo,
a cui Dio ha «fatto vedere tanti mali e miserie», non deve rinunciare ad
attendere che egli venga ancora «a nutrire la sua tarda età ed a consolarlo» (Sal
71, 20 s).
II. I PERVERTITI DEL DESIDERIO
Il desiderio, essendo qualcosa di essenziale e di inestirpabile, può essere per
l’uomo una *tentazione permanente e pericolosa. Eva ha *peccato perché si è
lasciata sedurre dall’*albero vietato, che era «buono da mangiare, una delizia
per gli occhi, piacevole da contemplare» (Gen 3, 6). Avendo ceduto in tal modo
al suo desiderio, la *donna sarà ormai vittima del desiderio che la porta verso
il marito e subirà la legge dell’uomo (3, 16). Nella umanità il peccato è come
un desiderio selvaggio pronto a balzare, che bisogna tenere a bada con tutte le
forze (4, 7). Questo desiderio scatenato è la *cupidigia o concupiscenza,
«concupiscenza della *carne, concupiscenza degli occhi, orgoglio della
*ricchezza» (1 Gv 2, 16; cfr. Giac 1, 14 s) ed il suo regno sull’umanità è il
*mondo, dominio di *Satana. La Bibbia, storia dell’uomo, è piena di questi
desideri che trascinano il peccatore; parola di Dio, essa ne descrive le
conseguenze funeste. Nel deserto Israele, che soffre la *fame, invece di
nutrirsi della *fede nella parola di Dio (Deut 8, 1-5), non pensa che a
rimpiangere le carni dell’Egitto ed a gettarsi sulle quaglie - ed i colpevoli
periscono, vittime della loro cupidigia (Num 11, 4. 34). Cedendo al suo
desiderio, David fa sua Betsabea (2 Sam 11, 2 ss), scatenando una serie di
rovine e di peccati. Achab, per aver ceduto, dietro consiglio di Gezabele, al
suo desiderio ed aver spogliato Naboth della sua vigna, condanna a morte la
propria dinastia (1 Re 21). I due vegliardi desiderano Susanna «fino a perdere
il senno» (Dan 13, 8. 20) e pagano questo peccato con la vita. Ancor più
categoricamente la legge, mirando al *cuore, fonte del peccato, proibisce il
desiderio colpevole: «Non desidererai la casa... la donna... del tuo prossimo» (Es
20, 17). Gesù rivelerà la portata di questa esigenza, non la creerà (Mt 5, 28).
III. LA CONVERSIONE DEL DESIDERIO
La novità del vangelo consiste innanzitutto nell’esplicitare con
assoluta chiarezza ciò che nel VT era ancora implicito: «Ciò che procede dal
cuore, ecco quel che rende l’uomo impuro» (Mt 15, 18); consiste soprattutto nel
proclamare come una certezza la *liberazione dalle concupiscenze che tenevano
l’uomo incatenato. Queste concupiscenze, questo «desiderio della carne, è la
*morte» (Rom 8, 6), ma il cristiano che possiede lo *Spirito di Dio è capace di
seguire il «desiderio dello spirito», di «crocifiggere la carne con le sue
passioni e le sue voglie» (Gal 5, 24; cfr. Rom 6, 12; 13, 14; Ef 4, 22) e di
lasciarsi «condurre dallo Spirito» (Gal 5, 16). Questo «desiderio dello
spirito», liberato da Cristo, era già presente nella *legge, che è «spirituale»
(Rom 7, 14). Tutto il VT è lievitato da un profondo desiderio di Dio. Sotto il
desiderio di acquistare la *sapienza (Prov 5, 19; Eccli 1, 20), sotto la
nostalgia di *Gerusalemme (Sal 137, 5), sotto il desiderio di salire alla città
santa (128, 5) ed al *tempio (122, 1), sotto il desiderio di conoscere la parola
di Dio attraverso tutte le sue forme (119, 20. 131. 174), scorre in profondità
un desiderio che polarizza tutte le energie, che dà la capacità di smascherare
le illusioni e le contraffazioni (cfr. Am 5, 18; Is 58, 2), di superare tutte le
*delusioni, l’unico desiderio di Dio: «Chi ho in cielo se non te? All’infuori di
te, io non desidero nulla sulla terra. La mia carne ed il mio cuore si
consumano, rocca del mio cuore, Dio, mia porzione in eterno» (Sal 73, 25 s; cfr.
42, 2; 63, 2).
IV. DESIDERIO DI COMUNIONE
Se ci è possibile desiderare Dio più di tutto al mondo, lo è in unione al
desiderio di Gesù Cristo. Gesù è pervaso da un desiderio ardente, angoscioso,
che soltanto il suo *battesimo, la sua passione placherà (Lc 12, 49 s), il
desiderio di rendere *gloria al Padre suo (Gv 17, 4) e di mostrare al mondo fino
a che punto lo può amare (14, 30 s). Ma questo desiderio del *Figlio teso verso
il *Padre suo è inseparabile dal desiderio che lo porta verso i suoi e, mentre
andava verso la passione, gli faceva «desiderare ardentemente di mangiare la
*Pasqua» con essi (Lc 22, 15). Questo desiderio divino d’una *comunione con gli
uomini, «io presso di lui ed egli presso di me» (Apoc 3, 20), risveglia nel NT
un’eco profonda. Le lettere paoline in particolare sono piene del desiderio
dell’apostolo per i suoi «fratelli tanto amati e tanto desiderati» (Fil 4, 1),
che egli «desidera tutti nel cuore di Cristo» (1, 8), della sua gioia nel
sentire, attraverso alla testimonianza di Tito, «il desiderio ardente» che di
lui hanno i Corinti (2 Cor 7, 7), frutto certo dell’azione di Dio (7, 11).
Soltanto questo desiderio è capace di bilanciare il desiderio fondamentale di
Paolo, quello di Cristo e, più precisamente, della comunione con lui, «il
desiderio di andarmene e di essere con Cristo» (Fil 1, 23), «di dimorare presso
il Signore» (2 Cor 5, 8). Infatti il grido dell’«uomo di desiderio», il grido
dello «Spirito e della sposa», è: «Vieni!» (Apoc 22, 17). Perché il desiderio
dell’uomo nuovo, battezzato nella morte e nella risurrezione di Cristo, trova
piena estrinsecazione nella speranze di comunione con Dio che percorre tutta la
Bibbia.
P. M. GALOPIN e J. GUILLET
→ beatitudine VT II - cercate - cupidigia - dono - fame e sete - preghiera -
sessualità I 1, III 2 - speranza - vedere VT I.
→ calamità - consolare - solitudine - tristezza.
→ disegno di Dio - predestinare 1 b - responsabilità - retribuzione II 2.
La destra è la
mano destra, simbolo di potenza, oppure il posto alla destra, simbolo di favore.
1. La mano destra.
- Non è soltanto la più abile delle due, ma la più forte, la mano che
tiene la spada. È dunque simbolo della *potenza di Dio che si illustra con le
grandi azioni della sua destra, colpisce con essa il nemico e libera il suo
popolo (Es 15, 6; Sal 20, 7; 21, 9). Dopo la morte, Gesù è stato quindi
«esaltato dalla destra di Dio» (Atti 2, 33), secondo l’annuncio del salmista (Sal
118, 16).
2. Il posto alla destra.
- La mano destra protegge coloro che sono a questo posto; la destra di Dio è il
luogo dove i suoi amici gusteranno le delizie eterne (Sal 16, 11), il luogo dove
il Messia siederà in trono vicino a lui (Sal 110, 1). Perciò, secondo un’altra
traduzione di Atti 2, 33, Gesù è stato «esaltato alla destra di Dio». Diventa lo
strumento della mano possente di Dio, il «figlio della destra» (Sal 80, 16. 18),
come il re di Israele che Dio confermava con la propria *forza (cfr. Gen 35, 18:
Beniamino = figlio della destra). Gesù conferma e realizza queste promesse
dell’antica alleanza. Quando verrà a giudicare come re tutto l’universo, il
figlio dell’uomo porrà alla sua destra i *benedetti del Padre suo (Mi 25,
31-34). Egli stesso afferma che lo si vedrà sedere alla destra della potenza,
secondo l’annuncio del Sal 110 (Mt 26, 64); e, prima del momento in cui i suoi
nemici lo vedranno apparire a questo posto come giudice, Stefano ve lo vede in
piedi come un *testimone (Atti 7, 55).
J. B. BRUNON
→ braccio e mano - Gesù Cristo II 1 a - potenza.
→ ministero - servire III 2.
→ amore - comunione - parola di Dio - silenzio - solitudine II 1.
→ dispersione.
→ Satana.
→ insegnare NT II 3.
Il digiuno
consiste nel privarsi di qualsiasi cibo e bevanda, eventualmente dei rapporti
*sessuali, per uno o più giorni, da un tramonto del sole all’altro. Gli
occidentali, oggigiorno, anche cristiani, in pratica non lo apprezzano. Se pure
apprezzano la moderazione nel bere e nel mangiare, il digiuno appare loro
pericoloso per la salute, e non ne vedono l’utilità spirituale. Questo
atteggiamento è l’opposto di quello che gli storici delle religioni incontrano
un po’ dovunque; per motivi di ascetismo, di purificazione, di lutto, di
supplica, il digiuno occupa un posto importante nei riti religiosi.
Nell’Islamismo, ad esempio, è il mezzo per eccellenza per riconoscere la
trascendenza divina. La Bibbia, che qui sta alla base dell’atteggiamento della
Chiesa, su questo punto va d’accordo con tutte le altre correnti religiose. Ma
precisa il significato del digiuno e ne regola la pratica; con la *preghiera e
l’*elemosina, essa ne fa uno degli atti essenziali che esprimono dinanzi a Dio
l’*umiltà, la *speranza e l’amore dell’uomo.
1. Senso del digiuno.
- Poiché l’uomo è anima e corpo, non servirebbe a nulla immaginare una
religione puramente spirituale: per impegnarsi, 1’*anima ha bisogno degli atti e
degli atteggiamenti del *corpo. Il digiuno, sempre accompagnato da una preghiera
supplice, serve ad esprimere l’umiltà dinanzi a Dio: digiunare (Lev 16, 31)
equivale ad «umiliare la propria anima» (16, 29). Il digiuno non è quindi una
prodezza ascetica; non mira a procurare qualche stato di esaltazione psicologica
o religiosa. Simili utilizzazioni sono attestate nella storia delle religioni.
Ma nel contesto biblico, quando l’uomo si astiene dal mangiare per tutto un
giorno (Giud 20, 26; 2 Sam 12, 16 s; Giona 3, 7) mentre considera il cibo come
un dono di Dio (Deut 8, 3), questa privazione è un atto religioso di cui bisogna
comprendere esattamente i motivi; lo stesso per l’astensione dai rapporti
coniugali. Ci si rivolge al Signore (Dan 9, 3; Esd 8, 21) in un atteggiamento di
dipendenza e di abbandono totale: prima di affrontare un compito difficile (Giud
20, 26; Est 4, 16), od ancora per implorare il perdono di una colpa (1 Re 21,
27), sollecitare una guarigione (2 Sam 12, 16. 22), lamentarsi in occasione di
una sepoltura (1 Sam 31, 13; 2 Sam 1, 2), dopo una *vedovanza (Giudit 8, 5; Lc
2, 27) o in seguito a una sventura nazionale (1 Sam 7, 6; 2 Sam 1, 12; Bar 1, 5;
Zac 8, 19), per ottenere la cessazione di una calamità (Gioe 2, 12-17; Giudit 4,
9-13), per aprirsi alla luce divina (Dan 10, 12), per attendere la grazia
necessaria al compimento di una missione (Atti 13, 2 s), per prepararsi
all’incontro con Dio (Es 34, 28; Dan 9, 3). Le occasioni ed i motivi sono vari.
Ma in tutti i casi si tratta di porsi con fede in un atteggiamento di *umiltà
per accogliere la azione di Dio e mettersi alla sua presenza. Questa intenzione
profonda svela il senso dei quaranta giorni trascorsi senza cibo da Mosè (Es 34,
28) e da Elia (1 Re 19, 8). Quanto ai quaranta giorni di Gesù nel *deserto, che
si modellano su questo duplice esempio, essi non hanno per scopo di aprirlo allo
Spirito di Dio, perché ne è ripieno (Lc 4, 1); se lo Spirito lo spinge a questo
digiuno, lo fa perché inauguri la sua *missione messianica con un atto di
abbandono fiducioso nel Padre suo (Mt 4, 14).
2. Pratica del digiuno.
- La liturgia giudaica conosceva un «grande digiuno» nel giorno dell’espiazione
(cfr. Atti 27, 9); la sua pratica era una condizione di appartenenza al popolo
di Dio (Lev 23, 29). C’erano pure altri digiuni collettivi nei giorni
anniversari delle sventure nazionali. Inoltre i Giudei pii digiunavano per
divozione personale (Lc 2, 37); così i discepoli di Giovanni Battista ed i
Farisei (Mc 2, 18), taluni dei quali digiunavano due volte la settimana (Lc 18,
12). Con ciò si cercava di soddisfare uno degli elementi della *giustizia
definita dalla legge e dai profeti. Se Gesù non prescrive nulla del genere ai
suoi discepoli (Mc 2, 18), non è perché disprezzi questa giustizia oppure voglia
abolirla; ma viene a *compierla; e perciò vieta di ostentarla ed invita, su
taluni punti, a superarla (Mt 5, 17. 20; 6, 1). Gesù insiste maggiormente sul
distacco nei confronti delle ricchezze (Mt 19, 21), sulla continenza volontaria
(Mt 19, 12) e soprattutto sulla rinuncia a se stessi per portare la croce (Mt
10, 38-39). Di fatto la pratica del digiuno non è esente da taluni pericoli:
pericolo di formalismo, già denunciato dai profeti (Am 5, 21; Ger 14, 12);
pericolo di orgoglio e di ostentazione, se si digiuna «per essere visti dagli
uomini» (Mt 6, 16). Per piacere a Dio, il vero digiuno deve essere unito
all’amore del prossimo ed implicare una ricerca della vera giustizia (Is 58,
2-11); esso non è separabile né dall’elemosina, né dalla preghiera. Infine,
bisogna digiunare per amore di Dio (Zac 7, 5). Gesù quindi invita a farlo con
una perfetta discrezione: noto a Dio solo, questo digiuno sarà la pura
espressione della speranza in lui, un digiuno umile che aprirà il cuore alla
giustizia interiore, opera del Padre che vede ed agisce nel segreto (Mt 6, 17
s). In materia di digiuno la Chiesa apostolica conservò le usanze del giudaismo,
compiute nello spirito definito da Gesù. Gli Atti degli Apostoli menzionano
celebrazioni cultuali implicanti digiuno e preghiera (Atti 13, 2 ss; 14, 23).
Durante il suo massacrante lavoro apostolico, Paolo non si accontenta di
soffrire la fame e la sete quando lo esigono le circostanze; vi aggiunge
ripetuti digiuni (2 Cor 6, 5; 11, 27). La Chiesa è rimasta fedele a questa
tradizione, cercando con la pratica del digiuno di mettere i fedeli in un
atteggiamento di apertura totale alla grazia del Signore, in attesa del suo
ritorno. Infatti, se la prima venuta di Cristo ha posto fine all’attesa di
Israele, il tempo che consegue alla sua risurrezione non è quello della gioia
totale in cui gli atti di penitenza sarebbero fuori posto. Difendendo, contro i
farisei, i suoi discepoli che non digiunavano, Gesù stesso ha detto: «Possono
forse digiunare gli amici dello sposo, finché lo sposo è con essi? Verranno
giorni in cui lo sposo sarà loro tolto, ed allora in quei giorni digiuneranno»
(Mc 2, 19 s par.). In attesa che lo sposo ritorni a noi, il digiuno penitenziale
ha il suo posto nelle pratiche della Chiesa.
R. GIRARD
→ elemosina NT 1 - fame e sete VT 2 - nutrimento III - penitenza-conversione VT
I 2 - profumo 1 – sepoltura.
1. Il
diluvio antico.
- Il ricordo di una inondazione catastrofica, che risale ad un passato
lontanissimo, fu conservato ed ingrandito da leggende sumero-babilonesi di date
diverse. Alla luce della fede monoteistica la tradizione biblica fece una
cernita tra i materiali di questa eredità popolare e li permeò di un
insegnamento morale e religioso. Ciò che era attribuito al capriccio degli dèi
gelosi appare ormai come la giusta opera del Dio unico; l’idea di disastro fa
posto a quella di epurazione in vista d’una *salvezza, rappresentata dall’arca
liberatrice; al di là delle forze irresponsabili spicca un *giudizio divino che
colpisce il peccatore e fa del giusto il seme di una nuova umanità. L’avventura
di *Noè cessa così di essere un episodio accidentale; riassume e simboleggia
tutta la storia di Israele e la storia stessa dell’umanità. Noè solo è detto
giusto (Gen 7, 1), ma, come *Adamo, rappresenta tutti i suoi e li salva con sé (Gen
7, l. 7. 13). Mediante questa *elezione gratuita Dio si riserva un piccolo
*resto, i superstiti che saranno il ceppo di un nuovo popolo. Se il cuore
dell’uomo salvato è ancora incline al peccato, Dio ormai si dichiara paziente:
la sua *misericordia si oppone al *castigo puramente vendicativo ed apre la via
alla *conversione (Gen 8, 15-22). Il giudizio mediante le *acque finisce così in
una *alleanza che assicura la fedeltà di Dio non soltanto alla famiglia di Noè,
ma all’intera umanità (Gen 9, 1-17).
2. Figura dell’avvenire.
- La teologia profetica ha riconosciuto nel diluvio, come nella liberazione per
mezzo delle acque del Mar Rosso al tempo dell’*esodo, il tipo stesso dei giudizi
salvifici di Dio. II ritorno dall’esilio del *resto, che sarà il seme d’un nuovo
popolo, non appare solamente come un nuovo esodo, ma come la ripresa dell’opera
di Noè all’uscita dall’arca: «In un amore eterno io ho misericordia di te, dice
Dio; mi è successo come al tempo di Noè, quando ho giurato che le acque di Noè
non avrebbero più sommerso la terra» (Is 54, 7 ss). L’idea di un giudizio
salutare è evocata dai sapienti: «Noè fu trovato perfetto e giusto, al tempo
dell’ira egli fu il rampollo; grazie a lui un resto rimase sulla terra allorché
si produsse il diluvio; alleanze eterne furono stabilite con lui» (Eccli 44, 17
s; cfr. Sap 10, 4 s; 14, 6). Le immagini messianiche del rampollo e del resto
fanno già di Noè la *figura di Gesù Cristo, che un giorno sarà il principio di
una nuova *creazione.
3. Il diluvio dei nuovi tempi.
- Per annunziare il giudizio escatologico Gesù evoca il diluvio (Mt 24,
37 ss). Questo giudizio d’altronde è anticipato quaggiù. Difatti Cristo, come un
nuovo Noè, discese nelle grandi *acque della *morte e ne uscì vincitore con una
moltitudine di superstiti. Coloro che si immergono nelle acque del *battesimo,
ne escono salvi e configurati al Cristo risorto (1 Piet 3, 18-21). Se dunque il
diluvio prefigura il battesimo, l’arca liberatrice può apparire agli occhi dei
Padri come la figura della *Chiesa che galleggia sulle acque di un mondo
peccatore e raccoglie tutti coloro «che vogliono salvarsi da questa generazione
perversa» (Atti 2, 40). Tuttavia il giudizio finale che minaccia gli empi non è
ancora giunto. Come nei giorni del diluvio, questa dilazione manifesta la
misericordia paziente di Dio; il giudizio escatologico è sospeso, in attesa che
la comunità messianica realizzi la sua pienezza (cfr. 2 Piet 2, 5. 9; 3, 8 s).
Attraverso le immagini apocalittiche del suo tempo, l’autore della seconda
lettera di Pietro distingue tre tappe nella storia della salvezza: il mondo
antico che fu giudicato mediante l’acqua, il mondo presente che perirà per il
fuoco, il mondo futuro con i suoi *cieli nuovi e la sua *terra nuova (2 Piet 3,
5 ss. 11 ss). L’antica alleanza con Noè si realizzerà così pienamente in un
ordine nuovo, in cui l’opera creatrice di Dio sarà riuscita a far vivere in
armonia l’uomo e l’universo purificati.
L. SZABÒ
→ acqua II 3 - battesimo I 1 - calamità 0 - castighi - Noè.
→ memoria 2.3 - ubriachezza 2.
→ rimanere.
La Bibbia non
contiene un trattato su Dio, non si pone a distanza come per descrivere un
oggetto, non ci invita a parlare di Dio, ma ad ascoltarlo parlare ed a
rispondergli confessando la sua gloria e servendolo. A condizione di rimanere
nell’obbedienza e nel ringraziamento, è possibile formulare ciò che Dio dice di
se stesso nella Bibbia. Dio non parla di sé allo stesso modo nel VT e nel NT,
quando si volge a noi mediante i suoi profeti e mediante il Figlio suo (Ebr 1, 1
s). Più che su qualunque altro oggetto, la distinzione tra il VT e il NT si
impone qui in modo rigoroso, perché «nessuno mai ha visto Dio; soltanto il
Figlio unico che è nel seno del Padre lo ha fatto conoscere» (Gv 1, 18). Come
bisogna rigettare l’opposizione eretica tra il Dio vendicativo del VT ed il Dio
buono del NT, così bisogna tener fermo che *Gesù Cristo solo ci rivela il
segreto dell’unico Dio dei due testamenti.
VECCHIO TESTAMENTO
I. DIO È PRIMO
Fin «dall’inizio» (Gen 1, 1; Gv 1, 1), Dio esiste e la sua esistenza si
impone come un fatto iniziale, che non ha bisogno di alcuna spiegazione. Dio non
ha né origine, né divenire; il VT ignora le teogonie che, nelle religioni
dell’Oriente antico, spiegano la costruzione del mondo con la genesi degli dèi.
Poiché egli solo è «il primo e l’ultimo» (Is 41, 4; 44, 6; 48, 12), il mondo
tutto inteso è opera sua, sua *creazione. Essendo il primo, Dio non ha bisogno
di presentarsi, si impone allo spirito dell’uomo per il solo fatto di essere
Dio. Non si suppone mai una scoperta di Dio, un cammino progressivo dell’uomo
che termina con l’affermazione della sua esistenza. Conoscerlo, significa essere
conosciuto (cfr. Am 3, 2) e scoprirlo alla fonte della propria esistenza;
fuggirlo, significa ancora sentirsi perseguitato dal suo sguardo (Gen 3, 10; Sal
139, 7). Poiché Dio è il primo, dal momento che si fa conoscere, la sua
personalità, le sue reazioni, i suoi disegni sono nettamente dichiarati. Per
poco che si sappia di lui, fin dal momento in cui lo si scopre, si sa che Dio
vuole qualche cosa di preciso e sa esattamente dove va e quel che fa. Questa
anteriorità assoluta di Dio è espressa nelle tradizioni del Pentateuco in due
modi complementari. La tradizione detta jahvista mette in scena Jahvè fin
dall’inizio del mondo e, ben prima dell’episodio del roveto ardente, lo mostra
in atto di perseguire il suo unico *disegno. Le tradizioni elohiste sottolineano
invece la novità che la rivelazione del *nome divino a Mosè apporta, ma notano
nello stesso tempo che, sotto vocaboli diversi, che sono quasi sempre epiteti
del nome divino El, Dio si era già fatto conoscere. Di fatto Mosè non può
riconoscere Jahvè come il vero Dio se non conosce già, oscuramente ma
nettamente, Dio. Questa identità del Dio della ragione e del Dio della
*rivelazione, questa priorità di Dio, presente allo spirito dell’uomo non appena
si risveglia, è caratterizzata in tutta la Bibbia dalla identificazione
immediata e costante tra Jahvè ed Elohim, tra il Dio che si rivela ad Israele ed
il Dio che le *nazioni possono nominare. Perciò Jahvè, tutte le volte che si
rivela presentandosi, si nomina e si definisce pronunziando il nome di El/Elohim,
con tutto ciò che esso evoca: «il Dio del tuo padre» (Es 3, 6), «il Dio dei
vostri padri» (Es 3, 15), «il vostro Dio» (Es 6, 7), «Dio di misericordia e di
pietà» (Es 34, 6), «il tuo Dio» (Is 41, 10; 43, 3), o semplicemente «Dio» (1 Re
18, 21. 36 s). Tra il nome di Dio e quello di Jahvè si stabilisce una relazione
viva, una dialettica: per potersi rivelare come Jahvè, il Dio di Israele si pone
come Dio, ma, rivelandosi come Jahvè, dice in modo assolutamente nuovo chi è Dio
e ciò che è.
II. EL, ELOHIM, JAHVÈ
Nella pratica, El è l’equivalente arcaico e poetico di Elohim; come
Elohim, come la nostra parola Dio, El è ad un tempo nome comune, che designa la
divinità in genere, e nome proprio, che designa la persona unica e definita che
è Dio. Elohim è un plurale; non un plurale di maestà - l’ebraico lo ignora, - e
neppure sopravvivenza politeistica, inverosimile nella mentalità ebraica su un
punto così sensibile; ma probabilmente traccia di una concezione semitica
comune, che vede il divino come una pluralità di forze.
1. El.
- El è conosciuto e adorato fuori di Israele. Come nome comune designa la
divinità in quasi tutto il mondo semitico; come nome proprio è quello di un
grande dio che pare sia stato dio supremo nel settore occidentale di questo
mondo, particolarmente in Fenicia e in Canaan. El fu, fin dalle origini
semitiche, un dio comune, supremo ed unico, la cui religione, pura ma fragile,
sarebbe stata più tardi eclissata da un politeismo più seducente e corrotto? Fu
piuttosto il dio capo e guida dei diversi clan semiti, dio unico per ciascun
clan, ma non in grado di far prevalere la sua unicità quando si scontrava con
altri gruppi, declassato poi ad una delle figure del pantheon pagano? Questa
storia è oscura, ma il fatto certo è che i patriarchi sotto diversi epiteti, El
‘Eljôn (Gen 14, 22), El Roj (16, 13), El Šaddaj (17, 1; 35, 11; 48, 3), El
Bethel (35, 7), El ‘Olam (21, 33), chiamano il loro Dio El, e che
particolarmente nel caso di El ‘Eljôn, il dio di Melchisedech, re di Salem,
questo El è presentato come identico al Dio di Abramo (14, 20 ss). Questi fatti
non mostrano soltanto che il Dio di Israele è il «giudice di tutta la terra»
(18, 25), ma anche che è suscettibile di essere riconosciuto ed effettivamente
adorato come il vero Dio persin fuori del popolo eletto. Tuttavia questo
riconoscimento è eccezionale; nella maggioranza dei casi gli dèi delle nazioni
non sono dèi (Ger 2, 11; 2 Re 19, 18). El/Elohim praticamente non è riconociuto
come il vero Dio che rivelandosi al suo popolo sotto il nome di Jahvè. La
personalità unica di Jahvè dà al volto divino, sempre più o meno sbiadito e
costantemente sfigurato dai diversi paganesimi, una consistenza ed una vita che
si impongono.
2. *Jahvè.
- In Jahvè Dio rivela ciò che egli è e ciò che egli fa, il suo nome e la sua
azione . La sua azione è meravigliosa, inaudita, e il suo nome misterioso.
Mentre le manifestazioni di El ai patriarchi avvengono in paesi familiari, sotto
forme semplici e note, Jahvè si rivela a Mosè nella cornice selvaggia del
*deserto e nella miseria dell’esilio, sotto la figura terribile del *fuoco (Es
3, 1-15). La rivelazione complementare di Es 33, 18, 23; 34, 1-7 non è meno
terrificante. Tuttavia questo Dio dalla santità consumante è un Dio di fedeltà e
di salvezza. Egli si ricorda di Abramo e dei suoi discendenti (3, 6), è attento
alla miseria degli Ebrei in Egitto (3, 7), deciso a liberarli (3, 8) e a fare la
loro felicità. Il nome di Jahvè, sotto il quale si manifesta, risponde all’opera
che persegue. Certamente questo nome racchiude un *mistero; dice di per sé
qualcosa di inaccessibile: «lo sono chi sono» (3, 14); nessuno lo può contenere,
e neppure penetrare. Ma dice pure qualcosa di positivo, una *presenza
straordinariamente attiva e attenta, una *potenza invulnerabile e liberatrice,
una promessa inviolabile: «Io sono».
III. DIO PARLA DI SÉ
Jahvè è l’eco, ripetuta dagli uomini in terza persona, della
*rivelazione fatta da Dio in prima persona: hejeh, «Io sono». Questo nome, che
dice tutto, Dio stesso lo commenta costantemente con le diverse formule che dà
di se stesso.
1. Dio vivente.
- La formula «Io sono vivente» in bocca a Dio è forse una creazione
tardiva di Ezechiele; in ogni caso è l’eco di una formula antichissima e
popolarissima della fede di Israele: «Jahvè è vivente» (Giud 8, 19; 1 Re 17,
1...). Essa esprime bene l’impressione che ha l’uomo dinanzi a Jahvè, quella di
una presenza straordinariamente attiva, di una spontaneità immediata e totale
«che non si stanca né si affanna» (Is 40, 28), «che non dorme né sonnecchia» (Sal
121, 4), che reagisce istantaneamente non appena si toccano i suoi (1 Sam 17,
26. 36; Os 2, 1; Dan 6, 21). Il suo linguaggio all’Horeb, nell’istante in cui
egli rivela il suo nome, rende bene questa intensità di *vita, questa attenzione
alla sua opera: «Io ho visto... ho prestato orecchio... conosco... sono
deciso... ti mando» (Es 3, 7-10); 1’«Io sono», che queste esplosioni preparano,
non può essere meno dinamico di esse.
2. Dio santo.
- «Io giuro per la mia santità» (Am 4, 2), «Io sono il santo» (Os 11, 9). Questa
vitalità irresistibile e non di meno tutta interiore, questo ardore che divora e
nello stesso tempo fa vivere, è la *santità. Dio è santo (Is 6, 3), il suo nome
è santo (Am 2, 7; Lev 20, 3; Is 57, 15...) e lo splendore della sua santità
santifica il suo popolo (Es 19, 6). La sua santità apre dinanzi a Dio un abisso
invalicabile per ogni creatura; nessuna può sostenere la sua vicinanza, il
firmamento vacilla, le *montagne si liquefanno (Giud 5, 4 s; Es 19, 16...) ed
ogni *carne trema, non soltanto l’uomo peccatore che si vede perduto, ma persino
i serafini di fiamma, indegni di comparire dinanzi a Dio (Is 6, 2).
3. «Io sono un Dio geloso» (Es 20, 5).
- Lo *zelo geloso di Dio è un altro aspetto della sua intensità interiore. È la
passione ch’egli porta in tutto quel che fa ed in tutto quel che tocca. Egli non
può sopportare che una mano estranea venga a profanare tutto ciò che gli sta a
cuore, tutto ciò che la sua attenzione «santifica» e rende sacro. Non può
soffrire che nessuna delle sue imprese fallisca (cfr. Es 32, 12; Ez 36, 22...),
non può «cedere la sua gloria a nessuno» (Is 48, 11). Quando i profeti scoprono
che questa passione di Dio per la sua opera è quella di uno *sposo, il tema
assume un’intensità e un’interiorità nuove. La gelosia divina è *ira terribile e
nello stesso tempo vulnerabile tenerezza.
4. «Non avrai altro Dio all’infuori di me» (Es 20, 3).
La gelosia di Dio ha come oggetto essenziale «gli altri dèi.». Il
monoteismo israelitico non è il frutto né di una riflessione metafisica, né di
una integrazione politica, né di una evoluzione religiosa; è un’affermazione
della fede, ed in Israele è antico come la fede, cioè come la certezza della sua
*elezione, di essere stato, tra tutti i popoli, scelto da un Dio al quale tutti
i popoli appartengono. Questo monoteismo della fede ha potuto per molto tempo
conciliarsi con rappresentazioni che implicavano l’esistenza di «altri dèi», ad
es. di Chemosh in Moab (Giud 11, 23 s), o l’impossibilità di adorare Jahvè fuori
delle frontiere della «sua eredità» (1 Sam 26, 19; 2 Re 5, 17). Ma fin dalle
origini Jahvè non può sopportare presenze competitrici e tutta la storia di
Israele svolge le sue *vittorie sui suoi rivali, gli dèi d’Egitto, i Baal di
Canaan, le divinità imperiali di Assur e di Babilonia, fino al trionfo
definitivo che fa apparire chiaro il nulla dei falsi dèi. Trionfo che è
acquistato a volte per mezzo dei miracoli, ma che è in permanenza quello della
fede. Geremia, che annunzia la rovina totale di Giuda e di Gerusalemme, nota col
tono di una semplice osservazione che gli dèi delle nazioni «non sono neppure
dèi» (Ger 2, 11), ma «degli inesistenti» (5, 7). In pieno esilio, dinanzi agli
splendori della *idolatria, di mezzo ad un popolo vinto e disonorato prorompono
le affermazioni definitive: «Prima di me non fu formato alcun dio e non ve ne
sarà dopo di me; io, io sono Jahvè, non c’è altro salvatore all’infuori di me» (Is
43, 10 s...). Il ricordo dell’Horeb appare evidente, e la continuità spirituale
tra testi così profondamente diversi è significativa: Jahvè è il solo Dio perché
è il solo capace di salvare, «il primo e l’ultimo», sempre presente, sempre
attento. Se l’idolatria lo colpisce «mortalmente», si è perché mette in dubbio
la sua capacità e la sua volontà di *salvezza, perché nega che egli sia sempre
presente ed attivo, che sia Jahvè.
5. «Io sono Dio e non uomo» (Os 11, 9).
- Dio è assolutamente diverso dall’uomo; è *spirito, mentre l’uomo è
*carne (cfr. Is 31, 3), fragile e perituro come l’erba. (Is 40, 7 s). Questa
differenza è così radicale che l’uomo l’interpreta sempre in modo falso. Nella
*potenza di Dio vede la *forza efficace, ma non la *fedeltà del cuore (cfr. Num
23, 19), nella sua *santità non vede che distanza invalicabile, senza sospettare
che essa è nello stesso tempo vicinanza e tenerezza: «In mezzo a te io sono il
santo e non amo distruggere» (Os 11, 9). La trascendenza incomprensibile di Dio
fa sì che egli è nello stesso tempo «l’altissimo» nella sua «*dimora (cfr.
*rimanere) alta e santa», e colui «che abita con l’uomo contrito ed umiliato» (Is
57, 15). Egli è l’onnipotente ed il Dio dei poveri, fa risuonare la sua voce
nello strepito dell’uragano (Es 19, 18 ss) e nel mormorio della brezza (1 Re 19,
12), è invisibile e neppure Mosè ha visto la sua *faccia (Es 33, 23), ma,
facendo appello, per rivelarsi, ai riflessi del cuore umano, apre il suo proprio
cuore; vieta ogni sua rappresentazione, ogni *immagine di cui l’uomo farebbe un
*idolo adorando l’opera delle sue mani, ma si offre alla nostra immaginazione
sotto i tratti più concreti; egli è «il completamento diverso» che sfida tutti i
paragoni (Is 40, 25), ma sta di casa dovunque e non è per noi un estraneo; le
sue reazioni ed il suo modo di comportarsi si traducono con i nostri atti più
familiari «egli plasma» con le sue mani l’argilla che sarà l’uomo (Gen 2, 7),
chiude dietro Noè la porta dell’arca (Gen 7, 16) per essere sicuro che nessuno
dei suoi abitanti si perda; ha lo slancio trionfante del guerriero (cfr.
*guerra) (Es 15, 3...) e la sollecitudine del *pastore per i suoi animali (Ez
34, 16); tiene l’universo nelle mani, ed ha per il minuscolo Israele
l’attaccamento del vignaiolo per la sua *vigna (Is 5, 1-7), la tenerezza del
padre (Os 11, 1) e della madre (Is 49, 15), la passione dell’uomo che ama (Os 2,
16 s). Gli antropomorfismi possono essere ingenui, ma esprimono sempre in modo
profondo un tratto essenziale del vero Dio: se ha creato l’uomo a sua *immagine,
è capace di rivelarsi attraverso reazioni di uomo. Senza genealogia, senza
sposa, senza sesso, se egli è diverso da noi, ciò non vuol dire che sia meno
uomo di noi, ma, al contrario, è in perfezione l’ideale che noi sogniamo
dell’uomo: «Dio non è un uomo per mentire, né un figlio d’uomo per pentirsi» (Num
23, 19). Sempre Dio ci supera, e sempre nella direzione in cui meno ce
l’aspetteremmo.
IV. I NOMI DATI DALL’UOMO A DIO
Il Dio del VT si rivela infine nel comportamento di coloro che lo conoscono e
nei nomi che essi gli danno. A prima vista si crede di poter distinguere i
titoli ufficiali, usati nel culto comunitario, e gli epiteti creati dalla pietà
personale. Di fatto gli stessi epiteti si ritrovano, con le stesse risonanze,
nella preghiera collettiva e nella preghiera individuale. Dio è tanto «la
*roccia di Israele» (Gen 49, 24; 2 Sam 23, 3...) quanto «la mia roccia» (Sal 18,
3 s; 144, 1) o semplicemente «roccia» (Sal 18, 32), «mio scudo» (Sal 18, 3; 144,
2) e «nostro scudo» (Sal 84, 10; 89, 19), «il *pastore del suo popolo» (Mi 7,
14...) e «il mio pastore» (Sal 23, 1). Segno che l’incontro con Dio è personale
e vivo. Questi epiteti sono sorprendentemente semplici, desunti dalle realtà
familiari, dalla vita quotidiana. La Bibbia ignora le interminabili litanie
d’Egitto o di Babilonia, i titoli che si moltiplicano attorno alle divinità
pagane. Il Dio di Israele è infinitamente grande, ma è sempre alla portata della
mano e della voce; egli è l’altissimo (‘Eljôn), l’eterno (‘Olam), il santo (Qadoš),
ma nello stesso tempo «il Dio che mi vede» (‘El Roj, Gen 16, 13). Quasi tutti i
suoi nomi lo definiscono per mezzo della sua relazione con i suoi: «il terrore
di Isacco» (Gen 31, 42. 53), «il forte di Giacobbe» (49, 24), il Dio di Abramo,
di Isacco e di Giacobbe (Es 3, 6), il Dio di Israele, il nostro Dio, il mio Dio,
il mio signore. Anche l’epiteto «il santo», che a rigore lo separa da ogni
carne, diventa sulle sue labbra «il santo di Israele» (Is 1, 4...) e di questa
santità fa qualcosa che appartiene al popolo di Dio. In questo possesso
reciproco appare il mistero dell’alleanza, e l’annunzio della relazione che
unisce al suo Figlio unico il Dio del nostro Signore *Gesù Cristo.
NUOVO TESTAMENTO
I. IN GESÙ CRISTO, L’ACCESSO A DIO
In Gesù, Dio si è rivelato in modo definitivo e totale: avendoci donato
il suo proprio Figlio, non ha più nulla da riservare a se stesso e non può più
che donare (cfr. Rom 8, 32). La certezza fondamentale della Chiesa, la scoperta
che illumina tutto il NT è che, con la vita, la morte e la risurrezione di Gesù,
Dio ha compiuto il suo atto supremo ed ogni uomo può oramai avere accesso a lui.
Questo atto unico e definitivo può prendere nomi diversi, secondo le
prospettive. Le formule più arcaiche proclamano semplicemente: «Questo Gesù
crocifisso... Dio lo ha fatto Signore e Cristo... la promessa è per voi, per i
vostri figli e per i lontani» (Atti 2, 36-39), «per mezzo suo ravvedimento e
remissione dei peccati» (Atti 5, 31). Queste espressioni sembrano modeste, ma,
benché meno esplicite, hanno già una portata così ampia come le formule più
piene di Paolo sul «*mistero di Dio, che è Cristo» (Col 1, 27; 2, 2), «nel quale
abbiamo... accesso al Padre» (Ef 2, 18; 3, 12), oppure quelle di Giovanni: «Dio,
nessuno l’ha mai visto; il *Figlio unico che è nel seno di Dio lo ha fatto
conoscere» (Gv 1, 18). Fin dal primo giorno la fede cristiana sa che sul *figlio
dell’uomo si sono aperti i cieli, dimora di Dio (Atti 7, 56; Gv 1, 51; cfr. Mc
1, 10). Sotto forme varie e nomi diversi, «rivelazione della *giustizia di Dio»
(Rom 3, 21), «*riconciliazione» (Rom 5, 11; Ef 2, 16), «riflesso sui nostri
volti della *gloria di Dio» (2 Cor 3, 18), «conoscenza di Dio» (Gv 17, 3), il
fondo dell’esperienza cristiana è identico: Dio è alla nostra portata; con una
dimostrazione inaudita di potenza e di amore, nella persona di Cristo egli si
offre a chi vuole accoglierlo. È quindi tutt’uno aderire a Gesù Cristo nella
*fede e *conoscere il vero Dio: «La vita eterna è di… conoscere il solo vero Dio
ed il [suo] inviato, Gesù Cristo» (Gv 17, 3). Dinanzi al fatto di Gesù Cristo
l’uomo che accede alla fede, sia proveniente dal giudaismo o dal paganesimo, sia
formato dalla ragione o dalla tradizione di Israele, scopre il vero volto e la
presenza vivente di Dio.
II. IN GESÙ CRISTO, RIVELAZIONE DEL VERO DIO
1. L’idolatria.
- Posto da Paolo di fronte al vangelo (Rom 1, 16 s), l’idolatra vi scopre in
Cristo il vero volto di Dio e quello del suo proprio peccato. Il vangelo di
Cristo smaschera nello stesso tempo il pervertimento della sapienza pagana che
«sostituisce la gloria del Dio incorruttibile con l’immagine di un essere
perituro» (Rom 1, 23), la sorgente di questo pervertimento, «la preferenza data
alla creatura sul creatore» (1, 25), «il rifiuto di rendergli gloria» (1, 21),
ed il suo termine fatale, la degradazione dell’uomo e la morte (1, 32).
«Rinunziando agli *idoli... per aspettare» Gesù Cristo, il pagano scopre «il Dio
vivo e vero» (1 Tess 1, 9); ritrova sulla *faccia di Cristo la *gloria di Dio (2
Cor 4, 6) di cui era privo (Rom 3, 23).
2. Il pagano e la scoperta di Cristo.
Per il pagano che *cerca Dio a tastoni (Atti 17, 27), e rimane capace di
raggiungere Dio mediante la sapienza (1 Cor 1, 21; Rom 1, 20), la scoperta che
fa in Cristo non è meno nuova ed il cambiamento meno profondo. Nel Dio di Gesù
Cristo egli ritrova certamente la «natura» divina, l’essere eterno,
inalterabile, onnipotente, onnisciente, infinitamente buono e desiderabile; ma
questi attributi non hanno più la luce uguale e lontana della evidenza
metafisica, bensì lo splendore folgorante e misterioso delle iniziative,
mediante le quali Dio ha manifestato la sua *grazia e rivolto a noi la sua
*faccia (cfr. Num 6, 25). La sua onniscienza diventa lo sguardo personale che ci
segue nel segreto (Mt 6, 4 ss) e scruta il fondo dei cuori (Lc 16, 15); la sua
onnipotenza è la sua capacità di «suscitare da queste pietre dei figli ad
Abramo» (Mt 3, 9), «di chiamare all’esistenza il nulla» (Rom 4, 17), sia che si
tratti di far sorgere la creazione, di far nascere un figlio ad Abramo o di
risuscitare dai morti il Signore Gesù (Rom 4, 24); la sua eternità è la fedeltà
della sua *parola e la saldezza della sua *promessa, è «il regno che Dio prepara
ai suoi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25, 34); la sua bontà è la
meraviglia inaudita che «Dio ci abbia *amati per primo» (1 Gv 4, 10. 19) quando
noi eravamo suoi nemici (Rom 5, 10). Alla *conoscenza naturale di Dio che in
definitiva, per quanto reale, non è che una conoscenza più profonda di questo
mondo, la rivelazione di Gesù Cristo sostituisce la presenza immediata,
l’abbraccio personale del Dio vivente. Infatti conoscere Dio è essere da lui
conosciuto (Gal 4, 9).
3. Il giudeo che attendeva Dio, lo conosceva già.
Nella elezione Dio gli aveva fatto sentire la sua *vocazione; nell’*alleanza si
era assunto l’onere della sua esistenza; per mezzo dei suoi *profeti gli aveva
rivolto realmente la parola (Ebr 1, 1); dinanzi a lui Dio era un essere vivente
che lo chiamava al dialogo. Ma il VT non può dire fin dove debba giungere questo
dialogo, fino a qual impegno da parte di Dio, a quale risposta nell’uomo.
Sussiste una distanza tra il Signore ed i suoi servi più fedeli. Dio è un «Dio
di tenerezza e di pietà» (Es 34, 6), ha la passione dello sposo e la tenerezza
di un padre, ma, dietro queste immagini che, pur avendo di che nutrire
indefinitamente i nostri sogni, ci dissimulano ancora la realtà, quale segreto
Dio ci riserva? Il segreto è rivelato in Gesù Cristo. Dinanzi a lui si compie un
*giudizio, la divisione dei cuori. Coloro che rifiutano di credere in Gesù hanno
un bel dire del Padre suo: «È il nostro Dio»; non lo conoscono e non
proferiscono che menzogna (Gv 8, 54 s; cfr. 8, 19). Coloro che credono non sono
più fermati da alcun segreto, o meglio, sono entrati nel segreto, nel mistero
impenetrabile di Dio, sono di casa in questo mistero, sentono il Figlio che lo
confida loro: «Tutto ciò che ho inteso dal Padre mio, ve l’ho fatto conoscere» (Gv
15, 15). Non più figure, non più parabole: Gesù parla del Padre apertamente (16,
25). Non più questioni da porgli (16, 23), non più inquietudini (14, 1): i
discepoli «hanno visto il Padre» (14, 7).
4. Dio è amore.
- Questo è il segreto (1 Gv 4, 8. 16), al quale non si accede se non
attraverso Gesù Cristo, «riconoscendo» in lui «l’amore che Dio ha per noi» (4,
16). Il VT aveva potuto presentire che l’*amore, essendo il grande comandamento
(Deut 6, 5; Mt 22, 37) ed il valore supremo (Cant 8, 6 s), doveva essere la
definizione più esatta di Dio (cfr. Es 34, 6). Ma si trattava ancora di un
linguaggio creato dall’uomo, di immagini da trasporre. In Gesù Cristo, Dio
stesso ci dà la prova decisiva, esente da ogni equivoco, che l’evento al quale è
sospeso il destino del mondo è un atto del suo amore. Consegnando alla morte per
noi «il suo Figlio diletto» (Mc 1, 11; 12, 6), Dio ci ha dimostrato (Rom 5, 8)
che il suo atteggiamento definitivo verso di noi è di «amare il mondo» (Gv 3,
16) e che, con questo atto supremo e irrevocabile, ci ama dello stesso amore con
cui ama il suo Figlio unico, e ci rende capaci di amarlo dell’amore che gli
porta il Figlio suo, ci fa dono dell’amore che unisce il Padre ed il Figlio e
che è il loro Spirito Santo.
III. LA GLORIA DI DIO SUL VOLTO DI GESÙ CRISTO
La certezza cristiana di essere ammessi al segreto stesso di Dio non
poggia su una deduzione; il ragionamento la può esplicitare: «Egli, che ha
sacrificato il suo Figlio unico, come non ci darà tutto?» (Rom 8, 32), ma la sua
forza non viene dalla nostra logica, bensì dalla rivelazione assoluta costituita
per noi, uomini viventi nella carne, dalla presenza del Verbo vivente nella
carne. In Cristo è realmente apparso l’amore di Dio per l’uomo» (Tito 3, 4).
Colui che «nessuno ha mai visto» (Gv 1, 18), Gesú non ce 1’ha soltanto descritto
e dipinto, non ce n’ha dato soltanto una giusta idea. «Fulgore della gloria di
Dio, impronta della sua sostanza» (Ebr 1, 3), egli ce l’ha fatto *vedere e reso
come visibile: «chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14, 9). Non si tratta
soltanto di una riproduzione, sia pure perfetta, di un duplicato identico
all’originale. Essendo il Figlio unico, essendo nel *Padre e possedendo in sé il
Padre (14, 40), Gesù non può dire una parola, compiere un atto, senza volgersi
al Padre, senza ricevere da lui il suo impulso ed orientare su di lui tutta la
sua azione (5, 19 s. 30). Poiché non può far nulla senza guardare al Padre, non
può dire quel che è senza riferirsi al Padre (Mt 11, 27). Alla fonte di tutto
ciò che egli fa, di tutto ciò che è, c’è la presenza e l’amore del Padre suo;
qui sta il segreto della sua personalità, della *gloria che sfavilla sul suo
volto (2 Cor 4, 6) e contrassegna tutti i suoi atti.
IV. IL DIO DEL NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO
Il Dio di Gesù Cristo è il Padre suo; e Gesù, quando si rivolge a lui,
lo fa con la familiarità e lo slancio del figlio: «Abba». Ma è pure il suo Dio,
perché il Padre, possedendo la divinità senza riceverla da nessun altro, la dona
tutta intera al *Figlio che genera da tutta l’eternità ed allo Spirito Santo nel
quale entrambi si uniscono. Così Gesù ci rivela l’identità del *Padre e di Dio,
del mistero divino e del mistero trinitario. Per tre volte Paolo ripete la
formula che esprime questa rivelazione: «il Dio e Padre del nostro Signore Gesù
Cristo» (Rom 15, 6; 2 Cor 11, 31; Ef 1, 3). Cristo ci rivela la Trinità divina
per la sola via che, se osiamo dirlo, ci sia accessibile, quella a cui Dio ci ha
predestinati creandoci a sua *immagine, della dipendenza filiale. Il Figlio,
essendo dinanzi al Padre l’esemplare perfetto della creatura dinanzi a Dio, ci
rivela nel Padre la figura perfetta del Dio che si fa conoscere alla retta
sapienza, e che si è rivelato ad Israele. Il Dio di Gesù Cristo possiede in
pienezza e con una originalità che l’uomo non potrebbe immaginare, i tratti che
rivelava di se stesso nel VT. Per Gesù egli è, come non lo è per nessuno di noi,
«il primo e l’ultimo», colui dal quale Cristo viene ed al quale ritorna, colui
che spiega tutto e dal cui tutto discende, colui la cui volontà deve compiersi
ad ogni costo e che è sempre sufficiente. Egli è il santo, il solo buono, il
solo Signore. È l’unico presso il quale nulla conta; e Gesù per mostrare ciò che
vale, «affinché il mondo sappia che [egli] ama il Padre [suo]» (Gv 14, 31),
sacrifica tutti gli splendori della creazione ed affronta la potenza di Satana,
l’orrore della croce. Egli è il Dio vivente, sempre attivo, attento a tutte le
sue creature, appassionato per i suoi figli, ed il suo ardore divora Gesù,
finché non ha rimesso il regno al Padre suo (Lc 12, 50).
V. DIO È SPIRITO
Questo incontro del Padre e del Figlio avviene nello *Spirito Santo. Nello
Spirito Gesù Cristo sente il Padre che gli dice: «Tu sei il mio Figlio» e riceve
la sua gioia (Mc l, 10). Nello Spirito egli fa risalire al Padre la gioia
d’essere il Figlio (Lc 10, 21 s). Come non può unirsi al Padre se non nello
Spirito, Gesù Cristo non può neppure rivelare il Padre senza rivelare nello
stesso tempo lo Spirito Santo. Rivelando che lo Spirito è una persona divina,
Gesù Cristo rivela pure nello stesso tempo che «Dio è spirito» (Gv 4, 24), e
quel che ciò significa. Se il Padre ed il Figlio si uniscono nello Spirito, è
perché non si uniscono per godere l’uno dell’altro nel possesso, ma nel *dono; è
perché la loro unione è un dono, e produce un dono. Ma se lo Spirito che è dono
*suggella in tal modo l’unione del Padre e del Figlio, è perché nella loro
essenza essi sono dono di se stessi, perché la loro comune essenza è di donarsi,
di esistere nell’altro. Ora questa potenza di vita, di comunicazione e di
libertà è lo *spirito. Dio è spirito, e ciò vuol dire ch’egli è nello stesso
tempo onnipotenza e onnidisponibilità, sovrana affermazione di se stesso e
totale distacco, vuol dire che, prendendo possesso delle sue creature, le fa
esistere in tutta la loro originalità. È ben altro che non essere fatto di
materia; è sfuggire a tutte le barriere, a tutti i ripiegamenti, è essere
eternamente e ad ogni istante forza nuova ed intatta di vita e di comunione.
J. GUILLET
→ adorazione - amore I NT 4 - angeli VT 1 - beatitudine VT I - braccio
e mano 1 - castighi 3 - cielo Il, III - creazione VT 1; NT I - culto - disegno
di Dio - faccia 3.4 - fedeltà 0; VT 1 - figlio di Dio - Gesù Cristo II 1 d -
gloria III - idoli immagine - Jahvè - lode I - luce e tenebre I 2.3 - madre II 1
- misericordia VT I; NT 1 2 - nome - padri e Padre III, IV, V, VI - potenza -
presenza di Dio - Provvidenza - regno - rivelazione VT II 2; NT I 1 c, II 1 b,
III 1 b - roccia 1 - santo - sapienza VT III; NT I 2 - Signore - Spirito di Dio
- sposo-sposa - uomo - verità VT 1 - vita 1, III 1.2.
Il diritto
comporta due poli, uno collettivo e l’altro individuale. È l’ordine che presiede
al complesso dei rapporti umani nell’ambito di una comunità, e nel medesimo
tempo il riconoscimento di determinate possibilità assicurato ad ogni individuo.
Ogni comunità possiede il proprio diritto, caratterizzato dal modo con cui
definisce e garantisce i diritti personali dei suoi membri. La comunità di
Israele non soltanto possiede il proprio diritto, ma ne è fiera e lo considera
uno dei favori più preziosi che abbia ricevuto da Dio (Deut 4, 6 ss).
VECCHIO TESTAMENTO
Senza rivestire esattamente tutti i significati del nostro termine diritto,
l’ebraico mišpat risponde abbastanza bene ai suoi tratti fondamentali.
1. Il diritto imposto dall’*autorità.
- Il mišpat è la decisione promulgata da colui che ha potere di
pronunciare il *giudizio, cioè il detentore riconosciuto dell’autorità. Al
plurale, la parola è spesso associata a tutte quelle che designano gli ordini, i
comandi, le prescrizioni, i decreti..., in un linguaggio giuridico preoccupato
di precisare le diverse forme del potere. Per via del tutto naturale, questo
vocabolario diventa quello della *legge di Dio, dal momento che in virtù
dell’alleanza tutta l’esistenza di Israele si trova ad essere sotto il controllo
della *volontà divina. In pratica, i mišpatîm dati da Dio al suo popolo
costituiscono il diritto di Israele, diritto che si può definire sacro, perché
esprime la volontà del Dio santo, ma che nello stesso tempo oltrepassa in ogni
punto la sfera sacrale, la zona specificamente cultuale, per investire l’intera
esistenza.
2. Diritto e *giustizia.
- Questa onnipresenza della volontà divina nel diritto di Israele non
appariva eccezionale nell’Oriente antico. Ma quel che costituiva la fierezza del
popolo e recava il marchio del vero Dio, è il fatto che nessuna delle grandi
nazioni regnanti sul mondo aveva ricevuto dai suoi dèi un diritto giusto come
quello di Jahvè (Deut 4, 6 ss). Attraverso tutta la Bibbia, l’associazione
diritto e giustizia sottolinea un’esigenza permanente della coscienza. È il tema
della predicazione dei profeti (Am 5, 7. 24;. 6, 12 ...; Is 5, 7. 16 ...; Ger 4,
2; 9, 23 ...); dell’insegnamento dei sapienti (Prov 2, 9); è una delle
caratteristiche fondamentali della speranza messianica (Is 1, 27; 11, 5; 28,
17...). Ora, il primo a realizzare questo ideale è Dio stesso (Sal 19, 10; 89,
15; 119, 7...). «Colui che fissa il diritto di tutta la terra non può violare il
diritto» (Gen 18, 25).
3. Il diritto del povero.
- Il binomio diritto giustizia ci appare naturale. Che cosa sarebbe un
diritto che disprezzasse la giustizia? Una giustizia che non garantisse il
diritto? Ma la forza e l’originalità di questo binomio nella Bibbia derivano dal
carattere concreto e personale che vi rivestono il diritto e la giustizia. La
giustizia non consiste nel rispettare una norma, per perfetta che possa essere,
e neppure soltanto nel garantire l’uguaglianza delle possibilità e nel trattare
ciascuno secondo i suoi meriti. Deve mettere in luce le necessità vere di
ciascuno, l’attenzione esatta che gli occorre per trovare il suo posto tra gli
uomini. Quest’esigenza essenziale, più necessaria del pane, è ciò che
costituisce il fondamento del diritto, e la giustizia manca al proprio compito
fintantoché non ha risposto a questo appello. Questo diritto riguarda quindi
innanzitutto coloro che non sono in condizioni di cavarsela, i *poveri, gli
afflitti (Es 23, 6; Is 10, 2; Ger 5, 28; Giob 36, 6. 17). Anche Israele
colpevole, nella propria sventura, ritrova questo diritto della miseria (Is 40,
27; 49, 4).
NUOVO TESTAMENTO
L’orizzonte del NT è abbastanza diverso. Se la giustizia vi occupa ancora un
largo posto, la nozione stessa di diritto sembra sbiadita: forse perché il
popolo di Dio non è più un popolo politico, socialmente strutturato in nazione.
Anche la lettera di Giacomo, sia pur affine ai profeti e sensibile ai poveri,
non richiama il loro diritto. L’unico testo del NT che si basi sul mišpat è una
formula in cui Cristo definisce in tre parole «i punti più gravi della legge, il
diritto (krìsis = mišpat), la bontà (èlos) e la fedeltà (pìstis)» (Mt 23, 23;
cfr. Mi 6, 8). È la prova che se Gesù attribuisce il suo pieno valore
all’insistenza del VT sul diritto, la parola però appartiene più al VT che al
NT. Questo progressivo sfumarsi del concetto deriva dal fatto che i problemi di
giustizia sociale erano meno acuti nella Chiesa nascente che non al tempo dei
profeti; dipende inoltre dalla maggior importanza attribuita agli atteggiamenti
interiori, da cui nascono i comportamenti pratici; proviene soprattutto dal
fatto che il diritto stesso, sia pur un diritto profondamente personale come
quello del VT, si trova ad essere trasformato dal vangelo. La sua regola d’oro
infatti prescrive: «Tutto ciò che desiderereste che gli altri facessero a voi,
fatelo voi stessi a loro» (Mt 7, 12). Il comandamento tipico di Gesù è: «Amatevi
gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 13, 34). Nulla in ciò che abolisca o
sminuisca l’attenzione al diritto di ciascuno preteso dal VT. Ma una nuova
ispirazione, l’invito a identificarsi con gli altri, una preoccupazione di
condivisione e di comunione spinta al sacrificio totale. Solo l’amore è in
definitiva il fondamento del diritto.
J. GUILLET
→ autorità - giudizio - giustificazione - giustizia - legge - libertà
II 1.2 - matrimonio VT II 4 - poveri VT II - processo.
→ casa I - fecondità - generazione - padri e Padre I 2, III 2.
→ ascensione I, II 1 - cielo IV - inferi e inferno.
Colui che si pone
volontariamente alla scuola di un maestro e ne condivide le idee è un discepolo.
Il termine, quasi del tutto assente nel VT, è usato correntemente nel tardo
giudaismo (ebr. talmîd), portando a termine una tradizione biblica; lo si
ritrova parimenti nel NT (gr. mathetès), ma con il senso originale datogli da
Gesù.
VECCHIO TESTAMENTO
1. Discepoli dei profeti e dei sapienti.
- Di quando in quando si segnala che un Eliseo si è messo al seguito di
Elia (1 Re 19, 19 ss) o che un gruppo di ferventi discepoli circonda Isaia,
ricevendo in deposito la sua testimonianza e la sua rivelazione (Is 8, 16). Più
abitualmente, i sapienti hanno dei discepoli, che chiamano loro «figli» (Prov 1,
8. 10; 2, 1; 3, 1) ed ai quali inculcano gli insegnamenti tradizionali. Ma né i
profeti né i sapienti oserebbero soppiantare con il loro *insegnamento la
*parola di Dio. Di fatto su questa sola, e non sulle tradizioni da maestro a
discepolo, è fondata l’alleanza.
2. Discepoli di Dio.
- Poiché la *parola divina è la sorgente di ogni sapienza, l’ideale non
sta nell’aderire ad un maestro umano, ma nell’essere discepoli di Dio stesso. In
tal modo la *sapienza divina personificata chiama gli uomini ad *ascoltarla ed a
seguire le sue lezioni (Prov 1, 20 ss; 8, 4 ss. 32 s). Infine gli oracoli
escatologici annunziano che negli ultimi tempi Dio stesso si farà il maestro dei
cuori: nessuno avrà più bisogno di maestri terreni (Ger 31, 31- 34), ma saranno
tutti «discepoli di Jahvè» (Is 54, 13). Lo stesso *servo di Jahvè, che tuttavia
è incaricato di insegnare le prescrizioni divine (Is 42, l. 4), ha l’orecchio
aperto da Dio ogni mattino e riceve una lingua di discepolo (Is 50, 4). Fedele a
questa profezia, il Salmista supplicherà quindi instancabilmente: «Signore,
ammaestrami!» (Sal 119, 12. 26 s. 33 s; 25, 4- 9...).
3. Maestri e discepoli nel giudaismo.
- Al ritorno dall’esilio, essendo diventata la *legge l’oggetto primo
dell’insegnamento, i maestri incaricati di questa istituzione fondamentale sono
chiamati «dottori della legge». Ora, all’autorità della parola di Dio che essi
commentano, si aggiunge a poco a poco la loro autorità personale (Mt 23, 2.
16-22), soprattutto quando trasmettono la *tradizione che essi stessi hanno
ricevuto dai loro maestri. Il giudaismo post-biblico si organizzerà sulla base
di questo talmud («insegnamento»).
NUOVO TESTAMENTO
1. Discepoli di Gesù.
- A parte qualche menzione dei discepoli di Mosè (Gv 9, 28), del Battista (ad
es. Mc 2, 18; Gv 1, 35; Atti 19, 1 ss) o dei farisei (ad es. Mt 22, 16), il NT
riserva il nome di discepolo a coloro che hanno riconosciuto Gesù come loro
maestro. Nei vangeli sono così designati anzitutto i Dodici (Mt 10, 1; 12,
1...), e, oltre questa cerchia intima, coloro che seguono Gesù (Mt 8, 21) e
specialmente i Settantadue che egli manda in *missione (Lc 10, 1). Senza dubbio
questi discepoli furono numerosi (Lc 6, 17; 19, 37; Gv 6, 60), ma molti
abbandonarono (Gv 6, 66). Nessuno può pretendere di diventare maestro: se deve
«fare discepoli» (Mt 28, 19; Atti 14, 21 s), non è per proprio conto, ma per il
solo Cristo. Così, a poco a poco, a partire dal cap. 6 del libro degli Atti, il
semplice appellativo «discepolo» indica ogni credente, abbia o non abbia
conosciuto Gesù durante la sua vita terrena (Atti 6, 1 s; 9, 10-26 ...); da
questo punto di vista i fedeli sono quindi assimilati agli stessi Dodici (Gv 2,
11; 8, 31; 20, 29).
2. Caratteristiche.
- Benché apparentemente identico ai dottori ebrei del suo tempo, Gesù aveva per
i suoi discepoli delle esigenze uniche.
a) Vocazione. - Ciò che conta, per diventare suo
discepolo, non sono le attitudini intellettuali e neppure morali; è una
chiamata, di cui Gesù ha l’iniziativa (Mc 1, 17-20; Gv 1, 38-50) e, dietro di
lui, il Padre che «dà» a Gesù i suoi discepoli (Gv 6, 39; 10, 29; 17, 6. 12).
b) Attaccamento personale a Cristo. - Per diventare
discepolo di Gesù non è necessario essere una persona superiore; di fatto, il
rapporto che unisce il discepolo ed il maestro non è esclusivamente, e neppure
in primo luogo, di ordine intellettuale. Gesù disse: «Seguimi!». Nei vangeli il
verbo *seguire esprime sempre l’attaccamento alla persona di Gesù (ad es. Mt 8,
19...). Seguire Gesù significa romperla con il passato, con una rottura totale,
se ci tratta di discepoli privilegiati. Seguire Gesù significa ricalcare la
propria condotta sulla sua, ascoltare le sue lezioni e conformare la propria
vita a quella del salvatore (Mc 8, 34 s; 10, 21. 42-45; Gv 12, 26). A differenza
dei discepoli dei dottori ebrei che, una volta istruiti nella legge, potevano
staccarsi dal loro maestro ed insegnare a loro volta, il discepolo di Gesù si è
legato non ad una dottrina, ma ad una persona: non può più lasciare colui che
ormai è per lui più che padre e madre (Mt 10, 37; Lc 14, 25 s).
c) Sorte e dignità. - Il discepolo di Gesù è quindi
chiamato a condividere la sorte stessa del maestro: portare la sua croce (Mc 8,
34 par.), bere il suo calice (Mc 10, 38 s), ricevere infine da lui il regno (Mt
19, 28 s; Lc 22, 28 ss; Gv 14, 3). Quindi, fin d’ora, chiunque gli dà un
semplice bicchiere d’acqua in qualità di discepolo, non perderà la sua
ricompensa (Mt 10, 42 par.); per contro, quale colpa «scandalizzare uno solo di
questi piccoli» (Mc 9, 42 par.)!
3. Discepoli di Gesù e discepoli di Dio.
- Se i discepoli di Gesù sono in tal modo distinti da quelli dei dottori ebrei,
ciò è dovuto al fatto che, attraverso il Figlio suo, Dio stesso parla agli
uomini. I dottori non trasmettevano che tradizioni umane, che talvolta
«annullavano la parola di Dio» (Mc 7, 1 ss); Gesù è la sapienza divina
incarnata, che promette ai suoi discepoli il *riposo delle loro anime (Mt 11,
29). Quando Gesù parla, si compie la profezia del VT: si sente Dio stesso, ed in
tal modo tutti possono diventare «discepoli di Dio» (Gv 6, 45).
A. FEUILLET
→ amico 2 - apostoli - ascoltare 1 - bambino II - Chiesa III 2 - educazione -
esempio - fedeltà NT 2 - Giovanni Battista - insegnare - parola di Dio VT III;
NT I 2, II 2, III 2 - pastore e gregge NT 1 - persecuzione - seguire -
tradizione VT II 2 - vocazione III.