VANGELO - VOLTO - DIZIONARIO DI TEOLOGIA BIBLICA

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V: VANGELO - VOLTO

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  ................. LUIS MARTINEZ FERNANDEZ

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    VANGELO (inizio)

    Per noi il vangelo designa sia lo scritto che narra la vita di Gesù, sia il brano che ne viene letto ad ogni messa. In greco profano vangelo significava «buona novella», specialmente annunzio di vittoria. La pace romana, i principali fatti della vita dell’imperatore, dio e salvatore, erano celebrati come altrettanti vangeli. Tuttavia non c’è dubbio che il linguaggio cristiano abbia desunto dal VT il verbo «evangelizzare» , col senso particolare che già vi possedeva: annunciare la salvezza.
    I. VECCHIO TESTAMENTO
    L’ebraico disponeva di una parola per indicare l’annuncio delle buone novelle, della vita privata o nazionale: la morte d’un nemico (2 Sam 18, 19 s. 26), la vittoria (Sal 68, 12), la salvezza di Giuda (Nah 2, 1). Questa parola assume valore propriamente religioso in Is 40 - 66. Il «messaggero di buona novella» annuncia allora, con la fine dell’esilio la venuta del regno di Dio (Is 52, 7): il suo messaggio è *consolazione, perdono del peccato, ritorno di Dio a Sion (40, 1 s. 9). Questo «vangelo» è una forza divina in azione (52, 1 s). Gridato sul monte (40, 9), esso interessa tutte le *nazioni (52, 10; cfr. Sal 96, 2). Trascende anche l’orizzonte del secolo. Al di là del ritorno dall’esilio, annunzia la *vittoria ed il *regno definitivo di Dio.
    II. GESÙ
    1. Il messaggero di buona novella.

    - Sia nella risposta agli inviati del Battista (Mt 11, 14 s par.) che nella scena della sinagoga di Nazaret (Lc 4, 16-21), Gesù applica a se stesso il testo di Is 61, 1 s: «Unto da Dio con lo Spirito Santo e con potere» (Atti 10, 38; Mt 3, 16 s), egli viene ad «evangelizzare i poveri».
    2. La buona novella.
    - «I tempi sono compiuti. Il regno di Dio è vicino» (Mc 1, 15), questo è l’elemento essenziale del messaggio. Ma questa volta la persona stessa del messaggero diventa il centro della buona novella. Il vangelo è Gesù (cfr. Mc 1, 1). Gli angeli hanno annunciato la sua nascita come un vangelo (Lc 2, 10 s). Con lui è presente il regno di Dio (Mt 12, 28). Colui che abbandona tutto a motivo di Gesù ed «a motivo del vangelo» riceve «fin d’ora il centuplo» (Mc 10, 30). Si vedono quindi le folle stringersi attorno al messaggero di buona novella, e sforzarsi di trattenerlo. Ma il vangelo deve diffondersi: «Io devo annunciare la buona novella del regno di Dio anche alle altre città, perché sono stato mandato a tal fine» (Lc 4, 43).
    3. La risposta al vangelo sarà *penitenza e *fede (Mc 1, 15).
    - Dio offre una grazia di perdono (Mc 2, 10 par.; 2, 17 par.), di rinnovamento (Mc 2, 21 s). Si aspetta che l’uomo, confessando e rinnegando il proprio peccato, metta in gioco la vita per il vangelo: «Chi vuol salvare la sua vita, la perderà; ma colui che perde la vita per causa mia e del vangelo, la salverà» (Mc 8, 35). I clienti nati del vangelo sono i «poveri in spirito» (Mt 5, 3 par.; Mc 10, 17-23 par.), i «piccoli» (Mt 11, 28; Lc 9, 48; 10, 21), anche i peccatori (Lc 15, 1 s; 18, 9-14; Mt 21, 31), persino i pagani (Mt 8, 10 s; 15, 21-28 par.). Il sentimento della propria indigenza li predispone ad ascoltarlo ed a percepire la compassione divina da cui procede (Mt 9, 36; 14, 14 par.; Lc 7, 47- 50; 19, 1-10).
    III. GLI APOSTOLI
    1. I messaggeri.
    - Gesù risorto comanda ai suoi apostoli di «andare nel mondo intero a predicare il vangelo a tutta la creazione» (Mc 16, 15), «a tutte le nazioni» (Mc 13, 10). Il libro degli Atti descrive le tappe di questa proclamazione (o kèrygma). Nonostante gli ostacoli la buona novella si diffonde «fino ai confini della terra» (Atti 1, 8). Mediante la grazia dello Spirito, la Chiesa la annunzia «con sicurezza» (2, 29; 4, 13. 31; 28, 31). Questa funzione è così importante che basta a qualificare coloro che la svolgono; così il diacono Filippo è chiamato «evangelista» (Atti 27, 8; cfr. Ef 4, 11; 2 Tim 4, 5).
    2. Il messaggio.
    - La buona novella è sempre quella del regno di Dio (Atti 8, 12; 14, 21 s; 19, 8; 20, 25; 28, 23), ed annunzia che «la promessa fatta ai nostri padri è adempiuta» (13, 32). Essa è grazia di perdono, dono dello Spirito (2, 38; 3, 36; 10, 43; 13, 38; 17, 30). Ma ormai si identifica con «la buona novella di Gesù» (8, 35; 17, 18), «del *nome di Gesù Cristo» (8, 12), «del Signore Gesù» (11, 20), «della pace per mezzo di Gesù Cristo» (10, 36). La risurrezione di Cristo passa al centro del vangelo.
    3. L’accoglienza del vangelo.
    - La buona novella è accompagnata dai «*segni» promessi da Gesù (Mc 16,17; Atti 4, 30; 5, 12. 16; 8, 6 ss; 19, 11 s). Si propaga in un’atmosfera di povertà, di semplicità, di carità comunitaria e di gioia (Atti 2, 46; 5, 41; 8, 8. 39). Il vangelo incontra dovunque dei *cuori che sono in sintonia con esso, «desiderosi di sentire la *parola di Dio» (13, 7. 12), avidi di sapere ciò che bisogna fare, per essere salvi (16, 29 s). Essi hanno in comune il tratto di «*ascoltare» (2, 22. 37; 3, 22 s; ecc.), di «accogliere» (8, 14; 11, 1; 17, 11), di «obbedire» (6, 7). Viceversa, la sufficienza sprezzante (13, 41) e gelosa (13, 45 s), la leggerezza (17, 32), chiudono il cuore degli uomini al vangelo.
    IV. SAN PAOLO
    1. Il messaggero.
    - Paolo è per eccellenza l’uomo del vangelo. Dio lo ha «segregato per il vangelo» (Rom 1, 1). Gli ha rivelato il Figlio suo affinché «lo annunzi fra i pagani» (Gal 1, 15 s). Gli ha «affidato il vangelo» (1 Tess 2, 4). «Ministro» del vangelo (Col 1, 23), Paolo si sente in dovere di annunciarlo (1 Cor 9, 16), rendendo in tal modo a Dio «un *culto spirituale» (Rom 1, 9), esercitando una «funzione sacra» (Rom 15, 16).
    2. Il messaggio.
    - Questo vangelo Paolo lo chiama sia vangelo semplicemente, sia vangelo «di Dio» , «del suo Figlio... Gesù Cristo nostro Signore» (Rom 1, 3 ss. 9), «di Cristo» (Rom 15, 19 s; 2 Cor 2, 12; ecc.), «della gloria di Cristo» (2 Cor 4, 4), della sua «insondabile ricchezza» (Ef 3, 8).
    a) Forza di salvezza. - Come quello di tutta la Chiesa, ma con un vigore singolare, il vangelo di Paolo è accentrato sulla morte e la risurrezione di Cristo (1 Cor 15, 1-5), ed orientato verso la sua venuta gloriosa (1 Cor 15, 22-28). Esso è la nuova economia, in quanto questa si propaga e si sviluppa mediante la *predicazione apostolica e mediante l’energia divina che è insita in esso, «è una *forza di Dio per la salvezza» (Rom 1, 16). «Nel mondo intero il vangelo fruttifica e si sviluppa» (Col 1, 6). Una fioritura di Chiese, una sovrabbondanza di *carismi, un rinnovamento spirituale senza precedenti, tutto questo, unito alla «sicurezza» soprannaturale dell’apostolo stesso, ne testimonia la potenza che sta per conquistare il mondo (Gal 3, 5; 4, 26 s; 2 Cor 2, 12; .3, 4; 1 Tess 1, 5). Paolo lavora con le sue mani e «sopporta tutto... per non creare ostacoli al vangelo di Cristo» (1 Cor 9, 12).
    b) Compimento delle Scritture. - Paolo sottolinea la continuità del vangelo con il VT: esso è «la rivelazione di un *mistero avvolto di *silenzio nei secoli eterni, ma oggi manifestato e,per mezzo delle *Scritture, portato a conoscenza di tutte le nazioni» (Rom 16, 25 s). La *promessa fatta ad Abramo (Gen 12, 3) era un «prevangelo», che si realizza oggi nella conversione dei pagani (Gal 3, 8; Ef 3, 6).
    3. La risposta umana al vangelo.
    - Il vangelo esercita la sua virtù salvatrice soltanto se l’uomo vi risponde con la *fede: «Esso è forza di Dio per la salvezza di ogni fedele... In esso si rivela la giustizia di Dio dalla fede alla fede» (Rom l, 16 s; 1 Cor 1, 18. 21). È il luogo di una opzione. Dispiegando nella debolezza la sua forza salutare e prolungando il mistero della *croce (1 Cor 1, 17 - 2, 5), per gli uni è «scandalo, «stoltezza» (1 Cor 1, 18. 21. 23; Rom 9, 32 s; Gal 5, 11) e «rimane velato» : accecati dal dio di «questo mondo» , essi «non vedono risplendere il vangelo della gloria di Cristo» (2 Cor 4, 4). Non gli *obbediscono (2 Tess 1, 8). Invece, dagli altri, il vangelo è ricevuto nell’«obbedienza della fede» (Rom 1, 5; 2 Cor 10, 5). Nella grazia del vangelo essi si aprono al «vangelo della grazia» (Atti 20, 24).
    V. SAN GIOVANNI
    Né il vangelo né le lettere giovannee usano il termine vangelo. Ne tengono il posto la *parola e la *testimonianza; ne è oggetto la *verità, la *vita e la *luce. Ma nell’Apocalisse Giovanni ha la visione di un «angelo che vola allo zenit ed ha un vangelo eterno da annunziare a coloro che dimorano sulla terra» (14, 6 s), il vangelo della venuta definitiva del regno di Dio.
    CONCLUSIONE
    Quando, nel corso del sec. II, la parola «vangelo» incominciò a designare la relazione scritta della vita e degli insegnamenti di Gesù, non perdette tuttavia il suo significato primitivo. Continuò ad indicare la buona novella nella salvezza e del regno di Dio in Cristo. «Questo vangelo - scrive S. Ireneo - gli apostoli l’hanno da prima predicato. Poi, per la volontà di Dio, ce l’hanno trasmesso nelle scritture, affinché diventi la base e la colonna della nostra fede». Il vangelo, proclamato nel corso della liturgia, annunzia al mondo la buona novella e la sua liberazione ad opera di *Gesù Cristo. Rispondendo, l’assemblea manifesta lo slancio e l’esultanza del primo incontro del mondo con la novità del vangelo.
    D. MOLLAT
    → apostoli II 1 - esortare - Gesù (nome di) III - Gesù Cristo II 2 - Israele NT 1 - mistero II - parola di Dio NT I, II - predicare - regno NT I - rivelazione NT - salvezza NT - testimonianza NT III 1 - tradizione NT 1 2.

    VANITÀ (inizio)

    → carne I 3 b - creazione NT II 3 - delusione I 1 - fierezza VT 2 - gloria II - idoli - menzogna II 1 - ombra I 1 - orgoglio - umiltà.

    VECCHIAIA (inizio)

    Vivere a lungo è la speranza di chiunque sia felice in mezzo ai propri beni; però, se la vecchiaia può essere ricca di esperienza e di saggezza, può anche essere un peso per lo sventurato logorato dall’età e al termine della pazienza (Eccli 41, 1 s). Così la vecchiaia cambia significato a seconda che sia la strada del declino verso la morte o quella del progresso verso la felicità eterna.
    1. Vita lunga e approssimarsi della morte.
    - La *vita, anche sotto la minaccia della *morte, è un dono di Dio; una lunga vita è quindi desiderabile; promessa a chi onora i propri genitori (Es 20, 12), è una corona per il giusto (Prov 10, 27), che ha così la gioia di vedere i figli dei propri figli (Prov 17, 6). Come Abramo sazio di giorni (Gen 25, 8), il giusto, dopo una vecchiaia felice e florida (Sal 92, 15), può morire in pace, cosciente che la sua vita è stata piena (Gen 15, 15; Tob 14, 1; Eccli 44, 14). Ma può anche succedere che la morte sia una liberazione (Eccli 41, 2), quando il vecchio sente il proprio vigore declinare (Sal 71, 9; Eccle 12, 5) e che nulla per lui ha più sapore (2 Sam 19, 36).
    2. Lunga esperienza e progresso nella saggezza.
    - All’età, e all’esperienza che essa apporta, tutti i popoli hanno attribuito l’*autorità; anche nella Bibbia, gli anziani sono a capo delle comunità (Es 3, 16; 18, 12; 2 Sam 5, 3; Esd 6, 7; Atti 11, 30; 15, 4). Benché certi vecchi siano di una corruzione e di una ingiustizia scandalose (Eccli 25, 2; Dan 13, 5), i capelli bianchi meritano rispetto (Lev 19, 32; 1 Tim 5, 1 s) e i figli devono venire in aiuto dei genitori anziani (Eccli 3, 12). Il vecchio, per via della sua *sapienza (Eccli 25, 4 s) e in quanto testimone della *tradizione, è in grado di parlare con autorità; lo faccia tuttavia con discrezione (Eccli 32, 3; 42, 8). Un pericolo infatti minaccia gli anziani: chiudersi ad ogni novità anziché mantenersi aperti alla verità; questa falsa fedeltà alla tradizione (Mt 15, 2-6) ha indotto gli anziani del popolo a schierarsi tra i nemici di Cristo, che lo insulteranno sulla croce (27, l. 41). Il numero degli anni non basta quindi a rendere il vecchio degno dell’onore che gli viene reso; inoltre, la sapienza può essere retaggio della gioventù (Sal 119, 100; Sap 4, 8 s. 16), e per entrare nel regno, tutti devono riceverlo come bambini (Mc 10, 15). I cristiani in età seguano quindi i consigli del vecchio Paolo (Filem 9) e brillino per le loro *virtù (Tito 2, 2-5). La vecchiaia è infine il simbolo dell’eternità; l’Eterno appare a Daniele sotto le sembianze di un vegliardo (Dan 7, 9) e, nell’Apocalisse, i ventiquattro anziani simboleggiano la corte di Dio che canta in eterno la sua gloria (Apoc 4, 4; 5, 14...).
    M. F. LACAN
    → amico 1 - bambino 0 - malattia-guarigione VT I 1 - morte - nuovo III 3 b - sapienza VT II 1.2 - tradizione VT II; NT I 1 - uomo III 3 - vita II 1.

    VEDERE (inizio)

    Mentre gli *idoli «hanno occhi e non vedono» (Sal 135, 16), Dio vede «tutto ciò che è sotto il cielo» (Giob 28, 24), in particolare «i figli di Adamo» (Sal 33, 13 s) di cui «scruta i reni ed i cuori» (7, 10). Ma rimane per l’uomo «un Dio nascosto» (Is 45, 15), «che nessuno ha visto né può vedere» (1 Tim 6, 16; 1, 17; 1 Gv 4, 12). Tuttavia Dio si è scelto un popolo «al quale si è fatto vedere» (Num 14, 14) sino ad apparirgli nella persona del suo Figlio unico (Gv 1, 18; 12, 45) prima di introdurlo un giorno nel *cielo «per vedere la sua faccia» (Apoc 22, 4). 
    VECCHIO TESTAMENTO 
    I. IL DESIDERIO DI VEDERE DIO
    Vedere Dio, «gli occhi negli occhi» (Is 52, 8), è il *desiderio più profondo del VT. La nostalgia del *paradiso che domina tutta la Bibbia, è anzitutto la coscienza di aver perduto il contatto immediato e familiare con Dio, è il *timore permanente della sua *ira, ma è pure la *speranza instancabile di incontrare la sua *faccia e di vederla sorridere. Le due grandi esperienze religiose di Israele, l’esperienza della *presenza di Dio nel *culto, e l’esperienza della sua *parola attraverso i *profeti, sono entrambe tese verso questa esperienza privilegiata: vedere Dio.
    1. Le teofanie profetiche. 
    - Le teofanie profetiche rappresentano il vertice dell’esistenza e della missione dei profeti. *Mosè ed *Elia hanno conosciuto questa esperienza nella sua forma più alta. Ancora, a Mosè che lo prega: «Fammi vedere la tua *gloria» (Es 33, 18), Dio, pur esaudendo la sua preghiera, risponde: «Io ti riparerò con la mia mano durante il mio passaggio..., mi vedrai da tergo; ma la mia faccia non la si può vedere» (33, 22 s). Elia, quando si accosta a Jahvè, «si vela il volto» e non sente che una voce (1 Re 19, 13; cfr. Deut 4, 12). Nessuno può vedere Dio, se Dio non si fa vedere. Il privilegio di Mosè ha qualcosa di unico, «egli guarda l’*immagine di Jahvè» (Num 12, 8). A livelli diversi, ma molto inferiori, i profeti, «in sogni ed in visioni» (12, 6), vedono qualcosa che non è di questo mondo (Num 24, 4. 16; 2 Cron 18, 18; Am 9, 1; Ez 1 - 3; Dan 7, 1; ecc.). *Abramo e Giacobbe hanno conosciuto anch’essi esperienze simili (Gen 15, 17; 17, 1; 28, 13), e così pure Gedeone (Giud 6, 11-24), Manoah e sua moglie (13, 2-23). Anche i settanta anziani di Israele hanno parte, sino ad un certo punto, al privilegio di Mosè e, sul monte,«contemplano il Dio di Israele» (Es 24, 10, ma i LXX traducono: «videro il luogo in cui si trovava Dio»).
    2. Il culto. 
    - Il culto, nei luoghi in cui Dio si è reso presente (Es 20, 24), suscita nei migliori il desiderio di vedere Dio, di «ricercare la sua faccia» (Sal 24, 6), di «vedere la sua dolcezza» (27, 4), «la sua potenza e la sua gloria» (63, 3), di guardare, anche da lontano, al *tempio (Giona 2, 5). La visione di Isaia, così vicina alle teofanie di Mosè, fa coincidere la visione profetica, imperniata su una *parola ed una *missione, e la visione cultuale, imperniata sulla *presenza (Is 6; cfr. 2 Cron 18, 18; Ez 10 - 11).
    II. VEDERE E CREDERE
    Se il desiderio di vedere Dio viene appagato solo raramente e parzialmente, si è perché Dio è «un Dio nascosto» (Is 45, 5) che si rivela alla *fede. Per *conoscerlo, bisogna *ascoltare la sua parola e vedere le sue *opere; infatti, nelle meraviglie della sua creazione «ciò che egli ha di invisibile si fa vedere» (Rom 1, 20). La vista degli *astri lascia presentire la sua potenza (Is 40, 25 s) e contemplare il mondo (Giob 38 - 41) è già vedere Dio. Ma il Dio nascosto si fa vedere di più ancora nella storia. Nelle meraviglie da lui dispiegate per il suo popolo (Es 14,13; Deut 10, 21; Gios 24, 17) - *segni come non se ne videro mai (Es 34, 10) - Israele ha «visto la sua *gloria» (Es 16, 7). Conoscere Dio significa quindi «vedere le sue alte gesta» e «comprendere chi è» (Sal 46, 9 ss; cfr. Is 41, 20; 42, 18; 43, 10), osservarne le prodezze e credere in lui (Es 14, 31; Sal 40, 4; Giudit 14, 10), perché «nessun altro» con lui «è Dio» (Deut 32, 29). Ma, al pari degli *idoli stupidi, gli uomini sono sordi e ciechi (Is 42,18), «hanno occhi e non vedono nulla, orecchie e non sentono nulla» (Ger 5, 21; Ez 12, 2): i segni ed i doni di Dio, destinati a illuminarli, li *induriscono nel loro accecamento. La predicazione dei profeti finisce con «l’appesantire il cuore di questo popolo, col chiudergli gli occhi per tema che i suoi occhi vedano... che il suo cuore comprenda» (Is 6, 10).
    NUOVO TESTAMENTO 
    I. DIO VISIBILE IN GESÙ CRISTO
    1. In Gesù Cristo. 
    - In *Gesù Cristo, Dio fa vedere le meraviglie inaudite promesse dai profeti (Is 52, 15; 64, 3; 66, 8), le cose «mai viste» (Mt 9, 33). Simeone può andarsene in pace: «[i suoi] occhi hanno visto la salvezza» (Lc 2, 30). «Beati gli occhi che vedono» le opere di Gesù: essi vedono «ciò che molti profeti e giusti hanno desiderato vedere e non hanno visto» (Mt 13, 16 s); vedono da vicino ciò che Abramo ha visto «da lontano» (Ebr 11, 13) e di cui già si rallegrava, «il *giorno» di Gesù (Gv 8, 56). Sono beati a condizione di non *scandalizzarsi di Gesù e di vedere ciò che avviene in realtà: «i ciechi vedono... il vangelo è annunziato» (Mt 11, 5 s).
    2. Vedere e credere.
    - Già nei vangeli sinottici, ma più chiaramente ancora in Giovanni, la visione di ciò che fa Gesù e di ciò che Dio realizza in lui è un invito a credere, ad accedere per mezzo della *fede al versante invisibile della storia della salvezza. I *segni operati da Gesù dovrebbero condurre alla fede (Gv 2, 23; 10, 41; 11, 45; cfr. Lc 17, 15. 19). Se non sono concessi altri segni a chi li richiede, è senza dubbio perché, almeno in parte, non porterebbero alla fede (Mt 12, 38 s par.; cfr. Mc 15, 32). La fede perfetta dovrebbe d’altronde poter fare a meno di vedere dei segni (Gv 4, 38), ma la realtà è lontana da questo ideale. Molti, infatti, malgrado tanti segni operati dinanzi ai loro occhi, non possono credere e neppure, in certo qual modo, vedere (Mt 13, 14 s; Gv 12, 40; cfr. Is 6, 9 s). Per loro, la *luce del mondo (Gv 8, 12; 9, 5) diventa tenebre, la chiaroveggenza diventa accecamento: «Se foste ciechi, non sareste nel peccato; ma voi dite: “Noi vediamo”. Il vostro peccato resta» (Gv 9, 39 s). Nei racconti della risurrezione, si ritrovano gli stessi temi. La vista della tomba vuota (Gv 20, 28), quella delle *apparizioni in cui Gesù «si fa vedere» (òfthe: Atti 13, 31; 1 Cor 15, 5-8; Mt28, 7. 10 par.) a *testimoni scelti (Atti 10, 40 s), dovrebbero portare alla fede (Gv 20, 29; cfr. Mt 28, 17). Ma resta possibile vedere o sentire coloro che hanno visto e tuttavia rimanere nell’*incredulità (Lc 24, 12; 27, 39 ss; Mc 16, 11-14), mentre anche qui la fede ideale sarebbe stata quella di credere senza vedere (Gv 20, 29).
    3. In Gesù Cristo, è visibile Dio.
    - Se esiste una visione che precede la fede, la fede a sua volta sfocia in una *conoscenza e in una vista. Infatti, non solo i *cieli sono aperti sul figlio dell’uomo (Gv 1, 51; cfr. Mt 3, 16) ed i *misteri di Dio sono rivelati, la vita è data a coloro che credono in lui (Gv 3, 21. 36), ma la *gloria stessa di Dio, quella che Mosè non aveva potuto contemplare se non in modo passeggero e parziale (Es 33, 22 s; 2 Cor 3, 11), irradia in permanenza e senza velo dalla persona del Signore (2 Cor 3, 18): «Noi abbiamo visto la sua gloria, la gloria del Figlio unigenito» (Gv 1, 14). Vedere Gesù equivale già a vedere il Verbo, «la vita che era presso il Padre e che ci è apparsa» (1 Gv 1, 1-3). E poiché «io sono nel Padre e il Padre è in me... chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14, 9 s; cfr. 1, 18; 12, 45).
    II. VEDERE DIO COM’È
    Neppure l’incarnazione del Figlio può soddisfare il nostro desiderio di vedere Dio, perché Gesù, finché non è ancora ritornato al Padre (Gv 14, 12. 28), non ha ancora rivelato tutta la gloria che gli spetta (17, 1. 5). Gesù deve scomparire, ritornare al mondo invisibile donde viene, il mondo «delle realtà che non si vedono» e che sono la fonte di quelle che noi vediamo (Ebr 11, 1 s), il mondo di Dio. Perciò bisogna che non lo si veda più (Gv 16, 10-19), che gli uomini lo *cerchino senza poterlo trovare (7, 34; 8, 21). Quando i discepoli l’avranno «visto» per l’ultima volta al momento dell’ *ascensione (Atti 1, 9 ss), avrà inizio il tempo in cui coloro «che non l’hanno visto» dovranno amarlo e rallegrarsi «senza vederlo ancora, ma credendo» (1 Piet 1, 8 s). Verrà un giorno in cui si vedrà il figlio dell’uomo «sedere alla destra della Potenza» (Mt 26, 64 par.) e «venire sulle nubi del cielo» (Mt 24, 30 par.). Stefano «vede» già quel *giorno del Signore come una realtà attuale (Atti 7, 55 s). L’Apocalisse suggerisce che questa venuta è già visibile lungo tutta la storia: «Eccolo che viene, scortato dalle nubi; ognuno lo vedrà, anche quelli che l’hanno trafitto...» (Apoc 1, 7; cfr. 19, 37). Ma, in realtà, «noi non vediamo ancora» se non nella fede, «che tutto gli è sottomesso» (Ebr 2, 8). Non è più ormai il tempo di «guardare il cielo», ma di testimoniare che lo si vedrà tornare come è scomparso (Atti 1, 11) e di vivere in questa duplice attesa: essere sempre con il Signore (1 Tess 4, 17; Fil 1, 23) e «vedere Dio» (Mt 5, 8), «vedere la sua faccia» (Apoc 22, 4), «vederlo qual è» (1 Gv 3, 2), nel suo mistero inaccessibile, totalmente dedito ai suoi figli.
    J. DUPLACY e J. GUILLET
    → apparizioni di Cristo - faccia - fede - immagine - predestinare 3.5 - presenza di Dio III - puro NT I 3 - rivelazione - segno NT I 2.

    VEDOVE (inizio)

    Sola (Bar 4, 12-16), la vedova rappresenta un caso tipico di sventura (Is 47, 9). La sua condizione rende manifesto un duplice lutto: a meno di contrarre un nuovo *matrimonio, essa ha perduto la speranza della *fecondità; è rimasta senza difesa.
    1. L’assistenza alle vedove.
    - Come l’orfano e lo straniero, la vedova è oggetto di una particolare protezione da parte della legge (Es 22, 20-23; Deut 14, 28-29; 24, 17-22) e di Dio (Deut 10, 17 s) che ascolta il suo lamento (Eccli 35, 14 s) e si fa il suo difensore e vendicatore (Sal 96, 6-10). Guai a coloro che abusano della sua debolezza (Is 10, 2; Mt 12, 40 par.). Gesù, come Elia, restituisce a una vedova il suo unico figlio (Lc 7, 11-15; 1 Re 17, 17-24) e affida Maria al discepolo prediletto (Gv 19, 26 s). Nel servizio quotidiano della Chiesa primitiva, ci si preoccupa di sovvenire alle necessità delle vedove (Atti 6, 1). Se non hanno più parenti (1 Tim5, 16; cfr. Atti 9, 36-39), la comunità deve assumersene la responsabilità, come esige la *pietà autentica (Giac 1, 27; cfr. Deut 26, 12 s; Giob 31, 16).
    2. Valore riconosciuto alla vedovanza.
    - Già verso la fine del VT, si assiste alla nascita di una particolare stima per la vedovanza definitiva di Giuditta (Giudit 8, 4-8; 16, 22) e di Anna la profetessa (Lc 2, 36 s), consacrata a Dio nella preghiera e nella penitenza. In Giuditta balza agli occhi il contrasto tra la naturale debolezza e la *forza attinta in Dio. Allo stesso modo Paolo, pur tollerando un secondo matrimonio, per evitare i pericoli di una cattiva condotta (1 Cor 7, 9. 39), e arrivando fino ad auspicarlo per le giovani vedove (1 Tim 5, 13-15), considera però migliore la vedovanza (1 Cor 7, 8) e vi vede una provvidenziale indicazione della necessità di rinunciare al matrimonio (7, 17. 24). Infatti, la vedovanza, al pari della *verginità, è un ideale spirituale che apre all’azione di Dio e libera per il suo servizio (7, 34).
    3. L’istituzione delle vedove.
    - Nella Chiesa, tutte le vedove devono essere irreprensibili (1 Tim 5, 7. 14). Certune, veramente sole, libere da ogni impegno familiare e aliene da ogni dissipazione, si dedicheranno alla preghiera (5, 5 s). Esiste anche un impegno ufficiale alla vedovanza permanente (5, 12). Vi sono ammesse solo vedove che siano state sposate una volta sola e abbiano raggiunto i sessant’anni (5, 9); è probabile che esercitassero funzioni caritative, perché dovevano fornire per il passato garanzie di dedizione (5, 10). L’ideale proposto alle vedove all’ultima tappa della loro esistenza si riassume quindi nella preghiera, nella castità e nella carità.
    P. SANDEVOIR
    → digiuno 1 - donna VT 3; NT 1.3 - fecondità II 2 - matrimonio VT II 1; NT II - solitudine I 1 - verginità VT 2.

    VEGLIARE (inizio)

    Vegliare, in senso proprio, significa rinunziare al *sonno della notte; lo si può fare per prolungare il proprio lavoro (Sap 6, 15) o per evitare di essere sorpresi dal nemico (Sal 127, 1 s). Di qui un senso metaforico: vegliare significa essere vigilante, lottare contro il torpore e la negligenza per giungere alla meta prefissa (Prov 8, 34). Per il credente la meta è d’essere pronto ad accogliere il Signore, quando verrà il suo *giorno; per questo egli veglia ed è vigilante, per vivere nella notte senza essere della *notte.
    I. TENERSI PRONTI PER IL RITORNO DEL SIGNORE
    1. Nei Sinottici. 
    - Nei vangeli sinottici l’esortazione alla vigilanza è la raccomandazione principale che Gesù rivolge ai suoi discepoli a conclusione del discorso sui fini ultimi e sull’avvento del figlio dell’uomo (Mc 13, 33-37). «Vegliate dunque, perché non sapete in qual giorno il vostro Signore verrà» (Mt 24, 42). Per esprimere che il suo ritorno è imprevedibile, Gesù si serve di diversi paragoni e parabole che stanno all’origine dell’uso del verbo vegliare (astenersi dal dormire). La venuta del figlio dell’uomo sarà imprevista come quella di un ladro notturno (Mt 24, 43 s), come quella del padrone che rientra durante la notte senza avere preavvisato i suoi servi (Mc 13, 35 s). Come il padre di famiglia prudente, oppure il buon servo, il cristiano non deve lasciarsi vincere dal *sonno, deve vegliare, cioè stare in guardia e tenersi pronto per accogliere il Signore. La vigilanza caratterizza quindi l’atteggiamento del discepolo che *spera ed attende il ritorno di Gesù; consiste innanzitutto nell’essere sempre all’erta, e per ciò stesso esige il distacco dai piaceri e dai beni terreni (Lc 21, 34 ss). Poiché l’ora della parusia è imprevedibile, bisogna prendere le proprie disposizioni per il caso che si faccia attendere: è l’insegnamento della parabola delle vergini (Mt 25, 1-13).
    2. Nelle lettere paoline. 
    - Nelle prime lettere paoline, dominate dalla prospettiva escatologica, si trova l’eco dell’esortazione evangelica alla vigilanza, specialmente in 1 Tess 5, 1-7. «Noi non siamo della notte, né delle tenebre; non dormiamo quindi come gli altri, ma vegliamo, siamo sobri» (5, 5 s). Il cristiano, essendosi convertito a Dio, è «figlio della *luce» , quindi deve rimanere sveglio e resistere alle tenebre, simbolo del male, altrimenti corre il rischio di essere sorpreso dalla parusia. Questo atteggiamento vigilante esige la sobrietà, cioè la rinuncia agli eccessi «notturni» ed a tutto ciò che può distrarre dall’attesa del Signore; esige nello stesso tempo che si indossi l’armatura spirituale: «rivestiamoci della fede e della carità come di corazza, e della speranza della salvezza come di elmo» (5, 8). In una lettera posteriore S. Paolo, temendo che i cristiani abbandonino il loro fervore primitivo, li invita a risvegliarsi, ad uscire dal loro *sonno ed a prepararsi per ricevere la salvezza definitiva (Rom 13, 11-14).
    3. Nell'Apocalisse. 
    - Nell’Apocalisse il messaggio che il giudice della fine dei tempi rivolge alla comunità di Sardi è una esortazione pressante alla vigilanza (3, 1 ss). Questa Chiesa dimentica che Cristo deve ritornare; se non si risveglia, egli la sorprenderà come un ladro. Viceversa, beato «colui che veglia e conserva le sue vesti» (16, 15); egli potrà partecipare al corteo trionfale del Signore.
    II. STARE IN GUARDIA CONTRO LE TENTAZIONI QUOTIDIANE
    La vigilanza, che è attesa perseverante del ritorno di Gesù, si deve esercitare durante tutta la vita cristiana nella lotta contro le tentazioni quotidiane che anticipano il grande combattimento escatologico.
    1. Nel momento in cui sta per realizzare la *volontà salvifica del Padre, Gesù deve sostenere nel Getsemani un combattimento doloroso (agonia), che è una anticipazione del combattimento della fine dei tempi. Il racconto sinottico fa vedere in Gesù il modello della vigilanza nel momento della *tentazione, modello che tanto più risalta in quanto i discepoli, indocili alla esortazione del maestro, sono stati vinti. «Vegliate e pregate per non entrare in tentazione» (Mt 26, 41): la raccomandazione trascende la cornice del Getsemani e si rivolge a tutti i cristiani. L’ultima domanda del Pater vi corrisponde: essa implora il soccorso divino non soltanto nel momento del combattimento escatologico, ma anche durante il combattimento della vita cristiana.
    2. L’esortazione alla vigilanza a motivo dei pericoli della vita presente ritorna più volte nelle lettere apostoliche (1 Cor 16, 13; Col 4, 2; Ef 6, 10-20); essa è formulata in un modo particolarmente espressivo in un passo che si legge ogni sera a compieta: «Siate sobri, vigilate! Il vostro avversario, il demonio, come un leone ruggente si aggira cercando qualcuno da divorare» (1 Piet 5, 8). Qui, come in Ef 6, 10 ss, il nemico è chiaramente designato; con un odio implacabile, Satana ed i suoi ministri spiano continuamente il discepolo per fargli rinnegare Cristo. Il Cristiano stia sempre in guardia, preghi con fede ed eviti con la sua rinunzia le insidie dell’avversario. Questa vigilanza è particolarmente raccomandata ai capi che hanno la responsabilità della comunità; essi devono difenderla contro i «lupi crudeli» (Atti 20, 28-31).
    III. PASSARE LA NOTTE IN PREGHIERA
    In Ef 6, 18 e Col 4, 2, S. Paolo verosimilmente fa allusione ad una pratica delle comunità primitive, quella delle veglie di preghiera. «Fate costantemente, per mezzo dello Spirito, preghiere e suppliche. Occupate in questo le vostre veglie con una perseveranza instancabile» (Ef 6, 18). La celebrazione della vigilia è una realizzazione concreta della vigilanza cristiana ed una imitazione di ciò che aveva fatto Gesù (Lc 6, 12; Mc 14, 38). Conclusione. - La vigilanza, richiesta dalla fede nel giorno del Signore, caratterizza quindi il cristiano che deve resistere all’apostasia degli ultimi giorni ed essere pronto ad accogliere il Cristo che viene. D’altra parte, poiché le tentazioni della vita presente anticipano la tribolazione escatologica, la vigilanza cristiana si deve esercitare ogni giorno nella lotta contro il maligno; essa esige dal discepolo una preghiera ed una sobrietà continua: «Vegliate, pregate e siate sobri!» .
    M. DIDIER
    → angeli - giorno del Signore NT II - lampada 2 - ministero II 3 - Noè 3 - notte NT 2.3 - pastore e gregge - preoccupazioni 1 - Provvidenza - sonno - speranza NT II - ubriachezza 2 - visita NT 2. VELO → donna NT 3 - Mosè 5 - veste I 1, II 4.

    VENDEMMIA (inizio)

    I figli di Israele, da semi-nomadi quali erano, nella terra promessa divennero agricoltori, coltivatori dei cereali e della vigna. Al pari della *messe, la vendemmia è segno e fonte di *gioia; ma può anche simboleggiare la sventura.
    1. Benedizione divina.
    - La festa del raccolto (Es 23, 16; 34, 22) diventata festa dei Tabernacoli (Deut 16, 13), «la festa» per eccellenza (1 Re 8, 2. 65) indubbiamente perché la più popolare, non ha alcun rapporto con il culto di Bacco, ma trae probabilmente la sua origine dalla festa cananea delle vendemmie (Giud 9, 27). Riconoscendo nel raccolto dell’uva la *benedizione divina, Israele ne ringrazia Dio con feste popolari: danze (Giud 21, 19 ss), grida degli operai nelle *vigne ed al torchio (Is 16, 10; Ger 48, 33), gioia che il *vino nuovo procura (Sal 4, 8), e forse anche *ubriachezza (1 Sam 1, 14 s). Questo per i fedeli dell’*alleanza; ma per gli infedeli, *maledizione: la vigna è devastata (Os 2, 14; Is 7, 23), non c’è più raccolto (Deut 28, 39), la vigna «languisce» (Is 24, 7), uomini e donne, invece di danzare e di bere, fanno lamenti (Is 32, 10-13; Gioe 1, 5); nell’orgoglioso Moab, niente più gioia né grida di letizia (Is 16, 9 s; Ger 48, 32 s). Ma, quando il popolo avrà espiato le sue colpe, la locusta non renderà più *sterile la vigna (Mal 3, 11), i vigneti ormai in fiore (Ger 31, 12; Agg 2, 19) daranno nuovamente un vino di qualità superiore (Os 14, 8). In breve, la vendemmia esprime eccellentemente la gioia dell’era messianica (Am 9, 13; Ez 28, 26; Gioe 2, 24; Is 25, 6).
    2. Simbolo del castigo divino.
    - Come la *messe, che suppone trebbiatura e vagliatura, simboleggia il *castigo del peccatore indurito, così è pure della vendemmia per gli infedeli, perché è preceduta dallo spogliamento dei pampini e dallo schiacciamento delle uve nel torchio. Per punire il popolo che lo ha rinnegato, Dio invita l’invasore a racimolare ciò che rimane di Israele (Ger 6, 9); egli stesso pigia al torchio la vergine, figlia di Giuda (Lam 1, 15). Raccolta dell’uva, scelta dei grappoli, tino pigiato, queste immagini illustrano pure il castigo delle nazioni, specialmente quello di Edom che non aiutò Giuda, al momento della presa di Gerusalemme: verranno vendemmiatori che non lasceranno nulla da racimolare (Ger 49, 9; Ab 5 s); Jahvè pigerà Edom al torchio, ed il *sangue che ne sprizzerà tingerà di porpora le sue *vesti (Is 63, 1-6). L’immagine della vendemmia simboleggia quindi volentieri il *giudizio di Dio. Così, per loro sventura, Jahvè farà bere alle *nazioni il suo *calice inebriante (Ger 25, 15-30); o, secondo l’Apocalisse, un angelo, armato di falce, vendemmierà i grappoli e verserà il tutto nel tino immenso dell’*ira di Dio (Apoc 14, 17 ss; 19, 15).
    A. DARRIEUTORT
    → feste VT I - giudizio VT II 2 - ira - messe - vino - vite-vigna.

    VENDETTA (inizio)

    Nel linguaggio odierno, vendicarsi significa punire un’offesa rendendo agli altri male per male. Nel linguaggio biblico la vendetta designa anzitutto un ristabilimento della *giustizia, una vittoria sul male. Se è sempre vietato vendicarsi per odio del malvagio, è un dovere vendicare un diritto vilipeso. Tuttavia l’esercizio di questo dovere si è evoluto nel corso della storia: lo si è tolto all’individuo per affidarlo alla società e, soprattutto, Dio si è rivelato a poco a poco come il solo legittimo vendicatore della giustizia.
    1. Il vendicatore del sangue.
    - Nella società nomade che Israele formava alle sue origini, i membri del clan dovevano proteggersi e difendersi reciprocamente. In caso di omicidio, un gô’el, «vendicatore del sangue» (Num 35, 21), vendicava il clan uccidendo l’assassino. Al motivo di solidarietà si aggiungeva la convinzione che, come quello di *Abele, il *sangue versato grida vendetta (cfr. Gen 4, 10; Giob 16, 18), ha profanato la terra dove abita Jahvè (Num 35, 33 s). Così doveva essere salvaguardata la giustizia. Israele, diventato popolo sedentario, conservò questa usanza (cfr. 2 Sam 3, 22-27). Ma la sua legislazione (Es 21, 12; Lev 24, 17), pur considerando ancora il vendicatore del sangue come un giustiziere (Num 35, 12. 19), si preoccupa di regolare l’esercizio del suo diritto, affinché sia premunito contro gli eccessi della sua *ira (Deut 19, 6). Ormai solo più in caso di omicidio volontario (Deut 24, 16) l’omicida cade sotto i colpi del vendicatore del sangue, ed un processo deve aver avuto luogo nella città-rifugio dove l’assassino avrà cercato scampo (Num 35, 24. 30; Deut 19). In tal modo il diritto alla vendetta passa a poco a poco dall’individuo alla società.
    2. La vendetta personale.
    - Con la legge del taglione (Es 21, 23 ss; Lev 24, 19; Deut 19, 21), la legislazione ebraica frena la passione umana sempre pronta a rendere male per male: proibisce la vendetta illimitata dei tempi barbari (cfr. Gen 4, 15. 24). Infine addolcisce anche la legge del taglione, ammettendo in taluni casi che ci sia compensazione pecuniaria, principio ammesso da altri codici orientali (Es 21, 18 s. 26 s). Tuttavia il taglione minacciava di impedire alla coscienza di innalzarsi progressivamente: anche codificato dalla giustizia sociale, il desiderio di vendetta può continuare a dimorare nel cuore dell’uomo. Occorreva dunque realizzare anche un’educazione della coscienza.
    a) Divieto di vendicarsi. - La legge di santità colpisce il desiderio di vendetta alla radice: «Non avrai nel tuo cuore odio per il tuo fratello... Non ti vendicherai e non conserverai rancore verso i figli del tuo popolo. Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lev 19, 17 s). Sono celebri taluni esempi di *perdono: quello di Giuseppe, che interpreta la persecuzione di cui è stato vittima come un disegno di Dio che sa trarre il bene dal male (Gen 45, 3 s. 7; 50, 19); quello di David che non si vendica di Saul (1 Sam 24, 4 s; 26, 5-12), per non levare la mano sull’unto di Jahvè. Tuttavia lo stesso David fa esercitare una vendetta postuma contro Shimei e contro Joab (1 Re 2, 6-46). Ad ogni modo il dovere del perdono resta limitato ai fratelli di razza: così il libro dei Giudici non critica affatto Sansone che si vendica personalmente dei Filistei (Giud 15, 3. 7). Con i Sapienziali questo dovere tenderà ad universalizzarsi e ad approfondirsi: «Chi si vendica, proverà la vendetta del Signore... Non conservar rancore contro il tuo *prossimo» (Eccli 28, 1. 7). Il principio, a quanto pare, non esclude nessuno.
    b) L’appello alla vendetta divina. - La ragione per cui il giusto rinunzierà completamente a vendicarsi è la sua *fiducia in Dio. «Non dire: restituirò il male; dà fiducia a Jahvè, egli ti libererà» (Prov 20, 22). Il giusto non si vendica, ma lascia a Dio la cura di vendicare la giustizia: «A me la vendetta, dice il Signore» (Deut 32, 35). Così fa Geremia perseguitato, quando «rimette a Dio la sua causa» (Ger 20, 12); certamente egli desidera di «vedere la vendetta divina» (11, 20), ma perché ha identificato la sua causa con la causa di Dio (15, 15). Non desidera il male, ma la *giustizia; e questa non può essere ristabilita se non da Dio solo. Così pure il salmista che, a sua volta, desidera, con enfasi semitica, «lavare i suoi piedi nel sangue dei nemici» (Sal 58, 11) e proferisce contro di essi imprecazioni terribili (Sal 5, 11; 137, 7 s), è animato da una volontà di giustizia. Rimane possibile illudersi sull’autenticità di un simile sentimento, ma il valore religioso dell’atteggiamento è innegabile. Esso si ricollega a quello di Giobbe: «Io so che il mio difensore (gô’el) è vivo e che egli per ultimo si ergerà sulla terra» , e renderà la giustizia (Giob 19, 25).
    3. Il Dio vendicatore.
    - La speranza di Giobbe non è vana, e così pure non lo è quella di Geremia: Dio è il *giudice per eccellenza che scruta reni e cuori e ricompensa ciascuno secondo le sue *opere; egli è il gô’el di Israele (Is 41, 14). Il *giorno del Signore può quindi essere chiamato «giorno di vendetta» (Ger 46, 10): Dio vendicherà allora la *giustizia; vendicherà pure il suo onore e, in questo senso, si può dire che soltanto Dio «si» può vendicare. Giustizia, salvezza, vendetta: ecco ciò che porterà il giorno del Signore (Is 59, 17 s). Nella misura in cui Israele è fedele all’alleanza può quindi fare appello per l’ingiustizia dei giudici umani al suo gô’el, al «Dio delle vendette», affinché compaia e giudichi la terra (Sal 94). Se questo non è ancora perdonare da cristiano, è attendere, con umíle sottomissione al Signore, il giorno della sua *visita.
    4. Cristo e la vendetta.
    - Quel giorno è venuto quando Gesù ha versato il suo *sangue: allora la suprema ingiustizia degli uomini ha rivelato la *giustizia infinita di Dio. Ormai il comportamento del credente sarà radicalmente mutato dall’*esempio di Cristo che, «insultato, non ha restituito l’insulto» (1 Piet 2, 23). Non soltanto Gesù instaura una nuova *legge che porta a compimento (*compiere) il principio del taglione, ma prescrive di non resistere al malvagio (Mt 5, 38-42). Egli non condanna la giustizia dei tribunali umani, di cui Paolo dirà che ha l’incarico di esercitare la vendetta divina (Rom 13, 4); ma esige dal suo discepolo il perdono delle offese e l’amore dei *nemici. Soprattutto insinua che soltanto colui che è capace di sopportare l’ingiustizia personale risparmierà l’ingiustizia agli altri. Ormai non basta più rimettersi alla vendetta divina, bisogna «essere vincitori del male mediante il bene» (Rom 12, 21): in tal modo «si pongono carboni accesi sul capo del proprio nemico», collocandolo in una situazione impossibile che lo impegna a tramutare il suo *odio in amore. Se, in virtù del sangue di Cristo, è stata compiuta ogni giustizia, l’ultimo giorno non è tuttavia ancora giunto. L’amore subisce quaggiù sconfitte. Dopo Gesù, i cristiani muoiono, vittime di una *violenza ingiusta. Se essi perdonano ai loro carnefici (Atti 7, 60), il loro sangue versato grida tuttavia a Dio: «Fino a quando, o Signore santo e vero, tarderai a far giustizia, a prendere vendetta del nostro sangue sugli abitanti della terra?» (Apoc 6, 10; cfr. 16, 6; 19, 2). Ma questa vendetta finale della giustizia ad opera del Dio-giudice avrà come risultato di annientare per sempre la *maledizione (22, 3).
    A. DARRIEUTORT e X. LÉON-DUFOUR
    → Abele 2 - giorno del Signore VT II - giudizio VT I 1. NT II 1 - ira - liberazione-libertà II 2 - maledizione IV - misericordia VT II - nemico II 3 - odio I 3 - perdono III - sangue VT 1; NT 4 - violenza I 1, III 2, IV 3 - zelo I 2.

    VENTO (inizio)

    → Pentecoste I 1 - presenza di Dio VT II - spirito VT 1 - Spirito di Dio 0.

    VENUTA DEL SIGNORE (inizio)

    → giorno del Signore - missione NT I - nube 3.4 - visita.

    VERBO DI DIO (inizio)

    → parola di Dio.

    VERGINITÀ (inizio)

    In parecchie religioni antiche la verginità aveva un valore sacro. Talune dee (Anat, Artemide, Atena) erano chiamare vergini, ma per mettere in rilievo la loro giovinezza eterna, la loro fiorente vitalità, la loro incorruttibilità. Soltanto la rivelazione cristiana avrebbe mostrato nella sua pienezza il senso religioso della verginità, abbozzato nel VT: la fedeltà in un amore esclusivo per Dio.
    VECCHIO TESTAMENTO
    1. Sterilità e verginità.
    - Nella prospettiva del popolo di Dio, orientato verso il suo accrescimento, la verginità equivaleva alla *sterilità che era un’umiliazione, un obbrobrio (Gen 30, 23; 1 Sam 1, 11; Lc 1, 25): la figlia di Jefte, condannata a morire senza figli, piange per due mesi la sua «verginità» (Giud 11, 37), perché non parteciperà alla ricompensa (Sal 127, 3), alla *benedizione (Sal 128, 3-6) che è il frutto delle viscere. Tuttavia la verginità prima del matrimonio era stimata (Gen 24, 16: Giud 19, 24); si vede, ad esempio, che il sommo sacerdote (Lev 21, 13 s) ed anche il semplice sacerdote (Ez 44, 22; cfr. Lev 21, 7) non poteva sposare che una vergine, ma più per preoccupazione di *purità rituale nel campo della *sessualità (cfr. Lev12; 15) che non per stima della verginità come tale. Nel contesto delle promesse e dell’alleanza bisogna cercare la vera preparazione della verginità cristiana. Rendendo feconde delle donne sterili, Dio con questa misteriosa disposizione vuol mostrare che i portatori delle *promesse non sono stati suscitati per la via normale della *fecondità, ma per un intervento della sua onnipotenza. La gratuità della sua *elezione si manifesta in questa segreta preferenza accordata alle sterili.
    2. Continenza volontaria.
    - Accanto a questa corrente principale, esistono casi isolati in cui la continenza è volontaria. Geremia, per ordine di Jahvè, deve rinunziare al matrimonio (Ger 16, 2), ma è semplicemente per annunziare con un atto simbolico l’imminenza del castigo di Israele, in cui donne e bambini saranno massacrati (16, 3 ss. 10-13). Gli Esseni vivono nella continenza, ma sono spinti soprattutto, a quanto pare, da una preoccupazione di purità legale. Altri esempi hanno un valore più religioso: Giuditta, con la sua vedovanza volontaria e la sua vita penitente (Giudit 8, 4 ss; 16, 22), merita di essere, come già Debora (Giud 5, 7), la madre del suo popolo (Giudit 16, 4. 11. 17), e con il suo genere di vita prepara la comune stima della *vedovanza e della verginità nel NT; Anna rifiuta di risposarsi per aderire più strettamente al Signore (Lc 2, 37); Giovanni Battista prepara la venuta del Messia con una vita di asceta ed osa già chiamarsi l’amico dello sposo (Gv 3, 29).
    3. Le nozze (cfr. *sposo-sposa) tra Dio ed il suo popolo.
    - Il precursore si rivelava in tal modo l’erede di una tradizione profetica sulle nozze tra Jahvè ed il suo popolo, che preparava anch’essa la verginità cristiana. Di fatto i profeti più di una volta danno il nome di vergine ad un paese conquistato (Is 23, 12; 47, l; Ger 46, 11), in particolare ad Israele (Am 5, 2; Is 37, 23; Ger 14, 17; Lam 1, 15; 2, 13), e questo per deplorare la perdita della sua integrità territoriale; ma Geremia apostrofa parimenti il popolo, che ha profanato l’alleanza, come «la vergine Israele» (Ger 18, 13), per ricordargli quel che avrebbe dovuto essere la sua *fedeltà. Lo stesso titolo ritorna pure nel contesto della restaurazione, quando Jahvè ed il suo popolo avranno nuovamente relazioni di amore e di fedeltà (Ger 31, 4. 21). Per Isaia (62, 5), il matrimonio di un giovane e di una vergine simboleggia le nozze messianiche tra Jahvè ed Israele. Con le sue esigenze esclusive Dio preparava i suoi fedeli a riservargli tutto il loro amore. 
    NUOVO TESTAMENTO 
    A partire da Cristo, la vergine Israele si chiama la *Chiesa. I fedeli che vogliono rimanere vergini partecipano alla verginità della Chiesa. Realtà essenzialmente escatologica, la verginità non assumerà tutto il suo senso che nel compimento ultimo delle nozze messianiche.
    1. La Chiesa vergine, sposa di Cristo.
    - Come nel VT, il tema della verginità si collega paradossalmente a quello delle nozze (cfr. *sposo-sposa): l’unione di Cristo e della Chiesa è una unione verginale, simboleggiata altrove dal *matrimonio. «Cristo ha amato la Chiesa e si è dato per essa» (Ef 5, 25). La Chiesa di Corinto è stata fidanzata a Cristo, Paolo gliela vuol presentare come una vergine pura ed immacolata (2 Cor 11, 2; cfr. Ef 5, 27); l’apostolo prova per essa la gelosia di Dio (2 Cor 11, 2): non permetterà che si attenti alla integrità della sua fede.
    2. La verginità di Maria.
    - La verginità della Chiesa incomincia a realizzarsi nel punto di congiunzione delle due alleanze, in *Maria, figlia di Sion. La madre di Gesù è la sola donna del NT cui sia applicato, quasi come un titolo, il nome di vergine (Lc 1, 27; cfr. Mt 1, 23). Con il suo desiderio di conservare la verginità (cfr. Lc 1, 34), essa assumeva la sorte delle donne rimaste senza figli, ma ciò che un tempo era una umiliazione doveva divenire per essa una benedizione (Lc 1, 48). Fin da prima dell’annunciazione, Maria era portata a riserbarsi a Dio; aveva tuttavia accettato l’obbligo del matrimonio, come un segno misterioso della volontà divina. Ma quando l’angelo le rivela che sarà madre e vergine nello stesso tempo, di colpo prende coscienza della ragione di questo orientamento profondo della sua esistenza; la sua vocazione virginale le viene rivelata contemporaneamente all’incarnazione dei Figlio di Dio, di cui essa deve essere il segno. Nella verginità di colei che diventa la madre di Dio si compie così la lunga preparazione della verginità nel VT, ma anche la preghiera delle donne sterili rese feconde dall’intervento di Dio. In Maria si palesa già il senso escatologico della verginità cristiana, che a sua volta, manifesta l’irruzione, nella storia, di un mondo nuovo.
    3. La verginità dei cristiani.
    - È stato Gesù, rimasto vergine come Giovanni Battista e Maria, a rivelare il vero senso ed il carattere soprannaturale della verginità. Essa non è un precetto (1 Cor 7, 25), ma una chiamata personale di Dio, un *carisma (7, 7). «Oltre agli eunuchi che sono nati tali dal seno materno ed a quelli che sono diventati tali per opera degli uomini, ce ne sono pure di quelli che si sono resi tali per il *regno dei cieli» (Mt 19, 12). Soltanto il regno dei cieli giustifica la verginità cristiana; comprendono questo linguaggio soltanto coloro ai quali è dato (19, 11). Secondo Paolo, la verginità è superiore al *matrimonio, perché consente una consacrazione integrale al Signore (1 Cor 7, 32-35): l’uomo sposato è diviso; coloro che restano vergini non hanno il cuore diviso, possono consacrarsi interamente a Cristo, avere come *preoccupazione le cose del Signore e non lasciarsi distrarre da questa attenzione costante. La frase di Cristo in Mt 19, 12 («per il regno dei cieli» ) conferisce alla verginità la sua vera dimensione escatologica. Paolo ritiene che lo stato di verginità convenga «a motivo delle angustie presenti» (1 Cor 7, 26) e del tempo che diventa breve (7, 29). La condizione del matrimonio è legata al tempo presente, ma la figura di questo mondo passa (7, 31). Coloro che rimangono vergini sono distaccati da questo secolo. Come nella parabola (Mt 25, l. 6), essi attendono lo *sposo ed il regno dei cieli. Rivelazione costante della verginità della Chiesa, la loro vita è anche una testimonianza della non appartenenza dei cristiani a questo mondo, un «segno» permanente della tensione escatologica della Chiesa, un’anticipazione dello stato di *risurrezione in cui coloro che saranno stati giudicati degni di partecipare al mondo futuro saranno simili agli angeli, ai figli di Dio (Lc 20, 34 ss par.). Lo stato di verginità fa quindi conoscere in modo eccellente il vero volto della Chiesa. Come le vergini prudenti, i cristiani vanno incontro a Cristo, loro sposo, per partecipare con lui al banchetto delle nozze (Mt 25, 1-13). Nella Gerusalemme celeste, tutti gli eletti sono chiamati vergini (Apoc 14, 4), perché hanno rifiutato la prostituzione dell’*idolatria, ma soprattutto perché ora sono interamente dediti a Cristo: con una docilità totale, «seguono l’agnello dovunque vada» (cfr. Gv 10, 4. 27). Appartengono ormai alla città celeste, la sposa dell’agnello (Apoc 19, 7. 9; 21, 9).
    I. DE LA POTTERIE
    → donna NT - fecondità III 2 - madre II 2 - Maria II - matrimonio NT II - sessualità I 2 - Sposo-sposa - sterilità - vedove 2.

    VERGOGNA (inizio)

    I. LE SITUAZIONI DELLA VERGOGNA
    Il vocabolario della vergogna non ha per, nulla lo stesso senso nel linguaggio delle Scritture e nel nostro. Si avvicina moltissimo alla nozione di frustrazione, di *delusione. Cadere a terra, essere nudo, indietreggiare, essere inutile, sono per tutti situazioni tipiche della vergogna, ma nella Bibbia questo sentimento si estende ad ogni sofferenza. Così anche la prova di una carestia (Ez 36, 30) sarà formulata in termini di obbrobrio. Per l’uomo biblico ogni sofferenza è vissuta sotto lo sguardo altrui, comporta un *giudizio da parte degli altri, e quindi si ricollega alla vergogna. Perciò le nozioni di vergogna e di giudizio sono sovente collegate, poiché il giudizio è il momento che, sia nel corso di questa vita, sia al suo termine, rivela dinanzi a tutti ed alla luce divina che una speranza è stata vana o giusta.
    1. Vergogna e sconfitta.
    - Si faceva affidamento, e tutti lo sapevano, su un soccorso esterno, su un piano, su un’arma, che vengono a mancare o si rivelano inoperanti. Si perde la faccia cadendo; si dà occasione a *riso. La nozione di vergogna è quindi collegata in modo antitetico a quella di appoggio (Sal 22, 4 ss: ebr. «fidarsi»), di speranza, di *fede fiduciosa, il che spiega la sua estensione. Si sa che il giusto si appoggia a Dio; se ciò si rivelasse inefficace, egli avrebbe vergogna. Di qui la sua preghiera ripetuta di non essere «confuso» (Sal 25, 2 s; 22, 6...; cfr. Is 49, 23). Viceversa, quando i falsi appoggi, come il faraone (Is 20, 5; 30, 3 ss) o gli idoli, crolleranno facendo vedere in un giudizio il loro nulla, gli insensati arrossiranno delusi e confusi al tempo stesso (Is 1, 9). «Indietreggeranno nella vergogna» (Is 42, 17; Sal 6, 11; 70, 4). La loro umiliazione consisterà sovente nel veder trionfare colui che essi pensavano di aver visto (Sap 2, 20; 5, 1 ss) o di vedere un giorno umiliato (Sal 35, 26).
    2. Vergogna e nudità.
    - La vergogna di essere senza *veste rientra nei fatti misteriosi che il racconto del paradiso fa risalire al primo peccato. È l’affiorare alla coscienza di una *solitudine che proviene dal disordine. L’essere denudate sarà una vergogna inflitta alle figlie di Israele o di altri popoli per castigarle (Ez 23, 29; Is 47, 1 ss).
    3. Vergogna e *sterilità.
    - Chiunque non giustifica con qualche *frutto la sua esistenza dinanzi agli altri è in situazione di obbrobrio. È anzitutto il caso di colei che non partorisce (Lc 1, 25; Gen 30, 23) ed anche di colei che rimane sola, senza marito (Is 4, 1).
    4. Vergogna ed idolatria.
    - «Vergogna» è quasi un nome proprio dell’*idolo (di Baal: 2 Sam 2, 8 ebr.). Esso infatti è fragile ed illusorio, menzogna e sterilità (Sap 4, 11; Is 41, 23 s; 44, 19), mentre il guardare la *faccia di Jahvè salva dalla vergogna (Sal 34, 6).
    II. IL GIUSTO SALVATO DALLA VERGOGNA
    1. Da Dio, da Cristo.
    - Il giusto è assalito dalla vergogna: ci si scosta da lui (Is 53, 3; Sap 5, 4; Sal 69, 8), lo si identifica con la vergogna (Sal 22, 7; 109, 25). Ma egli rende la sua *faccia come pietra dura (Is 50, 7; cfr. Lc 9, 51). Si trova spesso nel NT l’uso dell’espressione «non arrossire» o di altre analoghe, in un senso che implica una volontà attiva di credere, quindi di agire e di parlare, senza temere la vergogna. Al credente è promesso l’obbrobrio (Mt 5, 11 s), ma egli non deve arrossire né di Gesù né della sua parola (Lc 9, 26). S. Paolo (Rom 1, 16; cfr. 2 Tim 1, 8) non arrossisce del vangelo: benché attenda ancora il giudizio che darà piena conferma alla sua speranza, egli si attiene fermamente a questa speranza ed agisce, parla di conseguenza. Questo atteggiamento è la parresìa (gr.) o sicurezza (taluni traducono *fierezza) di linguaggio e di azione nell’uomo liberato dalla vergogna mediante la fede. Nella fede in Gesù è rigettata la vergogna: «tale è l’attesa della mia ardente speranza: nulla mi confonderà, conserverò invece tutta la mia sicurezza e... Cristo sarà glorificato nel mio corpo...» (Fil 1, 20). Di fatto Gesù ha disprezzato per primo la vergogna (Ebr 12, 2).
    2. Dalla carità fraterna.
    - Il vocabolario paolino della vergogna è sorprendentemente ricco e ne attesta l’importanza nella sensibilità dell’apostolo. Al pari degli uomini del VT, Paolo avverte l’aspetto sociale delle sue prove (1 Cor 4, 13); grazie ad esse egli esperimenterà la carità di coloro che non arrossiranno di lui (Gal 4, 14). La Chiesa è un corpo in cui nessuna parte deve arrossire dell’altra (1 Cor 12, 23): Paolo porta l’obbrobrio di Cristo (Ebr 11, 26) che ha portato il nostro e non arrossisce di chiamarci fratelli (2, 11): ecco la base di questa concezione della carità. Essa servirà di regola verso coloro che si sarebbe tentati di disprezzare (Rom 14, 10).
    P. BEAUCHAMP
    → delusione I 2 - fiducia - fierezza - silenzio 2 - solitudine 1 1 - sterilità I 1 - ubriachezza 1.

    VERITÀ (inizio)

    Nel linguaggio corrente si dice vero un pensiero, una parola conforme alla realtà, od ancora la realtà stessa che si svela, che è chiara, evidente per lo spirito (vero, a-lethès = non nascosto). È la concezione intellettualistica dei Greci, che ordinariamente è anche la nostra. La nozione biblica di verità è diversa, perché si fonda su un’esperienza religiosa, quella dell’incontro con Dio. Essa conobbe tuttavia una notevole evoluzione: mentre nella Bibbia la verità è anzitutto la fedeltà all’alleanza, nel NT diventerà la pienezza della rivelazione che ha Cristo come centro.
    VECCHIO TESTAMENTO
    Il verbo ebr. ‘aman (cfr. l’*amen liturgico: 2 Cor 1, 20), da cui è formato ‘emet (verità), significa fondamentalmente: essere solido, sicuro, degno di fiducia; la verità è quindi la qualità di ciò che è stabile, provato, ciò su cui ci si può appoggiare. Una pace di verità (Ger 14, 13) è una pace salda, duratura; una via di verità (Gen 24, 48) è una via che conduce sicuramente alla metà; «in verità» significa talvolta (Is 16, 5): in modo stabile, per sempre. Applicata a Dio od agli uomini, la parola si dovrà sovente tradurre con *fedeltà, perché appunto la fedeltà di uno ci impegna a dargli fiducia.
    1. La «‘emet» di Dio.
    - Essa è legata al suo intervento nella storia in favore del suo popolo. Jahvè è il Dio fedele (Deut 7, 9; 32, 4; Sal 31, 6; Is 49, 7). L’importanza di questo attributo non si spiega bene che nel contesto dell’*alleanza e delle *promesse: «Jahvè tuo Dio è Dio, il Dio fedele che conserva la sua alleanza ed il suo amore per mille generazioni a coloro che lo amano» (Deut 7, 9). Il Sal 89, a proposito dell’alleanza davidica, è consacrato tutto a celebrare la fedeltà di Dio. Il senso fondamentale del termine è chiarissimo nel Sal 132, 11 («Jahvè ha giurato a David ‘emet, non si ritrarrà da essa»), dove il *giuramento, chiamato ‘emet, è con ciò stesso qualificato come infrangibile. Sovente ‘emet è associato a hesed (ad es. Sal 89; 138, 2) per indicare l’atteggiamento fondamentale di Dio nell’alleanza: è una alleanza di *grazia, alla quale Dio non è mai venuto meno (Es 34, 6 s; cfr. Gen 24, 27; 2 Sam 2, 6; 15, 20). Altrove la fedeltà è congiunta agli attributi di giustizia (Os 2, 21 s; Neem 9, 33; Zac 8, 8) o di santità (Sal 71, 22) ed assume un significato più generale, senza riferimento all’alleanza. In parecchi salmi la stabilità divina è presentata come una protezione, un rifugio per il giusto che implora il soccorso divino: di qui le immagini del bastione, dell’armatura, dello scudo (Sal 91), che pongono in evidenza la saldezza dell’appoggio divino (cfr. Sal 40, 12; 43, 2 s; 54, 7; 61, 8). La ‘emet caratterizza ancora la *parola di Dio e la sua legge. David dice a Jahvè: «Le tue parole sono verità» (2 Sam 7, 28), perché le promesse divine assicurano la perpetuità alla sua casa. I salmi celebrano la verità della legge divina (Sal 19, 10; 111, 7 s; 119, 86. 138. 142. 151. 160); secondo il testo citato per ultimo, la verità è ciò che vi ha di essenziale, di fondamentale nella parola di Dio: essa è irrevocabile, rimane per sempre.
    2. La «‘emet» degli uomini.
    - Anche qui si tratta di un atteggiamento fondamentale di fedeltà (cfr. Os 4, 2). «Uomini di verità» (Es 18, 21; Neem 7, 2) sono uomini di fiducia, ma i due testi aggiungono «tementi Dio», il che collega questo apprezzamento morale al contesto religioso del jahvismo. Ordinariamente la «verità» degli uomini designa direttamente la loro fedeltà all’alleanza ed alla legge divina. Descrive quindi l’insieme del comportamento dei giusti; di qui il parallelismo con perfezione (Gios 24, 14), cuore integro (2 Re 20, 3), il bene ed il diritto (2 Cron 31, 20), diritto e giustizia (Is 59, 14; cfr. Sal 45, 5), santità (Zac 8, 3). «Fare la verità» (2 Cron 31, 20; Ez 18, 9) e «camminare nella verità» (1 Re 2, 4; 3, 6; 2 Re 20, 3; Is 38, 3), significa essere fedeli osservatori della legge del Signore (cfr. Tob 3, 5). Per le relazioni degli uomini fra di loro riappare la formula «fare la bontà e la verità» (Gen 47, 29; Gios 2, 14): significa agire con benevolenza e lealtà, con una bontà fedele. La ‘emet significa parimenti il rispetto delle norme del diritto nell’esercizio della *giustizia (Prov 29, 14; Es 18, 8; Zac 7, 9) o la perfetta sincerità nel linguaggio; ma anche qui si ritrova la sfumatura fondamentale: una *lingua sincera «rimane per sempre» (Prov 12, 19).
    3. La verità rivelata.
    - Nella tradizione sapienziale ed apocalittica, la nozione di verità assume un senso parzialmente nuovo che prepara il NT: designa la dottrina di sapienza, la verità rivelata. In taluni salmi (25, 5; 26, 3; 86, 11), l’espressione «camminare nella verità di Dio» lascia capire che questa verità non è semplicemente il comportamento morale, ma la *legge stessa che Dio insegna ad osservare. I sacerdoti devono trasmettere «una dottrina di verità» (Mal 2, 6): è l’*insegnamento che viene da Dio. «Verità» diventa sinonimo di *sapienza: «Acquista la verità, non la vendere: sapienza, disciplina ed intelligenza» (Prov 23, 23; cfr. 8, 7; 22, 21; Eccle 12, 10); «Fino alla morte lotta per la verità» (Eccli 4, 28 LXX). La parola «verità», indicando il disegno ed il volere di Dio, è pure affine a *mistero (Tob 12, 11; Sap 6, 22). Al momento del giudizio, i giusti «comprenderanno la verità» (Sap 3, 9), non nel senso che debbano esperimentare la fedeltà di Dio alle sue promesse oppure vedere l’essere stesso di Dio, ma comprenderanno il suo *disegno provvidenziale sugli uomini. Per Daniele, «il libro della verità» (Dan 10, 21) è quello in cui è scritto il *disegno di Dio: la verità di Dio è la rivelazione del suo disegno (9, 13), è ancora una visione celeste o la spiegazione del suo significato (8, 26; 10, 1; 11, 2), è la vera fede, la religione di Israele (8, 12). Quest’uso del termine si conserva nel giudaismo apocalittico e sapienziale. A Qumrân «l’intelligenza della verità di Dio» è la conoscenza dei misteri (Inni di Qumrân: I QH 7, 26 s), che però si ottiene mediante l’interpretazione vera della legge: «convertirsi alla verità» (Manuale di disciplina: I QS 6, 15), significa «convertirsi alla legge di Mosè» (5, 8). Dottrina rivelata, la verità ha pure una portata morale, si oppone alla iniquità: i «figli della verità» (4, 5) sono coloro che seguono «le vie della verità» (4, 17). La verità finisce così per designare a Qumrân l’insieme delle concezioni religiose dei figli dell’alleanza. 
    NUOVO TESTAMENTO 
    1. Eredità biblica.

    - In Paolo, più che altrove nel NT, la nozione di verità (alètheia) presenta le sfumature che aveva nei LXX. L’apostolo se ne serve nel senso di sincerità (2 Cor 7, 14; 11, 10; Fil 1, 18; 1 Cor 5, 8) o nella espressione «dire la verità» (Rom 9, 1; 2 Cor 12, 6; Ef 4, 25; 1 Tim 2, 7). Profondamente biblica è la formula «la verità di Dio» per designare la *fedeltà di Dio alle sue promesse (Rom 3, 7; cfr. 3, 3; 15, 8; 2 Cor 1, 18 ss: le *promesse del Dio fedele hanno il loro «sì» in Cristo); così pure alètheia nel senso di verità morale, di rettitudine: opposta alla ingiustizia (1 Cor 13, 6), sinonimo di *giustizia (Ef 5, 9; 6, 14), essa caratterizza il comportamento che Paolo si aspetta dai suoi cristiani (Col 1, 6; 2 Cor 13, 8). Il *giudizio di Dio sarà anch’esso improntato a verità, a giustizia (Rom 2, 2). L’antitesi tra «la verità di Dio» e la *menzogna degli *idoli (Rom 1, 25; cfr. 1 Tess 1, 9) si ispira alla polemica giudaica contro l’idolatria pagana (Ger 10, 14; 13, 25; Bar 6, 7. 47. 50): il vero Dio è il Dio vivente, sul quale si può contare, colui che esaudisce il suo popolo e lo salva.
    2. La verità del vangelo.
    - Qui appare la nozione di verità cristiana. Essa si collega al tema sapienziale ed apocalittico di verità rivelata. I Giudei si illudevano di possedere nella loro legge l’espressione stessa di questa verità (Rom 2, 20), di trovarsi depositata tutta la *volontà di Dio (2, 18). All’espressione giudaica «la verità della legge» Paolo sostituisce «la verità del *vangelo» (Gal 2, 5. 14) o «la parola di verità» (Col 1, 5; Ef 1, 13; 2 Tim 2, 15). Oggetto di una *rivelazione (2 Cor 4, 2) allo stesso titolo del *mistero (Rom 16, 26; Col 1, 26; 4, 3), essa è la *parola di Dio *predicata dall’apostolo (2 Cor 4, 2. 5).
    a) La verità e la fede. - Gli uomini a cui questo messaggio è indirizzato devono ascoltare la parola (Ef l, 13; Rom 10, 14), devono convertirsi per giungere alla *conoscenza della verità (2 Tim 2, 25). L’accettazione della verità del vangelo avviene mediante la *fede (2 Tess 2, 13; Tito 1, 1; cfr. 2 Tess 2, 12; Gal 5, 7; Rom 2, 8), ma questa fede esige nello stesso tempo l’*amore della verità (2 Tess 2, 10). «Giungere alla conoscenza della verità» diventa nei testi posteriori (1 Tim 2, 4; 2 Tim 3, 7; cfr. Ebr 10, 26) un’espressione stereotipata per dire: aderire al vangelo, abbracciare il cristianesimo, perché i fedeli sono precisamente coloro che conoscono la verità (1 Tim 4, 3); questa non è altro che la fede cristiana (Tito 1, 1).
    b) Verità e vita cristiana. - Secondo le lettere cattoliche i fedeli sono stati generati alla nuova vita dalla parola di verità (Giac 1, 18; 1 Piet 1, 23); hanno santificato le loro *anime mediante l’*obbedienza alla verità nel momento del battesimo (1 Piet 1, 22). Bisogna quindi non smarrirsi lontano da questa verità una volta abbracciata (Giac 5, 19), rafforzarsi nella verità presente in vista della parusia (2 Piet 1, 12); bisogna continuare a desiderare questo *latte della parola, per crescere per la *salvezza (1 Piet 2, 2). In tal modo il cristiano, aggiunge Paolo, si *riveste dell’uomo *nuovo e realizza la *santità che la verità esige (Ef 4, 24).
    c) La sana dottrina e l’*errore. - Nelle pastorali la polemica contro gli *eretici conferisce al tema una nuova sfumatura: la verità è ormai la buona dottrina (1 Tim 1, 10; 4, 6; 2 Tim 4, 3; Tito 1, 9; 2, 1) opposta alle favole (1 Tim 1, 4; 4, 7; 2 Tim 4, 4; Tito 1, 14) dei dottori di *menzogna (1 Tim 4, 2). Questi hanno voltato la schiena alla verità (Tito 1, 14; cfr. 1 Tim 6, 5; 2 Tim 2, 18; 4, 4), insorgono persino contro di essa (2 Tim 3, 8). Ma la Chiesa del Dio vivente rimane «la colonna ed il fondamento della verità» (1 Tim 3, 15).
    d) Tra la verità e Cristo esiste uno stretto legame. L’oggetto del messaggio dell’apostolo non è una dottrina astratta, ma la persona stessa di Cristo (2 Cor 4, 5; cfr. Gal 1, 16; 1 Cor 1, 23; 2 Cor 1, 19; 11, 4; Ef 4, 20; Fil 1, 15): Cristo, «manifestato nella carne... proclamato presso i pagani, creduto nel mondo», è la verità di cui la Chiesa è la custode, è il *mistero della *pietà (1 Tim 3, 16). Il Cristo-verità annunziato dal vangelo non è quindi un essere celeste in senso gnostico, ma il *Gesù della storia, morto e risorto per noi: «la verità è in Gesù» (Ef 4, 21).
    3. S. Giovanni.
    - Nella teologia di Giovanni, che è anzitutto una teologia di *rivelazione, la nozione di verità occupa un posto notevole. Si interpreta frequentemente 1’alètheia giovannea nel senso dualistico metafisico, platonico o gnostico, di essere sussistente ed eterno, di realtà divina che si svela. Ma Giovanni non chiama mai Dio stesso la verità, il che tuttavia sarebbe essenziale secondo questi sistemi. In realtà, egli non fa che sviluppare il tema apocalittico e sapienziale della verità rivelata, ripreso altrove nel NT, ma insistendo maggiormente sul carattere rivelato e sulla forza interiore della verità.
    a) La parola del Padre ed il Cristo-verità. - Per Giovanni la verità non è l’essere stesso di Dio, ma la *parola del Padre (Gv 17, 17; cfr. 1 Gv l, 8: «la verità non è in voi» e 1, 10: «la sua parola non è in voi»). La parola che Cristo ha inteso dal Padre (Gv 8, 26. 40; cfr. 3, 33), è la verità che egli viene a «proclamare» (8, 40. 45 s) e a cui viene a «rendere testimonianza» (18, 37; cfr. 5, 33). La verità è quindi nello stesso tempo la parola che Cristo stesso ci rivolge, e che ci porta a credere in lui (8, 31 s. 45 s). La differenza tra questa rivelazione e quella del VT è fortemente sottolineata: «La legge fu data per mezzo di Mosè; la *grazia della verità ci è venuta da *Gesù Cristo» (1, 17), perché con lui ed in lui è apparsa la *rivelazione totale, definitiva. Mentre il demonio è il padre della menzogna (8, 44), Cristo invece proclama la verità» (8, 45), è «pieno della grazia della verità» (1, 14). La grande novità cristiana è questa: che Cristo è egli stesso la verità (14, 6): lo è non tanto perché possiede la natura divina, ma perché, Verbo fatto carne, ci rivela il Padre (1, 18). Gesù spiega il senso di questo titolo unendolo a due altri: egli è «la via, la verità e la vita» ; è la *via che conduce al Padre, proprio perché lui, l’uomo Gesù, in quanto verità, ci trasmette in se stesso la rivelazione del Padre (17, 8. 14. 17) e così ci comunica la *vita divina (1, 4; 3, 16; 6, 40. 47. 63; 17, 2; 1 Gv 5, 11 ss). Questo titolo rivela quindi indirettamente la persona divina di Cristo; se Gesù, unico tra gli uomini, può essere per noi la verità, è per il fatto di essere nello stesso tempo la Parola, «il Verbo rivolto verso il seno del Padre» (Gv 1, 18), il Figlio unigenito.
    b) Lo Spirito di verità. - Terminata la rivelazione al mondo (Gv 12, 50), Gesù annuncia ai suoi discepoli la venuta del *Paraclito, lo Spirito di verità (14, 17; 15, 26; 16, 13). Per Giovanni la funzione fondamentale dello *Spirito è di rendere *testimonianza a Cristo (15, 26; 1 Gv 5, 6), di introdurre i *discepoli a tutta intera la verità (16, 13), di richiamare alla loro *memoria ciò che Cristo aveva detto, cioè di farne afferrare il vero senso (14, 26). Poiché il suo compito consiste nel far comprendere nella fede la verità di Cristo, lo Spirito è detto anch’esso «la verità» (1 Gv 5, 6); come testimone di Cristo, rende presente la verità nella Chiesa; lo Spirito è per essa «il dottore della verità» (Tertulliano).
    c) Verità e santità. - Giovanni sottolinea con forza la funzione della verità nella vita del fedele. Egli deve «essere dalla verità» (Gv 18, 37; 1 Gv 3, 19): dopo aver aderito una volta per sempre alla nuova *vita mediante la fede (cfr. Giac 1, 18; 1 Piet l, 22 s), il cristiano deve *nascere dallo Spirito (Gv 3, 5. 8) e sforzarsi di essere abitualmente sotto l’influsso della verità che rimane in lui (2 Gv 4) per diventare un uomo nato dallo Spirito (Gv 3, 5. 8). Soltanto colui che *rimane così nella *parola di Gesù giungerà a conoscere veramente la verità e ad essere *liberato internamente dal peccato mediante questa verità (Gv 8, 31 s): perché la fede purifica (Atti 15, 9), e quindi anche la parola di Cristo (Gv 15, 3); essa ci fa vincere il maligno (1 Gv 2, 14); quando il fedele permette che il seme della parola «rimanga» attivamente in lui, diventa impeccabile (1 Gv 3, 9), si *santifica nella verità (Gv 17, 17. 19). Giovanni vede così nella alètheia il principio interiore della vita morale e conferisce alle antiche espressioni bibliche una pienezza di senso cristiano: «fare la verità» significa accogliere e fare propria la verità di Gesù (3, 21) o convertirsi a lui riconoscendosi peccatore (1 Gv 1, 6); «camminare nella verità» (2 Gv 4; 3 Gv 3 s) significa procedere nel precetto dell’amore (2 Gv 6), lasciarsi dirigere nella propria azione dalla verità, dalla fede. Amare i propri fratelli «in verità» (2 Gv 1; 3 Gv l), significa amarli con la forza della verità che rimane in noi (2 Gv 1 ss; cfr. 1 Gv 3, 18); l’adorazione «in spirito e verità» (Gv 4, 23 s) è una *adorazione che sgorga dall’interno; è un *culto ispirato dallo Spirito e dalla verità di Gesù, che lo Spirito di verità rende attivo in coloro che ha fatto rinascere; Gesù-verità diventa così il nuovo tempio, dove si deve praticare il culto distintivo dei tempi messianici. Poiché la verità è la rivelazione dell’amore di Dio, Gesù invita i cristiani a praticare l’amore fraterno; essi diventeranno con questo «cooperatori della verità» (3 Gv 8), lasceranno esprimersi del tutto nella loro vita la verità del Cristo (3 Gv 3. 6). La verità in senso cristiano non è quindi il campo immenso del reale, che noi dovremmo conquistare con uno sforzo di pensiero, ma è la verità del vangelo, la parola rivelatrice del Padre, presente in Gesù Cristo ed illuminata dallo Spirito, che dobbiamo accogliere nella fede perché trasformi le nostre esistenze. La verità di salvezza risplende per noi nella persona del Cristo, che è insieme mediatore e pienezza della rivelazione, e ci è autenticamente comunicata nei libri santi.
    I. DE LA POTTERIE
    → adorazione II 3 - amen 2 - conoscere - eresia - errore - fede - fedeltà - giuramento - labbra 1 - luce e tenebre NT II 1 - menzogna - Paraclito - parola di Dio - testimonianza.

    VESCOVO (inizio)

    → Chiesa III 2 c - ministero II 3.4.

    VESTE (inizio)

    Con il nutrimento ed il tetto, la veste è condizione primordiale dell’esistenza umana (Eccli 29, 21); la benedizione assicura pane e veste (Deut 10, 18; cfr. Gen 28, 20), il castigo carestia e nudità (Deut 28, 48). La veste protegge contro le intemperie: non bisogna tenere in pegno il mantello del povero quando il freddo della notte piomba su di lui (Es 22, 25). Accanto a questi dati elementari, il simbolismo della veste si orienta verso una duplice direzione. Significa da una parte un mondo ordinato dal creatore, e dall’altra parte la promessa della gloria perduta nel paradiso.
    I. LA VESTE, RIFLESSO DELL’ORDINE DIVINO DEL MONDO
    Strappando le cose al caos originale, il creatore ha assegnato a ciascuna di esse il suo posto in un mondo ordinato. Così la veste appare come un segno della persona umana nella sua identità e nella stia distinzione.
    1. Veste e persona umana.
    - In un primo stadio la veste protegge il corpo non soltanto contro le intemperie, ma contro gli sguardi che potrebbero ridurre la persona ad un oggetto di bramosia, facendola ritornare nel caos della indistinzione da cui il creatore l’ha fatta uscire. Trova così fondamento il divieto di «sollevare il velo» che protegge il gruppo parentale (Gen 9, 20-27), uterino (Gen 34; 2 Sam 3) e coniugale (Deut 22, 13-24): la vita privata di ciascuno è protetta dalla veste. La veste assicura parimenti la distinzione dei *sessi e può simboleggiare i loro rapporti. L’uomo e la donna devono portare abiti distinti (Deut 22, 5). La donna si vela il volto per motivi precisi, come nell’incontro prenuziale, specie di rito di consacrazione a colui che l’ha scelta (Gen 24, 65); risponde all’atto del fidanzato che le comunica ciò che egli ha, «stendendo su di essa il lembo del suo mantello» (Rut 3, 9; cfr. Deut 23, 1): in tal modo egli non prende «possesso» di essa (cfr. Rut 4, 7; Deut 25, 9; Sal 60, 10), ma conferisce all’eletta la gloria della sua stessa persona. La veste riflette la vita in società. Per ciascuna cellula della comunità essa è come il segno di una vita armoniosa che nasce dal lavoro in comune (tosatura: 1 Sam 25, 4-8; tessitura: Prov 31, 10-31; Atti 18, 3; confezione: Atti 9, 39), di una saggia amministrazione (Prov 31, 30) e dell’aiuto reciproco. Donare il proprio mantello è un segno di fraternità; Gionata conclude in tal modo alleanza con David (1 Sam 18, 3 s), perché la veste fa con la persona un’alleanza unica, riconosciuta da coloro che si amano (Gen 37, 33), ad esempio dal *profumo che ne emana (Gen 27, 15. 27; Cant 4, 11). Il lusso ostentatore che accusa vergognosamente la sproporzione dei livelli di vita invece di cercare di porvi rimedio (Eccli 40, 4; Giac 2, 2) attira le maledizioni dei profeti e degli apostoli. Rivestire chi è nudo è un precetto vitale che si impone per giustizia (Ez 18, 7) alla comunità, sotto pena di decomposizione: è più che «riscaldare le sue membra» (Giob 31, 20), è farlo rinascere alla vita comune (Is 58, 7), rifare per lui ciò che Dio ha fatto per tutti (Deut 10, 18 s), trarlo dal caos. Senza questa giustizia la carità è morta (Giac 2, 15). «Da’ dunque anche il tuo mantello!» (Mt 5, 40), dice Cristo, indicando con ciò che bisogna dare la propria persona a colui che lo chiede.
    2. Veste e funzioni umane.
    - Non si porta sempre la stessa veste: bisogna distinguere i tempi della vita, il profano ed il sacro, il lavoro e la festa. Se il lavoro può esigere che si deponga la veste (Gv 21, 7), esistono, in cambio, vesti festive di tutte le specie. Cambiar veste può significare che si passa dal profano al sacro; così il popolo nell’attesa della teofania (Es 19, 10; Gen 35, 2) od i sacerdoti nell’entrare e nell’uscire dall’atrio interno (Es 28, 2 s; Lev 16, 4; Ez 44, 17 ss; Zac 3); così quando sono in gioco le categorie del *puro e dell’impuro (Lev 13 - 15). La veste caratterizza infine le grandi funzioni in Israele. Tra gli abiti regali (1 Re 22, 30; Atti 12, 21), c’è una veste di porpora con fermaglio d’oro (1 Mac 10, 20. 62. 64). Per confermare l’unzione regale, il popolo stende le sue vesti sotto i piedi del re (2 Re 9, 13; Mt 21, 8): ed egli le copre di gloria (cfr. 2 Sam 1, 24)! Il profeta porta un mantello di pelo sopra una cintura di pelle (Zac 13, 4; Mt 3, 4 par.), simile al mantello che Elia gettò su Eliseo dandogli la vocazione profetica (1 Re 19, 19); con questa investitura il carisma profetico può essere comunicato (2 Re 2, 13 ss). Il sommo sacerdote riceve pure l’investitura «rivestendo gli abiti sacri» (Lev 21, 10); con queste vesti simboliche (Es 28-29; Lev 16; Ez 44; Eccli 45, 7-12), un «uomo irreprensibile» può «affrontare il corruccio divino, lo sterminatore indietreggia» (Sap 18, 23 ss; cfr. 1 Mac 3, 49).
    II. VESTE E NUDITÀ, SIMBOLI SPIRITUALI
    La veste è pure il segno della condizione spirituale dell’uomo. È quanto in sintesi fa vedere il racconto del paradiso e ciò che racconta la storia sacra.
    1. Nel paradiso.
    - Aperti gli occhi con la conoscenza proibita, Adamo ed Eva seppero di essere nudi (Gen 6, 7); fino a quel momento si sentivano in armonia con l’ambiente divino per via di una specie di grazia che rivestiva come un abito la loro persona. Ormai tutto il loro corpo, e non soltanto il loro sesso, è segnato da un difetto dinanzi alla presenza divina; una cintura vegetale non è sufficiente a mascherarlo; i peccatori si nascondono in mezzo agli alberi del giardino, perché dinanzi alla maestà divina nasce il loro pudore: «Ho avuto paura perché sono nudo». Essi ormai non hanno più il segno che giustifica la vicinanza familiare di Dio: hanno perso il senso della loro appartenenza al Signore e rimangono sorpresi della loro nudità come dinanzi a uno specchio che non riflette l’immagine di Dio. Ora Dio non allontana i peccatori senza rivestirli egli stesso di tuniche di pelle (Gen 3, 21). Questa vestizione non sopprime la spogliazione; è il segno che essi rimangono chiamati alla dignità cui sono venuti meno. La veste è ormai il segno di due cose: afferma la dignità dell’uomo decaduto e la possibilità di rivestire una gloria perduta.
    2. La storia dell'Alleanza. 
    - La storia dell’alleanza è simboleggiata sovente mediante la veste, che allora significa la gloria perduta o promessa. Con l’alleanza Dio inaugura una comunicazione intima della sua gloria: come un pastore egli avvolge il bambino trovato nel caos del deserto (Deut 32, 10); come un re, i lembi del suo mantello riempiono il tempio (Is 6, 1); come uno sposo, egli stende il lembo del suo mantello sul suo popolo (Ez 16, 8 ss), e lo riveste non di pelli di animali, ma di «lino fine e di seta» , come se lo facesse sacerdote (cfr. Es 28, 5. 39. 42). Jahvè gli comunica il suo proprio splendore (Ez 16, 13 s); ma la sposa regale non rimane fedele. Basandosi sulle usanze delle alture idolatriche, Ezechiele continua l’allegoria con crudezza, facendo vedere la sposa che si esibisce nuda e si offre a tutti: «Delle sue vesti essa fa alture dai ricchi colori» e si prostituisce ad ogni passante (16, 15 ss; cfr. Os 2, 9 ss). Mentre la sua veste non avrebbe dovuto logorarsi, come un tempo nella lunga marcia del deserto (Deut 8, 4), ecco che invecchia, cade a brandelli (Is 50, 9), rosa dalla tignuola e dalle tarme (51, 8). Tuttavia il disegno di Dio si realizzerà, in controcorrente, traendo il rimedio dal male. Da una parte Jahvè fa di Israele una terra nuda, tramutando in furore distruttore la cupidigia dei suoi amanti (Ez 16, 37; Ger 13, 26), fino a che un *resto raggiunga infine nella spogliazione la grazia del ritorno. Dall’altra parte un *servo, «senza bellezza e senza splendore», inviato da lui, guarirà il suo popolo dalle sue passioni, umiliandosi fino alla morte (Is 53, 12); e Sion potrà cingersi ad un tempo dei suoi demolitori e dei suoi ricostruttori «come farebbe una sposa» (49, 17 s). Allora Jahvè, rivestito della *giustizia come corazza, della *vendetta come tunica e avvolto nella gelosia (59, 17), ornerà la sua *sposa col mantello di giustizia (61, 10).
    3. Cristo, vestito di gloria.
    - Perché Israele sia ornato in tal modo, bisogna che Cristo, vero servo, sia spogliato delle sue vesti (Mt 27, 35; Gv 19, 23), esposto alla parodia di una investitura regale (Gv 19, 2 s...), diventi un «uomo» indistinto, privo di appartenenza legale. Ma quest’uomo è il Figlio di Dio, la cui gloria è incorruttibile. Già nella *trasfigurazione, nello splendore delle vesti, la sua carne si è mostrata gloriosa (Mt 17, 2), ed egli era stato capace di far riprendere le vesti all’indemoniato di Gerasa (Mc 5, 15; cfr. Atti 19, 16). Dopo la risurrezione, come gli angeli che l’annunciano (Mt 28, 3 par.), il Signore non conserva della veste che l’essenziale: lo splendore, segno della sua *gloria (Atti 22, 6-11; cfr. 10, 30; 12, 7); e tuttavia gli occhi non ancora aperti di Maria di Magdala o dei pellegrini di Emmaus non vedono a tutta prima che un ortolano o un viandante (Gv 20, 15; Lc 24, 15 s): e questo perché la gloria non si manifesta che alla fede piena. Per il credente, Cristo fa l’ardente guerra dell’*ira, rivestito d’un manto che porta l’iscrizione: «Re dei re e Signore dei signori» (Apoc 19, 16).
    4. La veste degli eletti.
    - L’ordine della creazione è già stato reso percepibile agli occhi della fede. In quest’ordine divino, di cui gli *angeli sono i testimoni, dice Paolo (1 Cor 11, 10), Adamo riflette la gloria di Dio a viso scoperto (cfr. 2 Cor 3, 18), come Cristo che è il suo capo (1 Cor 11, 3 s); Eva, creata non identica, ma complementare di Adamo (11, 8 s), ne deve portare il segno della padronanza nella sua subordinazione: con il velo essa rifiuta di offrire la sua «gloria» (11, 6. 10. 15) indistintamente al dominio degli sguardi (11, 5. 13; cfr. 1 Tim 2, 9. 14); questo velo indica il pieno possesso di sé nella consacrazione, il contrario di un’alienazione. Ma questa gloria non sarà manifesta che nel giorno della risurrezione. Di fatto ogni uomo è chiamato ad entrare nel movimento di gloria inaugurato da Cristo. Se di un granello nudo gettato in terra Dio può fare un corpo splendente, può fare del corpo di ogni uomo un corpo incorruttibile (1 Cor 15, 37. 42), e sopra la veste corruttibile rivestire l’uomo di una veste incorruttibile (2 Cor 5, 3 ss). Ormai l’umanità esce dalla sua nudità, acquista libertà, filiazione, diritto all’eredità divina mediante l’atto di «rivestirsi di Cristo». Con coloro che si sono spogliati dell’uomo vecchio ed hanno rivestito l’uomo nuovo (Col 3, 10; Ef 4, 24), mediante la fede ed il battesimo (Gal 3, 25 ss), Dio costituisce una comunità perfetta ed «unica» in Cristo (3, 28), animata da un principio ontologico nuovo, lo Spirito. I membri devono lottare, ma con «armi di luce» (Rom 13, 12), e neppure la nudità li potrà separare da Cristo (Rom 8, 35). Coloro che trionfano «hanno lavato le loro vesti e le hanno imbiancate nel sangue dell’agnello» (Apoc 7, 14; 22, 14). Ormai la sposa non può venir meno; essa si orna, nel corso della storia, per le nozze: «Le è stato dato di rivestirsi di un lino di bianchezza splendente» (19, 7 s). Quando Dio arrotolerà cieli e terra come un abito che ha fatto il suo tempo, per sostituirli con altri nuovi (Ebr 1, 11 s), ed avranno preso posto i protagonisti del giudizio, in maggioranza in vesti *bianche, la nuova Gerusalemme, ornata come una sposa (Apoc 21, 2), avanzerà infine dinanzi allo sposo. Allora «la città può fare a meno dello splendore del sole e della luna, perché la gloria di Dio l’ha illuminata e la sua lucerna è l’agnello» (21, 23).
    E. HAULOTTE
    → bianco - gloria I, V - trasfigurazione 2.

    VESTE NUZIALE (inizio)

    → bianco 2 - pasto IV - regno NT II 3 - Sposo-sposa NT 3 b c - veste II 4.

    VIA (inizio)

    L’antico semita è un nomade. Nella sua esistenza, strada, via e sentiero hanno una parte essenziale. Con tutta naturalezza egli si serve di questo stesso vocabolario per parlare della vita morale e religiosa, e lo stesso uso si è conservato nella lingua ebraica. All’epoca del giudaismo, la dottrina delle «due vie» riassume la condotta morale degli uomini. Esistono due modi di comportarsi, due vie: la buona e la cattiva (Sal 1, 6; Prov 4, 18 s; 12, 28). La via della *virtù, via diritta e perfetta (1 Sam 12, 23; 1 Re 8, 36; Sal 101, 2. 6; 1 Cor 12, 31), consiste nel praticare la *giustizia (Prov 8, 20; 12, 28), nell’essere fedele alla *verità (Sal 119, 30; Tob 1, 3), nel ricercare la *pace (Is 59, 8; Lc 1, 79). Gli scritti sapienziali proclamano che questa è la via della *vita (Prov 2, 19; 5, 6; 6, 23; 15, 24); essa assicura lunghezza e prosperità di esistenza. La via cattiva, tortuosa (Prov 21, 8), è quella che seguono gli insensati (Prov 12, 15), i peccatori (Sal 1, 1; Eccli 21, 10), i malvagi (Sal 1, 6; Prov 4, 14. 19; Ger 12, 1). Essa porta alla perdizione (Sal 1, 6) ed alla morte (Prov 12, 28). Tra queste due vie l’uomo è *libero di scegliere ed ha la *responsabilità della sua scelta (Deut 30, 15-20; Eccli 15, 12). Il vangelo segnala l’angustia del sentiero che conduce alla vita, e l’esiguo numero di quelli che l’imboccano; mentre la maggioranza segue la via larga che conduce alla morte (Mt 7, 13 s).
    I. LE VIE DI DIO
    Abramo si è messo in cammino all’appello di Dio (Gen 12, 1-5); da allora è incominciata un’immensa avventura, nella quale la grande questione è di riconoscere le vie di Dio e di seguirle. Vie sconcertanti: «le mie vie non sono le vostre vie» , dice il Signore (Is 55, 8), ma che terminano in realizzazioni meravigliose.
    1. L'esodo. 
    - L’*esodo ne è l’esempio privilegiato. Il popolo esperimentò allora quel che significa «camminare con il suo Dio» (Mi 6, 8) ed entrare nella sua *alleanza. Dio stesso si mette in testa per aprire la strada, e la sua presenza è concretizzata dalla colonna di *nube o dalla colonna di *fuoco (Es 13, 21 s). Il mare non lo ferma: «Sul mare fu la tua via, il tuo sentiero sulle acque innumerevoli» (Sal 77, 20), cosicché Israele sfugge agli Egiziani, liberato. Poi c’è la marcia nel deserto. (Sal 68, 8); Dio vi combatte per il suo popolo e lo sostiene «come un uomo sostiene il proprio figlio»; gli procura cibo e bevanda; «cerca un posto dove accamparsi» e veglia a che non manchi nulla (Deut 1, 30-33). Ma interviene pure per punire Israele delle sue mancanze di fede. La marcia con Dio, in effetti, è difficile. Il tempo del *deserto può essere considerato come un tempo di *prova, che permette a Jahvè di sondare il suo popolo fino in fondo al cuore e di correggerlo come si conviene (Deut 8, 2-6). Perciò la via di Dio è divenuta lunga e sinuosa (Deut 2, 1 s). Ma non manca di giungere a termine: Dio conduce il suo popolo al *riposo, in un paese fortunato, dove Israele soddisfatto benedirà Jahvè (Deut 8, 7-10). Diviene così manifesto che «i sentieri di Jahvè sono amore e verità» (Sal 25, 10; cfr. Sal 136), ed anche che «tutte le sue vie sono il *diritto» (Deut 32, 4). Il ricordo dell’esodo, ravvivato ogni anno in occasione della Pasqua e della festa dei tabernacoli, segna profondamente l’animo giudaico. I pellegrinaggi (Sichem, Silo, poi Gerusalemme) contribuiscono a fissare la nozione di via sacra che porta al riposo di Dio. Quando l’idolatria minaccia di soppiantate il jahvismo, *Elia riprende la strada dell’Horeb. Più tardi i profeti idealizzano il tempo in cui Jahvè camminava con il suo figlio (Os 11, 1 ss).
    2. La *legge.
    - Arrivato nella terra promessa, Israele deve nondimeno continuare a «camminare nelle vie del Signore» (Sal 128, 1). *Conoscerle è il suo grande privilegio (cfr. Sal 147, 19 s). Di fatto Dio ha rivelato al suo popolo «tutta la via della conoscenza»; «è il libro dei precetti di Dio, la legge che sussiste in eterno» (Bar 3, 37; 4, 1). Bisogna dunque «camminare nella legge del Signore» (Sal 119, 1), per mantenersi nella sua alleanza ed avanzare verso la luce, verso la pace, verso la vita (Bar 3, 13 s). La legge è la vera via dell’uomo, perché è la via di Dio. La disobbedienza alla legge è un traviamento (Deut 31, 17) che porta alla catastrofe. La sua ultima sanzione sarà l’*esilio (Lev 26, 41), strada che va a ritroso dell’esodo (Os 11, 5). Ma Dio non può rassegnarsi al decadimento del suo popolo (Lev 26, 44 s); bisogna nuovamente «preparare nel deserto una strada per Jahvè» (Is 40, 3); egli stesso «traccerà sentieri nella *solitudine» (Is 43, 19) e «di tutti i monti farà strade» (Is 49, 11) per un ritorno trionfale.
    II. CRISTO, VIA VIVENTE
    Il ritorno dall’esilio è ancora soltanto una immagine della realtà definitiva. Questa è annunziata da Giovanni Battista con gli stessi termini che il Deutero-Isaia usava per il nuovo esodo: «Preparate la via del Signore» (Lc 3, 4 = Is 40, 3). L’era messianica è infatti un nuovo esodo che, questa volta, porta effettivamente fino al riposo di Dio (Ebr 4, 8 s). Gesù, nuovo *Mosè, ne è la guida, l’accompagnatore, il trascinatore (Ebr 2, 10 s; 12, 2 ss). Egli chiama gli uomini a *seguirlo (Mt 4, 19; Lc 9, 57-62; Gv 12, 35 s). Dando una pregustazione del *regno glorioso, la *trasfigurazione illumina per un istante questa strada, ma l’annunzio della passione ricorda che bisogna prima passare per il calvario; l’ingresso nella gloria non può avvenire se non per la via della *croce (Mt 16, 23; Lc 24, 26; 9, 23; Gv 16, 28). Gesù si pone quindi risolutamente in via verso *Gerusalemme, ascesa il cui termine è il suo sacrificio. Ma, a differenza dei riti antichi, questo sacrificio sfocia nel *cielo stesso (Ebr 9, 24) e ci apre nello stesso tempo la strada: mediante il *sangue di Cristo noi abbiamo ormai accesso al vero santuario; attraverso la sua carne Gesù ha inaugurato per noi una via nuova e vivente (Ebr 10, 19 ss). Negli Atti, il cristianesimo nascente è chiamato «la via» (Atti 9, 2; 18, 25; 24, 22). Di fatto i cristiani hanno coscienza di aver trovato la vera strada, che fino allora non era manifesta (Ebr 9, 8), ma questa strada non è più una legge, bensì una persona: *Gesù Cristo (Gv 14, 6). In lui avviene la loro Pasqua ed il loro esodo; in lui essi devono camminare (Col 2, 6), persino *correre (Fil 3, 12 ss) seguendo la via dell’amore (Ef 5, 2; 1 Cor 12, 31), poiché in lui Giudei e Gentili hanno accesso, in un solo Spirito, presso il Padre (Ef 2, 18).
    A. DARRIEUTORT
    → correre - deserto VT I 1 - disegno di Dio VT IV - esempio - esilio II 4 - esodo - morte VT II 2 - pellegrinaggio - riposo II - seguire - virtù e vizi.

    VIAGGIO (inizio)

    → pellegrinaggio - straniero II - via.

    VIE DI DIO (inizio)

    → legge B I 4 - via - volontà di Dio.

    VIGILANZA (inizio)

    → vegliare.

    VINO (inizio)

    Con il grano e l’*olio, il vino che la terra santa fornisce fa parte del *nutrimento quotidiano (Deut 8, 8; 11, 14; 1 Cron 12, 41); esso ha questo di particolare, che «rallegra il cuore dell’uomo» (Sal 104, 15; Giud 9, 13). Costituisce quindi uno degli elementi del banchetto messianico, ma anche, e in primo luogo, del banchetto eucaristico dove il fedele attinge la *gioia alla sua fonte: la carità di Cristo.
    I. IL VINO NELLA VITA QUOTIDIANA
    1. Nella vita profana.

    - Attribuendo a Noè l’invenzione della coltura della vite, poi mostrandolo sorpreso dagli effetti del vino (Gen 9, 20 s), la tradizione jahvista sottolinea ad un tempo il carattere benefico e pericoloso del vino. Segno di prosperità (Gen 49, 11 s; Prov 3, 10), il vino è un bene prezioso che rende la vita piacevole (Eccli 32, 6; 40, 20), a condizione che se ne usi con sobrietà. Questa fa parte dell’equilibrio umano che gli scritti sapienziali non cessano di predicare. L’assioma di Ben Sira: «Il vino è la vita per l’uomo quando se ne beve moderatamente» (Eccli 31, 27), ne è l’illustrazione più chiara (cfr. 2 Mac 15, 39). Nelle lettere pastorali abbondano i consigli di sobrietà (1 Tim 3, 3. 8; Tito 2, 3), ma l’uso del vino, fatto con senno, vi è pure raccomandato (1 Tim 5, 23). Gesù stesso ha voluto bere vino, con pericolo di essere mal giudicato (Mt 11, 19 par.). Colui che si allontana da questa sobrietà è votato ad ogni specie di pericoli. I profeti hanno invettive violente contro i capi che amano bere troppo, perché dimenticano Dio e le loro vere responsabilità nei confronti di un popolo sfruttato e trascinato al male (Am 2, 8; Os 7, 5; Is 5, 11 s; 28, 1; 56, 12). I sapienti rivolgono maggiormente la loro attenzione alle conseguenze personali di questi eccessi: il bevitore è votato alla povertà (Prov 21, 17), alla violenza (Eccli 31, 30 s), alla dissolutezza (19, 2), all’ingiustizia nelle parole (Prov 23, 30-35). S. Paolo sottolinea che l’ubriachezza porta alla dissolutezza e nuoce alla vita dello Spirito nel cristiano (Ef 5, 18).
    2. Nella vita cultuale.
    - Il vino, venendo da Dio come tutti i prodotti della terra, troverà posto nei sacrifici. Già nel vecchio santuario di Silo si portavano offerte di vino (1 Sam 1, 24), che permettevano di versare le libagioni prescritte in occasione dei sacrifici (Os 9, 4; Es 29, 40; Num 15, 5. 10). Il vino fa pure parte delle primizie che spettano ai sacerdoti (Deut 18, 4; Num 18, 12; 2 Cron 31, 5). Avrà infine un posto nel sacrificio della nuova alleanza che porrà termine a questo rituale. D’altra parte un’intenzione religiosa motiva per taluni l’astensione dal vino. Se i sacerdoti sono tenuti a privarsene durante l’esercizio delle loro funzioni, si è perché queste richiedono la piena padronanza di sé, specialmente per insegnare e giudicare (Ez 44, 21 ss; Lev 10, 9 s). L’astensione dal vino può anche essere un ricordo del tempo in cui, nel deserto, Israele ne era privo e si avvicinava al suo Dio con una vita austera (Deut 29, 5). Molto tempo dopo lo stanziamento in Canaan, un clan volle conservare questa fedeltà al nomadismo che ignorava il vino: i Recabiti (Ger 35, 6-11). Nello stesso senso, un’usanza di carattere ascetico consisteva nell’astenersi da ogni prodotto della vite come segno di consacrazione a Dio: è quel che si chiama il nazireato (cfr. Am 2, 12). Ancor prima di nascere Sansone fu in tal modo consacrato dalla volontà divina (Giud 13, 4 s); analoghi sono i casi di Samuele (1 Sam 1, 11) e di Giovanni Battista (Lc 1, 15; cfr. 7, 33). Codificato nella legislazione sacerdotale, il nazireato poteva pure essere l’effetto di un voto temporaneo (Num 6, 3-20), che si trova ancora praticato nella comunità giudeo-cristiana (cfr. Atti 21, 23 s). Infine i fedeli erano spesso invitati a rinunziare al vino per evitare ogni pericolo di compromesso con il paganesimo: ne fa testimonianza il giudaismo postesilico (Dan 1, 8; cfr. Giudit 10, 5). A motivare le privazioni che taluni cristiani si imponevano sembra essere piuttosto una preoccupazione di ascetismo (1 Tim 5, 23); Paolo ricorda semplicemente che prudenza e carità devono regolare questo ascetismo (Rom 14, 21; cfr. 1 Cor 10, 31).
    II. IL SIMBOLISMO DEL VINO
    1. Da un punto di vista culturale. 
    - Da un punto di vista profano il vino simboleggia tutto ciò che la vita può avere di piacevole: l’amicizia (Eccli 9, 10), l’amore umano (Cant 1, 4; 4, 10) ed in generale tutta la *gioia che si coglie in terra con la sua ambiguità (Eccle 10, 19; Zac 10, 7; Giudit 12; 13; Giob 1, 18). Può quindi evocare l’*ubriachezza malsana dei culti idolatrici (Ger 51, 7; Apoc 18, 3) e la felicità del discepolo della *sapienza (Prov 9, 2).
    2. Da un punto di vista religioso. 
    - Da un punto di vista religioso, il simbolismo del vino è collocato in un contesto escatologico.
    a) Nel VT, per annunziare i grandi castighi al suo popolo che lo offende, Dio parla della privazione del vino (Am 5, 11; Mi 6, 15; Sof 1, 13; Deut 28, 39). Il solo vino da bere è allora quello dell’*ira divina, il *calice che stordisce (Is 51, 17; cfr. Apoc 14, 8; 16, 19). Per contro, la felicità promessa da Dio ai suoi fedeli è espressa sovente sotto la forma di una grande abbondanza di vino, come si vede negli oracoli di consolazione dei profeti (Am 9, 14; Os 2, 24; Ger 31, 12; Is 25, 6; Gioe 2, 19; Zac 9, 17).
    b) Nel NT, il «vino nuovo» è il simbolo dei tempi messianici. Di fatto Gesù dichiara che la nuova alleanza istituita nella sua persona è un vino nuovo che fa scoppiare gli otri vecchi (Mc 2, 22 par.). La stessa idea risalta dal racconto giovanneo del miracolo di Cana: il vino delle nozze, questo buon vino atteso «fino ad ora» , è il dono della carità di Cristo, il segno della gioia che la venuta del Messia realizza (Gv 2, 10; cfr. 4, 23; 5, 25). II termine «vino nuovo» si ritrova infine in Mc 26, 29 per evocare il banchetto escatologico riservato da Gesù ai suoi fedeli nel regno del Padre suo: significa allora il compimento dei tempi messianici. La menzione del vino non appartiene all’ordine del puro simbolo; è richiamata dal racconto della istituzione della *eucaristia. Prima di bere il vino nuovo nel regno del Padre, il cristiano, durante la vita, si nutrirà del vino diventato il *sangue versato del suo Signore (cfr. 1 Cor 10, 16). Per il cristiano l’uso del vino non è quindi soltanto un motivo di rendere grazie (Col 3, 17; cfr. 2, 20 ss), ma un’occasione per richiamare alla memoria il sacrificio che è la fonte della salvezza e della gioia eterna (1 Cor 11, 25 s).
    D. SESBOÜÉ
    → calice - eucaristia - fame e sete VT 1 c - gioia VT I - ira B VT I 1; NT I 1, III 2 - Noè 1 - pasto - ubriachezza - vendemmia - vite-vigna.

    VIOLAZIONE (inizio)

    → adulterio - alleanza VT III 1 - giuramento VT 3 - peccato III 2 c - Sposo-sposa VT 1 - violenza I.

    VIOLENZA (inizio)

    Nella violenza, in cui innanzitutto non si vede che brutale distruzione, stupro, violazione, bisogna anche riconoscere la forza vitale che è all’origine di essa e che, per mantenersi tale, tende a distruggere la vita stessa. Il termine che la designa deriva, come quello di forza vitale, da una radice indo-europea che sta ad indicare la vita (bìos-bìazomai, vivo-vis). E la Bibbia descrive senza illusioni lo stato violento in cui si trova l’umanità: le forze vitali e le potenze di morte si mantengono in un equilibrio provvisorio, il cui ordine apparente è spesso una caricatura. Rivela anche e soprattutto che in Gesù Cristo può divenire realtà l’ideale escatologico di un tempo in cui la vita fiorirà senza violenza (cfr. Is 11, 6-9; Apoc 21, 4). Per orientare nell’argomento, due termini evocano con una certa approssimazione l’ideale di violenza, l’ebraico (hms) nitidamente, il greco (biàzomai) con una semplice sfumatura di costrizione (forzare, insistere per).
    I. DESCRIZIONE
    1. L’idea di trasgressione di una norma consente di qualificare quel certo atto come violento; così l’hanno interpretato i traduttori greci del VT che in genere hanno reso hms con una parola affine ad adikìa, che significa ingiustizia. Secondo le consuetudini dell’epoca, Simeone e Levi dovevano infallibilmente vendicare la sorella Dina violentata (Gen 34, 2), ma poiché si sono spinti troppo oltre nella loro *vendetta, i coltelli di cui si sono serviti vengono definiti dal padre «strumenti di violenza» (49, 5). Il popolo, i sacerdoti, hanno violato la legge (Ez 22, 26; Sof 3, 4), si viola la giustizia sociale con la frode (Sof 1, 9), si viola il diritto (Ez 45, 9). In genere la violenza è accompagnata da una certa premeditazione o dalla violazione delle leggi del linguaggio: trappole e imboscate (Sal 140, 2), buco scavato davanti al prossimo (Sal 7, 17), astuzia (Sal 72, 14), detrazione (Sal 140, 12), furberia (Mal 2, 16), ma soprattutto falsa *testimonianza (Es 23, 1; Deut 19, 16; Sal 27, 12; 35, 11), da cui si astiene il *giusto che ha la preghiera pura (Giob 16, 17).
    2. La violenza viene inoltre colta nel suo effetto più drammatico, la distruzione della vita fisica o sociale; in questo caso, il termine è spesso associato ad un altro che significa sfruttamento, oppressione, devastazione, rovina. I profeti si lamentano dello stato di violenza in cui è immerso il popolo (Am 3, 10; Ger 6, 7; 20, 8; Is 60, 18) e fanno appello a Jahvè che è l’unico a poter porre rimedio a questo stato di ingiustizia (Ab 1, 3). Dio, infatti, ha orrore degli uomini violenti (Sal 11, 5; Mal 2, 16): non ha forse provocato il diluvio perché «la terra era piena di violenza» (Gen 6, 11. 13)? Si odono così incessantemente le grida degli oppressi che vogliono essere liberati dagli uomini violenti (2 Sam 22, 3. 49; Sal 18, 49; 140, 2. 5). Queste vittime ripongono la propria speranza in una rimbeccata della stessa natura: «Che il male dia la caccia all’uomo violento, rendendogli colpo su colpo!» (Sal 140, 12). Un ideale di perfetto abbandono è tuttavia presentato nel ritratto del *servo di Dio che è sepolto con i malvagi, «mentre non ha commesso violenza né inganno» (Is 53, 9).
    3. Questa rapida panoramica sulle utilizzazioni di hms autorizza alcune osservazioni. La violenza non si identifica né con la forza, né con la vendetta, né con l’ira, né con lo zelo: in realtà, queste diverse espressioni della forza vitale portano spesso alla distruzione della vita; ma non implicano necessariamente quello che, agli occhi del VT, caratterizza la violenza, e cioè la trasgressione di una norma. Bisogna tuttavia rilevare che questa norma non è determinata, come per lo spirito greco, da un qualche «ordine naturale» imperituro. Si definisce secondo una data epoca con la *giustizia, cioè con il Dio dell’*alleanza, che è il fine e il giudice di ogni azione. È appunto in un contesto del genere, temporale e teologico, che bisogna considerare la violenza nel VT.
    II. SITUAZIONI
    Valendosi dei criteri precedenti, è possibile evocare delle situazioni, nella cui descrizione hms non compare. Caino, uccidendo *Abele, ha commesso un atto di violenza: «La voce del sangue di tuo fratello grida verso di me dalla terra» (Gv 4, 10), dice Dio. Senza senso della misura, Lamech «uccide un uomo per una ferita» (4, 23). Israele è oppresso (‘innah, da ‘anah, stessa radice di ‘anawîm, i *poveri) in Egitto (Es 1, 12; Deut 26, 6; cfr. 2 Sam 7, 10). Condannando la violenza perpetrata a una donna, atto che distrugge i rapporti sociali in quanto trascura il consenso del partner, la legge condanna una violenza ingiustificabile (Deut 22, 24. 29; cfr. Gen 34, 2; Giud 19, 24; 20, 5; 2 Sam 13, 12. 14; Lam 5, 11: in greco, tapeinòo). David fa uccidere Uria, marito di Betsabea, valendosi fraudolentemente della *guerra santa (2 Sam 11, 15); d’altra parte, malgrado la maledizione di Shimei (16, 7 s; 19, 19-24) non si è comportato da sanguinario nei confronti della casa di Saul, perché a due riprese ha risparmiato Saul (1 Sam 24; 26), che pure aveva continuato a tendergli imboscate (18, 10 s; 19, 9-17). Ancora violenza quando Achab si impadronisce della vigna di Nabot, perché questi è stato lapidato a causa della falsa testimonianza ordita da Gezabele (1 Re 21, 8-16): Bisognerebbe infine citare le innumerevoli situazioni di *cupidigia o di *persecuzione, massacri e sommosse, che fanno del racconto biblico una lunga storia della violenza degli uomini fino al tempo di Gesù (Lc 13, 1; Mc 15, 7; cfr. Mt 2, 16).
    III. JAHVÈ E LA VIOLENZA
    Il comportamento di Jahvè in apparenza è ambiguo: senza dubbio respinge ogni forma di violazione della giustizia, ma a volte sembra tollerare, approvare e persino praticare atti che noi qualifichiamo violenti. Che cosa se ne deve pensare?
    1. Non c’è dubbio che Dio condanna ogni ingiustizia violenta. Ma lo fa per gradi, tenendo conto dell’epoca in cui vive il suo popolo. Rivendica quindi la legge del taglione (Es 21, 24), che rappresenta un considerevole progresso rispetto ai tempi di Lamech (Gen 4, 15. 24); stigmatizza i crimini che non devono essere commessi, come quelli descritti da Amos secondo le norme del suo tempo e che rappresentano altrettante ingiustificabili violenze: deportate intere popolazioni senza riguardo per la fraternità del sangue, sventrare le donne incinte, incenerire i cadaveri, respingere la legge, schiacciare i piccoli (Am 1, 1-2, 8). Jahvè si è schierato dalla parte di Israele oppresso in Egitto (Es 3, 9); esige da lui un analogo comportamento nei confronti del debole: «Non opprimerai lo straniero. Voi avete imparato ciò che prova lo straniero, poiché voi stessi risiedeste come tali in terra d’Egitto» (23, 9). Dio si fa quindi il difensore delle vittime dell’ingiustizia umana, e in particolare dell’orfano, della *vedova, del *povero (Es 21-23; Deut 24, 20).
    2. D’altra parte, *educando Israele in mezzo a nazioni idolatriche, fino alla nascita del Messia, il Dio dell’alleanza prende sul serio la condizione nella quale vive il suo popolo, e in nome appunto dell’alleanza, si presenta come un terribile Dio guerriero. Stermina i primogeniti d’Egitto (Es 12), esige I’*anatema (Gios 7), e si mette a capo del combattimento (ad es. 2 Sam 5, 24). Approva la *forza vendicatrice e distruttiva di Sansone (Giud 15-16) e lo *zelo che si spinge fino ad uccidere il trasgressore dell’alleanza (Num 15, 11). Con ciò, Dio non è violento agli occhi della Bibbia, perché non trasgredisce l’alleanza di cui è l’autore e il garante. Ma rende palese che un bene superiore può comportare la distruzione della *vita terrena; esprime inoltre la *guerra escatologica e lo sterminio spietato del male che è nel mondo. Tuttavia non ci si può far forti di questo atteggiamento per prendere posizione nelle situazioni politiche contemporanee, perché significherebbe misconoscere ingenuamente la congiuntura nella quale Dio si è rivelato.
    3. L’aspetto paradossale del comportamento di Jahvè si riflette nella presentazione del Dio vivente, che va a poco a poco epurandosi, nel corso della rivelazione biblica. Inizialmente, *Dio si manifesta violando quello che viene chiamato il corso normale della creazione, per esempio al Sinai (Es 19). Più tardi, Elia si rende conto che egli non agisce come il temporale, l’uragano o il terremoto, ma come un leggero sussurro (l Re 19, 11 s). Il *Messia, inizialmente concepito ad immagine del re guerriero che frantuma le teste ribelli (Sal 110, 5 s; cfr. Ger 17, 25; 22, 4), giungerà sotto le sembianze di un «re umile e pacifico in groppa ad un asino» (Zac 9, 9; cfr. Gen 49, 11; Giud 5, 10). Il *servo di Dio, infine, nel quale i cristiani vedranno una *figura profetica di Gesù, confida (cfr. *fiducia) radicalmente in Dio e trionfa della violenza subendola volontariamente; non resiste al malvagio (Is 50, 5 s) e non commette né inganno né violenza (53, 9).
    IV. GESÙ E LA VIOLENZA
    È venuto Gesù, sconcertando i contemporanei e tutti gli uomini con la complessità del suo comportamento; perciò, per interpretarne correttamente le parole e gli atti, non bisogna scegliere arbitrariamente tra gli uni e gli altri, in base a preferenze del tutto soggettive, ma bisogna mettersi nella prospettiva nella quale si colloca Gesù.
    1. Il regno di Dio. 
    Il regno di Dio ha fatto irruzione con Gesù e, contrariamente all’aspettativa dei Giudei, suscita la violenza. «Dai giorni di Giovanni Battista ad ora, il regno dei cieli è assalito con violenza (biàzetai) e sono dei violenti (biastài), quelli che se ne impadroniscono» (Mt 11, 12). Secondo l’interpretazione più probabile (biastài designa sempre gli attaccanti, i nemici), Gesù ha in mente gli avversari che impediscono agli uomini di entrare nel regno. Ma la sua frase è stata interpretata dal Luca nel senso di Lc 13, 24, dove il discepolo è invitato a «compiere uno sforzo (agonìzesthe) per entrare attraverso la porta angusta»: «La legge e i profeti arrivano fino a Giovanni; da allora, è annunciata la buona novella del regno di Dio e ogni uomo lotta (biàzetai) per entrarvi» (16, 16). Con la sua venuta, il regno di Dio scatena una violenza che la mancanza di termini adeguati rende difficile caratterizzare, ma che Gesù non tenta di dissimulare.
    2. Di fronte ad un ordine ingiusto. 
    - Di fronte ad un ordine ingiusto che frappone ostacolo al regno di Dio, nella misura in cui non lo accoglie, Gesù protesta, sulla scia dei *profeti, con atti e parole che i conservatori di quest’ordine così stabilito si sentono in dovere di giudicare violenti: essi li turbano, non perché siano eccessivi, ma perché in apparenza violano la legge. Gesù elimina quindi l’equivoco della rassegnazione cristiana all’ingiustizia e sottolinea le esigenze della carità. Scaccia i mercanti dal tempio (Mt 21, 12 s par.; Gv 2, 13-22). Viola le concezioni della religione, della società e del linguaggio. È il padrone del *sabato (Mc 2, 28). Venuto non per apportare 1’ingannevole pace che già stigmatizzavano i profeti (cfr. Ger 6, 14), ma la spada (Mt 10, 34; cfr. Lc 12, 51), semina il dissenso anche nell’istituzione più sacra, la famiglia, dividendo genitori e figli, fratelli e sorelle, a causa della chiamata che rivolge loro (Mt 10, 35 ss par.). Bruscamente, insorge contro il sacro dovere del rispetto verso i genitori: «Lasciate che i morti sotterrino i loro morti» (Lc 9, 60 par.). Sovverte la normale preoccupazione per l’integrità fisica: «Strappati l’occhio o la mano, se essi sono per te ragione di scandalo» (5, 29 s par.)! In tutto questo, l’ordine viene violato perché ingiusto, non in se stesso, ma in riferimento a una realtà che Gesù reputa superiore, il regno di Dio. Quanto ai cultori di quest’ordine, eccoli cacciati da ipocriti, da sepolcri imbiancati (23, 13-36). Agli occhi dei fautori di un ordine stabilito, che si rifiuta di aprirsi a un valore superiore, Gesù, come un tempo *Elia (1 Re 19, 17 s), appare come un violento guastafeste, un rivoluzionario che fuorvia il popolo dal sentiero tracciato dai cultori dell’ordine (Lc 23, 2). Agli occhi di Dio, invece, Gesù restaura dinamicamente gli autentici valori che l’istituzione aveva finito per soffocare. A seconda del punto di vista in cui ci si colloca, si potrà, con l’Apocalisse, dipingere Gesù come un violento (Apoc 6, 4-8; 8, 5 ...), che, alla fine, apporta la pace (2, 14). Si potrà inoltre tener valido il ritratto che Gesù fa di se stesso, e vedere in lui il Maestro mite e umile di cuore che, sopportando la violenza, trionfa di essa (1 Piet 2, 21-24) e offre il *riposo che prevale sull’ingiustizia (Mt 11, 29). Il cristiano, gli occhi fissi su quest’ideale vissuto, si sforza di adattarvi la propria condotta (1 Piet 2, 18-21; 3, 14; Lc 5, 9 s; Apoc 14, 12). Sul piano delle strutture sociali, il vangelo è rivoluzione nella misura in cui queste paralizzano la giustizia e la carità, senza le quali un figlio di Dio non può vivere. «Ricercate il regno di Dio e la sua giustizia!» (Mt 6, 33).
    3. Di fronte alla violenza. 
    - Di fronte alla violenza che regna nel mondo, Gesù si dimostra più radicale del VT. La legge del taglione richiedeva l’equità nella vendetta restauratrice della giustizia lesa; Gesù esige il *perdono (Mt 6, 12. 14 s; Mc 11, 25) fino a settantasette volte (Mt 18, 22). A tutti, impone: «Amate i vostri nemici e pregate per coloro che vi perseguitano» (Mt 5, 44; Lc 6, 27). Ad ogni discepolo, dichiara: «Non resistere al malvagio» (o al «male» presente nel mondo) (Mt 5, 39). Nei tre esempi che illustrano il suo precetto (5, 39-41), Gesù non emette giudizi sull’atto di violenza sociale (schiaffeggiare, portar via la tunica, requisire), la cui causa può essere valida, ma neppure autorizza a imitare l’economo infedele (Lc 16, 1-8) o il giudice iniquo (18, 1-5). Gesù assume qui il punto di vista dell’individuo leso e dichiara che bisogna saper essere vittime del violento. Gesù lo è stato per primo. Resiste alla tentazione di instaurare il regno di Dio con mezzi violenti, non vuole trasformare per *magia le pietre in pane, sia pur per placare la fame del mondo (Mt 4, 3 ss), né dominare gli uomini con la *forza (4, 8 ss); si rifiuta di essere un politicante rivoluzionario (Gv 6, 15) e di ottenere la gloria senza passare attraverso il sacrificio della *croce (Mt 16, 22 s). Infine, dopo aver sudato sangue nell’orto degli Olivi, declina la lotta che i suoi compagni hanno ingaggiato per difenderlo dalla violenza: «Smettete, basta!». E arriva al punto di guarire il suo avversario (Lc 22, 49 ss; cfr. 22, 36 ss). Gesù non ha versato il sangue degli uomini, ma il proprio. Perché dunque non resistere al malvagio? Non per una determinata tecnica di non-violenza, ma per spirito d’amore e di sacrificio, l’unico mezzo per operare la riconciliazione tra il violento e la sua vittima (cfr. Gen 33; 45; 1 Sam 26). Il regno di Dio non si instaura con la brutalità, ma con la forza divina, che si è dimostrata capace di trionfare della morte risuscitando Gesù. Da quel momento, «tutti coloro che brandiscono la spada, di spada periranno» (Mt 26, 52). Agli antipodi dello spirito di Gesù, si trova colui che vuol controbattere i Samaritani inospitali facendo scendere il fuoco dal cielo (Lc 9, 54): i *miti saranno quelli che erediteranno la *terra (Mt 5, 4). A differenza dei «capi delle nazioni che fanno pesare su di esse il proprio potere e dominio», il discepolo di Gesù deve «farsi servo» degli altri (Mt 20, 25 s). Quando Gesù batte in ritirata, come il *servo di Dio, di fronte alla malvagità dei suoi nemici (Mt 12, 15. 18-21; 14, 13; 16, 4), si rimette a Dio e realizza la beatitudine dei perseguitati (Mt 5, 10 ss), profetizzata nei canti del servo (Is 50, 5; 53, 9). Ma quando perdona a coloro che lo crocifiggono ingiustamente (Lc 23, 34; 1 Piet 2, 23 s), quando chiede al discepolo di tendere l’altra guancia, Gesù trascende l’ideale del VT; non si limita ad un passivo abbandono nelle mani di Dio, a difesa degli oppressi: fa violenza al violento, perché in questo scontro è la riconciliazione l’obbiettivo, riconciliazione che può essere già ottenuta sulla terra.
    X. LÉON-DUFOUR
    → anatema VT - cupidigia VT 1 - giustizia A I VT 1; NT 1 - guerra - ira A 1 - odio - persecuzione - potenza III 0.1 - sangue VT 1 - zelo.

    VIRTÙ E VIZI (inizio)

    La Bibbia nomina parecchie virtù e vizi, cioè abitudini la cui acquisizione perfeziona l’uomo o lo degrada. Il suo vocabolario è invece povero a proposito della virtù o del vizio in generale. Infatti, a differenza dell’umanesimo greco, non li considera tanto dal punto di vista dell’uomo e del suo perfezionamento, quanto dal punto di vista di Dio e del suo disegno sull’uomo; Dio vuole unire gli uomini a sé e tra loro, e questa comunione esige il loro progresso morale.
    1. Natura della virtù e del vizio
    - L’uomo perfetto non è colui che si impegna a diventare tale, ma colui che *cerca Dio e che, per pervenirvi, segue la *via che Dio gli traccia e che è anche l’unica in cui troverà la piena realizzazione personale: «camminare con Dio» (Gen 5, 22. 24; 6, 9). Appunto questo atteggiamento è quello che fa di *Noè un uomo integro, all’opposto dei malvagi che lo circondano e il cui cuore formula solo disegni perversi (6, 5). La virtù consiste in una relazione viva con Dio, in una conformità alle sue parole, in un’*obbedienza ai suoi voleri, in un orientamento profondo e stabile verso di lui; questa relazione rende giusto l’uomo; questa *fedeltà nel percorrere la via del Signore è la virtù fondamentale che *Abramo dovrà insegnare ai suoi figli (18, 19) e la cui pratica è condizione dell’alleanza (Es 19, 5. 8). Viceversa, il vizio fondamentale è seguire un dio che non sia l’unico vero (Deut 6, 14; cfr. 4, 35), è dimostrarsi infedele all’alleanza allontanandosi dalla via di Dio (Es 32, 8). Ma questa conformità all’ordine divino, che costituisce la virtù e che la Bibbia chiama il più delle volte *giustizia, non è ottenuta esclusivamente con il compimento degli atti prescritti da Dio; questi atti devono manifestare una docilità e una fedeltà che vengano dal *cuore e siano l’espressione dell’*amore. Questa è la legge fondamentale dell’alleanza (Deut 6, 5 s; 10, 16; 11, 1; 30, 20). Nel cuore sta la radice della virtù o del vizio. Nel cuore devono essere riposte, anzi inscritte, le parole di Dio, per esservi principio di quella amorosa fedeltà che è l’anima di ogni virtù. Appunto perché il loro cuore è integralmente dedito a Dio, David è così grande malgrado le sue colpe e Giosafat progredisce sulle vie di Dio (1 Re 15, 3; 2 Cron 17, 6); se Ezechia compie quello che è buono, giusto e leale agli occhi di Dio, è perché cerca Dio con tutto il cuore (2 Cron 31, 20 s). La sapienza dei salmisti caratterizza l’uomo virtuoso dicendo che il suo cuore è pieno della legge di Dio e si compiace in essa (Sal 1, 2; 37, 31), mentre quello del perverso è privo di Dio, che considera inesistente (14, 1). Colui che la Sapienza forma a tutte le virtù utili all’uomo: temperanza e prudenza, giustizia e forza d’animo, è colui che ama la giustizia (Sap 8, 7, in cui giustizia è intesa una volta nel suo significato ebraico di virtù fondamentale, e un’altra volta nel significato greco di virtù particolare dei rapporti sociali). Infine la perfetta giustizia, che Gesù predica (Mt 5, 20) e che tutto il discorso della montagna descrive, è quella di un cuore scevro da ogni *desiderio malvagio e pieno di un amore misericordioso, esteso anche ai nemici (5, 7 s. 28- 44 s). Quel che contamina l’uomo, sono i vizi del suo cuore (15, 18 s).
    2. La fonte della virtù e del vizio.
    - Non è necessario cercare altra fonte del vizio all’infuori dell’uomo stesso; separandosi da Dio col peccato, egli è divenuto incapace di dominare le proprie concupiscenze e di mantenersi padrone di se stesso; anziché perfezionare il mondo, l’ha corrotto (l Gv 2, 16 s). Da questo momento, non può più trovare in sé la forza di resistere alle passioni (Eccli 1, 22; 18, 30) e di ritornare ad essere puro. Sarà la *forza del Signore la fonte della sua potenza (Deut 8, 17 s; Ef 6, 10); senza di essa, resterà stanco e svogliato (Eccli 2, 12 s). Perché il suo cuore sia puro, bisogna che Dio lo ricrei e gli infonda uno spirito nuovo che lo renda saldo (Sal 51, 12 ss); questo è appunto il dono annunciato dai profeti, dono che si realizzerà nella nuova alleanza; allora verrà dato agli uomini un cuore nuovo e vi sarà inscritta la legge di Dio; essi riceveranno lo *Spirito di Dio che li renderà fedeli (Ger 31, 33; Ez 36, 26 s). Questo Spirito, colmando il messia, gli conferirà tutte le virtù richieste dalla sua missione regale: sapienza per governare, pietà per restare unito a Dio, di cui è il rappresentante (Is 11, 2- 5). Questo Spirito, in cui Cristo rivela ai discepoli la funzione di maestro interiore (Gv 14, 26; 16, 13), conferirà loro la sapienza e la forza necessarie ad essere dei testimoni invincibili (Mt 10, 20 par.; Lc 21, 14 s; 24, 48 s; Atti 1, 8). Sarà lui a liberare il credente da tutte le concupiscenze carnali che rendono l’uomo vizioso (Gal 5, 19 ss) effondendogli nel cuore la carità divina e facendogli produrre il *frutto, rappresentato da tutte le virtù animate da questa carità (Rom 5, 5; Gal 5, 22); questo Spirito rende così saldo l’uomo interiore (Ef 3, 16).
    3. Nesso tra le virtù e cataloghi dei vizi.
    - La Bibbia non si limita a tracciare la via all’uomo virtuoso e a minacciare il vizioso del giudizio di Dio (Sal 1); come fanno anche i moralisti pagani, ha cura di radunare, in liste istruttive, i tratti caratteristici delle une e degli altri. Le liste dei vizi vengono presentate dai profeti (Os 4, 1 s; Ger 7, 9), dai sapienti (Prov 6, 16-19; Eccli 25, 2; 26, 5 s), da Cristo (Mc 7, 21 s par.) e dagli apostoli (1 Cor 6, 9 s; Rom 1, 29 ss; Col 3, 5-9; 1 Tim 1, 9 s; 2 Tim 3, 1-5; 1 Piet 2, 1; 4, 3); Paolo in particolare ha sottolineato che la causa profonda dei vizi è il misconoscimento del vero Dio, al quale si preferiscono gli idoli. I vizi hanno a volte l’effetto di dividere gli uomini; talvolta si oppongono gli uni agli altri. Un’opposizione del genere, non esiste tra le virtù, che al contrario si completano e le cui liste mettono in evidenza il motivo per cui il giusto è unificato e principio di *unità. Ecco per esempio il compendio del profeta Michea: «Camminare umilmente con Dio realizzando la giustizia e amando con tenerezza» (Mi 6, 8). Quanto a Gesù, si caratterizza con l’*umile *mitezza (Mt 11, 29), di cui dà l’esempio (Gv 13, 15) e con l’amore che gli fa donare la vita (15, 13), amore che deve essere il modello di quello dei discepoli tra loro (13, 34; 15, 17), amore che sarà il loro segno distintivo (13, 35). Paolo quindi, che aderisce all’ideale greco della virtù, raccomandando di fare tutto ciò che merita elogio (Fil 4, 8), ma che insiste spesso sulle «tre che restano» : fede, speranza e carità (1 Tess 1, 3; Rom 5, 1-5; Col 1, 4 s...), proclama che la maggiore virtù è la carità (1 Cor 13, 13). Certo sono raccomandate altre virtù (1 Tess 5, 14- 18; Rom 12, 9-21; Ef 4, 2; 1 Tim 4, 12; 6, 11; 1 Piet 3, 8; 2 Piet 1, 5 ss); ma la carità è il legame della perfezione; instaura il regno della *pace di Cristo in cui gli uomini sono un solo corpo (Col 3, 12-15).
    M. F. LACAN
    → amore II - bene e male I - carne II 2 - cercare I - coscienza - cuore - cupidigia - desiderio II, III - fedeltà VT 2; NT 2 - forza II - giustizia - idoli II 3 - indurimento - mitezza 2.3 - obbedienza II 3, IV - orgoglio - peccato - perfezione - pietà - puro VT II, NT I, II 3 - sapienza VT III 4; NT III 2 - sessualità III 1 - Spirito di Dio NT V 3 - timore di Dio - via II.

    VISCERE (inizio)

    → madre I 1, II 1 - misericordia - tenerezza.

    VISIONI (inizio)

    → carismi I - profeta VT I 1 - rivelazione VT I 2 - sogni - vedere VT I.

    VISITA (inizio)

    La storia della *salvezza è presentata sovente nella Bibbia come una successione di «visite» di Jahvè al suo popolo od a qualche persona privilegiata; Dio, che ha preso l’iniziativa dell’*alleanza e rimane segretamente presente allo svolgimento del suo *disegno, interviene sovente in modo straordinario nella vita del suo popolo, per benedirlo o punirlo, ma sempre per salvarlo; questo sguardo del Signore, questi interventi personali, visibili, sono altrettanti segni della sua *presenza, della sua azione, della continuità del suo disegno salvifico e delle sue esigenze attraverso la fedeltà e l’infedeltà dei suoi. Preparano e annunziano il *giorno del Signore per eccellenza, la venuta di Dio stesso in Gesù, ed il suo ritorno nella gloria, per un ultimo *giudizio ed una salvezza definitiva.
    VECCHIO TESTAMENTO
    1.
    «Dio vi visiterà e vi farà risalire da questo paese nel paese che ha promesso con giuramento ad Abramo, ad Isacco e Giacobbe» (Gen 50, 24 s). Il Dio che ha chiamato Abramo per farne il padre di una moltitudine e che, a tale scopo, ha «visitato» Sara rendendola feconda (21, 1 s), interviene in un modo unico liberando il suo popolo dall’Egitto. Queste visite di Dio che ama e che salva il suo popolo si rinnoveranno nel corso della storia di Israele, formandone la trama essenziale e manifestando la *fedeltà di Jahvè alle sue *promesse. Se gli Israeliti si dimostrano infedeli all’alleanza, l’intervento del Dio geloso prenderà la forma di un *castigo, che però rimarrà ordinato alla salvezza del popolo. Tutti i profeti, e specialmente Geremia, riprendono ed orchestrano questo tema degli interventi di Jahvè. Se le *vittorie sono visite di Dio che benedice i suoi fedeli (Sof 2, 7), le sventure del popolo sono parimenti visite di Dio che viene a correggere gli Israeliti ed i loro capi, ed a ricondurli a sé: «Io non ho conosciuto che voi tra tutte le famiglie della terra, perciò vi visiterò per tutte le vostre iniquità» (Am 3, 2; Os 4, 9; Is 10, 3; Ger 6, 15; 23, 2. 34). Questa visita, descritta da Ezechiele come la ispezione del *pastore che passa in rivista il suo gregge (Ez 34), è sempre dettata dall’amore di Dio ed orientata verso la salvezza del popolo. Le *nazioni vicine: Moab, l’Egitto e soprattutto Babilonia, che si oppongono al compimento del disegno divino di salvezza, saranno anch’esse «visitate» da Dio che le giudicherà e le castigherà (Ger 46, 21...; 48, 44; 50, 18. 27. 31), ma infine le salverà (Ger 12, 14-17; 16, 19 ss). Al pari della liberazione dall’Egitto, l’esilio è opera di Jahvè: «Soltanto al compiersi dei 70 anni accordati a Babilonia io vi visiterò e realizzerò per voi la mia promessa di ricondurvi qua» (Ger 29, 10; cfr. 32, 5; Sal 80, 15; Zac 10, 3).
    2. Allora ogni giudeo prenderà maggior coscienza di essere oggetto di un’attenzione particolare, personale, di Dio: «Ricordati di me, o Jahvè, per amore del tuo popolo, visitami con la tua salvezza, che io veda la felicità dei tuoi eletti» (Sal 106, 4). Queste visite individuali non si limitano al campo cultuale: Dio illumina lo spirito dei sapienti esaminando la loro condotta (Giob 7, 18; Sal 17, 3) od inviando loro dei *sogni (Eccli 34, 6; cfr. già Gen 20, 3).
    3. E soprattutto, a partire dall’esilio, il movimento stesso della rivelazione apre gli spiriti all’annunzio di una visita definitiva di Dio che verrà a *giudicare il popolo e le nazioni: questo *giorno di Jahvè, già annunziato dai profeti preesilici, sarà il giorno di trionfo degli eletti, salvati dalla venuta, dalla visita e dal *regno di Dio, e si estenderà di diritto a tutti i popoli: «Nel giorno della visita, i *giusti splenderanno... ed il Signore regnerà su di essi per sempre» (Sap 3, 7; Eccli 2, 14). Di questa speranza vivranno i Giudei del sec. I (ad es. Qumrân); la venuta di Gesù e la sua predicazione del regno realizzeranno questa visita divina promessa ed attesa. 
    NUOVO TESTAMENTO 
    1. «Benedetto il Signore, Dio di Israele, perché ha visitato e liberato il suo popolo» (Lc 1, 68). In Gesù, Dio, spinto dal suo amore (1, 78) e volendo realizzare le sue *promesse, è venuto a salvare i suoi, portando così a termine la loro attesa e rispondendo alla loro preghiera. Questo tema permea tutto il vangelo. Alla luce degli oracoli dei profeti, il precursore è presentato come colui che viene a preparare i cuori alla venuta, alla manifestazione di Dio in Gesù. Egli annunzia il giudizio escatologico e proclama la venuta del *regno. Gesù insisterà sul carattere anzitutto salvifico di questa visita e sul suo aspetto universale. Ma, pur essendo offerta ad ogni *carne (Lc 3, 6; cfr. 1 Piet 2, 12), questa visita non sarà accolta se non dai *cuori puri che la riconosceranno: «un grande profeta è sorto fra noi, e Dio ha visitato il suo popolo» (Lc 7, 16). Non tutti la comprendono così. Infatti, nonostante i *miracoli, la visita di Dio in Gesù non è sfolgorante, accecante: può essere rifiutata. Questo è l’aspetto drammatico della visita, che gli evangelisti sottolineano, soprattutto S. Giovanni: «Egli è venuto tra i suoi ed i suoi non l’hanno ricevuto» (Gv 1, 11). Questo disconoscimento colpevole trasformerà la grazia in minaccia di *castigo. Guai a coloro che non sanno riconoscere il «tempo della visita», guai a Gerusalemme (Lc 19, 43 s), guai alle città del lago! Questo rifiuto dei Giudei, contrario all’atteggiamento dei pagani (Mt 8, 10 ss), è presentato come il coronamento tragico di una lunga serie di rigetti, di disprezzi delle visite di Jahvè durante tutto il VT: il castigo sarà terribile per coloro che non avranno accolto il figlio del re, inviato dal Padre suo per «percepire i frutti» della vigna (Mt 21, 33-46). La rovina di Gerusalemme, fine del mondo giudaico e segno splendido del *giudizio di Dio, ne sarà il prodromo visibile, visita terribile del figlio dell’uomo che annunzia la sua ultima venuta nella gloria (cfr. Mt 25, 31-46).
    2. Prima di quest’ultima visita, anticipata nell’«ingresso festoso» di Gesù nella domenica delle palme, l’azione di Gesù continua nella Chiesa con la *missione degli apostoli e con l’invio dello Spirito in mezzo ai credenti. Il Signore stesso interviene sempre nella vita della Chiesa: l’Apocalisse lo mostra pronto a castigare le comunità di Asia se non si convertono (Apoc 2-3). Ma se dobbiamo andare insieme incontro a Cristo «che viene» (1 Tess 4, 17; cfr. Mt 25, 6), ogni discepolo è invitato personalmente ad accogliere la visita di Gesù: «Ecco che sto alla porta e busso...» (Apoc 3, 20), dovrà quindi *vegliare (Mt 24, 42 ss; 25, 1-13) e *pregare fino al *giorno, ignoto a tutti, in cui Gesù «comparirà una seconda volta, a coloro che lo attendono, per dar loro la salvezza» (Ebr 9, 28).
    R. DEVILLE
    → calamità 2 - castighi 3 - giorno del Signore - giudizio - ira B VT III 3; NT III 2 - ora 1 - Provvidenza - retribuzione I - salvezza - sonno I 2 - speranza NT II - sterilità II, III - vegliare I.

    VITA (inizio)

    Dio è vivente, Dio ci chiama alla vita eterna. Da un capo all’altro della Bibbia, un senso profondo della vita in tutte le sue forme, ed un senso purissimo di Dio, ci rivelano nella vita, che l’uomo persegue con una speranza instancabile, un dono sacro in cui Dio fa risplendere il suo mistero e la sua generosità.
    I. IL DIO VIVENTE
    Invocare «il Dio vivente» (Gios 3, 10; Sal 42, 3...), presentarsi come «servo del Dio vivente» (Dan 6, 21; 1 Re 18, 10. 15), giurare «per il Dio vivente» (Giud 8, 19; 1 Sam 19, 6...), non significa soltanto proclamare che il Dio di Israele è un *Dio potente ed attivo, significa dargli uno dei *nomi ai quali egli tiene maggiormente (Num 14, 21; Ger 22, 24; cfr. Ez 5, 11...), significa evocare la sua vitalità straordinaria, il suo ardore divorante «che non si stanca e non si affanna» (Is 40, 28), «il re eterno... dall’*ira insostenibile» (Ger 10, 10), colui «che rimane in eterno... che salva e libera, opera segni e meraviglie in cielo e sulla terra» (Dan 6, 27 s). Il valore che la Bibbia annette a questo nome è il segno del valore che ha per essa la vita.
    II. VALORE DELLA VITA
    1. La vita è cosa preziosa.

    - La vita compare nelle ultime tappe della *creazione, come suo coronamento. Nel quinto giorno nascono «i grandi cetacei, gli esseri viventi che guizzano e pullulano nelle acque» (Gen l, 21) e gli uccelli. A sua volta la terra produce altri esseri viventi (1, 24). Infine Dio crea, a sua immagine, il più perfetto dei viventi, 1’*uomo. E, per assicurare a questa vita *nascente la continuità e la *crescita, Dio le fa dono della sua *benedizione (1, 22. 28). Perciò l’uomo, benché la vita sia un tempo di servizio penoso (Giob 7, 1), è pronto a sacrificare tutto per salvarla (2, 4). La sorte dell’*anima negli inferi appare così lacrimevole che desiderare la *morte non può essere che il contraccolpo di una disgrazia inaudita e sconvolgente (Giob 7, 15; Giona 4, 3). L’ideale è di fruire a lungo dell’esistenza presente (cfr. Eccle 10, 7; 11, 8 s) sulla «terra dei viventi» (Sal 27, 13) e di morire, come Abramo, «in una *vecchiaia felice, ricco di anni e sazio di giorni» (Gen 25, 8; 35, 29; Giob 42, 17). Se una posterità è ardentemente desiderata (cfr. Gen 15, 1-6; 2 Re 4, 12-17), si è perché i figli sono il sostegno dei genitori (cfr. Sal 127; 128) e prolungano in qualche modo la loro vita. Si ama quindi vedere numerosi, sulle piazze pubbliche, i vegliardi di età avanzata ed i giovanetti (cfr. Zac 8, 4 s).
    2. La vita è cosa fragile.
    - Tutti gli esseri viventi, e l’uomo stesso, non posseggono la vita che a titolo precario. Essi sono, per natura, soggetti alla morte. Questa vita di fatto è dipendente dal respiro, cioè da un soffio fragile, indipendente dalla volontà e che un nulla basta a spegnere (cfr. *spirito). Dono di Dio (Is 42, 5), questo soffio non cessa di dipendere da lui (Sal 104, 28 ss), «che fa morire e che fa vivere» (Deut 32, 39). Effettivamente la vita è breve (Giob 14, 1; Sal. 37, 36), un semplice vapore (Sap 2, 2), un’*ombra (Sal 144, 4), un nulla (Sal 39, 6). Sembra persino che essa non abbia cessato di diminuire dalle origini (cfr. Gen 47, 8 s). 120 o 100 anni, ed anche 70 od 80, sono diventati un massimo (cfr. Gen 6, 3; Eccli 18, 9; Sal 90, 10).
    3. La vita è cosa sacra.
    - Ogni vita viene da Dio, ma il soffio dell’uomo ne viene in un modo tutto speciale: per farne un’anima vivente, Dio ha soffiato nelle sue narici un alito di vita (Gen 2, 7; Sap 15, 11) che ritira all’istante della morte (Giob 34, 14 s; Eccle 12, 7, dopo l’esitazione di 3, 19 ss). Perciò Dio prende sotto la sua protezione la vita dell’uomo e vieta l’uccisione (Gen 9, 5 s; Es 20, 13), anche quella di Caino (Gen 4, 11-15). Persino la vita dell’*animale ha qualcosa di sacro; l’uomo si può nutrire della sua *carne, a condizione che ne sia stato fatto uscire tutto il *sangue, perché «la vita della carne è nel sangue» (Lev 17, 11), sede dell’anima vivente che respira (Gen 9, 4); e proprio mediante questo sangue l’uomo entra in contatto con Dio nei sacrifici.
    III. LE PROMESSE DI VITA
    1. La legge della vita.
    - Dio, «che non si compiace nella morte di alcuno» (Ez 18, 32), non aveva creato l’uomo per lasciarlo morire, ma perché vivesse (Sap 1, 13 s; 2, 23); gli aveva quindi destinato il *paradiso terrestre e 1’*albero della vita, il cui frutto doveva farlo «vivere per sempre» (Gen 3, 22). Anche dopo aver dovuto vietare all’uomo peccatore, che pensava di trovarlo mediante le sue proprie vie, l’accesso all’albero della vita, Dio non rinunzia ad assicurare all’uomo la vita. In attesa di dargliela mediante la morte del suo Figlio, egli propone al suo popolo «le *vie della vita» (Prov 2, 19...; Sal 16, 11; Deut 30, 15; Ger 21, 8). Queste vie sono «le *leggi ed usanze» di Jahvè; «chi le osserverà vi troverà la vita» (Lev 18, 5; Deut 4, l; cfr. Es 15, 26); vedrà «giungere a pienezza il numero dei suoi giorni» (Es 23, 26); troverà «lunghezza di giorni e di vita, luce degli occhi e pace» (Bar 3, 14). Infatti queste vie sono quelle della *giustizia, e «la giustizia conduce alla vita» (Prov 11, 19; cfr. 2, 19 s...), «il giusto vivrà per la sua *fedeltà» (Ab 2, 4), mentre gli empi saranno cancellati dal *libro della vita (cfr. Sal 69, 29). Per lungo tempo nella speranza di Israele questa vita non è che una vita sulla terra, ma, poiché la sua *terra è quella di cui Jahvè ha fatto dono al suo popolo, «la vita ed i lunghi giorni» che Dio gli riserva se è fedele (Deut 4, 40...; cfr. Es 20, 12) rappresentano una felicità unica al mondo, «superiore a quella di tutte le nazioni della terra» (Deut 28, 1).
    2. Dio, fonte di vita.
    - D’altronde questa vita, benché sia vissuta tutta sulla terra, non trova *nutrimento in primo luogo nei beni della terra, ma nell’attaccamento a Dio. Egli è «la fonte di acqua viva» (Gen 2, 13; 17, 13), «la fonte di vita» (Sal 36, 10; cfr. Prov 14, 27) ed «il suo amore val più della vita» (Sal 63, 4). I migliori quindi giungono a preferire ad ogni altro bene la felicità di abitare per tutta la vita nel suo tempio, dove un sol giorno trascorso dinanzi alla sua *faccia e consacrato a celebrarla «val più di mille» (Sal 84, 11; cfr. 23, 6; 27, 4). Per i profeti la vita è «*cercare Jahvè» (Am 5, 4 s; Os 6, 1 s).
    3. Vita oltre la morte.
    - Più che non della vita felice nella sua terra, Israele peccatore fa l’esperienza della *morte, ma, dal seno stesso della morte, scopre che Dio persiste nel chiamarlo alla vita. Dal fondo dell’esilio Ezechiele proclama che Dio «non si compiace nella morte del malvagio» , ma lo chiama a «convertirsi ed a vivere» (Ez 33, 11); egli sa che Israele è come un popolo di cadaveri, ma annunzia che, in queste ossa aride, Dio immetterà il suo *spirito ed esse rivivranno (37, 11-14). Sempre dall’esilio il Deutero Isaia contempla il *servo di Jahvè: «Tolto dalla terra dei viventi... per l’iniquità del suo popolo» (Is 53, 8), «egli offre la sua vita in *sacrificio di espiazione» e, al di là della morte, «vede una discendenza e prolunga i suoi giorni» (53, 10). Sussiste quindi una frattura nell’associazione fatale peccato/morte: si può morire per i propri *peccati, ed attendere ancora qualcosa dalla vita, si può morire per altra cosa che i propri peccati e trovare, morendo, la vita. Le persecuzioni di Antioco Epifane vennero a confermare queste idee profetiche facendo vedere che si poteva morire per essere *fedeli a Dio. Questa morte accettata per Dio non poteva separare da lui, non poteva portare che alla vita mediante la *risurrezione: «Dio renderà loro lo spirito e la vita... essi bevono alla vita che non si esaurisce» (2 Mac 7, 23. 36). Dalla polvere in cui dormono «essi si risveglieranno... brilleranno come lo splendore del firmamento», mentre i loro persecutori sprofonderanno «nell’orrore eterno» (Dan 12, 2 s). Nel libro della Sapienza questa speranza si amplia e trasforma tutta la vita dei giusti: mentre gli empi, «appena nati, cessano di essere» (Sap 5, 13), morti viventi, i giusti sono fin d’ora «nella mano di Dio» (3, 1) e riceveranno da essa «la vita eterna... la corona regale di *gloria» (5, 15 s).
    IV. GESÙ CRISTO: IO SONO LA VITA
    Con la venuta del Salvatore, le promesse diventano realtà.
    1. Gesù annunzia la vita.
    - Per Gesù, la vita è una cosa preziosa, «più del cibo» (Mt 6, 25); «salvare una vita» è più importante anche del *sabato (Mc 3, 4 par.), perché «Dio non è un Dio di morti, ma di viventi» (Mc 12, 27 par.). Egli stesso guarisce e restituisce la vita, come se non potesse tollerare la presenza della morte: se egli fosse stato presente, Lazzaro non sarebbe morto (Gv 11, 15. 21). Questo potere di dare la vita è il segno che egli ha potere sul peccato (Mt 9, 6) e che apporta la vita che non muore, la «vita eterna» (19, 16 par.; 19, 29 par.). È la vera vita; si può persino dire, senz’altro, che è «la vita» (7, 14; 18, 8 s par. ...). Per entrarvi e possederla bisogna quindi prendere la *via stretta, sacrificare tutte le proprie *ricchezze, persino le proprie membra e la vita presente (cfr. Mt 16, 25 s).
    2. In Gesù è la vita.
    - Verbo eterno, Cristo possedeva da tutta l’eternità la vita (Gv l, 4). Incarnato, egli è «il Verbo di vita» (1 Gv 1, 1); dispone della vita con proprietà assoluta (Gv 5, 26) e la dona in sovrabbondanza (10, 10) a tutti coloro che il Padre suo gli ha dato (17, 2). Egli è «la via, la verità e la vita» (14, 6), «la risurrezione e la vita» (11, 25). «*Luce della vita» (8, 12), egli dà un’*acqua viva, che, in colui che la riceve, diventa «una fonte che zampilla per la vita eterna» (4, 14). «*Pane di vita» , egli dà a colui che mangia il suo *corpo di vivere per mezzo suo, come egli vive per mezzo del Padre (6, 27-58). Ciò suppone la *fede: «chi vive e crede in lui, non morrà» (11, 25 s), diversamente «non vedrà mai la vita» (3, 36); una fede che riceve le sue parole e le mette in pratica, com’egli stesso obbedisce al Padre suo, perché «il suo comando è vita eterna» (12, 47-50).
    3. Gesù Cristo, principe della vita.
    - Ciò che esige, Gesù lo fa per primo; ciò che annunzia, lo dà. Liberamente, per amore verso il Padre e verso i suoi, come il buon *pastore per le sue pecore, «egli dà la sua vita» (= «la sua *anima» , Gv 10, 11. 15. 17 s; 1 Gv 3, 16). Ma lo fa «per riprenderla» (Gv 10, 17 s) e, dopo averla ripresa, divenuto «spirito vivificatore» (1 Cor 15, 45), far dono della vita a tutti coloro che credono in lui. Gesù Cristo, morto e risorto, è «il principe della vita» (Atti 3, 15), la Chiesa ha la missione «di annunziare arditamente al popolo... questa vita» (Atti 5, 20): tale è la prima esperienza cristiana.
    4. Vivere in Cristo.
    - Questo passaggio dalla morte alla vita si ripete in colui che crede in Cristo (Gv 5, 24) e, «*battezzato nella sua morte» (Rom 6, 3), «risorto dalla morte» (6, 13), «vive ormai per Dio in Cristo Gesù» (6, 10 s). Egli ora *conosce, di una conoscenza viva, il Padre ed il Figlio che egli ha mandato, e questo costituisce la vita eterna (Gv 17, 3; cfr. 10, 14). La sua «vita è nascosta con Cristo in Dio» (Col 3, 3), il Dio vivente di cui egli è il tempio (2 Cor 6, 16). Partecipa in tal modo alla vita di Dio, dalla quale un tempo era escluso (cfr. *straniero) (cfr. Ef 4, 18), e quindi alla sua natura (2 Piet 1, 4). Avendo ricevuto da Cristo lo *Spirito di Dio, il suo stesso spirito è vita (Rom 8, 10). Egli non è più soggetto alle costrizioni della *carne; può passare indenne attraverso la morte e vivere per sempre (cfr. 8, 11. 38), non più per se stesso, «ma per colui che è morto e risorto per lui» (2 Cor 5, 15); per lui, «la vita è Cristo» (Fil 1, 21).
    5. La morte assorbita dalla vita.
    - Già in questa terra il cristiano, quanto più partecipa alla *morte di Cristo e porta le sue *sofferenze, tanto più manifesta la sua vita sin nel proprio *corpo (2 Cor 4, 10). Di fatto bisogna che ciò che è mortale sia assorbito dalla vita (2 Cor 5, 4); ciò che è corruttibile deve rivestirsi dell’immortalità, cambiamento che, per quasi tutti, suppone la morte corporale (cfr. 1 Cor 15, 35-55). Questa, lungi dall’indicare una sconfitta della vita, la rende stabile e la fa fiorire in Dio, ingoiando la morte nella sua *vittoria (15, 54 s). L’Apocalisse vede già le anime dei martiri in cielo (Apoc 6, 9) e Paolo desidera morire per «essere con Cristo» (Fil 1, 23; cfr. 2 Cor 5, 8). La vita con Cristo, che si attende dalla *risurrezione (cfr. 1 Tess 5, 10), è quindi possibile subito dopo la morte. Si può allora essere simili a Dio e *vederlo com’egli è (1 Gv 3, 2), *faccia a faccia (1 Cor 13, 12), il che costituisce l’essenza della vita eterna. Tuttavia questa vita non avrà tutta la sua perfezione se non nel giorno in cui il corpo stesso, risuscitato e glorificato, vi avrà parte, quando si manifesterà «la nostra vita, Cristo» (Col 3, 4), nella Gerusalemme celeste, «dimora di Dio con gli uomini» (Apoc 21, 3), dove scaturirà il fiume di vita, dove crescerà l’*albero di vita (22, 1 s; 22, 14. 19). «Allora non ci sarà più morte» (21, 4), essa sarà «gettata nel lago di fuoco» (20, 14). Tutto sarà pienamente soggetto a Dio, che «sarà tutto in tutti» (1 Cor 15, 28). Sarà un nuovo *paradiso, dove i santi *gusteranno per sempre la vita stessa di Dio, in Cristo Gesù.
    A. A. VIARD e J. GUILLET
    → acqua - albero 1 - anima I 1.2 - battesimo IV 2.4 - beatitudine - benedizione - bianco 0 - correre 2 - creazione - crescita - desiderio I - Dio VT III 1 - dono NT 3 - donna VT 1.2 - fecondità - forza - frutto - gioia VT I - grazia II 1, V - lampada 2 - luce e tenebre VT II 1; NT I 2 - madre I 1, II 1 - morte - nascita (nuova) - paradiso - risurrezione - salvezza - sangue - sapienza VT II 1 - sessualità I 1 - Spirito di Dio NT V 3 - uomo I 1 a - vecchiaia 1 - violenza 0 - vittoria NT 1.

    VITE - VIGNA (inizio)

    Poche colture dipendono, come la vite, sia dal lavoro attento ed ingegnoso dell’uomo, sia dal ritmo delle stagioni. La Palestina, terra di vigneti, insegna ad Israele a gustare i frutti della terra, a dedicarsi totalmente ad un lavoro promettente, ma anche ad aspettarsi tutto dalla generosità divina. D’altra parte la vite, così preziosa, ha qualcosa di misterioso. Non ha valore che per il suo *frutto. Il suo legno è senza valore (Ez 15, 2-5) ed i suoi tralci sterili non sono buoni che per il fuoco (Gv 15, 6); ma il suo frutto rallegra «dèi e uomini» (Giud 9, 13); la vite nasconde quindi un mistero più profondo; se apporta la gioia nel cuore dell’uomo (Sal 104, 15), è una vite il cui frutto è la *gioia di Dio.
    1. La vite, gioia dell’uomo.
    - *Noè, il giusto, pianta la vite su una terra che Dio ha promesso di non più maledire (Gen 8, 21; 9, 20). E la presenza di vigneti sulla nostra terra è il segno che la *benedizione di Dio non è stata completamente distrutta dal peccato di Adamo (Gen 5, 29). Dio promette e dà al suo popolo una terra ricca di vigne (Num 13, 23 s; Deut 8, 8). Ma coloro che opprimono il povero (Am 5, 11) o sono infedeli a Jahvè (Sof 1, 13) non berranno il *vino delle loro vigne (Deut 28, 30. 39); esse saranno divorate dalle locuste (Gioe l, 7) o faran posto ai rovi (Is 7, 23). Gravemente ingiusto è il re che prende le vigne dei suoi sudditi; di questo abuso predetto da Samuele (1 Sam 8, 14 s) si rende colpevole Achab (1 Re 21, 1-16). Ma, sotto un buon re, ognuno vive nella *pace, sotto la sua vite ed il suo fico (1 Re 5, 5; 1 Mac 14, 12). Questo ideale si realizzerà nei tempi messianici (Mi 4, 4; Zac 3, 10); allora la vigna sarà feconda (Am 9, 14; Zac 8, 12). Immagine della *sapienza (Eccli 24, 17), immagine della *sposa feconda del giusto (Sal 128, 3), la vite che mette le gemme simboleggia la speranza degli sposi che, nel Cantico, cantano il mistero dell’amore (Cant 6, 11; 7, 13; 2, 13. 15; cfr. 1, 14).
    2. Israele, vigna infedele a Dio.
    - Sposo e vignaiolo, il Dio di Israele ha la sua vigna, che è il suo *popolo. Per Osea, Israele è una vigna feconda che rende grazie della sua *fecondità ad altri che a Dio, quel Dio che, mediante l’alleanza, è il suo *sposo (Os 10, 1; 3, 1). Per Isaia, Dio ama la sua vigna, ha fatto tutto per essa, ma invece del *frutto di giustizia che attendeva, essa gli ha dato l’acerba *vendemmia del sangue versato; egli l’abbandonerà ai devastatori (Is 5, 1-7). Per Geremia, Israele è una vigna scelta, inselvatichita e divenuta sterile (Ger 2, 21; 8, 13), che sarà divelta e calpestata (Ger 5, 10; 12, 10). Ezechiele infine paragona ad una vigna feconda, poi inaridita e bruciata, ora Israele infedele al suo Dio (Ez 19, 10-14; 15, 6 ss), ora il re infedele ad un’alleanza giurata (17, 5-19). Verrà un giorno in cui la vigna fiorirà sotto la custodia vigilante di Dio (Is 27, 2 s). A tale scopo Israele invoca l’amore *fedele di Dio: possa egli salvare questa vigna che ha trapiantato dall’Egitto nella sua terra e che ha dovuto abbandonare allo sterminio ed al fuoco! Ormai essa gli sarà fedele (Sal 80, 9-17). Ma non sarà Israele a mantenere questa promessa. Riprendendo la parabola di Isaia, così Gesù riassume la storia del popolo eletto: Dio non ha cessato di aspettare i frutti della sua vigna; ma invece di ascoltare i profeti da lui mandati, i vignaioli li hanno maltrattati (Mc 12, 1-5). Colmo dell’amore: egli manda ora il suo Figlio diletto (12, 6); in risposta i capi del popolo porteranno al colmo la loro infedeltà, uccidendo il Figlio di cui la vigna è l’eredità. Perciò i colpevoli saranno castigati, ma la morte del Figlio aprirà una nuova tappa del *disegno di Dio: affidata a vignaioli fedeli, la vigna darà finalmente il suo frutto (12, 7 ss; Mt 21, 41 ss). Quali saranno questi vignaioli fedeli? Le proteste platoniche non servono a nulla: occorre un *lavoro effettivo, il solo che renda (Mt 21, 28-32). Per fare la sua *vendemmia, Dio accoglierà tutti gli operai: lavorando fin dal mattino, od assoldati all’ultima ora, tutti riceveranno la stessa ricompensa. Infatti la chiamata al lavoro e l’offerta del salario sono doni gratuiti e non diritti che l’uomo possa rivendicare: tutto è *grazia (Mt 20, 1-15).
    3. La vera vigna, gloria e gioia di Dio.
    - Ciò che Israele non ha potuto dare a Dio, glielo dà Gesù. Egli è la vigna che rende, la vite autentica, degna del suo nome. È il vero *Israele. È stato piantato dal Padre suo, è stato circondato di cure e mondato affinché porti un frutto abbondante (Gv 15, 1 s; Mt 15, 13). E di fatto porta il suo frutto dando la propria vita, versando il proprio sangue, prova suprema d’amore (Gv 15, 9. 13; cfr. 10, 10 s. 17); ed il *vino, frutto della vite, sarà, nel mistero eucaristico, il segno sacramentale di questo *sangue versato per suggellare la nuova alleanza; sarà il mezzo per partecipare all’amore di Gesù, per *rimanere in lui (Mt 26, 27 ss par.; cfr. Gv 6, 56; 15, 4-9 s). Egli è la vite e noi i tralci, come egli è il *corpo e noi le membra. La vera vite è lui, ma è anche la sua *Chiesa, i cui membri sono in comunione con lui. Senza questa. *comunione noi non possiamo fare nulla: Gesù solo, vera vite, può portare un frutto che glorifichi il vignaiolo, il Padre suo. Senza la comunione con lui, noi siamo tralci staccati dalla vite privi di linfa, sterili, buoni per il fuoco Gv 15, 4 ss). A questa comunione tutti gli uomini sono chiamati dall’amore del Padre e del Figlio; chiamata gratuita, perché è Gesù a scegliere coloro che diventano suoi tralci, suoi *discepoli; non sono essi a sceglierlo (15, 16). Mediante questa comunione, l’uomo diventa tralcio della vera vite. Vivificato dall’amore che unisce Gesù ed il Padre suo, egli porta frutto, e ciò glorifica il Padre. Partecipa così alla gioia del Figlio che è glorificare il Padre suo (15; 8-11). Tale è il mistero della vera vite: esprime l’unione feconda di Cristo e della Chiesa, e la gioia che rimane, perfetta ed eterna (cfr. 17, 23).
    M. F. LACAN
    → Chiesa II 2, V 2 - frutto - vendemmia – vino.

    VITTIMA (inizio)

    → agnello di Dio - altare - eucaristia IV - redenzione NT 2 - sacrificio - sangue VT 3.

    VITTORIA (inizio)

    La vittoria suppone lotta e rischio di sconfitta. E di fatto su una sconfitta si apre nella Bibbia il dramma dell’umanità, vinta da *Satana, dal peccato, dalla *morte. Ma già in questa sconfitta si delinea la promessa di una vittoria futura sul male (Gen 3, 15). La storia della *salvezza è quella del cammino verso la vittoria definitiva. 
    VECCHIO TESTAMENTO 
    Il popolo di Dio fa l’esperienza della vittoria e della sconfitta anzitutto nella sua storia temporale. Ma la sconfitta ha come risultato di indirizzare finalmente la sua fede verso l’attesa di un’altra vittoria, realizzata su un altro piano.
    1. Le vittorie del popolo di Dio.
    - Gli Israeliti misurano da prima la *forza del loro Dio ad un livello molto imperfetto: quello dei loro successi militari. Ai loro occhi il trionfo di Dio sul male si confonde con le vittorie che riportano. Quando sono in *guerra, non costituiscono essi forse «gli eserciti di Jahvè» (Es 12, 41; Giud 5, 13; 1 Sam 17, 26)? Egli dunque combatte per essi ed assicura i loro successi: sotto Mosè (Es 14, 14; 15, 1-21; 17, 8-16), sotto Giosuè (Gios 6, 16; 10, 10), sotto i giudici (Giud 7, 15), sotto i re (1 Sam 14, 6; 2 Cron 14, 10 s; 20, 15- 29). Bisogna combattere, ma bisogna pure ricevere da Dio la vittoria come una *grazia e come un *dono (Sal 18, 32-49; 20, 7-10; 118, 10-27). Nell’epoca tarda dei Maccabei, questi non esiteranno ad attribuire a Dio il successo delle loro armi (1 Mac 3, 19; 2 Mac 10, 38; 13, 15; 15, 8-24). Dio appare quindi come l’alleato invincibile (Giudit 16, 13; Deut 32, 22-43; Is 30, 27-33; Nah 1, 2-8; Ab 3; 1 Cron 29, 11 s). Come alle origini egli ha dominato le forze del caos (Gen 1, 2), personificate dalle sue *bestie mostruose (Sal 74, 13), così nella storia continua a trionfare sui popoli pagani che incarnano queste forze e si oppongono al suo *disegno di salvezza. Per questo gli Israeliti possono prevalere sui loro nemici; esperienza il cui contenuto religioso è innegabile, ma che rimane ambigua: non saranno essi tentati di pensare che la vittoria di Dio coincida necessariamente con la loro potenza temporale? Un’esperienza complementare li preserverà da questo errore.
    2. Le sconfitte del popolo di Dio.
    - Già al momento del successo i profeti ricordano agli Israeliti che la vittoria data da Dio non è necessariamente una ricompensa della buona condotta (Deut 9, 4 ss). Ma i rovesci sono loro necessari perché prendano veramente coscienza della loro miseria morale. Le prove dell’esodo (Num 14, 42 s; Deut 8, 19 s), le lungaggini nella conquista di Canaan (Gios 7, l-12; Giud 2, 10-23), le sconfitte subite dalla monarchia (2 Cron 21, 14; 24, 20; 25, 8-20) e soprattutto la catastrofe dell’esilio (Ger 15, 1-9; 27, 6; Ez 22) fanno veder loro che Dio non esita a combattere contro di essi quando lo tradiscono. Queste sconfitte sono un *castigo della *infedeltà (Sal 78; 106). Lungi dal significare una sconfitta di Dio, padrone degli imperi, esse rivelano che la vittoria di Dio è di ordine diverso da quello del successo temporale. Esse portano in tal modo Israele a comprendere ed a preparare la sola vera vittoria.
    3. Verso un’altra vittoria.
    - Di fatto gli oracoli profetici annunziano per gli «ultimi tempi» una vittoria divina che supererà in tutti i modi quelle del passato, ed i sapienti pongono in evidenza una vittoria spirituale che non si riporta con le armi.
    a) La vittoria escatologica. - I profeti postesilici amano rappresentare la crisi finale della storia come una *guerra gigantesca in cui Dio affronterà i suoi *nemici collegati. E li schiaccerà sicuramente (cfr. Is 63, 1-6), come schiacciò i mostri primordiali (Is 27, 1). Questa vittoria sarà preludio al suo *regno finale (Zac 14; cfr. Ez 38 - 39). Altri testi presentano colui che sarà l’artefice di questo trionfo definitivo. Ora egli assume i tratti del *messia regale (Sal 2, 1-9; 110, 5 ss); ora è personificato nel *Figlio dell’uomo trascendente, dinanzi al quale Dio annienta le *bestie (Dan 7). Più paradossale è la vittoria del *servo di Jahvè, che trionfa con il suo sacrificio (Is 52, 13 ss; 53, 11 s) e porta a realizzazione il *disegno di Dio. Se la vittoria del figlio dell’uomo superava il piano temporale perché era posta al di là della storia, quella del servo è posta di colpo sul piano spirituale, il solo che infine abbia importanza.
    b) La vittoria dei giusti. - Questa vittoria può già essere acquistata dai giusti che trionfano del peccato. L’idea sta sullo sfondo di tutto l’insegnamento dei sapienti. Ma prende corpo al termine del VT, nel libro della Sapienza: avendo vinto nelle lotte immacolate, i giusti cingeranno nell’eternità la corona dei vincitori (Sap 4, 1 s); il Signore darà loro questa ricompensa meritata, nel momento stesso in cui lancerà un ultimo assalto contro i malvagi (Sap 5, 15-23). Questa è pure la vittoria che riporterà Cristo, e dopo di lui i cristiani.
    NUOVO TESTAMENTO
    1. Vittoria di Cristo.
    - Con Cristo il piano delle lotte temporali è definitivamente superato. La lotta reale che egli conduce è di altro ordine. Già nella sua vita pubblica egli si dichiara come il «più forte» che trionfa del forte (Lc 11, 14-22), cioè di *Satana, principe di questo mondo. Alla vigilia della morte, egli ammonisce i suoi di non temere il *mondo malvagio che li perseguiterà col suo odio: «Abbiate fiducia! Io ho vinto il mondo» (Gv 16, 33). Questa vittoria riprende i tratti paradossali di quella del servo di Jahvè, che realizza alla lettera. Ma si afferma come una realtà concreta e definitiva con la *risurrezione. Qui Cristo ha trionfato del peccato e della morte; ha trascinato le *potenze vinte dietro il suo carro di vincitore (Col 2, 15). Meglio che gli antichi re di Israele, egli ha vinto, questo leone di Giuda (Apoc 5, 5), questo *agnello immolato (5, 12), divenuto signore della storia umana. E la sua vittoria si manifesterà infine con splendore quand’egli prevarrà su tutte le forze avverse (17, 14; 19, 11-21) e vincerà per sempre la *morte, ultimo nemico (1 Cor 15, 24 ss). La *croce, sconfitta apparente, ha assicurato la vittoria del santo sul peccato, del *vivente sulla morte.
    2. Vittoria del nuovo popolo.
    - Tale è la vittoria di Cristo, tale quella del nuovo popolo che egli trascina dietro di sé. Non è neppure essa una vittoria temporale; su questo piano può comportare una sconfitta apparente. Così *martiri, schiacciati dalla *bestia (Apoc 11, 7; 13, 7; cfr. 6, 2), l’hanno nondimeno già vinta, grazie al *sangue dell’agnello (12, 10 s; 15, 2). Così gli *apostoli, che Cristo ha condotto con sé nel suo trionfo (2 Cor 2, 14), ma che le prove dell’apostolato possono abbattere (4, 7-16). Così, infine, tutti i cristiani. Avendo riconosciuto il loro Padre ed essendosi nutriti della sua *parola, essi hanno vinto il maligno (1 Gv 2, 13 s). Nati da Dio, hanno vinto il *mondo (5, 4). La loro vittoria è la loro *fede nel Figlio di Dio (5, 5), grazie alla quale essi vincono pure gli *anticristi (4, 4). Questa vittoria resta da consolidare mediante una lotta spirituale: invece di essere vinti dal male, essi devono vincere il male mediante il bene (Rom 12, 21). Ma sanno che, con la forza dello *Spirito, possono trionfare ormai di tutti gli ostacoli: nulla più li separerà dall’amore di Cristo (8, 35 ss). Condividendo la vittoria del loro capo, essi condivideranno pure la sua *gloria. Il NT evoca questa ricompensa dei vincitori mediante varie immagini. E’una corona preparata loro lassù; corona di vita (Giac 1, 12; Apoc 2, 10), di gloria (1 Piet 5, 4), di giustizia (2 Tim 4, 8); corona incorruttibile, a differenza di quelle che si ottengono in terra (1 Cor 9, 25); corona vivente fatta di coloro che gli apostoli hanno portato alla fede (Fil 4, 1; 1 Tess 2, 19). Soprattutto l’Apocalisse, così attenta alla situazione dei cristiani in *guerra contro la bestia, descrive la sorte riservata ai vincitori: saranno *figli di Dio (Apoc 21, 7), prenderanno posto sul trono di Cristo (3, 21) e governeranno con lui le *nazioni (2, 26); riceveranno un *nome nuovo (2, 17), mangeranno all’*albero di vita (2, 7), diventeranno colonne nel *tempio del loro Dio (3, 12): entrati nella *vita eterna, non avranno più da temere la seconda *morte (2, 11), a differenza dei vinti, dei vili e dei rinnegati (21, 8). Il NT si chiude con questa vittoria radiosa. Per i vincitori si realizza così, al di là di ogni speranza, la promessa originale: l’uomo, vinto un tempo da Satana, dal peccato e dalla morte, ne ha trionfato grazie a Cristo Gesù.
    P. É. BONNARD
    → agnello di Dio 3 - ascensione II 2 - bene e male III - bestie e Bestia 3 - carne II 2 c - creazione VT II 2 - demoni NT - forza - giorno del Signore - guerra - liberazione-libertà - mondo NT II 1 - morte NT II 3 - nemico II 2, III 2 - pace - peccato IV 2 d e - prigionia II - processo III 3 - redenzione NT 3.6 - salvezza - visita VT 1.

    VIZI (inizio)

    → virtù e vizi.

    VOCAZIONE (inizio)

    Le scene di vocazione sono tra le pagine più impressionanti della Bibbia. La vocazione di Mosè al roveto ardente (Es 3), quella di Isaia nel tempio (Is 6), il dialogo tra Jahvè ed il giovane Geremia (Ger 1), mettono in presenza Dio nella sua maestà e nel suo mistero, e l’uomo in tutta la sua verità, nella sua paura e nella sua generosità, nelle sue potenze di resistenza e di accettazione. Perché questi racconti occupino un simile posto nella Bibbia, bisogna che la vocazione sia, nella rivelazione di Dio e nella salvezza dell’uomo, un momento importante.
    I. LE VOCAZIONI E LE MISSIONI NEL VT
    Tutte le vocazioni nel VT hanno come oggetto delle *missioni: Dio chiama per mandare; ad Abramo (Gen 12, 1), a Mosè (Es 3, 10. 16), ad Amos (Am 7, 15), ad Isaia (Is 6, 9), a Geremia (Ger 1, 7), ad Ezechiele (Ez 3, 1. 4), egli ripete lo stesso ordine: Va’! La vocazione è la chiamata che Dio fa sentire all’uomo che si è scelto e che destina ad un’opera particolare nel suo disegno di salvezza e nel destino del suo popolo. All’origine della vocazione c’è dunque un’*elezione divina; al suo termine, una *volontà divina da compiere. Tuttavia la vocazione aggiunge qualcosa alla elezione ed alla missione: una chiamata personale rivolta alla *coscienza più profonda dell’individuo, che ne sconvolge l’esistenza, non soltanto nelle sue condizioni esterne, ma sin nel cuore, facendone un altro uomo. Questo aspetto personale della vocazione è reso nei testi: sovente si sente Dio pronunciare il nome di colui che egli chiama (Gen 15, 1; 22, 1; Es 3, 4; Ger 1, 11; Am 7, 8; 8, 2). Talora, per meglio indicare la sua presa di possesso ed il cambiamento di esistenza che essa significa, Dio dà un *nome nuovo al suo eletto (Gen 17, 1; 32, 29; cfr. Is 62, 2). E Dio si aspetta una risposta alla sua chiamata, una adesione cosciente, di fede e di obbedienza. Talora questa adesione è istantanea (Ger 12, 4; Is 6, 8), ma spesso l’uomo è preso da paura e tenta di sottrarsi (Es 4, 10 ss; Ger 1, 6; 20, 7). E questo perché normalmente la vocazione isola, e fa del chiamato un estraneo tra i suoi (Gen 12, 1; Is 8, 11; Ger 12, 6; 15, 10; 16, 1-9; cfr. 1 Re 19, 4). Questa chiamata non è rivolta a tutti coloro che Dio sceglie come suoi strumenti: i *re, ad esempio, pur essendo gli unti del Signore, non sentono questo appello, ed è Samuele ad informarne Saul (1 Sam 10, 1) e David (16, 12). Neppure i sacerdoti hanno il loro *sacerdozio da una chiamata ricevuta da Dio, bensì dalla nascita. Aronne stesso, quantunque Ebr 5, 4 lo dica «chiamato da Dio» , non ha ricevuto questa chiamata se non per mezzo di Mosè (Es 28, 1) e non si dice nulla dell’accoglienza interna che egli vi fece. Senza che la lettera agli Ebrei lo dica esplicitamente, non costituisce infedeltà al suo pensiero il vedere nel carattere mediato di questa chiamata un segno della inferiorità, persino di Aronne, del *sacerdozio levitico nei confronti del sacerdozio di colui al quale, di fatto, Dio rivolge direttamente la sua parola: «Tu sei il mio Figlio... Tu sei sacerdote... secondo l’ordine di Melchisedec» (Ebr 5, 5 s).
    II. VOCAZIONE DI ISRAELE E VOCAZIONE DI GESÙ CRISTO
    Israele ha ricevuto una vocazione? Nel senso corrente della parola, è evidente. Nel senso preciso della Bibbia, quantunque un *popolo non possa evidentemente essere trattato come una persona singola ed avere le sue reazioni, Dio nondimeno agisce nei suoi confronti come nei confronti di coloro che chiama. Certamente gli parla per mezzo di intermediari, particolarmente per mezzo di Mosè, ma, a parte questa differenza imposta dalla natura delle cose, Israele ha tutti gli elementi di una vocazione. L’*alleanza è anzitutto una chiamata di Dio, una parola rivolta al cuore; la *legge ed i profeti sono pieni di questo appello: «Ascolta Israele» (Deut 4, 1; 5, 1; 6, 4; 9, 1; Sal 50, 7; Is 1, 10; 7, 13; Ger 2, 4; cfr. Os 2, 16; 4, 1). Questa parola impegna il popolo in una esistenza separata, di cui Dio si fa il garante (Es 19, 4 ss; Deut 7, 6), e gli proibisce di appoggiarsi su altri che non sia Dio (Is 7, 4-9; cfr. Ger 2, 11 ss). Questa chiamata, infine, aspetta una risposta, un impegno del cuore (Es 19, 8; Gios 24, 24) e di tutta la vita. Sono tutti i tratti della vocazione. In un senso, è vero che questi elementi si ritrovano pienamente nella persona di Gesù Cristo, il perfetto *servo di Dio, colui che *ascolta sempre la voce del Padre e gli presta *obbedienza. Tuttavia il linguaggio proprio della vocazione non è praticamente usato dal NT a proposito del Signore. Se Gesù evoca costantemente la *missione che ha ricevuto dal Padre, non si dice mai che Dio l’abbia chiamato, e questa assenza è significativa. La vocazione suppone un mutamento di esistenza; la chiamata di Dio sorprende l’uomo nel suo compito abituale, in mezzo ai suoi, e lo impegna verso un punto di cui Dio si riserva il segreto, verso «la terra che ti indicherò» (Gen 22, 1). Ora nulla indica in Gesù Cristo la presa di coscienza di una chiamata; il suo *battesimo è ad un tempo una scena di investitura regale: «Tu sei il mio Figlio» (Mc 1, 11) e la presentazione da parte di Dio del servo nel quale si compiace in modo perfetto; ma nulla evoca qui le scene di vocazione: da un capo all’altro dei vangeli Gesù sa donde viene e dove va (Gv 8, 14) e se va dove non lo si può seguire, se il suo destino è di tipo unico, ciò non è in virtù di una vocazione, ma del suo stesso essere.
    III. VOCAZIONE DEI DISCEPOLI E VOCAZIONE DEI CRISTIANI
    Se Gesù, per suo conto, non sente la chiamata di Dio, in compenso moltiplica le chiamate a seguirlo; la vocazione è il mezzo mediante il quale egli raggruppa attorno a sé i Dodici (Mc 3, 13), ma fa sentire anche ad altri un’analoga chiamata (Mc 10, 21; Lc 9, 59-62); e tutta la sua predicazione ha qualcosa che comporta una vocazione; una chiamata a seguirlo in una via nuova di cui egli possiede il segreto: «Chi vuol venire dietro di me...» (Mt 16, 24; cfr. Gv 7, 17). E se «molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti», si è perché l’invito al regno è una chiamata personale, alla quale taluni rimangono sordi (Mt 22, 1-14). La Chiesa nascente ha subito inteso la condizione cristiana come una vocazione. La prima predicazione di Pietro a Gerusalemme è un appello ad Israele, simile a quello dei profeti, e cerca di suscitare un passo personale: «Salvatevi da questa *generazione perversa!» (Atti 2, 40). Per Paolo c’è un parallelismo reale tra lui, «*apostolo per vocazione», e i cristiani di Roma o di Corinto «*santi per vocazione» (Rom 1, 1. 7; 1 Cor 1, 1 s). Per rimettere i Corinzi nella verità, egli li riporta alla loro chiamata, perché essa costituisce la comunità di Corinto così com’è: «Considerate la vostra chiamata, non ci sono molti sapienti secondo la carne» (1 Cor 1, 26). Per dar loro una regola di condotta in questo mondo la cui figura passa, li impegna a rimanere ciascuno «nella condizione in cui l’ha trovato la sua chiamata» (7, 24). La vita cristiana è una vocazione perché è una vita nello *Spirito, perché lo Spirito è un nuovo universo, perché «si unisce al nostro spirito» (Rom 8, 16) per farci sentire la *parola del Padre e risveglia in noi la risposta filiale. Poiché la vocazione cristiana è nata dallo Spirito, e poiché lo Spirito è uno solo che anima tutto il Corpo di Cristo, in seno a quest’unica vocazione c’è «diversità di doni... di *ministeri... di operazioni...», ma in questa varietà di *carismi non c’è infine che un solo *corpo ed un solo Spirito (1 Cor 12, 4-13). Poiché la *Chiesa, la comunità dei chiamati, è essa stessa la Ekklesìa, «la chiamata» , come è la Eklektè, «l’eletta» (2 Gv 1), tutti coloro che in essa sentono la chiamata di Dio rispondono, ognuno al suo posto, all’unica vocazione della Chiesa che sente la voce dello sposo e gli risponde: «Vieni, o Signore Gesù!» (Apoc 22, 20).
    J. GUILLET
    → Abramo 1 - apostoli II 1 - carismi II 2 - cercare III - David 1 - discepolo NT 2 a - elezione - grazia IV - matrimonio NT II - missione - Mosè 1 - nome VT l; NT 4 - Pietro (S.) 1 - popolo A I 1 - predestinare 2 - profeta VT II 1 - seguire - volontà di Dio 0.

    VOLONTÀ DI DIO (inizio)

    Nel suo oggetto essenziale, la volontà di Dio coincide con il suo *disegno. «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi» (1 Tim 2, 4), scrive S. Paolo, ricapitolando gli oracoli profetici ed il messaggio di Gesù. Tutte le manifestazioni della volontà divina nel corso della storia sono allora raccolte in un piano complessivo che le coordina, in un disegno di sapienza; tuttavia ognuna di esse concerne un avvenimento particolare, ed appunto per accettare il dominio di Dio su questo l’uomo prega: «Sia fatta la tua volontà!». Così la storia già passata rivela il disegno di Dio che prima dei secoli aveva *predestinato tutto; così pure, se si sottomette alla volontà di Dio, l’uomo si rivolge all’avvenire con fiducia, perché lo sa guidato in anticipo dalla divina* provvidenza. Questa volontà di Dio assume una forma particolare quando si manifesta nei confronti dell’uomo, perché questi vi si deve conformare internamente, compierla liberamente. Essa gli si presenta non come una fatalità, ma come una chiamata, un comando, un’esigenza; Ia *legge raggruppa l’insieme delle volontà divine chiaramente espresse. Tuttavia la legge ha un aspetto statico, perché prende forma di istituzione. Occorre fare uno sforzo per ritrovare dietro di essa quella volontà personale che, ad ogni istante, rimane un evento, suscita da parte dell’uomo una risposta, inizia un dialogo. Vista sotto questo aspetto, la volontà di Dio è vicinissima alla sua *parola, che è sia atto che enunciato. La volontà di Dio è anzitutto un atto che rivela il suo beneplacito. come tale, essa non si identifica semplicemente con il disegno di Dio, che la ricapitola in un piano complessivo, né con la sua legge, che la manifesta in modo pratico. Anziché presentare qui nei particolari le diverse manifestazioni della volontà divina: *predestinazione, *elezione, *vocazione, *liberazione, *promesse, *castighi, *salvezza, conviene far vedere come la volontà di Dio, che si compie in cielo, deve compiersi anche in terra (Mt 6, 10); volontà di salvezza, per sé efficace, essa incontra la volontà dell’uomo che non intende soppiantare, ma rendere perfetta: per giungere a questo, bisogna che Dio trionfi della malvagità dell’uomo ed ottenga la comunione delle volontà.
    VECCHIO TESTAMENTO
    Fin dalle origini la volontà del creatore appare agli occhi di *Adamo sotto un duplice aspetto. Da una parte è una *benedizione generosa accompagnata dalla sovranità sugli animali e dalla presenza di una compagna ideale; dall’altra parte è una limitazione apportata alla libertà umana: «Non mangiare...» (Gen 2, 17). Allora si inizia il dramma: invece di riconoscere in questo divieto una *prova *educatrice destinata a conservare la sua dipendenza entro una reale libertà, Adamo l’attribuisce ad una volontà gelosa della sua supremazia, e disobbedisce (3, 5 ss). Quando il dialogo riprende per iniziativa di Dio (3, 9), la volontà divina è diventata, per il serpente, *maledizione (3, 14), per l’uomo e la donna, annunzio di *castigo, illuminato da una prospettiva di *vittoria finale (3, 15-19). Questo è lo sfondo su cui si pone il problema della volontà di Dio nel VT.
    I. DIO RIVELA LA SUA VOLONTÀ
    Ormai la volontà di Dio non si manifesta più all’umanità peccatrice in modo immediato ed universale. È comunicata in particolare ad un popolo eletto, mediante interventi di Dio nella storia e mediante il dono della legge.
    1. Nel corso della storia.
    - Israele impara a *conoscere la volontà misericordiosa ed amorevole di Jahvè anzitutto attraverso le grandi azioni di Dio. Jahvè è deciso a liberare Israele schiavo in Egitto (Es 3, 8), portandolo su ali di aquila (Es 19, 4), perché si è compiaciuto di farne il suo proprio popolo (1 Sam 12, 22). Così pure, dopo la prova dell’esilio, vuole ricostruire Gerusalemme e riedificate il tempio, sia pure per mezzo di un pagano (Is 44, 28); Israele deve dunque riconoscere che Dio non vuole la morte ma la *vita (Ez 18, 32), non vuole la sventura ma la *pace (Ger 29, 11). Una volontà espressa in tal modo è segno di *amore. Il dono della *legge è parimenti segno di amore, perché essa permette ad Israele di comprendere che ad ogni istante la *parola, espressione della volontà di Dio, è «vicinissima a te, nella tua bocca e nel tuo cuore, affinché tu la metta in pratica» (Deut 30, 14). I salmisti hanno cantato l’esperienza di questo contatto con la volontà divina, fonte di delizie incomparabili (Sam 1, 2). Nella letteratura postesilica, si farà vedere in Tobia colui che è stato benedetto dalla «volontà di Dio» (Tob 12, 18); e la preghiera sale, fervida: «Insegnami a fare le tue volontà» (Sam 143, 10).
    2. Nella riflessione ispirata.
    - Per meglio adorare questa volontà, di cui sentono la trascendenza, profeti, sapienti e salmisti ne accentuano di volta in volta l’uno o l’altro aspetto.
    a) Anzitutto indipendenza sovrana. - «Dio decide, chi lo smuoverà? Ciò che egli ha progettato, lo compie» (Giob 23, 13). La *parola che egli manda in terra «fa tutto ciò che egli vuole» (Is 55, 11), anche se si tratta di distruggere (Is 10, 23). Dio agisce secondo la sua volontà, e non secondo qualche consigliere umano (Is 40, 13). Tali affermazioni, costanti nella Bibbia, esprimono ad un tempo l’onni*potenza di Dio e la sua piena indipendenza. Creatore, egli ha ogni potere in cielo ed in terra, e le forze della natura stanno ai suoi ordini (Sam 135, 6; Giob 37, 12; Eccli 43, 13-17); padrone della sua *opera, egli dirige financo il movimento del cuore dell’uomo (Prov 21, 1) e dà i regni a chi gli piace (Dan 4, 14. 22. 29); esalta od abbassa chi vuole (Tob 4, 19). Dinanzi alla sovrana indipendenza di una volontà che talora gli pare arbitraria (Ez 18, 25), l’uomo potrebbe essere tentato di ribellarsi, come Adamo. Allora la Scrittura, riprendendo l’immagine tradizionale del vasaio che dispone a piacere suo della creta, ricorda all’uomo la sua radicale dipendenza di creatura: «Chi resiste alla volontà di Dio? Chi sei tu dunque, o uomo, per disputare con Dio?» (Rom 9, 19 ss; cfr. Ger 18, 1-6; Is 29, 16; 45, 9; Eccli 33, 13; Sap 12, 12). La. creatura deve *adorare umilmente la volontà del suo creatore dovunque essa si manifesti.
    b) Sapienza della volontà divina. - L’adorazione del mistero non si fonda su un’abdicazione dell’intelligenza, ma su una *fede profonda nella *giustizia di Dio, su una *conoscenza del consiglio, del *disegno, della *sapienza che presiedono all’esecuzione della sua volontà. Nessun intelletto umano la può concepire (Sap 9, 13), ma la sapienza ne dà l’intelligenza a chi la prega (9, 17). Allora si riconosce che «il disegno di Dio, i pensieri del suo cuore, perdurano d’età in età» (Sam 33, 11), a differenza di quelli dell’uomo (Prov 19, 21).
    c) Infine volontà benevola, espressa dai termini di benevolenza, di compiacenza, di favore grazioso. «Volere uno», in ebraico come in altre lingue, significa amarlo. In questo senso Dio «vuole» il suo servo (Is 42, 1), il suo popolo (Sal 44, 4), i giusti (Sal 22, 9). Nei suoi eletti egli ama, vuole la misericordia, il perdono, la bontà (Os 6, 6; Mi 6, 8; Ger 9, 23; Is 58, 5 ss).
    II. ALLE PRESE CON IL RIFIUTO DELL’UOMO
    Ma la volontà d’amore di Dio urta contro la volontà peccatrice dell’uomo: la storia di Adamo è sempre attuale. Ascoltiamo ad esempio il profeta Amos. Per Israele infedele, la volontà di benedizione diventa volontà di *castigo (ad es. Am 1, 3. 6...), è la penale dell’elezione (3, 2); se l’uomo non riconosce ancora il suo Signore (4, 6-11), si prepari al castigo definitivo (4, 12)! La minaccia dell’*indurimento pesa allora su di lui. Dio invece non si ostina nella sua volontà di castigo, è sempre pronto a «convertirsi» dalla sua decisione, a mutare volontà (Ger 18, 1-12; Ez 18; cfr. Es 32, 14; Giona 3, 9 s); egli annuncia che almeno un *resto sopravvivrà (Is 6, 13; 10, 21). Si compiace nel vedere «il peccatore abbandonare la sua condotta e vivere» (Ez 18, 23). Questa volontà sarebbe soltanto un’intenzione senza efficacia, se Dio stesso non prendesse in mano la causa del peccatore. Egli solleciterà quindi dall’interno la volontà della sua sposa infedele (Os 2, 16), farà sì che Israele cammini secondo le sue volontà dandogli un *cuore nuovo (Ez 36, 26 s; cfr. Ger 31, 33). A tal fine suscita un *servo, di cui ogni mattino apre l’orecchio (Is 50, 5), per farlo capace di *obbedire alla sua volontà (Sal 40, 8 s); perciò, grazie al servo, «quel che piace a Jahvè si compirà» (Is 53, 10). Del resto, ciò non sarà a prezzo di altra costrizione che quella dell’amore: il diletto non sveglia la sposa prima che essa lo voglia (Cant 2, 7; 3, 5; 8, 4). Ma quand’essa avrà voluto ritornare allo sposo (Os 2, 17 s), meriterà di essere chiamata da Dio stesso: «Mio compiacimento in essa» (Is 62, 4).
    NUOVO TESTAMENTO
    Già all’alba del NT Maria, ancella del Signore ripiena di grazia, accoglie la volontà divina con umile sottomissione (Lc 1, 28. 38). Quanto a Gesù, il giusto per eccellenza, egli viene nel mondo «per fare la tua volontà, o Dio» (Ebr 10, 7. 9); più ancora di David, egli è «l’uomo secondo il cuore di Dio che compirà tutte le sue volontà» (Atti 13, 22).
    I. CRISTO E LA VOLONTÀ DI DIO
    1. Gesù rivela le preferenze del Padre suo.
    - Contro gli spiriti gretti dei *Farisei che vorrebbero restringere il cuore di Dio, Gesù proclama l’assoluta libertà di Dio nei suoi doni. Questa libertà di amore è espressa nella parabola del padrone della vigna: «Voglio dare a quest’ultimo quanto a te. Non mi è forse permesso fare ciò che voglio di quel che mi appartiene? Oppure bisogna che tu sia invidioso perché io sono buono?» (Mt 20, 14 s). Così, nel suo beneplacito, Dio ha riservato ai piccolissimi la rivelazione messianica (11, 25) ed ha accordato al piccolo gregge il dono del regno (Lc 12, 32). Ma vi entreranno soltanto coloro che fanno la volontà del Padre suo (Mt 7, 21), perché essi soli costituiscono la sua famiglia (12, 50).
    2. Gesù compie la volontà del Padre suo.
    - Nel quarto vangelo Gesù non parla della volontà del Padre suo (come in Mt), ma della volontà «di colui che mi ha mandato» . Questa volontà di Dio costituisce una *missione. Gesù ne fa il suo cibo (Gv 4, 34); questa sola ricerca (5, 30), perché egli fa tutto ciò che piace a colui che lo ha mandato (8, 29). Ora questa volontà è che egli dia a tutti coloro che vengono a lui la risurrezione e la vita eterna (6, 38 ss). Se questa volontà si presenta a lui sotto la forma di un «comando» (10, 18), egli vi vede anzitutto il segno che «il Padre lo ama» (10, 17). L’*obbedienza del Figlio è comunione di volontà con il Padre (15, 10). Questa adesione perfetta di Gesù alla volontà divina non sopprime, ma rende comprensibile l’accordo doloroso che, secondo i sinottici, si manifesta nel corso della passione. Nel Getsemani, Gesù percepisce successivamente nella loro apparente contraddizione «ciò che io voglio» è «ciò che tu vuoi» (Mc 14, 36); ma supera il conflitto pregando istantemente il Padre suo: «Non sia fatta la mia volontà, ma la tua!» (Lc 22, 42). Da quel momento, nell’apparente abbandono del Padre, egli continuerà a sentirsi «amato» (Mt 27, 43 = Sal 22, 9). Durante la sua vita terrena Gesù non è riuscito a fare ciò che avrebbe voluto fare: radunare i figli di Gerusalemme (23, 37), ma con la sua volontà di sacrificio ha acceso il *fuoco sulla terra (Lc 12, 49).
    II. «SIA FATTA LA TUA VOLONTÀ!»
    Dopo che in Gesù la volontà di Dio si è realizzata sulla terra come in cielo, il cristiano può essere sicuro di essere esaudito nella sua orazione domenicale (Mt 6, 10). Deve quindi, da discepolo autentico, riconoscere e praticare questa volontà.
    1. Discernere la volontà di Dio.
    - Il discernimento e la pratica della volontà divina si condizionano a vicenda: bisogna compiere la volontà di Dio per apprezzare la dottrina di Gesù (Gv 7, 17), ma d’altra parte bisogna riconoscere in Gesù e nei suoi comandamenti i comandamenti stessi di Dio (14, 23 s). Ciò rientra nel mistero dell’incontro delle due volontà, quella dell’uomo peccatore e quella di Dio: per andare a Gesù, bisogna essere «attratti» dal Padre (6, 44), attrazione che, secondo la parola greca, è ad un tempo costrizione e dilettazione (giustificando l’espressione di S. Agostino: «Dio che mi è più intimo di me stesso»). Per discernere la volontà di Dio non basta conoscere la lettera della legge (Rom 2, 18), ma occorre aderire ad una persona, e ciò può avvenire solo per mezzo dello Spirito Santo che Gesù dona (Gv 14, 26). Allora il giudizio rinnovato permette di «discernere qual è la volontà di Dio, ciò che è bene, ciò che gli piace, ciò che è perfetto» (Rom 12, 2). Questo discernimento non riguarda soltanto la vita quotidiana; perviene alla «piena conoscenza della sua volontà, sapienza ed intelligenza spirituale» (Col 1, 9): questa è la condizione di una vita che piaccia al Signore (1, 10; cfr. Ef 5, 17). Anche la preghiera non può più essere che una preghiera «secondo la sua volontà» (1 Gv 5, 14), e la formula classica «se Dio lo vuole» assume una risonanza totalmente diversa (Atti 18, 21; 1 Cor 4, 19; Giac 4, 15), perché suppone un riferimento costante al «mistero della volontà di Dio» (Ef 1, 3-14).
    2. Praticare la volontà di Dio.
    - A che pro conoscere ciò che il padrone vuole, se non lo si mette in pratica (Lc 12, 47; Mt 7, 21; 21, 31)? Questa «pratica» costituisce propriamente la vita cristiana (Ebr 13, 21), in opposizione alla vita secondo le passioni umane (1 Piet 4, 2; Ef 6, 6). Più precisamente, la volontà di Dio a nostro riguardo è santità 1 Tess 4, 3), ringraziamento (5, 18); pazienza (1 Piet 3, 17) e buona condotta (2, 15). Questa pratica è passibile, perché «è Dio che suscita in noi e il volere e l’operare per l’esecuzione del suo beneplacito» (Fil 2, 13). Allora c’è comunione delle volontà, accordo della grazia e della libertà.
    E. JACQUEMIN e X. LÉON-DUFOUR
    → autorità - VT I - bene e male I 3.4 - coscienza 2 c - Dio - disegno di Dio - elezione - indurimento 1 2 a - legge - liberazione-libertà - obbedienza - opere VT II 1 - predestinare - promesse II 2 - via I - vocazione.

    VOLTO (inizio)

    → faccia.

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