EBBREZZA - EVENTO - DIZIONARIO DI TEOLOGIA BIBLICA

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E: EBBREZZA - EVENTO

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  ................. LUIS MARTINEZ FERNANDEZ

E

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    EBBREZZA (inizio)

    → ubriachezza.

    EBREO (inizio)

    Il significato primitivo del nome degli Ebrei non è chiaro. Nella Genesi designa sempre persone che soggiornano come *straniere in un paese che non è il loro paese di origine: Abramo (Gen 14, 13), Giuseppe (39, 14; 41, 12), Giacobbe ed i suoi figli (40, 15; 43, 32). Essendo il loro antenato eponimo Heber di molto anteriore ad Abramo (Gen 10, 25; 11, 14), il termine si poteva applicare ad una larga porzione delle popolazioni semitiche. Nel libro dell’Esodo, gli Ebrei discendenti da Giacobbe (Es 1, 5; 2, 6...) sono separati dagli Egiziani per razza, per origine e per religione (Jahvè è il «Dio degli Ebrei», 7, 16; 9, 1). Così pure gli Ebrei, semiti stabiliti in Canaan, si oppongono ai Filistei loro oppressori (1 Sam 4, 6...; 13, 3. 19; 14, 11; 29, 3; cfr. Num 24, 24); ma non è certo che siano tutti Israeliti (cfr. 1 Sam 14, 21). La legge deuteronomica sugli schiavi ebrei (Deut 15, 12 s; Ger 34, 14) fa vedere in essi i fratelli degli Israeliti, ma ciò potrebbe intendersi ancora in senso largo (cfr. Gen 24, 27). Così, fino alla cattività, il termine non appare mai né come nome di popolo, né come titolo di valore religioso. Le cose stanno diversamente nei testi più recenti. In Giona 1, 9, il profeta si presenta ai marinai pagani come «ebreo e servo del Dio del cielo»; in 2 Mac 7, 31; 11, 13; 15, 37, il termine «Ebrei» designa i *Giudei stabiliti nella terra santa. In questi due casi non è assente la risonanza religiosa; ma si tinge di un significato nazionale. Quando Paolo dice di essere «ebreo, figlio di Ebrei» (Fil 3, 5; 2 Cor 11, 22), lo fa per insistere sull’origine palestinese e sulla lingua ebraica della propria famiglia. Gli stessi criteri distinguono, presso i giudeo-cristiani gli Ebrei dagli Ellenisti (Atti 6, 1). Ma risulta evidente da Gv 19, 13. 17 che il termine «ebraico» può essere utilizzato anche per parlare della lingua aramaica. In questi ultimi casi la parola non implica una diretta connotazione religiosa. Perciò non è passata nel vocabolario cristiano per designare la posterità spirituale di Abramo (cfr. Rom 4, 16).
    P. GRELOT
    → Israele-Giudeo - popolo A II 1.

    EDEN (inizio)

    → creazione VT II 1 - paradiso.

    EDIFICARE (inizio)

    I temi della costruzione, dell’edificio che si costruisce, occupano un grande posto nella Bibbia, libro di un *popolo che si edifica e costruisce le sue *case, le sue *città, il suo *tempio. Costruire è un desiderio naturale dell’uomo; Dio ne farà uno dei perni del suo *disegno di salvezza.
    I. L’EDIFICAZIONE DELL’ANTICO ISRAELE
    1. Edificare una famiglia e costruire un edificio.
    - Il verbo ebraico banah designa innanzitutto la costruzione di edifici materiali, di un altare (Gen 8, 20), di una casa (33, 17), di una città (4, 17), e Dio non condanna queste imprese, a condizione che non siano, come a Babele, destinate a porre l’uomo contro di lui (Gen 11, 1-9). La presenza divina è indispensabile perché l’opera non sia votata al fallimento (Sal 127, 1). Le costruzioni «pagane» non hanno importanza dinanzi a Dio, ed egli le distruggerà quando vorrà, per quanto possano apparire belle e solide (Am 3, 12 ss; Sof 2, 4 ss; Zac 9, 3 ss). Edificare si dice di una famiglia come di un fabbricato: Dio edifica la donna con la costola di Adamo (Gen 2, 22); una madre è «edificata» dai figli che mette al mondo (16, 2; 30, 3). Ma colui che compie questa edificazione è Dio (1 Re 11, 38). Dalla persona alla famiglia, alla tribù ed al popolo, soprattutto attraverso il concetto di *casa, il passaggio è facile e naturale. Anche allora è Dio che agisce per edificare la dinastia di *David (2 Sam 7, 11), la casa od il popolo di *Israele (Ger 12, 16; 24, 6; 31, 4).
    2. Costruire e distruggere.
    - *Benedicendo «l’opera delle mani dell’uomo» (Deut 14, 29; 15, 10), Dio le dà compimento e solidità, la «edifica». Ma se l’uomo dimentica Dio, questi distruggerà l’opera edificata senza di lui (Ger 24, 6; 42, 10). L’annientamento delle persone, delle abitazioni, delle città e dei popoli sarà la testimonianza del suo *castigo. Geremia, il profeta di questa distruzione, è mandato «per distruggere e sradicare, per costruire e piantare» (Ger 1, 10). Ma Dio, che è fedele e che costruisce (cfr. il nome proprio Jibneja, «Jahvè costruisce», 1 Cron 9, 8), non distrugge totalmente e senza appello. Anche quando riversa su ogni grandezza umana (Is 2, 11) il flutto distruttore della sua *ira (Is 28, 18; 30, 28), continua sempre a fare opera costruttiva (Is 44, 26; 58, 12). La capanna di David abbattuta sarà ricostruita (Am 9, 11), il popolo ritornerà dall’esilio e ricostruirà le sue città (Ger 30, 4. 18), *Gerusalemme e il *tempio saranno restaurati (Agg 1, 8; Zac 6, 13; Ger 31, 38). Le stesse immagini descrivono le ricostruzioni materiali e la restaurazione del popolo, le case che salgono e la popolazione che affluisce (Is 49, 19-21; Ger 30, 18 s).
    II. IL NUOVO FONDAMENTO
    Il nuovo edificio, il *nuovo *popolo, pur essendo la continuazione dell’antico, di Israele e delle sue istituzioni, non poggia su di esso. È fondato sull’elemento essenziale, sulla *pietra che Dio destinava ad essere il fastigio ed il coronamento di tutta l’opera costruita da Dio in Israele (Gios 28, 16; Zac 4, 7). Ma gli operai incaricati del lavoro hanno rigettato questa pietra che li imbarazzava (cfr. Sal 118, 22; Mt 21, 41 s par.). Il fatto meraviglioso è che questa pietra di scarto, da sola, concentrava in sé tutta la prima costruzione, per modo che, ponendola alla base del nuovo edificio (Sal 118, 22), Dio riprende e porta a termine tutta l’opera anteriore. A motivo della cattiva volontà degli operai, Dio in persona costruisce «agli occhi nostri un’opera mirabile», un capolavoro inimmaginabile. La pietra angolare rigettata e diventata «la pietra d’angolo» (1 Piet 2, 7), «il solo fondamento» possibile (1 Cor 3, 11), è *Gesù Cristo (Atti 4, 11). Gesù Cristo è parimenti il nuovo *tempio. Dopo Geremia (cfr. Ger 7, 12-15), Gesù profetizza la distruzione dell’edificio magnifico, orgoglio di Israele, diventato «una spelonca di ladri» (Ger 7, 11; Mt 21, 12) e la restaurazione - in tre giorni, cioè in un niente - di un altro tempio, il suo proprio corpo; e l’artefice di questa costruzione sarà egli stesso (Gv 2, 19-22).
    III. L’EDIFICAZIONE DEL CORPO DI CRISTO
    1. Io edificherò la mia Chiesa.

    - Pietra d’angolo e tempio santo, Gesù non è solamente il nuovo edificio, ne è pure il costruttore. L’edificio è la sua opera, è «la sua Chiesa» (Mt 16, 18), di cui egli sceglie e sistema i materiali; così pone *Pietro alla base. E, nella sua gloria, «è ancora lui che dà» a ciascuno il suo posto ed il suo ministero, che dà a tutti gli elementi dell’edificio «concordia e coesione» e costruisce in tal modo il suo proprio *corpo nella carità (Ef 4, 11-16).
    2. Coloro che edificano.
    - Sono anzitutto coloro che Cristo ha posto come «fondamenta»: gli *apostoli (Ef 2, 20). Essi sono nello stesso tempo «fondamenta» e «fondatori» delle *Chiese alle quali danno origine. Come, per Geremia, edificare rientrava nel ministero profetico (Ger 1, 10; 24, 6), così per Paolo edificare è proprio del *carisma apostolico (2 Cor 10, 8; 12, 19; 13, 10). «Cooperatori di Dio» (1 Cor 3, 9), gli apostoli devono piantare (3, 6), devono «porre il fondamento» che è Gesù Cristo (3, 10 s).
    3. Il corpo che si costruisce.
    - Sotto 1’azione del capo, Cristo, il corpo tutto intero «si costruisce esso stesso» (Ef 4, 15 s) in tutte le sue parti. Non soltanto il ministero di edificare la Chiesa si estende ai «profeti, evangelisti, pastori e dottori» (Ef 4, 11), incaricati di determinate *responsabilità; ma tutti i «*santi», che sono «il campo e la edificazione di Dio» (1 Cor 3, 9), devono prendere parte attiva a questa edificazione. È un’*opera comune e mutua, in cui ognuno edifica l’altro, dandogli il suo pieno valore nell’edificio, e ricevendo dall’altro aiuto e forza (Rom 14, 19; 15, 2; 1 Tess 5, 11; Giuda 10); è un dovere capitale ed un criterio essenziale nel discernimento dei *carismi: i più preziosi sono quelli che edificano l’assemblea (1 Cor 14, 12).Edificare i propri fratelli significa edificare la Chiesa, a condizione, naturalmente, di rimanere «radicati ed edificati» in Cristo e nella sua tradizione autentica (Col 2, 6 s): nell’ultimo *giorno il *fuoco proverà la qualità dei materiali usati (1 Cor 3, 10-15).
    4. Il nuovo edificio è la città santa, la nuova *Gerusalemme (Apoc 21, 2).
    Esso discende dal *cielo, da presso Dio, perché non vi si ritrova più nulla di ciò che produce il peccato: né morte, né lutto, né grido, né dolore, ed è tutto intero opera di Dio (Apoc 21, 4). Tuttavia «esso poggia su dodici basamenti, che portano ciascuno il nome di uno dei dodici apostoli dell’agnello» (21, 14), e «sulle sue porte sono scritti i nomi delle dodici tribù di Israele» (21, 12). È quindi l’edificio fondato da Gesù Cristo e da lui affidato ai suoi apostoli, è la Chiesa edificata dal lavoro di tutti i suoi santi. Di fatto è la sposa; ed il suo abbigliamento - «la veste di una bianchezza splendente», ma anche tutte le pietre preziose che sfavillano dovunque e riflettono la luce della gloria divina (21, 19-23) -, sono «le buone azioni dei fedeli» (19, 8). Tutto in questo edificio è opera di Dio, ed esso è costruito tutto intero dai santi. Tale è il mistero della *grazia.
    J. M. FENESSE e J. GUILLET
    → casa I 2 - crescita 2 d - esortare - opere NT II 3 - pietra 4 - tempio VT I 2.3; NT I.

    EDUCAZIONE (inizio)

    Il disegno di Dio si compie nel *tempo; il popolo eletto raggiungerà la sua statura definitiva, la *perfezione, attraverso una lenta maturazione. S. Paolo ha paragonato questa «economia» della salvezza ad una educazione. Israele è vissuto sotto la tutela della *legge, come un bambino diretto da un pedagogo, fino a che venisse la *pienezza dei tempi; allora Dio mandò il suo proprio Figlio a conferirci l’adozione filiale: così testimonia il dono dello Spirito (Gal 4, 1-7; 3, 24 s). Del resto l’educazione di Israele non è terminata con la venuta di Cristo: noi dobbiamo «costituire l’*uomo perfetto, nella forza dell’età, che realizza la pienezza di Cristo» (Ef 4, 13). Dalle origini sino alla fine dei tempi l’opera divina è quella di educare il popolo eletto. Dominando con la sua fede lo sviluppo della pedagogia divina, il cristiano ne può segnare le tappe e caratterizzare la natura. Si potrebbero collegare a questo tema le indicazioni sparse nelle voci connesse. L’*amore, dialogo tra due persone, è il fondamento di ogni educazione; l’educatore *insegna, *rivela, *esorta, *promette, *castiga, *retribuisce, dà l’*esempio; perciò deve mostrarsi *fedele al suo disegno e *paziente in vista del risultato ricercato. Sembra tuttavia preferibile legarsi e limitarsi al vocabolario, molto ristretto, della educazione. La parola mûsar significa nello stesso tempo istruzione (dono della sapienza) e correzione (rimprovero, castigo); la si incontra nei sapienziali a proposito dell’educazione familiare, e nei profeti (e nel Deuteronomio) per caratterizzare un comportamento di Dio. Traducendo questa parola con paidèia (cfr. lat. disciplina), i Settanta non hanno voluto assimilare l’educazione biblica all’educazione di tipo ellenico. Per questa un uomo cerca di risvegliare la personalità di un individuo secondo un orizzonte terreno ben limitato. Nella Bibbia Dio è l’educatore per eccellenza, che cerca di ottenere dal suo popolo (e secondariamente dagli individui) un’*obbedienza docile alla legge o nella *fede, non soltanto per mezzo di insegnamenti, ma per mezzo di *prove; se l’educazione che danno i sapienti o la famiglia sembra profana, in realtà il contesto dei libri sapienziali dimostra che essa vuol essere soltanto una espressione dell’educazione divina (Prov 1, 7; Eccli 1, 1). Dio è il modello degli educatori e la sua opera di educazione si realizza in tre tappe, che segnano una interiorizzazione sempre più profonda dell’educatore in colui che è educato.
    I. DIO PADRE EDUCA IL SUO POPOLO
    1. Come un padre educa il proprio figlio: la riflessione deuteronomica ha così caratterizzato il comportamento di Dio che libera e costituisce il suo popolo. «Comprendi dunque che Jahvè tuo Dio ti correggeva come un padre corregge il figlio» (Deut 8, 5). Il predicatore si dimostra erede dei profeti. Già Osea annunciava: «Quando Israele era giovane, io lo amai... Ad Efraim io insegnai a camminare, prendendolo per le braccia... li conducevo con dolci legami, con vincoli di amore... mi chinavo su di lui e gli davo da mangiare» (Os 11, 1-4). Un amore simile si vede nella educazione della bambina trovata sul ciglio della strada, secondo l’allegoria di Ezechiele (16). Non è che deduzione logica e resa con immagini della rivelazione fondamentale: «Così parla Jahvè: il mio figlio primogenito è Israele» (Is 4, 22). Per comprendere ciò che sta sotto queste parole, è importante conoscere il contenuto culturale dell’educazione dei bambini in Israele. La caratterizzano due aspetti: lo scopo è la *sapienza, il mezzo privilegiato è la correzione. Il maestro deve insegnare al *discepolo sapienza, intelligenza e «disciplina» (Prov 23, 23), dove quest’ultimo termine designa propriamente il frutto dell’educazione: è un saper fare (1, 2), un modo di ben comportarsi nella vita, che bisogna acquistare e conservare (4, 13; cfr. 5, 23; 10, 17); per giungere alla vita bisogna applicare il proprio cuore alla «disciplina» (23, 12 s; cfr. Eccli 21, 21). Genitori e maestri hanno di fronte ai bambini un’*autorità che è sanzionata dalla legge (Es 20, 12): bisogna *ascoltare il padre e la madre (Prov 23, 22), sotto pena di gravi sanzioni (30, 17; Deut 21, 18-21). L’educazione è un’arte difficile, perché «la stoltezza è stretta al cuore del fanciullo» (Prov 22, 15), la società è depravata e trascina al male (1, 10 ss; 5, 7-14; 6, 20-35), per modo che i genitori sono pieni di *preoccupazioni (Eccli 22, 3-6; 42, 9 ss). Sono quindi necessarie le ammonizioni, e ancor più la frusta, perché questa non richiede, come le prime, circostanze favorevoli: «colpi di frusta e correzione, ecco la sapienza in ogni tempo» (Eccli 22, 6; 30, 1-13; Prov 23, 13 s). Questa è l’esperienza fondamentale che permette di comprendere il metodo pedagogico di Jahvè.
    2. L’educazione di Israele da parte di Jahvè riflette di fatto i due aspetti della pedagogia familiare, istruzione della sapienza e correzione, trasponendoli in funzione del peccato.
    a) Le «lezioni di Jahvè» al suo popolo sono i *segni compiuti in Egitto, le meraviglie del deserto, tutta la grande opera della *liberazione (Deut 11, 2-7); Israele deve quindi riflettere sulle *prove subite durante la marcia attraverso il *deserto: ha sofferto la *fame per comprendere che «l’uomo non vive soltanto di pane, ma di tutto ciò che esce dalla bocca di Jahvè»; mediante questa esperienza di dipendenza quotidiana, Israele doveva imparare a riconoscere la sollecitudine di Jahvè suo padre: il suo mantello (cfr. *veste) non si è logorato in questi quarant’anni, né si sono gonfiati i suoi piedi (Deut 8, 2-6); queste prove erano destinate a rivelare il fondo del cuore di Israele, ad instaurare un dialogo con Jahvè. Accanto a queste prove, la *legge è presentata anch’essa come una volontà di educazione: «dal cielo egli ti ha fatto sentire la sua voce per istruirti» (Deut 4, 36); non soltanto per esprimere sotto forma di comandamenti oggettivi la *volontà divina, ma per riconoscere che Dio ti ha amato (4, 37 s) e vuole darti «felicità e lunga vita su una *terra concessa per sempre» (4, 40). Da buon educatore Jahvè promette di *retribuire l’osservanza della legge. Infine la legge, come la prova, deve significare la presenza della parola stessa dell’educatore: la *parola non è nei cieli lontani, né al di là dei mari, ma «vicinissima a te, nella tua bocca e nel tuo cuore» (30, 11-14).
    b) La correzione, che può andare dalla minaccia al *castigo passando attraverso al rimprovero, deve assicurare l’efficacia delle «lezioni di Jahvè», perché il peccato ha fatto di Israele un popolo dalla dura cervice proprio come la stoltezza è stretta al cuore del fanciullo. Jahvè prende quindi per mano un profeta, che abbandonerà la via seguita dal popolo (Is 8, 11) e diventerà la sua stessa bocca, non cessando di ricordare mattino e sera, con una *pazienza instancabile, la volontà e l’amore di Dio. Osea mostra il carattere educativo dei castighi mandati da Jahvè (Os 7, 12; 10, 10), facendo allusione ai tentativi infruttuosi dello sposo che cerca in tal modo di far ravvedere l’infedele (2, 4-15; cfr. Am 4, 6-11). Geremia vi ritorna incessantemente: «Lasciati ammaestrare, o Gerusalemme» (Ger 6, 8). Ahimè! Tutto è vano: i figli ribelli non accolgono la lezione, rifiutano di lasciarsi istruire (2, 30; 7, 28; Sof 3, 2. 7),«si sono fatta una faccia più dura della pietra» (Ger 5, 3). Allora la correzione diventa punizione, che colpisce con forza (Lev 26, 18. 23 s. 28); ma anche allora questa correzione è fatta in una giusta misura e non sotto l’impeto dell’*ira che uccide (Ger 10, 24; 30, 11; 46, 28; cfr. Sal 6, 2; 38, 2), e ne può seguire la *conversione. Israele deve riconoscere: «Tu mi hai castigato, ed io ho subito la correzione come un giovenco non domato», e la sua contrizione finisce in preghiera: «Fammi ritornare ed io ritornerò, perché tu sei il mio Dio» (Ger 31, 18). A sua volta il salmista riconosce il valore della correzione divina: «i miei *reni mi ammoniscono la notte» (Sal 16, 7), «beato l’uomo che è corretto da Dio e non sdegna il castigo di Shaddai!» (Giob 5, 17), perché questo è il modo col quale Dio governa i popoli (Sal 94, 10; cfr. Is 28, 23-26).
    c) L’educazione tuttavia non sarà terminata che nel giorno in cui la legge sarà posta in fondo al *cuore: «uno non dovrà più stimolare un altro... essi mi conosceranno tutti, dai più piccoli, ai più grandi» (Ger 31, 33 s). Per ottenere questo risultato sarà necessario che la correzione colpisca il *servo: «il castigo che ci restituisce la pace è su di lui, e noi siamo guariti grazie alle sue piaghe» (Is 53, 5). Allora si comprenderà fino a qual punto le «viscere di Jahvè erano commosse» quando doveva profferire minacce sul «suo figlio diletto» (Ger 31, 20; cfr. Os 11, 8 s).
    II. GESÙ CRISTO, EDUCATORE DI ISRAELE
    Il servo si presenta al suo popolo sotto i tratti di un rabbi che educa dei *discepoli come dei figli, ed attraverso a lui Dio in persona rivela il compimento del suo disegno. Inoltre il servo prende su di sé le correzioni che noi meritavamo: è il redentore di Israele. Per affermare questo duplice aspetto non c’è indubbiamente un vocabolario specifico, ma si possono seguire come guida gli annunci *figurativi del VT.
    1. Il rivelatore.
    - Per stendere un bilancio della «pedagogia» di Gesù è sufficiente considerare la restrospettiva che offrono gli evangelisti, particolarmente Matteo. Gesù educatore della fede dei discepoli conduce progressivamente a farsi riconoscere come il messia: il suo insegnamento si distribuisce in due grandi parti, secondo Matteo. «A partire dal giorno» in cui è stato *confessato da Pietro come Cristo, egli modificherà il suo comportamento (Mt 16, 21). Prima vuole condurre i suoi contemporanei ad identificare con la sua persona il regno annunciato (cfr. 4, 17). Suscita quindi una questione a suo riguardo, con l’insegnamento che dà con *autorità (Mt 7, 28 s; Mc 1, 27) e con i *miracoli (Mt 8, 27; Lc 4, 36), anche se in tal modo solleva un dubbio in Giovanni Battista (Mt 11, 3); dispensa il suo insegnamento secondo le disposizioni degli uditori, ad esempio nelle *parabole, destinate non soltanto ad istruire, ma a suscitare una domanda di spiegazione (Mt 13, 10-13. 36), fino a che si sia «compreso» (13, 51); fa «toccare con mano» ai discepoli la loro impotenza e la sua potenza nel dare pani nel deserto (14, 15-21), e dai pani trae la lezione che essi avrebbero dovuto «comprendere» (16, 8-12); li associa alla sua *missione dopo aver dato loro norme precise (10, 5-16), ed esige da essi un rendiconto del lavoro effettuato (Mc 6, 30; Lc 10, 17). Dopo che è stato riconosciuto come il Cristo, può rivelare un mistero più difficile da accettare: la *croce; la sua opera educativa diviene allora sempre più esigente, in quanto corregge Pietro che osa rimproverarlo (Mt 16, 22 s), si lamenta della mancanza di fede dei discepoli (17, 17), ma dà il motivo del loro fallimento (17, 19 s); trae la lezione dalla gelosia che si rivela nel piccolo gruppo (20, 24-28). Tutto il suo comportamento è una educazione che tende a imprimere le lezioni per sempre; così la triplice domanda posta a Pietro: «Mi ami tu?» vuole guarire nel suo cuore la ferita del triplice rinnegamento (Gv 21, 15 ss).
    2. Il redentore.
    - Gesù non si è accontentato di dire ciò che bisognava fare; da perfetto educatore ha dato l’*esempio. Così sulla *povertà, poiché non ha dove appoggiare la testa (Mt 8, 20); sulla *fedeltà alla missione, che lo porta ad insorgere contro i Giudei e i loro capi, ad es. scacciando i venditori dal tempio, *zelo che lo condurrà alla morte (Gv 2, 17); sulla *carità fraterna, lavando egli stesso, il maestro, i piedi dei suoi discepoli (Gv 13, 14 s). Ora questo esempio è spinto ancor più lontano. Gesù si identifica con coloro che deve educare, prendendo su di sé la «correzione», il castigo che pesa su di essi (Is 53, 5); portando le loro infermità (Mt 8, 17), egli toglie il peccato del mondo (Gv 1, 29). Così volle conoscere le nostre debolezze, «egli che fu provato in tutto, in un modo simile, ad eccezione del peccato» (Ebr 4, 15), egli che, «pur essendo figlio, imparò, da ciò che soffrì, l’obbedienza... e fu reso perfetto» (5, 8 s). Gesu ha portato a termine l’educazione di Israele mediante il suo sacrificio; apparentemente ha fatto fallimento: pur avendo annunziato ciò che doveva avvenire (Gv 16, 1- 4), non ha potuto da solo farsi comprendere pienamente dai suoi discepoli (Gv 16, 12 s); è bene che se ne vada e lasci il posto allo Spirito (17, 7 s).
    III. LA CHIESA EDUCATA ED EDUCATRICE
    1. Lo Spirito Santo educatore.
    - Di fatto il *Paraclito porta al suo ultimo compimento l’opera educatrice di Dio. Nostro pedagogo non è più la legge (Gal 3, 19; 4, 2), ma lo Spirito che, perfettamente interiore a noi ci fa dire: «Abba! Padre!», (Gal 4, 6): non siamo più servi, ma *amici (Gv 15, 15), *figli (Gal 4, 7). Ecco l’opera che il paraclito realizza richiamando alla *memoria dei credenti gli insegnamenti di Gesù (Gv 14, 26; 16, 13 ss), difendendo la causa di Gesù contro il *mondo persecutore (16, 8-11). Tutti allora sono «docili alla chiamata del Padre» (6, 45), tanta è l’efficacia della *unzione sul cuore del cristiano (1 Gv 2, 20. 27). Il vero educatore, in definitiva, è Dio perfettamente invisibile e interiore all’uomo.
    2. Istruzione e correzione.
    - Tuttavia, fino alla fine dei tempi, l’educazione conserva il suo aspetto di correzione che il VT manifestava. La lettera agli Ebrei ricorda ai cristiani: «Dio vi tratta come figli. E qual è il figlio che il padre non corregge? Se voi siete esenti da questa correzione, è perché siete dei bastardi» (Ebr 12, 7 s); bisogna quindi aspettarsi, se siamo tiepidi, di essere *visitati dalla correzione (Apoc 3, 19); questi *giudizi divini che non uccidono (2 Cor 6, 9), risparmiano la condanna (1 Cor 11, 32) e, dopo aver fatto soffrire, danno la *gioia (Ebr 12, 11). La *Scrittura è quindi fonte di istruzione e di correzione (1 Cor 10, 11; Tito 2, 12; 2 Tim 3, 16). Paolo stesso educa i suoi corrispondenti invitandoli ad imitarlo (1 Tess 1, 16; 2 Tess 3, 7 ss; 1 Cor 4, 16; 11, 1). Infine i credenti devono praticare la correzione fraterna, secondo il precetto di Gesù (Mt 18, 15; cfr. 1 Tess 5, 14; 2 Tess 3, 15; Col 3, 16; 2 Tim 2, 25); è quel che fa Paolo con energia, senza tema di usare la verga (1 Cor 4, 21) e di cagionare pena, se è il caso (2 Cor 7, 8- 11), riprendendo ed ammonendo senza posa i suoi figli (1 Cor 4, 14; Atti 20, 31). I genitori, nell’educazione dei loro figli, non sono che i mandatari del solo Dio educatore: non devono esasperare i figli, ma dare ammonizioni e correzioni al modo di Dio stesso (Ef 6, 4).
    X- LÉON-DUFOUR
    → autorità VT I 2; NT II 2 - bambino - castighi 3 - culto VT II - donna VT 2 - esempio - esortare - insegnare - madre - Maria III 2 - padri e Padre - pazienza I - prova-tentazione - sapienza VT II 1.

    EGITTO (inizio)

    1. Funzione dell’Egitto nella storia sacra.
    - Tra le *nazioni straniere con le quali Israele è stato in rapporto, nessuna forse manifesta meglio dell’Egitto l’ambiguità delle potenze temporali. Questa terra d’abbondanza è il rifugio provvidenziale dei patriarchi affamati (Gen 12, 10; 42 ss), dei proscritti (1 Re 11, 40; Ger 26, 21), degli Israeliti vinti (Ger 42 s), di Gesù fuggiasco (Mt 2, 13); ma con ciò stesso costituisce una tentazione facile per persone senza ideali (Es 14, 12; Num 11, 5...). Impero tronfio della sua *forza, esso un tempo ha oppresso gli Ebrei (Es 1 -13); e non di meno conserva il suo prestigio agli occhi di Israele durante i secoli in cui questo aspira alla grandezza temporale. David (2 Sam 20, 23-26) e soprattutto Salomone (1 Re 4, 1-6) si ispirarono al modello egiziano per organizzare la corte reale e l’amministrazione del regno. Se ne ricerca l’appoggio nei periodi di crisi, sia a Samaria (Os 7, 11), sia a Gerusalemme (2 Re 17, 4; 18, 24; Is 30, 1-5; Ger 2, 18...; Ez 29, 6 s...). Centro di cultura, esso ha contribuito all’educazione di Mosè (Atti 7, 22), ed i sapienti ispirati sfruttano all’occasione la sua letteratura (specialmente Prov 22, 17 - 23, 11); ma, in cambio, è una è una terra di idolatria e di *magia (Sap 15, 14-19) la cui seduzione nefasta allontana gli Israeliti dal loro Dio (Ger 44, 8...).
    2. L’Egitto dinanzi a Dio.
    - Non è quindi sorprendente che ci sia un *giudizio di Dio contro l’Egitto: al momento dell’esodo, per costringerlo a liberare Israele (Es 5-5; cfr. Sap 16 - 19); all’epoca regia, per punire questa potenza orgogliosa che promette ad Israele un aiuto vano (Is 30, 1-7; 31, 1-3; Ger 46; Ez 29 - 32), per umiliare questa nazione pagana sedotta dai suoi sapienti (Is 19, 1-15). A tutti questi titoli esso continuerà a raffigurare simbolicamente le collettività umane votate all’ira di Dio (Apoc 11, 8). Tuttavia, anche quando lo punisce in tal modo, Dio usa moderazione verso di esso: gli Egiziani rimangono sue creature, ed egli vorrebbe anzitutto distoglierli dal male (Sap 11, 15 - 12, 2). E questo perché egli intende convertire infine l’Egitto ed unirlo al suo popolo, affinché impari a sua volta a servirlo (Is 19, 16-25; Sal 87, 4-7). Giudicato per il suoi peccati, esso parteciperà non di meno alla salvezza come tutte le altre *nazioni.
    R. MOTTE e P. GRELOT
    → città VT 1 - delusione II - deserto VT I 2 - esodo - lavoro II - liberazione-libertà II 1 – nazioni VT II 1 a - prigionia I - sapienza 0; VT I 1 - schiavo I.

    EGOISMO (inizio)

    → amore I VT 2, NT 2 – cupidigia - orgoglio - peccato I 1, III 1 - retribuzione III 2 - ricchezza III 2 - terra VT II 3 b.

    ELEMOSIMA (inizio)

    VECCHIO TESTAMENTO
    1. I sensi della parola.
    - L’ebraico non ha un termine speciale per designare l’elemosina. La nostra parola italiana viene dal greco «eleemosýne», che, nei Settanta, designa sia la *misericordia di Dio (Sal 24, 5; Is 59, 16), sia (raramente) la «giustizia», la risposta leale dell’uomo a Dio (Deut 6, 25), sia infine la misericordia dell’uomo verso i suoi simili (Gen 47, 29). Quest’ultima è autentica soltanto se si traduce in atti, tra i quali occupa un buon posto l’aiuto materiale a coloro che sono nel bisogno. La parola greca finirà per limitarsi a questo senso preciso di «elemosina», nel NT e già nei libri più recenti del VT: Dan, Tob, Eccli. Tuttavia questi tre libri conoscono ancora 1’eleemosýne di Dio per l’uomo (Dan 9, 16; Tob 3, 2; Eccli 16, 14; 17, 29): per tutta la Bibbia l’elemosina, gesto di bontà dell’uomo per il suo fratello, è anzitutto una imitazione degli atti di Dio che, per primo, ha dimostrato bontà verso l’uomo.
    2. Il dovere dell’elemosina.
    - Se la parola è recente, l’idea dell’elemosina è antica come la religione biblica, che fin dall’origine esige 1’*amore dei *fratelli e dei *poveri. La *legge conosce quindi forme codificate di elemosina, certamente antiche: obbligo di lasciare una parte dei raccolti per la spigolatura e la racimolatura (Lev 19, 9; 23, 22; Deut 24, 20 s; Rut 2), decima triennale a profitto di coloro che non hanno terre proprie: leviti, *stranieri, orfani, vedove (Deut 14, 28 s; cfr. Tob 1, 8). Il povero esiste, e bisogna rispondere al suo appello con generosità (Deut 15, 11; Prov 3, 27 s; 14, 21) e delicatezza (Eccli 18, 15 ss).
    3. Elemosina e vita religiosa.
    - Questa elemosina non deve essere semplice filantropia, ma atto religioso. Legata sovente alle celebrazioni liturgiche eccezionali (2 Sam 6, 19; 2 Cron 30, 21- 26; 35, 7 ss; Neem 8, 10 ss), la generosità verso i poveri fa parte del corso normale delle *feste (Deus 16, 11. 14; Tob 2, 1 s). Più ancora, questo atto acquista il suo valore dal fatto che tocca Dio stesso (Prov 19, 17) e crea un diritto alla sua *retribuzione (Ez 18, 7; cfr. 16, 49; Prov 21, 13; 28, 27) ed al *perdono dei peccati (Dan 4, 24; Eccli 3, 30). Esso equivale ad un *sacrificio offerto a Dio (Eccli 35, 2). Privandosi del proprio bene, l’uomo si costituisce un tesoro (Eccli 29, 12). «Beato colui che pensa al povero e al debole» (Sal 41, 1-4; cfr. Prov 14, 21). Il vecchio Tobia così esorta caldamente il proprio figlio: «Non voltare mai la faccia al povero, e Dio non la volterà a te... Se hai molto, dà di più; se hai poco, dà di meno, ma non esitare a far l’elemosina... Quando fai l’elemosina non aver rimpianto negli occhi...» (Tob 4, 7-11. 16 s). 
    NUOVO TESTAMENTO 
    Con la venuta di Cristo l’elemosina conserva il suo valore, ma è collocata in una nuova economia che le conferisce un nuovo senso.
    1. La pratica dell’elemosina.
    - Essa è ammirata dai fedeli, soprattutto quando è praticata da *stranieri, da «persone che temono Dio», che manifestano in tal modo la loro simpatia per la fede (Lc 7, 5; Atti 9, 36; 10, 2). Del resto Gesù l’aveva annoverata, assieme con il *digiuno e con la *preghiera, come uno dei tre pilastri della vita religiosa (Mt 6, 1-18). Ma, raccomandandola, Gesù esige che sia fatta con un perfetto disinteresse, senza alcuna ostentazione (Mt 6, 1-4), «senza nulla aspettare in cambio» (Lc 6, 35; 14, 14), e persino senza misura (Lc 6, 30). Di fatto non ci si potrebbe accontentare di raggiungere una «tariffa» codificata per quanto elevata: alla decima tradizionale Giovanni Battista sembra sostituire una divisione a metà (Lc 3, 11), che di fatto Zaccheo realizza (Lc 19, 8), ma quel che Cristo si aspetta dai suoi è che non restino sordi a nessun appello (Mt 5, 42 par.), perché i *poveri sono sempre in mezzo a noi (Mt 26, 11 par.); infine, se non si ha più niente di proprio (cfr. Atti 2, 44), rimane il dovere di comunicare almeno i *doni di Cristo (Atti 3, 6) e di *lavorare per sovvenire a coloro che sono nel bisogno (Ef 4, 28).
    2. L’elemosina e Cristo.
    - L’elemosina è un dovere così radicale perché trova il suo significato nella fede in Cristo, questo in misura più o meno profonda.
    a) Se Gesù, con la tradizione giudaica, insegna che l’elemosina è fonte di *retribuzione celeste (Mt 6, 2 ss), costituisce un tesoro in cielo (Lc 12, 21. 33 s), grazie agli *amici che uno vi si fa (Lc 16, 9), non è a motivo di un calcolo interessato, ma perché attraverso i nostri *fratelli disgraziati noi raggiungiamo Gesù in persona: «Ciò che avete fatto ad uno di questi piccoli...» (Mt 25, 31-46).
    b) Se il discepolo deve dare tutto in elemosina (Lc 11, 41; 12, 33; 18, 22), è anzitutto per poter *seguire Gesù senza rimpiangere i suoi beni (Mt 19, 21 s par.); e poi per essere liberale come Gesù stesso, che «da ricco qual era si è fatto povero per voi, per arricchirvi mediante la sua povertà» (2 Cor 8, 9).
    c) Infine, per dimostrare che l’elemosina cristiana soggiace ad altre leggi oltre a quelle della semplice filantropia, Gesù non si è peritato di difendere contro Giuda il gesto gratuito della donna che aveva «sprecato» il valore di trecento giornate di lavoro, versando il suo prezioso profumo: «I poveri li avrete sempre con voi, ma non avrete sempre me» (Mt 26, 11 par.). I poveri appartengono all’economia ordinaria (Deut 15, 11), naturale in una umanità peccatrice; Gesù, invece, significa l’economia messianica soprannaturale; e la prima non trova il suo vero senso se non per mezzo della seconda: i poveri non sono cristianamente soccorsi se non in riferimento all’amore di Dio manifestato nella passione e morte di Gesù Cristo.
    3. L’elemosina nella Chiesa.
    - Anche se taluni atti gratuiti rimangono necessari per evitare di confondere il vangelo del regno e l’estinzione del pauperismo, rimane vero che per raggiungere lo «sposo che ci è stato tolto» (cfr. Mt 9, 15) bisogna soccorrere il nostro *prossimo: «In che modo l’amore di Dio potrà dimorare in colui che rifiuta ogni pietà dinanzi al *fratello nel bisogno?» (1 Gv 3, 17; cfr. Giac 2, 15). Come celebrare il sacramento della *comunione eucaristica senza dividere fraternamente i propri beni (1 Cor 11, 20 ss)? Ora l’elemosina può avere una portata ancora più ampia, e significare l’*unione delle Chiese. È quel che Paolo vuol dire quando dà un nome sacro alla questua, alla colletta, che fa in favore della Chiesa-madre di Gerusalemme: è un «ministero» (2 Cor 8, 4; 9, 1. 12 s), «una liturgia» (9, 12). Di fatto, per colmare il fosso che incominciava a scavarsi tra la Chiesa d’origine pagana e la Chiesa d’origine giudaica, Paolo si preoccupa di manifestare mediante elemosine materiali l’unione di queste due categorie di membra dello stesso *corpo di Cristo (cfr. Atti 11, 29; Gal 2, 10; Rom 15, 26 s; 1 Cor 16, 14); con quale ardore egli pronunzia un vero «sermone di carità» all’indirizzo dei Corinti (2 Cor 8-9). Bisogna mirare a stabilire l’uguaglianza tra i fratelli (8, 13), imitando la liberalità di Cristo (8, 9); affinché Dio sia glorificato (9, 11-14), bisogna «*seminare con larghezza», perché «Dio ama chi dà con gioia» (9, 6 s).
    C. WIÉNER
    → amore II - digiuno 0.2 - dono VT 3 - fame e sete VT 2; NT 3 - giustizia A I VT 4 - misericordia NT II - poveri VT II - ricchezza I, 3, III 2.

    ELEZIONE (inizio)

    Senza l’elezione è impossibile comprendere alcunché del *disegno e della *volontà di Dio sull’uomo. Ma l’uomo peccatore, incurabilmente diffidente di Dio e invidioso dei suoi fratelli, è sempre restio ad accettare 1a *grazia e la generosità di Dio: vi trova a ridire quando un altro ne beneficia (Mt 20, 15), e quando è lui, se ne inorgoglisce come di un valore che non dipende che da lui. Tra il furore di Caino contro il fratello (Gen 4, 4 s), ed il grido di Paolo che, torturato per i suoi fratelli di razza (Rom 9, 2 s), getta la sua angoscia nel ringraziamento per «i decreti insondabili e le vie incomprensibili di Dio» (11, 13), c’è tutta la strada che porta dal peccato alla fede, tutta la redenzione, tutta la Scrittura. 
    VECCHIO TESTAMENTO 
    I. L’ESPERIENZA DELLA ELEZIONE
    1. Il fatto iniziale.
    - L’esperienza dell’elezione è quella di un destino diverso da quello degli altri popoli, di una condizione singolare non dovuta ad un concorso cieco di circostanze od a una serie di successi umani, ma ad una iniziativa libera e sovrana di Jahvè. Se il vocabolario classico dell’elezione (ebr. bahar e suoi derivati) è relativamente recente, almeno in questo senso preciso e particolare, la coscienza di questa condotta divina è antica quanto l’esistenza di Israele come *popolo di Jahvè; è inseparabile dall’alleanza, e ne dice ad un tempo il carattere unico (solo fra tanti altri) ed il segreto interno (scelto da Dio). In tal modo le conferisce la sua profondità religiosa, il valore di un *mistero.
    2. Le prime confessioni della scelta divina.
    Le prime *confessioni della scelta divina risalgono alle espressioni più antiche della fede di Israele. Il rituale delle *primizie raccolto da Deut 26, 1-11 implica un credo antichissimo, la cui sostanza è l’iniziativa divina che fece uscire gli Ebrei dall’Egitto per condurli in una terra di *benedizione. La relazione dell’alleanza conclusa a Sichem sotto Giosuè fa risalire la storia di Israele ad una elezione: «Io presi il vostro padre Abramo...» (Gios 24, 3) e sottolinea che la risposta a questa iniziativa non può essere che una scelta: «Scegliete a chi servire» (24, 15). Senza dubbio le formule d’alleanza sul Sinai: «Farai di noi la tua eredità» (Es 34, 9), «Io vi terrò come miei tra tutti i popoli» (19, 5), sono più recenti, ma la fede che esse esprimono si trova già in uno degli oracoli di Balaam: «Come maledirò colui che Dio non ha maledetto? ... Ecco un popolo che dimora isolato e che non è annoverato tra le nazioni» (Num 23, 8 s) e prima ancora nel canto di Debora che alterna le meraviglie di «Jahvè, Dio di Israele» (Giud 5, 3. 5. 11) e la generosità dei combattenti che si sono offerti per Jahvè (Giud 5, 2. 9. 13. 23).
    3. L’elezione, fatto continuo.
    - Tutte queste confessioni riferiscono una storia e cantano la continuità di un unico *disegno. L’elezione del popolo appare preparata da una serie di elezioni anteriori, e si sviluppa costantemente mediante la scelta di nuovi eletti.
    a) Prima di Abramo lo schema della storia dell’umanità, se implica preferenze divine (Abele, Gen 4, 4), dei trattamenti privilegiati (Enoch 5, 24), il caso unico di *Noè «solo giusto dinanzi a me in questa generazione» (7, 1), la benedizione accordata a Sem (9, 26), non conosce ancora l’elezione propriamente detta. Ma la suppone costantemente: tutta questa storia è messa assieme affinché, di mezzo a questa moltitudine umana in preda al peccato e che sogna di «penetrare i cieli» (11, 4), Dio, il cui sguardo segue tutte le generazioni, scelga un giorno Abramo per benedire in lui «tutte le nazioni della terra» (12, 3).
    b) Sui patriarchi Dio manifesta la continuità del suo disegno di elezione. Egli si è scelto una stirpe e mantiene la sua scelta, ma, in questa stirpe, non è l’erede naturale a portare la sua benedizione, Eliezer, Ismaele, Esaù o Ruben: ogni volta una iniziativa particolare di Dio designa il suo eletto: Isacco (Gen 18, 19), Giacobbe e Giuda. Tutta la Genesi ha come tema l’incontro paradossale tra le conseguenze normali della elezione iniziale di Abramo, e gli atti con cui Dio scompiglia i progetti dell’uomo e mantiene così ad un tempo la sua fedeltà alle *promesse e la sovrana priorità delle sue scelte. In questi racconti si afferma un tratto permanente della elezione. Mentre, visto dagli uomini, il privilegio dell’eletto implica automaticamente il decadimento di quelli che sono scartati, e lo testimonia il ritornello che scandisce gli oracoli pronunziati dai padri: «i tuoi fratelli siano tuoi schiavi!» (9, 25; 27, 29; 27, 40), nelle promesse divine la parola di Dio sul suo eletto ne fa una benedizione per tutta la terra (12, 3; 22, 18; 26, 4; 28, 14). c) All’interno del popolo eletto Dio si sceglie costantemente degli uomini ai quali affida una *missione, temporanea o permanente, e questa scelta, che li separa e li consacra, riproduce i tratti dell’elezione di Israele. Nei *profeti l’elezione si manifesta sovente mediante la *vocazione, l’appello diretto di Dio, che propone un modo nuovo di esistenza ed esige una risposta. Il caso tipico è Mosè (Es 3; cfr. Sal 106, 23: «il suo eletto»), ma Amos (1, 15), Isaia (8, 11), Geremia (15, 16 s; 20, 7) conoscono tutti la stessa esperienza; sono stati afferrati, strappati alla loro vita ordinaria, alla società degli uomini, costretti a proclamare il punto di vista di Dio e ad opporsi al loro popolo. I *re sono scelti, come Saul (1 Sam 10, 24), e soprattutto David, scelto da Jahvè nello stesso tempo che viene rigettato Saul (1 Sam 16, 1), e scelto per sempre con la sua discendenza, che potrà essere severamente punita, ma mai rigettata (2 Sam 7, 14 ss). Qui non c’è più l’ascolto di una chiamata: la scelta divina è indicata al re dal profeta (1 Sam 10, 1) che l’ha dalla *parola di Dio (1 Sam 16, 6-12; Agg 2, 23), e soprattutto mediante il gioco degli avvenimenti Dio porta al trono il re che ha scelto, ad es. Salomone a preferenza di Adonia (1 Re 2, 15). Ma si tratta appunto di una elezione (Deut 17, 15), non soltanto a motivo della dignità regia e del carattere sacro dell’*unzione, ma anche perché la scelta dell’unto di Jahvè è sempre legata all’alleanza di Dio con il suo popolo (Sal 89, 4) e perché la funzione essenziale del re è di mantenere Israele fedele alla sua elezione. Sacerdoti e leviti sono parimenti oggetto di una elezione. Il ministero loro affidato di «stare dinanzi a Jahvè», suppone una «separazione» (Deut 10, 8; 18, 5), una forma di esistenza diversa da quella del resto del popolo. Ora, all’origine di questa consacrazione sta una iniziativa divina: Dio ha preso per sé i leviti, al posto dei primogeniti che gli spettavano di diritto (Num 8, 16 ss), mostrando in tal modo che la sua sovranità non è un dominio cieco e indifferente, ma si interessa alla qualità dei suoi ministri e attende da essi una ratifica gioiosa. Scelti da Jahvè per essere la sua porzione e la sua *eredità, i leviti devono impegnarsi a prenderlo per loro porzione e per loro eredità (Num 18, 20; Sal 16, 5 s). E se c’è continuità tra l’elezione dei *sacerdoti e dei leviti e quella di Israele, si è perché Jahvè ha scelto il suo popolo affinché sia nella sua totalità «un regno di sacerdoti ed una nazione consacrata» (Es 19, 6). Come ha scelto il suo popolo, cosi Jahvè ha scelto la *terra e i luoghi santi che gli destina, perché non è, come i Baal cananei, prigioniero delle sorgenti o dei monti dove agisce. Come «ha eletto la tribù di Giuda», così, perché l’ama, ha «eletto il *monte Sion» (Sal 78, 68) e l’ha «scelto come dimora» (Sal 68, 17; 132, 13). Soprattutto ha scelto, «per farvi abitare il suo nome», il *tempio di Gerusalemme (Deut 12, 5...; 16, 7-16).
     II. IL SIGNIFICATO DELLA ELEZIONE
    Il Deuteronomio, che ha consacrato il vocabolario dell’elezione attorno alla radice bhr, ne ha parimenti tratto il significato. 1. L’origine dell’elezione è una iniziativa gratuita di Dio; «Te ha scelto Jahvè tuo Dio» (Deut 7, 6), e non tu hai scelto lui. La spiegazione di questa *grazia è l’amore: nessun merito, nessun valore la giustifica, Israele è l’ultimo dei popoli, «ma... Jahvè vi ha amati» (7, 7 s). L’elezione pone tra Dio e il suo popolo una relazione intima: «Voi siete dei figli» (Deut 14, 1); tuttavia questa parentela non ha nulla di naturale, come avviene così frequentemente nel paganesimo tra la divinità e i suoi fedeli, ma è l’effetto della scelta di Jahvè (14, 2) ed esprime la trascendenza di colui che sempre «ama per primo» (1 Gv 4, 19). 2. Lo scopo della elezione è di costituire un popolo *santo, consacrato a Jahvè, «superiore a tutte le nazioni per onore, rinomanza e gloria» (Deut 26, 19), che faccia rifulgere tra i popoli la grandezza e la generosità del Signore. La legge, specialmente con le barriere che innalza tra Israele e le *nazioni, è il mezzo per assicurare questa santità (7, 1-6). 3. Il risultato di una elezione che separa Israele dagli altri popoli è di impegnarlo in un destino che non ha misura comune con il loro: o felicità straordinaria, od infelicità senza pari (Deut 28). La frase di Amos rimane la carta della elezione: «Io non ho conosciuto che voi tra tutte le famiglie della terra, perciò vi punirò per tutte le vostre iniquità» (Am 3, 2).
     III. LA ELEZIONE NUOVA, ESCATOLOGICA
    1. Elezione e rigetto.
    - Il rigore di questa minaccia conserva un aspetto rassicurante: perché Dio castighi in tal modo il suo popolo, bisogna che non abbia rinunziato ad esso. La cosa più terribile sarebbe l’eventualità che Dio annulli l’elezione e lasci che Israele si perda tra i popoli. Come, per scegliere David, aveva disdegnato i sette più anziani (1 Sam 16, 7), come aveva rigettato Efraim per scegliere Giuda (Sal 78, 67 s), non c’è pericolo che egli «rigetti la città che aveva scelto, Gerusalemme» (2 Re 23, 27)? I profeti, specialmente Geremia, sono costretti a prendere in considerazione questa evenienza; Israele è come argento che non si può purificare, condannato ad essere scartato (Ger 6, 30; cfr. 7, 29); «Hai tu dunque rigettato Giuda?» (14, 19). Alla fine la risposta è negativa: «Se è possibile misurare i cieli di sopra e scrutare le basi della terra di sotto, anch’io rigetterò tutta la progenie di Israele» (Ger 31, 37; cfr. Os 11, 8; Ez 20, 32). È vero che la *sposa infedele è stata «ripudiata per i suoi peccati», ma Dio può tuttavia domandare: «Dov’è dunque la scritta di ripudio della vostra madre?» (Is 50, 1). L’elezione rimane, ma con un atto nuovo: «Jahvè eleggerà ancora Gerusalemme» (Zac 1, 17; 2, 16), «sceglierà nuovamente Israele» (Is 14, 1) al di là del suo peccato e della sua rovina, sotto la forma di un *resto che non sarà l’effetto del caso, ma della potenza di Dio, «seme santo» (Is 6, 13), «germoglio» (Zac 3, 8), «i settemila uomini che non hanno piegato il ginocchio dinanzi a Baal» (1 Re 19, 18) e che, secondo l’interpretazione di S. Paolo, Dio stesso si è riservato (Rom 11, 4, che aggiunge «per me»).
    2. Ecco il mio eletto.
    - A questo nuovo Israele il titolo di eletto è dato molto spesso nel Deutero- Isaia, sempre da Dio stesso (sia «il mio eletto», , Is 41, 8; 43, 20; 44, 2; 45, 4, sia «i miei eletti», 43, 10; cfr. 65, 9. 15. 22), e conviene perfettamente per indicare l’iniziativa creatrice di Dio, capace di far sorgere, in piena idolatria, un popolo votato al *servizio del vero Dio. Al centro del mondo e della sua storia Dio si è scelto questo popolo, e pensando a lui e per lui governa tutta la terra, scegliendo un Ciro (45, 1) e facendone un conquistatore «a motivo di Israele, mio eletto» (45, 4). Al punto centrale di quest’opera Dio fa apparire il personaggio misterioso al quale non dà altro nome se non quello di «mio servo» (42, 1; 49, 3; 52, 13) e «mio eletto» (42, 1). Non è né un *re, né un *sacerdote, né un *profeta, perché tutti questi eletti sono semplici uomini, prima di aver preso coscienza della loro missione; sentono la chiamata di una *vocazione, ricevono una *unzione. Egli invece ha percepito l’appello di Dio «fin dal seno della madre» (cfr. Ger 1, 5) ed il *nome non gli è dato dagli uomini, ma è pronunziato da Dio solo (49, 1). Tutta la sua esistenza appartiene a Dio, non è che elezione, e perciò pure non è che servizio e consacrazione: l’eletto è necessariamente il *servo.
    NUOVO TESTAMENTO
    I. GESÙ CRISTO, L’ELETTO DI DIO
    Pur essendo dato raramente a Gesù nel NT (Lc 9, 35; 23, 35; probabilmente Gv 1, 34), il titolo ricorre sempre in un momento solenne, *battesimo, *trasfigurazione o crocifissione, ed evoca sempre la figura del servo. Dio stesso, pronunziandolo, attesta che in Gesù di Nazaret egli giunge infine al termine dell’opera che aveva iniziato con la scelta di Abramo e di Israele; ha trovato il solo eletto che meriti pienamente questo nome, il solo a cui possa affidare la sua opera e che sia capace di appagare il suo desiderio. L’«ecco il mio eletto!» di Isaia annunziava il trionfo di Dio, sicuro di possedere già colui che non lo avrebbe deluso mai; 1’«ecco il mio eletto!» del Padre su Gesù rivela il segreto di questa certezza: questo uomo di carne egli lo ha santificato e chiamato suo *figlio sin dal seno materno (Lc 1, 35), e «fin da prima della creazione del mondo» l’ha destinato a «ricapitolare in sé tutte le cose» (Ef 1, 4. 10; 1 Piet 1, 20). Cristo solo è l’eletto di Dio e non vi sono eletti se non in lui. Egli è la *pietra scelta, la sola capace di sostenere l’*edificio che Dio costruisce (1 Piet 2, 4 ss). Pur non pronunziando mai questo nome, Gesù ha la coscienza nettissima della sua elezione: la certezza di venire da altrove (Mc 1, 38; Gv 8, 14), di appartenere ad un altro mondo (Gv 8, 23), di dover vivere un destino unico, quello del *figlio dell’uomo, e di dover compiere l’opera stessa di Dio (Gv 5, 19; 9, 4; 17, 4). Tutte le Scritture riferiscono l’elezione di Israele, e Gesù sa che tutte mirano a lui (Lc 24, 27; Gv 5, 46). Ma questa coscienza non determina in lui che la volontà di *servire e di *compiere fino al termine ciò che deve essere compiuto (Gv 4, 34).
    II. LA CHIESA, POPOLO ELETTO
    1.
    La scelta dei Dodici manifesta ben presto che Gesù vuole compiere la sua opera avendo «con sé quelli che voleva» (Mc 3, 13 s). Essi rappresentano attorno a lui le dodici tribù del nuovo *popolo, e questo popolo ha come origine la scelta di Cristo (Lc 6, 13; Gv 6, 70) che risale alla scelta del Padre (Gv 6, 37; 17, 2) e avviene sotto l’azione dello Spirito (Atti 1, 2). Al punto di partenza della Chiesa, come per Israele, c’è l’elezione di Dio: «Non voi avete scelto me» (Gv 15, 16; cfr. Deut 7, 6). L’elezione di Mattia (Atti 1, 24) e quella di Paolo (Atti 9, 15) mostrano che Dio non intende edificare la sua *Chiesa che sui *testimoni da lui stabiliti (Atti 10, 41; 26, 16).
    2. L’elezione divina rimane nella Chiesa una realtà vissuta. Le comunità cristiane ed i loro capi operano delle scelte ed affidano delle missioni (Atti 6, 5), ma queste scelte altro non fanno che sanzionare le scelte di Dio e riconoscere il suo Spirito (6, 3); se i Dodici impongono le mani ai Sette (6, 6), se la Chiesa di Antiochia mette da parte Paolo e Barnaba, si è perché lo Spirito ha indicato coloro che egli chiama alla sua opera (13, 1 ss). La presenza dei *carismi nella Chiesa rivela che l’elezione non si spegne. Radunando e fondendo in un solo corpo queste *vocazioni particolari, la Chiesa è eletta. Il dono della *fede, l’accettazione della *parola non si spiegano né con la *sapienza umana, né con la potenza, né con la nascita, ma con la sola scelta di Dio (1 Cor 1, 26 ss; cfr. Atti 15, 7; 1 Tess 1, 4 s). È naturale che i cristiani, coscienti d’essere stati «chiamati dalle tenebre» per costituire «una stirpe eletta...un popolo santo» (1 Piet 2, 9), si siano chiamati semplicemente «gli eletti» (Rom 16, 13; 2 Tim 2, 10; 1 Piet 1, 1), e che si associno, non soltanto per il piacere di un’assonanza, ekklesia ed eklektè, Chiesa ed eletta (cfr. 2 Gv 13; Apoc 17, 14).
    III. ELETTI O RIGETTATI
    Il NT non parla soltanto degli eletti, ma degli «eletti di Dio», affermando in tal modo il carattere personale e la sovranità di questa scelta (Mc 13, 20. 27 par.; Rom 8, 33). Tuttavia parla anche semplicemente degli eletti in contesti escatologici, ed intende così, al di là delle prove, coloro la cui elezione è diventata quasi una realtà visibile e rivelata (Mt 22, 14; 24, 22. 24) come, di fronte ad essa, la perdizione. Il VT conosceva un rigetto anteriore alla elezione, il rigetto di colui che non è scelto, ma questo rigetto ha qualcosa di provvisorio, perché la scelta di Abramo deve essere una benedizione per tutte le *nazioni. All’interno dell’elezione il rigetto successivo dei colpevoli e degli indegni non intacca la promessa, e la scelta divina è irrevocabile. In Gesù Cristo è portata a compimento l’elezione di Abramo ed ha termine il rigetto delle nazioni. In lui *Giudei e Greci riconciliati (Ef 2, 14 ss) sono stati eletti, «designati» per non formare che un solo popolo, «il popolo che Dio si è acquistato» (Ef 1, 11. 14); l’elezione ha assorbito tutto. Tuttavia è possibile «dopo aver ricevuto la conoscenza della verità», «calpestare il Figlio di Dio... profanare il sangue dell’alleanza... cadere, cosa terribile, nelle mani del Dio vivente» (Ebr 10, 26- 31). C’è la possibilità di un rigetto, che non è ripudio dell’elezione, ma, nell’elezione stessa, esprime il *giudizio dell’Eletto che non riconosce i suoi. Il suo «Non vi conosco» (Mt 25, 12) non annulla il «Vi ho conosciuti» (Am 3, 2) della elezione, ne esprime la serietà divina: «Perciò vi punirò per tutte le vostre iniquità». Questo rigetto non appartiene più al tempo, ma all’escatologia; perciò non è caduto sul popolo giudaico. Certamente c’è un peccato nella sua storia: i figli di Israele hanno urtato contro la *pietra scelta e posta da Dio (Rom 9, 32 s), hanno rifiutato il suo eletto. Essi rimangono tuttavia «secondo la elezione, diletti a motivo dei loro padri» (11, 28) ed il loro ripudio, come quello delle nazioni sotto l’antica alleanza, è provvisorio e provvidenziale (11, 30 s). Fino a quando il Signore non verrà, essi sono sempre chiamati a convertirsi, in attesa che, entrati tutti i pagani nella elezione, tutto *Israele ritrovi la sua elezione (11, 23-27).
    J. GUILLET
    → Abramo I 1 - alleanza VT I 1 - amore I - Chiesa II 2 - conoscere VT 1 - disegno di Dio VT I - fierezza VT 1 - grazia II 2.3, IV - Israele VT 1 c - popolo A I 1 - predestinare - resto - santo NT IV - vocazione I, III - volontà di Dio 0.

    ELIA (inizio)

    «Vivo è Jahvè dinanzi al quale sto!» (1 Re 17, 1; 18, 15) esclama volentieri ‘Elijjahu, realizzando nella sua esistenza ciò che il suo *nome significa: «Jahvè è il mio Dio». Profeta simile al fuoco, egli restaurò l’alleanza del Dio vivente; «a causa del suo zelo ardente per la legge, fu rapito fino al cielo» (1 Mac 2, 58) «in un turbine di fuoco, da un carro dai cavalli di fuoco» (Eccli 48, 9).
    VECCHIO TESTAMENTO
    1. Ritorno al deserto.
    - Il *deserto, in cui Elia deve fuggire, gli rivela la sollecitudine del suo Dio (1 Re 17, 2 ss; 19, 4-8), che gli concede di andare fino all’Horeb, dove Dio gli si manifesta, nello stesso luogo in cui Mosè vide Jahvè «da tergo» (19, 9-14; cfr. Es 33, 21. 23): E, al pari di *Mosè, il Tesbita, per il suo incontro con Jahvè, diventa fonte di santità per il popolo (1 Re 19, 15-18).
    2. Il campione di Dio e degli oppressi.
    - «Io sono ripieno di uno zelo geloso per Jahvè Sabaoth» (19, 10). Non occorreva meno di questo *zelo divoratore per affrontare i poteri del momento. Inebriati dalle vittorie militari, dallo splendore della nuova capitale e dalla prosperità delle città,essi sono immersi in un clima di orgogliosa sufficienza e di esaltazione nazionale (16, 23-34). Al palazzo regio, «la casa d’avorio» (22, 39), Gezabele, la sposa pagana di Achab, non medita che progetti blasfemi. Non mantiene forse nel tempio di Baal centinaia di falsi profeti incaricati di propagare il culto degli idoli? Elia raccoglie la sfida e confonde i suoi avversari con l’intervento strepitoso di Jahvè sul monte Carmelo (1 Re I8). Così, ogni volta che i diritti del suo Dio sono contestati, Elia entra in lizza con invettive folgoranti (2 Re 1). Non soltanto è in causa il vero culto, ma anche la *giustizia e la sorte dei deboli: Elia lancia fulmini contro Achab, assassino del pacifico Nabot, per modo che il re atterrito finisce col pentirsi (l Re 21). Una simile figura ben meritava di essere caratterizzata per sempre da questo tratto folorante della Scrittura: «Allora si levò Elia come un fuoco, la sua parola bruciava come una face» (Eccli 48, 1).
    3. Testimone di Dio presso i pagani.
    - Per molti Israeliti del sec. IX i benefici di Dio devono essere circoscritti al popolo eletto. Ma per Dio che manda Elia, l’opera di *salvezza supera i limiti dell’alleanza: una pagana è salvata dalla carestia (l Re 17, 10-16), ed il figlio suo è strappato alla morte (17, 17-24). 4. Rapimento di Elia in cielo. - L’uomo di Dio sparisce misteriosamente dagli occhi dei suoi compagni, rapito dal «turbine», «il carro di Israele ed i suoi cavalli», lasciando ad Eliseo il suo spirito profetico affinché continui l’opera di Dio (2 Re 2, 1-18). 5. Il precursore. - Al rapimento misterioso corrisponderà un ritorno escatologico: «Ecco che io vi mando il profeta Elia, prima che venga il *giorno di Jahvè grande e terribile»; la sua opera «ricondurre il cuore dei padri verso i figli ed il cuore dei figli verso i loro padri» (Mal 3, 23 s), sarà l’ultima dilazione fissata da Dio «per placare I’*ira prima che divampi» (Eccli 48, 10).
    NUOVO TESTAMENTO
    1. Giovanni Battista ed Elia.
    - Questa attesa escatologica (cfr. Mc 15, 35 s par.) ha termine in *Giovanni Battista (Mt 17, 10-13), ma in un modo misterioso, perché Giovanni non è Elia (Gv 1, 21. 25), e, se la sua predicazione riconduce il cuore dei figli verso i loro padri, non è lui che placa l’*ira divina.
    2. Gesù ed Elia.
    - Giovanni Battista realizza la *figura di Elia per quel che concerne la *penitenza praticata nel deserto (Mt 3, 4; cfr. 2 Re 1, 8), ma è Gesù che ne realizza i tratti principali. Fin dall’episodio di Nazaret egli definisce la sua *missione universale in riferimento a quella di Elia (Lc 4, 25 s). Il miracolo di Zarepta si legge in filigrana in quello di Nain (Lc 7, 11-16; cfr. 1 Re 17, 17-24). Elia aveva fatto discendere dal cielo un fuoco a vendicare l’onore di Dio (2 Re 1, 9- 14; cfr. Lc 9, 54), Gesù apporta un fuoco nuovo, quello dello *Spirito Santo (Lc 12, 49). Sul Monte degli Ulivi Gesù è *consolato e confortato da un angelo, come lo fu Elia nel deserto (Lc 22, 43; cfr. 1 Re 19, 5. 7); ma, a differenza di Elia, egli non aveva domandato la morte. Elia rapito in cielo mentre «il suo spirito si posa su Eliseo» (2 Re 2, 1-15) prefigura l’*ascensione di Cristo che manderà ai suoi discepoli «quel che il Padre suo ha promesso» (Lc 24, 51; cfr. 9, 51).
    3. Il credente ed Elia.
    - Della intercessione di Elia, «un uomo simile a noi», Giacomo fa il modello della preghiera del *giusto (Giac 5, 16 ss). Il colloquio del profeta con Gesù *trasfigurato (Mt 17, 1-8 par.), come un tempo con Jahvè «al suono d’un soffio leggero» (1 Re 19, 12), rimane per la tradizione cristiana un *esempio dell’intimità alla quale il Signore chiama tutti i credenti.
    F. GILS
    → ascensione I, II 4 - fuoco VT I 1, II 2.3 - Giovanni Battista 1 - profeta VT - trasformazione 2 - vedere VT I 1 - zelo II 1.

    ELOHIM (EL) (inizio)

    → creazione VT I - Dio VT II, IV - Jahvè 0 - nome VT 4 - padri e Padre III 2.

    EMMANUEL (inizio)

    → Gesù (nome di) II - presenza di Dio VT I - rimanere II 2 - solitudine II l.

    EMPIO (inizio)

    Con un vocabolario vario, sia in ebraico che in greco, la Bibbia descrive un atteggiamento spirituale che è l’opposto della *pietà: al disprezzo di Dio e della sua legge esso aggiunge una sfumatura di ostilità e di sfida. Paolo annunzia la venuta dell’«uomo di empietà» per eccellenza che, negli ultimi tempi, «si innalzerà al di sopra di tutto e si proclamerà Dio» (2 Tess 2, 3 s. 8); aggiunge che «il *mistero dell’empietà è già in azione» nel mondo (2, 7). Di fatto esso è in azione dall’inizio della storia, da quando *Adamo ha disprezzato il comando di Dio (Gen 3, 5. 22).
    VECCHIO TESTAMENTO
    1. Gli empi di fronte a Dio.
    - L’empietà è un fatto universale nell’umanità peccatrice: empietà della generazione del diluvio (Gen 6, 11; cfr. Giob 22, 15 ss), dei costruttori di Babele (Gen 11, 4), degli abitanti di Sodoma (Sap 10, 6)... Ma si afferma con una chiarezza particolare nei popoli pagani nemici di Israele, dal faraone persecutore (cfr. Sap 10, 20; 11, 9) ai Cananei idolatri (Sap 12, 9), da Sennacherib il blasfemo (Is 37, 17) alla orgogliosa *Babilonia (Is 13, 11; 14, 4) ed al persecutore Antioco Epifane (2 Mac 7, 34). Tuttavia lo stesso popolo di Dio non ne è esente: empi, i rivoltosi del deserto (Sal 106, 13-33) come gli abitanti infedeli della terra promessa (Sal 106, 34-40); empia, la nazione peccatrice contro la quale Dio manda i pagani che la castigheranno (Is 10, 6; cfr. l, 4). Nonostante la conversione nazionale, i salmisti ed i sapienti denunceranno ancora dopo l’esilio l’esistenza dell’empietà del popolo fedele, e la crisi maccabaica porrà in primo piano taluni giudei sviati (cfr. 1 Mac 2, 23; 3, 15; 6, 21; ecc.).
    2. Gli empi ed i giusti.
    - Nella letteratura sapienziale il genere umano appare diviso in due categorie: di fronte ai giusti ed ai sapienti, gli empi e gli stolti (*follia). Tra gli uni e gli altri un’opposizione ed una lotta fratricida che abbozza già il dramma delle due *città. Iniziato alle origini con Caino ed Abele (Gen 4, 8...), questo dramma si presenta in ogni tempo. L’empio dà libero corso ai suoi istinti: astuzia, *violenza, sensualità, orgoglio (Sal 36, 2-5; Sap 2, 6-10); disprezza Dio (Sal 10, 3 s; 14, 1); si accanisce contro i giusti ed i *poveri (Sal 10, 6-11; 17, 9- 12; Sap 2, 10-20)... Successo apparente, che talvolta può durare e che causa una vera angoscia alle anime religiose (Sal 94, 1-6; Giob 21, 7-13); perché preoccupati anzitutto della *giustizia, i perseguitati domandano a Dio la rovina di questi sviati malefici (Sal 10, 12-18; 31, 8 s; 109, 6...) ed assaporano in anticipo una *vendetta che ci stupisce (Sal 58, 11).
    3. La retribuzione degli empi.
    - I fedeli dell’alleanza ben sanno che gli empi vanno alla rovina (cfr. Sal 1, 4 ss; 34, 22; 37, 9 s. 12-17. 20). Ma questa affermazione tranquilla della *retribuzione, immaginata ancora in una prospettiva temporale, urta contro fatti scandalosi. Ci sono empi che prosperano (Ger 12, 1 s; Giob 21, 7-16; Sal 73, 2-12), come se la sanzione divina non esistesse (Eccle 7, 15; 8, 10-14). Tuttavia l’escatologia profetica assicura che negli ultimi tempi il re-*messia farà perire gli empi (Is 11, 4; Sal 72, 3), e che Dio li sterminerà al momento del *giudizio (cfr. Is 24, 1-13; 25, 1 s); ma, nell’attesa di quest’ultimo giorno, non precisa il modo in cui gli empi dovranno espiare i loro crimini. Tuttavia la questione deve essere regolata per tutti sul piano individuale, e bisogna attendere una data posteriore perché si chiarisca. Infine, all’epoca dei Maccabei, si sa che tutti gli empi compariranno personalmente al tribunale di Dio (2 Mac 7, 34 s) e per essi non ci sarà *risurrezione alla vita (2 Mac 7, 14; cfr. Dan 12, 2). Il libro della Sapienza può quindi delineare il quadro del loro *castigo finale, oltre la *morte (Sap 3, 10 ss; 4, 3-6; 5, 7-14). Questa attestazione solenne è la fonte di una riflessione salutare. Di fatto Dio non vuole la morte dell’empio, ma che si converta e viva (Ez 33, 11; cfr. 18, 20-27 e 33, 8-19). Una simile prospettiva misericordiosa si ritroverà nel NT.
    NUOVO TESTAMENTO
    1. La vera empietà.
    - Nel vocabolario greco del NT, l’atteggiamento spirituale stigmatizzato dal VT è designato in modo più preciso: è l’empietà (asèbeia), l’ingiustizia (adikìa), il rigetto della legge (anomìa). Tuttavia, attraverso le discussioni di Gesù e dei farisei, si vedono presto di fronte due concezioni di questo disprezzo di Dio. Per i *farisei, la pietra di paragone della *pietà è la pratica delle prescrizioni legali e delle *tradizioni che le circondano; l’ignoranza in questa materia è già un’empietà (cfr. Gv 7, 49). Gesù quindi ha torto di mangiare con i peccatori (Mt 9, 11 par.), di essere loro amico (Mt 11, 19 par.), di entrare in casa loro (Lc 19, 7). Ma Gesù sa bene che ogni uomo è *peccatore e nessuno può dire di essere pio e giusto; il *vangelo che egli apporta dà appunto ai peccatori una possibilità di *penitenza e di salvezza (Lc 5, 32). La pietra di paragone della vera pietà sarà quindi l’atteggiamento adottato nei confronti di questo vangelo.
    2. La chiamata degli empi alla salvezza.
    - Il problema è esattamente lo stesso dopo che Cristo ha consumato il suo *sacrificio morendo «per mano degli empi» (Atti 2, 23). Egli è morto «giusto per gli ingiusti» (1 Piet 3, 18), benché abbia voluto «essere annoverato tra i malfattori» (Lc 22, 37). È morto per gli empi (Rom 5, 6) affinché questi siano giustificati dalla fede in lui (Rom 4, 5). Tali sono i *giusti del NT: empi giustificati per *grazia. Avendo riconosciuto nel vangelo la chiamata alla salvezza, essi hanno rinunciato all’empietà (Tito 2, 12) per rivolgersi a Cristo. Ormai i veri empi sono coloro che rifiutano questo messaggio o lo corrompono: i falsi dottori che turbano i fedeli (2 Tim 2, 16; Giuda 4, 18; 2 Piet 2, 1 ss; 3, 3 s) e meritano il nome di *anticristi (1 Gv 2, 22); gli indifferenti che vivono in un’ignoranza volontaria (2 Píet 3, 5; cfr. Mt 24, 37; Lc 17, 26-30); a più forte ragione le potenze pagane che susciteranno contro il Signore l’empio per eccellenza (2 Tess 2, 3. 8). Questo è il contesto in cui si rivela ormai il mistero dell’empietà.
    3. L’ira di Dio sugli empi.
    - Ora, ancor più che nel VT, il castigo di questa empietà è presentemente una certezza. L’*ira di Dio si rivela, in modo permanente, contro ogni empietà ed ingiustizia umana (Rom 1, 18; cfr. 2, 8); ciò è. tanto più vero nella prospettiva degli ultimi tempi e del *giudizio finale. Allora il Signore annienterà l’empio con lo splendore della sua venuta (2 Tess 2, 8), e tutti coloro che partecipano al *mistero della empietà saranno confusi e castigati (Giuda 15; 2 Piet 2, 7). Se il castigo tarda, si è perché Dio porta *pazienza per permettere ai malvagi di convertirsi (2 Piet 2, 9).
    A. DARRIEUTORT e P. GRELOT
    → anticristo - bestemmia - errore VT - follia - incredulità - ipocrita 2 - menzogna II 2 a - odio - orgoglio 3 - peccato - persecuzione I 1 - pietà - ricchezza II.

    EPIFANIA (inizio)

    → apparizioni di Cristo 1 - giorno del Signore NT 0 - gloria III 2 - rivelazione NT 0, III.

    EPOSCOPO (inizio)

    → ministero II 3 - ospitalità 2 - pastore e gregge NT 2.

    EREDITÀ (inizio)

    La nozione biblica di eredità va oltre il segno giuridico della parola nelle lingue moderne. Designa il possesso di un bene per un titolo stabile e permanente; non di un qualsiasi bene, ma di quello che permette all’uomo ed alla sua famiglia di sviluppare le loro personalità senza essere alla mercè di altri. In concreto, in una civiltà agricola e pastorale, sarà un minimo di terre e di greggi. Quanto al modo di entrare in possesso di questa eredità, esso varierà secondo i casi: conquista, dono, ripartizione regolata dalla legge, ed in particolare l’eredità in senso stretto (cfr. 1 Re 21, 3 s). Questa è la esperienza umana in base alla quale il vocabolario religioso del VT e del NT esprime un aspetto fondamentale del dono di Dio all’uomo.
    VECCHIO TESTAMENTO
    I. ORIGINE DEL TEMA
    Fin dall’origine la nozione di eredità è strettamente legata a quella di *alleanza. Essa caratterizza nel piano divino una triplice relazione: Israele è l’eredità di Jahvè, la terra promessa è l’eredità di Israele, e con ciò diventa l’eredità dello stesso Jahvè.
    1. Israele, eredità di Jahvè.
    - Di queste tre relazioni, la prima è la più fondamentale: Israele è l’eredità di Jahvè (cfr. Es 34, 9; 1 Sam 10, l; 26, 19; 2 Sam 20, 19; 21, 3). Questa espressione suggerisce un rapporto di intimità tra Dio ed il suo popolo, che è sua «proprietà particolare» (Es 19, 5). La formula dell’alleanza, «Voi sarete il mio popolo ed io sarò il vostro Dio» (Ger 24, 7; Ez 37, 27), vuol dire praticamente la stessa cosa; ma la nozione di eredità vi aggiunge l’idea di un’appartenenza speciale, che fa passare Israele dalla sfera del profano (quella degli altri popoli) al mondo di Dio.
    2. La terra promessa, eredità di Israele.
    - Questa seconda relazione è ugualmente legata al tema dell’alleanza, come mostra il racconto dell’alleanza patriarcale in Gen 15. In questo passo la *promessa di Dio ad Abramo ha un duplice oggetto: un erede, Isacco e la sua discendenza; un’eredità, la terra di Canaan. Naturalmente gli eredi di Abramo erediteranno pure la promessa (Gen 26, 3; 35, 12; Es 6, 8). Notiamo che Canaan non è ancora dato in eredità ad Abramo, ma è promesso soltanto ai suoi eredi. Appunto questa promessa, e l’attesa di Israele che ne deriva, premetteranno l’approfondimento progressivo del tema dell’eredità: le *delusioni, conseguenti a speranze troppo materiali smentite dagli avvenimenti, permetteranno di innalzare il livello dell’attesa di Israele, sino a fargli desiderare la vera eredità, la sola che possa soddisfare il cuore dell’uomo.
    3. La terra promessa, eredità di Jahvè.
    - Dalle due prime relazioni deriva una terza: la *terra promessa è l’eredità di Jahvè. La formula non esprime un legame di natura tra Jahvè e Canaan, ed in ciò Israele si distingue dai popoli vicini che vedono nei diversi paesi i domini propri di taluni dèi. Di fatto tutta la terra appartiene a Jahvè (Es 29, 5; Deut 10, 14); se Canaan è divenuto sua eredità per un titolo speciale, si è perché egli ha dato questo paese ad Israele, e perché, per via di conseguenza, ha eletto di stabilirvi la sua residenza (cfr. Es 15, 17). Di qui il senso profondo della divisione della terra santa, in cui ciascuna tribù di Israele riceve la sua porzione, la sua parte di eredità (Gios 13 - 21). Essa la riceve da Dio; perciò i limiti di ciascuna parte sono intangibili (cfr. Num 36); in caso di vendita forzata, l’anno giubilare permetterà il ritorno di ciascuna terra al suo proprietario primitivo (Lev 25, 10): «La terra non sarà venduta con perdita di diritto, perché la terra appartiene a me, e voi per me non siete che degli *stranieri e degli *ospiti» (Lev 25, 23). Israele è sulla terra il mezzadro di Dio; deve vivere in essa per lui e non per sé.
    II. SVILUPPO DEL TEMA
    Lo sviluppo del tema nel VT presenta due aspetti: la sua trasposizione in contesto escatologico e la sua spiritualizzazione.
    1. Eredità escatologica.
    - La conquista di Canaan poteva sembrare una realizzazione della promessa di Gen 15. Ora, a partire dal sec. VIII, l’eredità di Jahvè passa, pezzo per pezzo, in potere dei pagani. Non già che Dio sia venuto meno alla sua promessa; ma i peccati di Israele ne hanno compromesso provvisoriamente il risultato. Soltanto negli ultimi tempi il popolo di Dio, ridotto ad un *resto, possederà la terra in eredità per sempre e vi godrà una perfetta felicità (Deut 28, 62 s; 30, 5). Questa dottrina deuteronomica si ritrova nei profeti del tempo dell’esilio (Ez 45-48; notare in 47, 14 la allusione a Gen 15) e dopo l’esilio (Zac 8, 12; Is 60, 21): soltanto i giusti beneficeranno infine dell’eredità (cfr. Sal 37, 9. 11. 18. 22. 34; 25, 13; 61, 6; 69, 37). In questa trasformazione della *speranza di Israele c’è modo di menzionare il posto speciale assegnato al *re, unto di Jahvè. È possibile che, in un primo tempo, il salmista abbia promesso al monarca vivente «le *nazioni per eredità, e per dominio le estremità della terra» (Sal 2, 8). Ma, riletta dopo l’esilio, la promessa è stata intesa del re futuro, del *messia (cfr. Sal 2, 2). Eredità della terra, eredità delle nazioni: questa escatologia non esce mai da prospettive terrene. Quest’ultimo stadio sarà superato in epoca tarda, quando avrà preso corpo la dottrina della *retribuzione d’oltre tomba. Si porrà allora dopo la morte, nel «mondo futuro», l’entrata in possesso dell’eredità promessa da Dio ai giusti (Dan 12, 13; Sap 3, 14; 5, 5). Ma si tratterà di una eredità trasfigurata.
    2. Eredità spiritualizzata.
    - Il punto di partenza della spiritualizzazione dell’eredità è la condizione dei leviti che, secondo una formula di Deut 10, 9, «non hanno eredità con i loro fratelli, perché loro eredità è *Jahvè». All’inizio, questa formula è intesa in un senso molto materiale: la eredità dei leviti è costituita dalle offerte dei fedeli (Deut 18,1 s). Ma acquista progressivamente una maggior densità e giunge ad applicarsi a tutto il popolo: Jahvè è la sua parte di eredità (Ger 10, 16; cfr. il nome Hilqijah, «Jah è la mia parte»). Convinzione che acquista tutto il suo senso nel momento in cui l’eredità materiale, la terra di Canaan, è tolta al popolo di Dio (cfr. Lam 3, 24). A partire da questo momento la nozione di eredità si spiritualizza completamente. Quando i salmisti dicono: «Jahvè è la mia parte» (Sal 16, 5; 73, 26), fanno vedere in lui il bene perfetto, il cui possesso sazia il loro cuore. Si comprende come questa eredità tutta interiore sia riservata al resto fedele: l’eredità non è più una ricompensa estrinseca accordata alla *fedeltà, è la *gioia stessa che deriva da questa fedeltà (cfr. Sal 119). In questa nuova prospettiva la formula antica «possedere la terra» diventa sempre più un’espressione convenzionale della felicità perfetta (cfr. Sal 25, 13) che prelude alla seconda *beatitudine evangelica (Mt 5, 4; cfr. Sal 37, 11 LXX). Si comprende quindi come il possesso di Dio da parte del cuore credente anticipi per esso, in qualche modo, l’eredità che riceverà nel «mondo futuro». 
    NUOVO TESTAMENTO 
    I. L’EREDE DELLE PROMESSE
    1. Cristo, erede unico.
    - Il VT aveva riservato la qualità di erede della promessa da prima al solo popolo di Dio, poi al resto dei giusti. Nel NT si constata anzitutto che questo resto è Cristo. In lui si è concentrata la discendenza di Abramo (Gal 3, 16). Essendo il *Figlio, egli possedeva per nascita il diritto di eredità (Mt 21, 38 par.), era costituito da Dio «erede di tutte le cose» (Ebr 1, 2), perché aveva ereditato un *nome superiore a quello degli angeli (1, 4), il nome stesso di Jahvè (cfr. Fil 2, 9). Tuttavia per entrare in possesso effettivo di questa eredità, Gesù ha dovuto passare attraverso la passione e la morte (Ebr 2, 1 10; cfr. Fil 2, 7-11). Con ciò ha fatto vedere l’ostacolo che si opponeva al compimento delle promesse antiche: lo stato di *schiavitù in cui si trovavano gli uomini (Gal 4, 3. 8; 5, 1; Gv 8, 34), il regime di tutela al quale Dio li sottometteva (Gal 3, 23; 4, 1 ss). Per mezzo della *croce Gesù ha posto termine a questa disposizione provvisoria, per farci passare dallo stato di schiavi a quello di figli, e quindi di eredi (Gal 4, 5 ss). Grazie alla sua morte noi possiamo ora ricevere l’eterna eredità promessa (Ebr 9, 15 s).
    2. I credenti, eredi in Cristo.
    - Tale è di fatto lo stato attuale dei cristiani: figli adottivi di Dio, perché lo Spirito di Dio li anima, essi sono a questo titolo eredi di Dio e coeredi di Cristo (Rom 8, 14-17). Ereditano la promessa fatta ai patriarchi (Ebr 6, 12. 17), come già Isacco e Giacobbe (11, 9), perché sono la vera discendenza di Abramo (Gal 3, 29). La sottomissione alla legge mosaica non conta nulla, e neppure l’appartenenza ad *Israele secondo la *carne; ma soltanto l’adesione a Cristo per mezzo della fede (Rom 4, 13 s). Ne risulta che, nel *mistero di Cristo, «i pagani sono ammessi alla stessa eredità, sono beneficiari della stessa promessa» (Ef 3, 6; cfr. Gal 3, 28 s). Attorno a Cristo, unico erede, si edifica un *popolo nuovo cui il diritto di eredità è dato per *grazia (Rom 4, 16).
    II. L’EREDITÀ PROMESSA
    L’eredità che «Dio procura agli uomini con i santificati» (Atti 20, 32), «l’eredità tra i santi» nella luce (Ef 1, 18), rivela con ciò stesso la sua vera natura. La terra di Canaan non era l’oggetto adeguato delle promesse, era soltanto una *figura della città celeste (Ebr 11, 8 ss). L’eredità, «preparata» dal Padre ai suoi eletti «dall’inizio del mondo» (Mt 25, 34), è la *grazia (1 Pier 3, 7), è la *salvezza (Ebr 1, 14), è il *regno di Dio (Mt 25, 34; 1 Cor 6, 9; 15, 50; Giac 2, 5), è la *vita eterna (Mt 19, 29; Tito 3, 7). Queste espressioni sottolineano il carattere trascendente dell’eredità. Essa non è alla portata «della *carne e del sangue», esige un essere che sia trasformato ad *immagine di Cristo (1 Cor 15, 49 s). In quanto *regno, essa è una partecipazione alla sua sovranità universale (cfr. Mt 5, 4; 25, 34; Rom 4, 13 confrontato con Gen 15 e Sal 2, 8). In quanto *vita eterna, è partecipazione alla vita di Cristo risorto (cfr. 1 Cor 15, 45-50), e con ciò alla vita di Dio stesso. Noi vi accederemo perfettamente dopo la morte, quando raggiungeremo Cristo nella sua gloria. Attualmente l’abbiamo soltanto nella *speranza (Tito 3, 7); tuttavia lo *Spirito Santo che ci è stato dato ne costituisce già il pegno (Ef 1, 14), in attesa che, alla parusia, Cristo ce ne assicuri il possesso perfetto.
    F. DREYFUS e P. GRELOT
    → Abramo II 4 - corpo II - dono NT 1 - fecondità III 1 a - figlio di Dio NT II 2 - patria VT 1; NT 2 - popolo A II 4 - promesse II 1, IV - regno NT II 2.3, III 3 - retribuzione III 2 - salvezza NT II 3 - speranza - terra VT II l.2.4; NT I 2 - vite-vigna 2.

    ERESIA (inizio)

    1. Scisma ed eresia.
    - Le parole *scisma ed eresia designano entrambe una grave e duratura scissione del popolo cristiano, ma a due livelli di profondità: lo scisma è una frattura nella comunione gerarchica, l’eresia, una rottura nella stessa fede. Nel VT, il contenuto intellettuale della fede era troppo limitato e troppo poco elabarato per lasciar posto all’eresia. La tentazione di Israele non era quella di «scegliere» (hairèin) a proprio piacimento in un corpo di dottrine precise, bensì di «seguire altri dèi» (Deut 13, 3): apostasia, o *idolatria, piuttosto che eresia. I seduttori e i loro adepti, allontanandosi da Jahvè, unico Dio e salvatore di Israele, non riuscivano a spezzare l’unità del popolo santo, ma si votavano ad esserne soppressi (Deut 13, 6). Il significato preciso della parola «eresia» appare solo in certi scritti tardivi del NT (2 Piet 2, 1; Tito 3, 10). Per Paolo, le hairèseis di 1 Cor 11, 19 sono a malapena diverse dagli schìsmata del v. 18. Tuttavia è probabile una certa gradazione: i dissidi (schìsmata) della comunità tendono a cristallizzarsi in veri e propri partiti o sette (hairèseis) rivali, aventi le proprie teorie particolari, come ne esistevano nel giudaismo: Sadducei (Atti 5, 17), Farisei (15, 5; 26, 5), Nazírei (24, 5. 14; 28, 22) o nel mondo greco con le sue scuole di retori (chiamate anche hairèseis). La Chiesa quindi, circa gli errori dottrinali, conobbe due situazioni diverse. La sua unità fu inizialmente minacciata dalla crisi giudaizzante. Più tardi, certuni si allontanarono dalla fede in Cristo (1 Gv 4, 3) «non essendo veramente dei nostri» (2, 19), sulla scia dei discepoli che a Cafarnao si erano rifiutati di credere in Gesù (Gv 6, 36. 64) e se ne erano andati (v. 66).
    2. La crisi giudaizzante.
    - L’ammissione dei pagani nella Chiesa fece sorgere ben presto il problema del valore delle osservanze giudaiche di cui i giudeocristiani conservavano la pratica. Imporle ai gentili convertiti al cristianesimo avrebbe significato riconoscere ad esse una necessità in vista della salvezza. E tale era appunto la pretesa dei giudaizzanti (Atti 15, 1). Ma, secondo Paolo, questo rendeva inutile Cristo e svuotava la croce della sua efficacia: cercare la propria giustizia nella legge equivaleva a rompere con Cristo, disprezzare la sua grazia (Gal 5, 1-6). Sulla Chiesa incombeva la divisione. Perciò Paolo volle ad ogni costo ottenere l’accordo della Chiesa giudeo-cristiana in particolare di «Giacomo, Cefa e Giovanni» (2, 9) sulla libertà dei pagano-cristiani (2, 4; 5, 1). L’ottenne all’assemblea del 49 (Atti 15; Gal 2, 1-10) in caso diverso avrebbe «corso per niente» (Gal 2, 2), cioè la rivelazione apostolica (cfr. Ef 3, 3-5) si sarebbe contraddetta da sé: «Se qualcuno vi annuncia un vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema!» (Gal 1, 9).
    3. Le eresie incipienti.
    - Ma il messaggio di Paolo dovette anche affrontare la saggezza greca. L’infatuazione dei Corinzi per questa saggezza non era scevra da incidenze dottrinali: si credeva di poter scegliere tra Paolo, Apollo e Cefa, come altri sceglievano tra le scuole (hairèseis) di filosofi ambulanti e si restava sordi ai «discorsi della croce» proclamati da tutti gli apostoli (1 Cor 1, 17 s). Oppure, si contestava la risurrezione dei morti, svuotando così la predicazione e la fede del suo contenuto essenziale: la risurrezione di Cristo (15, 2. 11-16). Più tardi ad apporti ellenistici si mescolarono speculazioni giudaiche, per mettere in pericolo la fede dei Colossesi nel primato di Cristo (Col 2, 8-15; cfr. Ef 4, 14-15) e farli tornare al regime delle ombre (Col 2, 17). Verso la fine dell’era apostolica si fece più pressante il pericolo di elucubrazioni pregnostiche desunte dal giudaismo eterodosso o dal paganesimo (1 Tim 1, 3-7. 19 s; 4, 1-11; 6, 3-5; 2 Tim 2, 14-26; 3, 6-9; 4, 3s; Tito 1, 9-16; Giuda; 2 Piet 2; 3, 3-7; Apoc 2, 2. 6. 14 s. 20-25). Certi «falsi profeti» (1 Gv 4, 1) negarono persino che Gesù fosse il Figlio di Dio «venuto nella carne» (2, 22 s; 4, 2 s; 2 Gv 7). A Corinto (1 Cor 4, 18 s), a Colossi (Col 2, 18) o altrove (1 Tim 6, 4; 2 Tim 3, 4), queste deviazioni generatrici di dispute e di divisioni (1 Tim 6, 3 ss; Tito 3, 9; Giuda 19), hanno tutte come origine l’ostinato orgoglio di coloro che, anziché sottomettersi alla dottrina unanimemente predicata nella Chiesa (Rom 6, 17; 1 Cor 15, 11; 1 Tim 6, 3; 2 Piet 2, 21), l’alterano volendo superarla con speculazioni personali (2 Gv 9). Perciò i più pericolosi vengono colpiti da scomunica (Tito 3, 10; 1 Tim 1, 20; Giuda 23; 2 Gv 10). Questa severità del NT verso i falsi dottori mette in rilievo tutto il valore di una fede che non rischia naufragi (1 Tim 1, 19; 2 Tim 3, 8) e ci attacca alla Chiesa, sempre vittoriosa dell’errore che minaccia «il deposito delle sane parole ricevute» dagli apostoli (2 Tim 1, 13 s).
    P. TERNANT
    → Chiesa IV 3 - errore NT - fede NT III 1 - giudeo I - insegnare NT II 3 - nazioni NT II - scisma - unità III - verità NT 2 c.

    ERRARE (inizio)

    → cercare - errore - via.

    ERRORE (inizio)

    L’errore non equivale all’ignoranza. Non sta nei brancolamenti, o addirittura nei traviamenti dell’intelligenza dove lo pongono i Greci. Non si riduce al disprezzo di colui che è ingannato dalle apparenze (Gen 20, 2-7; Sap 13, 6-9), né alla inavvertenza che causa il male e l’ingiustizia (Lev 4, 2. 13. 22.27). È anzitutto *infedeltà, rifiuto della *verità. L’errare ne sarà l’effetto ed il *castigo: Caino vagabondo (Gen 4, 12), Israele errante (Os 9, 17), le pecore senza pastore (Is 13, 14; 53, 6; Ez 34, 16) da ricondurre all’ovile (Lc 15, 4-7; 1 Piet 2, 25).
    VECCHIO TESTAMENTO
    L’errore è collocato sul piano religioso: una disobbedienza che acceca. Errare significa «smarrirsi lontano dalla *via prescritta da Jahvè» (Deut 13, 6. 11). Legato alla apostasia di Israele, l’errore conduce alla *idolatria (Am 2, 4; Is 44, 20; Sap 12, 24) e deriva generalmente dall’abbandono di Jahvè (Sap 5, 6). Di fatto soltanto il *giusto cammina con sicurezza (Sal 26, 1. 3; 37, 23. 31); gli *empi si abbandonano ad un traviamento (Is 63, 17; Prov 12, 26) che Dio sanziona lasciandoveli (Ez 14, 6-11; Giob 12, 24), a meno che essi non si *convertano (Bar 4, 28; Ez 33, 12). Diversamente, con l’indurimento che aumenta, l’errore prolifera (Sap 14, 22-31), *crescita di cui i capi del popolo (Is 9, 15), i leviti (Ez 44, 10-13), i falsi *profeti (Os 4, 5; Is 30, 10 s; Ger 23, 9-40; Lam 4, 13 ss; Mi 3, 5; Ez 13, 8. 10. 18) sono i grandi responsabili, e che annuncia l’errore diabolico degli ultimi tempi (cfr. Dan 11, 33 ss).
    NUOVO TESTAMENTO
    L’errore escatologico annunciato dal profeta raggiunge il parossismo a contatto di Gesù Cristo, verità in persona (Gv 14, 6).Gesù denuncia gli errori dei suoi contemporanei (Mt 22, 29), e gli apostoli pongono in guardia i fedeli contro di essi (l Cor 6, 9; 15, 33), ma il maestro (Mt 27, 63 s; Gv 7, 12. 47) ed i suoi discepoli (2 Cor 6, 8) saranno a loro volta denunciati come impostori, a tal punto sono fuorviati i Farisei che si lasciano accecare (Gv 9, 41) ed «i principi di questo mondo che, se avessero conosciuto la *sapienza di Dio, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria» (1 Cor 2, 8). Tuttavia, nonostante la sua sconfitta dinanzi alla verità, l’errore permane attivo tra i peccatori, facendoli «nello stesso tempo ingannatori ed ingannati» (2 Tim 3, 13). Bisogna quindi *vegliare (Giac 1,16; 1 Gv 2, 26 s), diffidare delle favole divulgate dai falsi dottori (1 Tim 1, 4; 2 Piet 2, 1 s), dell’impostura degli uomini (Ef 4, 14. 25; Tito 1, 14) che il tardo giudaismo poneva sotto l’influsso delle *potenze d’errore, gli *angeli decaduti. Più ancora, il dovere di tutti è di convertire il peccatore che si è smarrito lontano dalla verità (Giac 5, 20). In previsione della fine dei tempi, Gesù ha premunito i suoi fedeli contro la seduzione dei falsi profeti (Mt 24, 5. 11. 24 par.). Di fatto questo spirito di errore (1 Gv 4, 6), questo «mistero dell’empietà» (2 Tess 2, 7), *cresce sino alla fine dei tempi (2 Piet 2, 15-18; Apoc 20, 8), quando rivelerà il suo vero volto, quello dell’*anticristo (2 Gv 7), quello di *Satana che lo ispira (2 Tess 2, 9 ss), quello del demonio, «seduttore del mondo intero» (Apoc 12, 9). Ma alla fine la *bestia, il falso profeta ed il demonio saranno gettati tutti nel lago di fuoco (19, 20; 20, 3. 10).
    J. RADERMAKERS
    → anticristo NT - eresia 3 - insegnare NT II 3 - menzogna II, III - verità NT 2 c. 3.

    ESALTAZIONE DI CRISTO (inizio)

    →, ascensione - fierezza - forza II - Gesù Cristo II 1 a - gloria - umiltà IV.

    ESAME (inizio)

    → coscienza - giudizio - prova-tentazione.

    ESCATOLOGIA (inizio)

    → città NT 2 - creazione VT III 2; NT II 3 - disegno di Dio VT II; NT IV - elezione NT III - eredità VT II 1 - figura VT II 3 - Gerusalemme VT III 3; NT II 3 - Gesù Cristo I 1, Il 1 a - giorno dei Signore - gloria IV 1 - guerra NT - lode II 3 - luce e tenebre VT II 3; NT II 4 - nuovo IV - ora 1 - pace II 3 b - paradiso 2 b- 3 - Pasqua III 3 - pasto IV - popolo B; C III - regno VT III; NT III 3 - salvezza VT I 2 - speranza NT IV - tempo VT III; NT II 1, III - terra VT II 4 - verginità NT 3 - vino II 2 - visita VT 3; NT.

    ESEMPIO (inizio)

    Se la *parola illumina, l’esempio trascina. Da buon *educatore, Dio dà perciò all’uomo degli esempi da *seguire, dei modelli da imitare.
    VECCHIO TESTAMENTO
    Le vie di Dio e gli esempi umani.

    - Dio si adatta alla debolezza di uomini che sono nello stesso tempo dei bambini da formare e dei peccatori da riformare. È ancora impossibile proporre loro come modello colui che li ha tuttavia creati a propria immagine (Gen 1, 26 s), in quanto si tratterebbe di un modello inaccessibile per la sua trascendenza. Pretendere di essere come Dio è tipico del peccatore (Gen 3, 5); il giusto cerca solo di rispondere alla chiamata del suo Creatore camminando con lui, cioè vivendo nella perfetta rettitudine richiesta dalla sua *presenza (Gen 17, 1; cfr. 5, 22; 6, 9). Allo stesso modo, nella prescrizione divina «Siate santi perché io sono *santo», si tratta di due santità distinte: quella di Dio che è la trascendenza del suo mistero, quella dell’uomo che è la purezza richiesta dal culto divino e dalla presenza del tre volte santo in mezzo al suo popolo (Lev 19, 2; cfr. Es 29, 45). In questo, non c’è richiesta di imitare Dio. Tuttavia, l’insegnamento dei profeti permette di intravvedere che Dio prescrive all’uomo di seguire delle *vie in cui si compiace di procedere egli stesso (Ger 9, 23; cfr. Mi 6, 8). Il popolo troverà gli esempi di cui ha bisogno guardando i suoi *padri; giudicando l’albero dai frutti, distinguerà nei loro comportamenti quel che bisogna imitare o evitare; ecco, da una parte, la fede e la fedeltà di *Abramo (Gen. 15, 6; 22, 12-16), dall’altra il dubbio e la disobbedienza di *Adamo ed Eva (Gen 3, 4 ss). La storia è piena di questi personaggi, il cui esempio illumina e che i sapienti fanno sfilare sotto gli occhi dei *discepoli (Eccli 44, 16 - 49, 16; cfr. 1 Mac 2, 50-60). Gli anziani devono quindi sentirsi, come Eleazaro, responsabili del popolo e in particolare dei giovani; devono lasciare un nobile esempio, dovessero pure per questo morire martiri (2 Mac 6, 24-31 ).
    NUOVO TESTAMENTO
    Esempi umani al modello divino.
    - Il NT evoca ancora il passato: non si deve imitare Caino, l’omicida (1 Gv 3, 12), né la generazione disobbediente del deserto (Ebr 4, 11), ma prendere a modello la pazienza dei profeti (Giac 5, 10), la fede e la perseveranza di un nugolo di testimoni di Dio (Ebr 12, 1). I credenti, d’altra parte, hanno sotto gli occhi questi *testimoni (Ebr 6, 12); imitino la fede dei loro capi (Ebr 13, 7) e la condotta di quelli che, come Paolo, sono dei modelli (Fil 3, 17). L’apostolo invita spesso i *fedeli a diventare suoi imitatori (1 Cor 4, 16; Gal 4, 12), in specie lavorando come lui ha lavorato per servire d’esempio (2 Tess 3, 7 ss). Gli anziani siano, come lui, dei modelli (1 Tim 4, 12; Tito 2, 7; 1 Piet 5, 3) affinché le loro comunità fungano a loro volta d’esempio (1 Tess 1, 7; 2, 14). Ma, per il credente, non c’è che un modello perfetto, di cui tutti gli altri sono solo il riflesso: *Gesù Cristo. Si deve imitare Paolo solo perché egli imita Cristo (l Cor 4, 16; 11). Questa è la novità fondamentale: grazie a Gesù, *Figlio di Dio fatto uomo, l’uomo può imitare il suo Signore (1 Tess 1, 6), e in tal modo, imitare Dio stesso (Ef 5, 1). Gesù intatti è la fonte e il modello di quella fede perfetta che è fiducia e fedeltà (Ebr 12, 2); a chi crede in lui, egli concede di diventare figlio (cfr. *bambino) di Dio e di vivere la sua vita (Gv 1, 12; Gal 2, 20). Da quel momento, l’uomo può imitare l’esempio del Signore, seguire le due tracce sulla via dell’umile *amore che gli ha fatto sacrificare la vita (Gv 13, 15; Ef 5, 2; 1 Piet 2, 21; 1 Gv 2, 16; 3, 16); può amare i fratelli come Gesù li ha amati (Gv 13, 34; 15, 12). Ora, Gesù li ha amati come il Padre ha amato lui (Gv 15, 9); imitare Gesù significa imitare il Padre; rispondere alla nostra vocazione di divenire conformi a Cristo (Rom 8, 29), immagine perfetta del Padre (Col 1, 15), equivale a rinnovarci ad immagine del nostro creatore (Col 3, 10; cfr. Gen 1, 26 di cui questo accostamento rivela il senso profondo e fino ad allora nascosto). Possiamo e dobbiamo diventare santi come lo è il nostro Padre celeste (1 Piet 1, 15 s, che cita Lev 19, 2 dandogli un senso nuovo); in tal modo, rispondiamo al comando stesso di Gesù: egli vuole che imitiamo il Padre, la sua perfetta bontà (Mt 5, 48) e il suo amore misericordioso (Lc 6, 36; cfr. Ef 4, 32); se lo facciamo, verrà il giorno in cui saremo simili a colui che avremo imitato, perché lo vedremo quale egli è (1 Gv 3, 2).
    J. RADERMAKERS e M. F. LACAN
    → discepolo - educazione II 2 - figura - immagine - seguire 2 c - via.

    ESERCITI CELESTI (inizio)

    → angeli - astri - Jahvè 3 - potenza III 2.

    ESILIO (inizio)

    Nell’Oriente antico la deportazione era una pratica usata correntemente contro i popoli vinti (cfr. Am 1). Già nel 734 talune città del regno di Israele ne fecero la dura esperienza (2 Re 15, 29); poi, nel 721, l’insieme di questo regno (2 Re 17, 6). Ma le deportazioni, che più hanno inciso sulla storia del popolo dell’alleanza, sono quelle fatte da Nabuchodonosor, a conclusione delle sue campagne contro Giuda e Gerusalemme nel 597, 587, 582 (2 Re 24, 14; 25, 11; Ger 52, 28 ss). A queste deportazioni in Babilonia è riservato il nome di esilio. La sorte materiale degli esiliati non fu sempre delle più penose; col tempo si mitigò (2 Re 25, 27-30); ma la via del ritorno restava non di meno preclusa. Perché si aprisse, fu necessario attendere la caduta di Babilonia e l’editto di Ciro nel 538 (2 Cron 36, 22 s). Questo lungo periodo di prova ebbe un’eco immensa nella vita religiosa di Israele. Dio vi si rivelò (I) nella sua santità intransigente e (II) nella sua sconvolgente fedeltà.
    I. L’ESILIO, CASTIGO DEL PECCATO
    1. L’esilio, castigo estremo.

    - Nella logica della storia sacra l’eventualità di un esilio sembrava inimmaginabile: era lo sconvolgimento di tutto il *disegno di Dio, realizzato durante l’esodo a prezzo di tanti prodigi; era una smentita a tutte le *promesse: abbandono della terra promessa, destituzione del re davidico, distacco dal tempio distrutto. Anche dopo la sua realizzazione, la reazione naturale era di non credervi e di pensare che la situazione si sarebbe ristabilita senza indugio. Ma Geremia denunciò questa illusione: l’esilio sarebbe durato (Ger 29).
    2. L’esilio, rivelazione del peccato.
    - Era necessario questo perdurare della catastrofe perché il popolo ed i suoi capi acquistassero coscienza della loro perversione incurabile (Ger 13, 23; 16, 12 s). Le minacce dei profeti, prese fino allora alla leggera, si realizzavano alla lettera. L’esilio appariva così come il *castigo delle colpe tante volte denunziate: - colpe dei dirigenti che, invece di fondarsi sull’*alleanza divina, avevano fatto ricorso a calcoli politici troppo umani (Is 8, 6; 30, 1 s; Ez 17, 19 ss); - colpe dei grandi che, nella loro cupidigia, avevano spezzato l’unità fraterna del popolo con la *violenza e la frode (Is 1, 23; 5, 8...; 10, 1); colpe di tutti, immoralità ed *idolatria scandalose (Ger 5, 19; Ez 22) che avevano fatto di Gerusalemme un luogo malfamato. L’*ira del Dio santissimo, continuamente provocata, aveva finito per scoppiare: «non c’era più rimedio» (2 Cron 36, 16). La *vigna di Jahvè, diventata una piantagione selvatica, era quindi stata saccheggiata e divelta (Is 5); la *sposa adultera era stata spogliata dei suoi ornamenti e duramente castigata (Os 2; Ez 16, 38); il popolo indocile e ribelle era stato scacciato dalla sua *terra e *disperso tra le *nazioni (Deut 28, 63-68). Il rigore della sanzione manifestava la gravità della colpa; non era più possibile conservare l’illusione, né fare bella figura dinanzi ai pagani: «Per noi, oggi, la vergogna sul volto» (Bar 1, 15).
    3. Esilio e confessione.
    - A partire da quest’epoca l’umile *confessione dei peccati diventerà abituale in Israele (Ger 31, 19; Esd 9, 6 ...; Neem 1, 6; 9, 16. 26; Dan 9, 5); 1’esilio era stato come una «teofania negativa», una rivelazione senza precedenti della santità di Dio e del suo orrore per il male.
    II. L’ESILIO, PROVA FECONDA
    Rigettati dalla terra santa, privati del tempio e del culto, gli esiliati potevano credersi completamente abbandonati da Dio e sprofondare in uno scoraggiamento mortale (Ez 11, 15; 37, 11; Is 49, 14). In realtà, nel bel mezzo della *prova, Dio rimaneva presente e la sua meravigliosa *fedeltà già lavorava al risollevamento del suo popolo (Ger 24, 5 s; 29, 11-14).
    1. Il conforto dei profeti.
    - La realizzazione degli oracoli di minaccia aveva indotto gli esiliati a prendere sul serio il ministero dei profeti; ma precisamente, ripetendo a se stessi le loro parole, vi trovavano ora motivi di *sperare. L’annunzio del castigo, in effetti, vi assume sempre il duplice aspetto di appello alla *conversione e di promessa di rinnovamento (Os 2, 1 s; Is 11, 11; Ger 31). La severità divina vi si manifesta come espressione di un amore geloso; anche punendo, Dio nulla desidera tanto, quanto veder rifiorire la primitiva *tenerezza (Os 2, 16 s); i pianti del bambino castigato sconvolgono il suo cuore di padre (Os 11, 8 ss; Ger 31, 20). Poco ascoltati in Palestina, questi messaggi trovarono un’accoglienza fervida nelle cerchie degli esiliati di Babilonia. Geremia, un tempo perseguitato, divenne il più apprezzato dei profeti. Tra gli stessi esiliati Dio gli suscitò dei successori, che guidarono e sostennero il popolo in mezzo alle difficoltà. La vittoria degli eserciti pagani sembrava essere quella dei loro dèi; grande era la tentazione di lasciarsi affascinare dal culto babilonese. Ma la tradizione profetica insegnava agli esiliati a disprezzare gli *idoli (Ger 10; Is 44, 9...; cfr. Bar 6). Più ancora: un sacerdote deportato, Ezechiele, riceveva in visioni grandiose la rivelazione della «mobilità» di Jahvè, la cui *gloria non è racchiusa nel tempio (Ez 1) e la cui *presenza è un santuario invisibile per gli esiliati (Ez 11, 16).
    2. Preparazione del nuovo Israele.
    - Parola di Dio, presenza di Dio: su questa base si poteva organizzare e sviluppare un *culto, non un culto sacrificale, ma una liturgia sinagogale, consistente nel riunirsi per *ascoltare Dio (grazie alla lettura ed al commento dei testi sacri) e per parlargli nella *preghiera. Si formava così una comunità spirituale di *poveri totalmente orientati verso Dio, che attendevano da lui solo la salvezza. A questa comunità la classe sacerdotale ebbe cura di raccontare la storia sacra e di insegnare la legge; questo lavoro sfociò nel documento sacerdotale, compilazione e rinnovazione dei ricordi e dei precetti antichi, che facevano di Israele la nazione santa ed il regno sacerdotale di Jahvè. Lungi dal lasciarsi contaminare dall’idolatria, questo Israele rinnovato diventava l’araldo del vero Dio in terra pagana. Aprendosi alla sua vocazione di «luce delle *nazioni» (Is 42, 6; 49, 6), esso si orientava verso la speranza escatologica del regno universale di Jahvè (Is 45, 14).
    3. Un nuovo esodo.
    - Ma questa speranza rimaneva accentrata in *Gerusalemme: affinché si realizzasse, era prima necessario che l’esilio finisse. E appunto quel che Dio promette allora al suo popolo, nel libro della consolazione (Is 40 - 55), che descrive in anticipo le meraviglie di un secondo *esodo. Ancora una volta Jahvè si farà il *pastore di Israele. Andrà egli stesso a cercare gli esiliati e, come un pastore (Ez 34, 11 ss), li condurrà al loro ovile (Is 40, 11; 52, 12). Li purificherà di tutte le loro immondezze e darà loro un *cuore nuovo (Ez 36, 24-28); concludendo con essi una alleanza eterna (Ez 37, 26; Is 55, 3), li colmerà di tutti i beni (Is 54, 11 s). Sarà una grande vittoria di Dio (Is 42, 10-17); tutti i prodigi dell’uscita dall’Egitto saranno eclissati (Is 35; 41, 17-20; 43, 16-21; 49, 7-10). Di fatto nel 538 veniva promulgato l’editto di Ciro. Uno slancio di entusiasmo sollevò i Giudei ferventi; importanti gruppi di volontari, i «superstiti della cattività» (Esd 1, 4) ritornarono a Gerusalemme ed ebbero una influenza decisiva sulla organizzazione della comunità giudaica ed il suo orientamento spirituale. In mezzo a molte difficoltà, era la *risurrezione del popolo (cfr. Ez 37, 1-14), testimonianza meravigliosa della fedeltà di Dio, cantata con gioia dinanzi alle nazioni stupite (Sal 126).
    4. Esilio e NT.
    - Esperienza di morte e di risurrezione, la partenza per l’esilio ed il ritorno trionfante hanno più di un rapporto con il mistero centrale del disegno di Dio (cfr. Is 53). Questi avvenimenti restano ricchi di insegnamenti per i cristiani. Certamente una *via vivente loro assicura ormai libero accesso al vero santuario (Ebr 10, 19; Gv 14, 6); ma avere libero accesso non equivale ad essere al termine; in un certo senso «dimorare in questo corpo, è vivere in esilio lontano dal Signore» (2 Cor 5, 6). Essendo in questo *mondo senza essere di questo mondo (Gv 17, 16), i cristiani devono ricordarsi continuamente della *santità di Dio, che non può scendere a patti con il male (1 Piet 1, 15; 2, 11 s), e fondarsi sulla *fedeltà di Dio, che in Cristo li condurrà fino alla *patria celeste (cfr. Ebr 11, 16).
    C. LESQUIVIT e A. VANHOYE
    → Babele-Babilonia 2.4 - castighi - esodo VT 2 - liberazione-libertà II 2 - patria VT 2 – penitenza-conversione VT III - prigionia I - prova-tentazione VT I 2.3 - tempio VT II 2.3 - terra VT II 3 c - via I 2.

    ESODO (inizio)

    La parola èxodos significa «via di uscita», donde «azione di uscire, partenza». Nella Bibbia designa in modo speciale l’uscita degli Ebrei dall’Egitto, o, secondo un’accezione più larga, la lunga peregrinazione di quarant’anni che li portò dall’Egitto nella terra promessa attraverso il *deserto (Es 3, 7-10), e le cui diverse tappe sono raccontate nel Pentateuco (Es, Num, Deut). Per il pensiero giudaico e cristiano questo avvenimento divenne il tipo ed il pegno di tutte le liberazioni effettuate da Dio in favore del suo popolo.
    VECCHIO TESTAMENTO
    1. Il primo esodo.

    - L’esodo segnò la vera *nascita del popolo di Dio, avvenuta nel *sangue (Ez 16, 4-7). Allora Dio generò Israele (Deut 32, 5-10) per il quale, più ancora che non Abramo, divenne un *padre pieno di amore e di sollecitudine (Os 11, 1; Ger 31, 9; Is 63, 16; 64, 7). Segno dell’amore divino, l’esodo è per ciò stesso pegno di *salvezza: avendo liberato una volta il suo popolo dalla *prigionia di Egitto, Dio lo salverà ancora nel momento del pericolo assiro (Is 10, 25 ss; Mi 7, 14 s) o babilonese (Ger 16, 14 s; Is 63 - 64; cfr. Sal 107, 31-35; Sap 19). A questa sollecitudine divina, manifestata dai prodigi dell’esodo, Israele non ha corrisposto se non con l’ingratitudine (Am 2, 10; Mi 6, 3 ss; Ger 2, 1-8; Deut 32; Sal 106), invece di rimanere fedele alla vita ideale che conduceva nel deserto (Os 2, 16; Ger 2, 2 s).
    2. Il nuovo esodo.
    - Al popolo, nuovamente prigioniero ed esule in Babilonia a motivo delle sue infedeltà, la liberazione è annunciata come un rinnovamento dell’esodo. Nuovamente Dio *redimerà il suo popolo Is 63, 16). Tutti gli storpi ed i deboli riprendano forze per prepararsi alla partenza (Is 35, 3-6; 40, 1 s; 41, 10; 42, 7-16; Sof 3, 18 ss). Una *via sarà tracciata nel deserto (Is 35, 8 ss; 40, 3; 43, 19; 49, 11; 11, 16); Dio vi farà zampillare l’acqua come già a Meriba (Is 35, 6 s; 41, 18; 43, 20; 44, 3; 48, 21; cfr. Es 17, 1-7) e il deserto si cambierà in giardino (Is 35, 7; 41, 19). Come già il Mar Rosso, l’Eufrate si dividerà per lasciar passare la carovana del nuovo esodo (Is 11, 15 s; 43, 16 s; 51, 10), che Dio porterà sulle sue ali (Is 46, 3 s; 63, 9; cfr. Es 19, 4; Deut 32, 11) e di cui sarà la guida (Is 52, 12; cfr. Es 14, 19).
    NUOVO TESTAMENTO
    Facendo di *Giovanni Battista «la voce di colui che grida nel deserto: preparate la via del Signore» (Mt 3, 3 par.; Is 40, 3), la tradizione apostolica volle affermare che l’opera di *redenzione effettuata da Cristo era il compimento del mistero di *salvezza prefigurato dall’esodo. Nella stessa intenzione essa ha considerato Gesù come il nuovo *Mosè annunziato da Deut 18, 18 (Atti 3, 15. 22; 5, 3l; 7, 35 ss).
    1. S. Paolo.
    S. Paolo sfiora soltanto il tema: Gesù è il vero *agnello pasquale immolato per noi (1 Cor 5, 7), ed i prodigi dell’esodo (passaggio del *Mar Rosso, *manna, *roccia) furono le *figure delle realtà spirituali apportate da Cristo (1 Cor 10, 1-6).
    2. S. Pietro
    S. Pietro sviluppa il tema in una prospettiva più ecclesiale. Riscattati dal sangue dell’agnello immacolato (1 Piet 1, 18 s; cfr. Es 12, 5; Is 52, 3), i cristiani sono stati «chiamati» (1, 14 s; cfr. Os 11, 1) dalle tenebre alla *luce (2, 9; cfr. Sap 17 - 18). Sono stati liberati dalla vita dissoluta che conducevano un tempo nel paganesimo (1, 14. 18; 4, 3), in modo da costituire il nuovo *popolo di Dio (2, 9 s; cfr. Es 19, 6; Is 43, 20 s) governato dalla legge di *santità (1, 15 s; cfr. Lev 19, 2). Purificati mediante l’aspersione del *sangue di Cristo, essi sono ormai votati all’*obbedienza verso Dio (1, 2. 14. 22; cfr. Es 24, 6 ss), offrendogli un *culto spirituale (2, 5; cfr. Es 4, 23). Succinte le *reni (1, 13; cfr. Es 12, 11), sono pronti a camminare sulla *via che li deve portare verso la loro *patria del *cielo (1, 17).
    3. S. Giovanni. 
    S. Giovanni presenta una teologia più elaborata. Liberati dalla schiavitù del demonio mediante il sangue dell’agnello pasquale (Gv 1, 29; 8, 34 ss; 19, 36; 1 Gv 3, 8), i cristiani camminano verso il regno dei cieli. Sono nutriti da Cristo, *pane vivo disceso dal cielo (Gv 6, 30-58; cfr. Es 16), e dissetati dall’*acqua che scaturisce dal suo costato (7, 37 s; 19, 34; cfr. Es 17, 1-7). Feriti, sono guariti «guardando» Cristo innalzato sulla croce (3, 14; 19, 37; cfr. Num 21, 4-9). *Seguendo lui, *luce del mondo (8, 12; cfr. Es 13, 21 s), giungeranno un giorno presso il Padre (12, 26; 13, 8; 14, 3; 17, 24). Di fatto Gesù, alla sua risurrezione, ha effettuato per primo la sua *Pasqua, il suo «passaggio da questo mondo al Padre» (13, 1), di dove, «innalzato da terra», trae a sé tutti gli uomini (12, 32); e questi compiranno a loro volta il loro esodo definitivo quando «passeranno» dal mondo di quaggiù al mondo di lassù (5, 24).
    4. L'Apocalisse. 
    L’Apocalisse ha una prospettiva molto simile a quella della prima lettera di Pietro. I cristiani sono stati riscattati dalla «terra», dal *mondo malvagio soggetto a Satana (Apoc 14, 3), mediante il *sangue dell’*agnello, per formare il regno di sacerdoti annunziato da Dio in Es 19, 6 (Apoc 5, 9 s). È il rinnovamento dell’antica *alleanza (11, 19; cfr. Es 19, 16). Scritta in un tempo di persecuzione, l’Apocalisse suona come un canto di vittoria. Il ricordo del Mar Rosso (15, 3 ss; cfr. Es 14 - 15) evoca il disastro imminente dei nemici del popolo di Dio, annientati dalla *parola di Dio, come già i primogeniti di Egitto (19, 11-21; cfr. Sap 18, 14-18). Dio, venendo a porre dimora in mezzo al suo popolo (21, 1-3), gli dà la *víttoria perché si chiama «Egli è» e perché ogni creatura non è che nulla (11, 17; 16, 5; cfr. Es 3, 14). Durante la notte pasquale i cristiani evocano oggi quest’epopea dell’esodo con il canto dell’Esulti.
    M. É BOISMARD
    → agnello di Dio 2 - deserto - diluvio 2 - esilio II, III - liberazione-libertà II 1 - mare 2 - Mosè - nube 1 - nuovo II 1 - Pasqua I 2.4 - pellegrinaggio - redenzione VT 1 - salvezza VT I 1 - via I, III.

    ESORCISMO (inizio)

    → demoni NT - malattia-guarigione 0 - miracolo II 2 b - Satana II, III - unzione II 2.

    ESORTARE (inizio)

    L’esortazione (gr. paràklesis) compare una sola volta (Rom 12, 8) nei cataloghi di *carismi. E tuttavia essa era una delle funzioni essenziali degli apostoli, dei profeti e dei presbiteri. Ha radici nella vita religiosa del VT e del giudaismo e si prolunga nella Chiesa attuale. 
    VECCHIO TESTAMENTO 
    I testimoni di Dio non si sono mai accontentati di esporre freddamente il *disegno divino di *salvezza. I discorsi sacerdotali (come quelli di Deut 4 - 11), i discorsi profetici (come Is l, 16 ...), i discorsi sapienziali (come quelli di Prov 1 - 9) sono rivolti tanto al *cuore quanto all’intelligenza degli uditori; li invitano, li incoraggiano, li stimolano da parte di Dio ad *ascoltare, a *convertirsi ed a *cercare Dio. Dai tempi antichi all’epoca dei Maccabei, è sempre lo stesso movimento, lo stesso appello: non si *predica senza esortare ad una *fedeltà coraggiosa verso Jahvè e verso la sua *legge (Deut 5, 32; 6, 4 ss; 32, 45 ss), specialmente nelle *persecuzioni (2 Mac 7, 5) od al momento della *guerra santa (2 Mac 8, 16; 13, 12. 14). 
    NUOVO TESTAMENTO 
    Sulle soglie del NT Giovanni Battista continua questa tradizione: «con molte esortazioni annunciava al popolo la buona novella» (Lc 3, 18). Gesù, a sua volta, non si accontenta di proclamare il messaggio del *regno apparso nella sua persona, e di rivelarne i *misteri. Chiama gli uomini ad entrarvi, invitandoli in modo pressante a pentirsi, a *credere al vangelo, a *seguirlo ed a custodire la sua *parola. Così pure gli apostoli «scongiurano ed esortano» le folle ad accogliere il loro messaggio ed a farsi battezzare (Atti 2, 40). Nelle comunità cristiane il *profeta «edifica, esorta, incoraggia» (1 Cor 14, 3), come devono pure fare Timoteo e Tito (2 Tim 4, 2; Tito 1, 9). Ciò non fa che prolungare uno degli atti essenziali del ministero apostolico (Atti 11; 23; 14, 22; 15, 32; 16, 40; 1 Tess 3, 2), su cui Paolo si spiega chiaramente: «È come se Dio esortasse per mezzo nostro» (2 Cor 5, 20; cfr. 1 Tess 2, 13). Gli scritti del NT contengono così numerose esortazioni; tale è lo scopo essenziale della lettera agli Ebrei (13, 22) e della prima lettera di Pietro (5, 12). D’altronde i semplici cristiani devono esortarsi vicendevolmente (2 Cor 13, 11; Ebr 3, 13; 10, 25) in vista della *edificazione della Chiesa.
    R. DEVILLE
    → carismi - consolazione - educazione - insegnare – predicare.

    ESPERIENZA (inizio)

    → conoscere - gustare 2 - presenza di Dio VT II, III - sapienza - vecchiaia 2.

    ESPIAZIONE (inizio)

    Le traduzioni moderne della Bibbia si servono sovente del termine «espiazione», o talvolta «propiziazione» (ebr. kipper, gr. hilàskesthai) nel VT, sia a proposito dei *sacrifizi «per il peccato», in cui si dice che il sacerdote «compie il rito della espiazione» (ad es. Lev 4), sia ancor più specialmente a proposito della festa annuale del 10 tishri, generalmente chiamata «il giorno delle espiazioni» oppure «il grande giorno della espiazione», di cui Lev 16 descrive in modo particolareggiato il rituale. Nel NT il termine è raro (Rom 3, 25; Ebr 2, 17; 1 Gv 2, 2; 4, 10), ma l’idea si ritrova frequentemente, non soltanto in tutta la lettera agli Ebrei che assimila la funzione *redentrice di Cristo alla funzione del sommo sacerdote nel «giorno delle espiazioni», ma, con più o meno certezza, ogni volta che si dichiara chc Cristo «muore per i nostri peccati» (ad es. 1 Cor 15, 3) oppure «effonde il suo sangue per la remissione dei peccati» (ad es. Mt 26, 28).
    1. Espiazione e peccato.
    - In molte lingue moderne la nozione di espiazione tende a confondersi con quella di *castigo, anche se non medicinale. Invece, per tutti gli antichi, - e tale è il senso del verbo expiare nella Volgata come nella liturgia - chi dice «espiare» dice essenzialmente «purificare», più esattamente rendere un oggetto, un luogo, una persona «gradita agli dèi, mentre prima erano sgraditi». Ogni espiazione suppone quindi l’esistenza di un peccato ed ha per effetto la sua distruzione. Poiché questo *peccato non è concepito a modo di una macchia materiale che sarebbe in potere dell’uomo far sparire ma si identifica con la ribellione stessa dell’uomo contro Dio, la espiazione cancella il peccato riunendo nuovamente l’uomo a Dio, «consacrandolo» a lui secondo il senso della aspersione del *sangue. Poiché, d’altra parte, il peccato provoca l’*ira di Dio, ogni espiazione pone un termine a quest’ira, «rende Dio propizio»; ma la Bibbia attribuisce ordinariamente questa funzione alla preghiera, mentre il sacrificio di espiazione ha piuttosto lo scopo di «rendere l’uomo gradito a Dio».
    2. Espiazione ed intercessione.
    - Nei rari passi in cui si trovano associati i due termini di espiazione e di ira, si tratta di fatto di una *preghiera: così l’espiazione di Mosè (Es 32, 30; cfr. 32, 11 ss), o quella di Aronne (Num 17, 11 ss) secondo l’interpretazione di Sap 18, 21-25; così secondo il Targum quella di Pinkhas (Sal 106, 30) ed ancor più chiaramente quella del «servo di Jahvè» la cui funzione di intercessore è ricordata quattro volte (Targum Is 53, 4. 7. 11. 12). In virtù della stessa nozione di espiazione, S. Girolamo, seguendo in questo l’uso delle antiche versioni latine, nella formula stereotipata che conclude ognuno dei sacrifici per il pecato, ha potuto tradurre il verbo ebraico che significa «compiere il rito di espiazione» con un verbo che significa «pregare» o «intercedere» (Lev 4, 20. 26. 31; ecc.). Non ci si stupirà quindi che la lettera agli Ebrei, descrivendo Cristo che entra in cielo per compiervi la funzione essenziale del suo *sacerdozio definita come una «intercessione» (Ebr 7, 25; 9, 24), lo possa assimilare al sommo sacerdote che penetra oltre il velo per compiervi il rito sacrificale per eccellenza, l’aspersione del sangue sul propiziatorio. Così la morte stessa di Cristo viene presentata come una suprema «intercessione» (Ebr 5, 7). Una simile interpretazione sottolineava in ogni caso che un’espiazione autentica non potrebbe aver valore indipendentemente dalle disposizioni interne di chi la offre; essa è in primo luogo un atto spirituale, che l’atto esterno esprime, ma non può supplire. Esclude parimenti ogni pretesa dell’uomo di forzare Dio a divenirgli favorevole. Descrivendo l’intercessione di Aronne, la Sapienza ha cura di precisare che la sua preghiera consistette nel «ricordare a Dio le sue promesse ed i suoi giuramenti» (Sap 18, 22), cosicché una simile preghiera si riduce ad un atto di fede nella *fedeltà di Dio. Così concepita, l’espiazione non mira, salvo che agli occhi dell’uomo a mutare le disposizioni di Dio ma a disporre l’uomo ad accogliere il dono di Dio.
    3. Espiazione e perdono.
    - Nella coscienza religiosa dei Giudei il «giorno delle espiazioni» era quindi ancor più il «giorno dei perdoni». E quando a due riprese S. Giovanni, evocando sia l’intercessione celeste di Cristo presso il Padre (l Gv 2, 2), sia l’opera compiuta in terra con la sua morte e la sua risurrezione (1 Gv 4, 10), dichiara che egli è, oppure che il Padre lo ha fatto, «hilasmòs per i nostri peccati», il termine presenta indubbiamente lo stesso senso che ha sempre nel VT greco (ad es. Sal 130, 4) e che la parola latina propitiatio presenta pure sempre nella liturgia: per mezzo di Cristo ed in Cristo il Padre realizza il disegno del suo amore eterno (1 Gv 4, 8) «mostrandosi propizio» cioè «perdonando» agli uomini, con un *perdono efficace, che distrugge veramente il peccato, che «purifica» l’uomo, e gli comunica la sua propria vita (1 Gv 4, 9).
    S. LYONNET
    → agnello di Dio 1 - calice 3 - castighi 3 - digiuno 2 - feste VT II 3; NT 1 - imposizione delle mani VT - martire 1 - peccato III 3 – penitenza-conversione VT I 2, III 1 - perdono II 2 - puro VT I 2 - redenzione - sacerdozio VT II 1 - sacrificio - sangue - servo di Dio - sofferenza VT III.

    ESSERE (inizio)

    → creazione - Dio VT II 2, III 1 - Jabve 2 - nome VT 2 - presenza di Dio - vita.

    ESTREMA UNZIONE (inizio)

    → malattia-guarigione NT II 1 - olio 2 - unzione II 1.

    ETERNITÀ (inizio)

    → cielo VI - disegno di Dio VT III - monte I 1 - rimanere I 2 - speranza NT IV - tempo intr. 2 b - vecchiaia 2.

    ETERNO (inizio)

    → Dio VT V; NT II 2.

    EUCARISTIA (inizio)

    I. SENSO DELLA PAROLA
    1. Ringraziamento e benedizione.
    - Per sé «eucaristia» significa: riconoscenza, gratitudine, donde ringraziamento. Questo senso, il più ordinario nel greco profano, si incontra parimenti nella Bibbia greca, specialmente nelle relazioni umane (Sap 18, 2; 2 Mac 2, 27; 12, 31; Atti 24, 3; Rom 16, 4). Nei confronti di Dio il *ringraziamento (2 Mac 1, 11; 1 Tess 3, 9; 1 Cor 1, 14; Col 1, 12) assume ordinariamente la forma di una preghiera (Sap 16, 28; 1 Tess 5, 17 s; 2 Cor 1, 11; Col 3, 17; ecc.), come all’inizio delle lettere paoline (ad es. 1 Tess 1, 2). Si collega allora naturalmente alla *benedizione che celebra le «meraviglie» di Dio, perché queste meraviglie si esprimono per l’uomo in benefizi che danno alla *lode il colorito della riconoscenza; in queste condizioni il ringraziamento è accompagnato da una «anamnesi», mediante la quale la *memoria evoca il passato (Giudet 8, 25 s; Apoc 11, 17 s), e 1’eucharistèin equivale ad euloghèin (1 Cor 14, 16 ss). Questa eulogia-eucaristia si incontra particolarmente nei pasti giudaici, le cui benedizioni lodano e ringraziano Dio per gli alimenti che ha dato agli uomini. Paolo parla in questo senso di mangiare con «eucaristia» (Rom 14, 6; 1 Cor 10, 30; 1 Tim 4, 3 s).
    2. L’uso di Gesù e l’uso cristiano.
    - Nella prima moltiplicazione dei pani Gesù pronuncia una «benedizione» secondo i sinottici (Mi 14, 19 par.), un «ringraziamento» secondo Gv 6, 11. 23; nella seconda moltiplicazione Mt 15, 36 menziona un «ringraziamento», mentre Mc 8, 6 s parla di «ringraziamento» sul pane e di «benedizione» sui pesci. Questa equivalenza pratica dissuade dal distinguere nell’ultima cena la «benedizione» sul pane (Mt 26, 26 par.; cfr. Lc 24, 30) ed il «ringraziamento» sul *calice (Mt 26, 27 par.). Viceversa Paolo parla di «ringraziamento» sul pane (1 Cor 11, 24) e di «benedizione» sul calice (1 Cor 10, 16). Di fatto nell’uso cristiano è prevalso il termine «eucaristia» per designare l’azione istituita da Gesù alla vigilia della sua morte. Ma si terrà presente che questo termine esprime tanto una *lode delle meraviglie di Dio, quanto e più che un ringraziamento per il bene che ne traggono gli uomini. Mediante quest’atto decisivo, in cui ha affidato ad alimenti il valore eterno della sua morte redentrice, Gesù ha consumato e fissato per i secoli questo omaggio di se stesso e di tutte le cose a Dio, che è l’elemento proprio della «religione» e che è l’elemento essenziale della sua opera di salvezza: nella sua persona offerta sulla croce, e nella eucaristia, tutta l’umanità, e l’universo che ne è la cornice, fanno ritorno al Padre. Questa ricchezza dell’eucaristia, che la pone al centro del *culto cristiano, noi la troviamo in testi densi, che bisogna analizzare a fondo.
    II. ISTITUZIONE E CELEBRAZIONE PRIMITIVA
    1. I racconti.
    - Quattro testi del NT riferiscono l’istituzione eucaristica: Mt 26, 26-29; Mc 14, 22- 25; Lc 22, 15-20; 1 Cor 11, 23 ss. Ciò che Paolo «trasmette» in tal modo, dopo averlo «ricevuto», sembra molto una tradizione liturgica; altrettanto si deve dire dei testi sinottici, la cui concisione lapidaria fa spicco sul contesto: riflessi preziosi del modo in cui le prime Chiese celebravano le loro divergenze si spiegano con questa origine. La redazione molto aramaicizzante di Marco può riprodurre la tradizione palestinese, mentre quella di Paolo, un po’ più grecizzata, rifletterebbe quella delle Chiese di Antiochia o dell’Asia Minore. Matteo rappresenta indubbiamente la stessa tradizione di Marco, con talune varianti o addizioni che possono avere ancora origine liturgica. Quanto a Luca, egli pone problemi delicati e risolti in modo diverso: i suoi v. 15-18 possono rappresentare una tradizione arcaica, molto diversa dalle altre, oppure, più probabilmente, una amplificazione che Luca stesso ha tratto da Mc 14, 25; quanto ai v. 19-20, che bisogna tenere come autentici contro i testimoni che omettono 19 b-20, vi si vede ora una combinazione di Mc e di 1 Cor, fatta da Luca stesso, ora un’altra forma della tradizione delle Chiese ellenistiche, che costituirebbe quindi un terzo testimone liturgico, oltre a Marco/Matteo e 1 Cor. D’altronde le varianti tra questi diversi testi hanno minore importanza, a parte il comando della reiterazione, omesso da Mc/Mt, ma che l’attestazione di 1 Cor/Lc e la verosimiglianza interna inducono a ritenere come primitivo.
    2. La cornice storica.
    - Un altro problema, da cui dipende l’interpretazione di questi testi, è la loro cornice storica. Per i sinottici fu certamente una cena pasquale (Mc 14, 12-16 par.); ma secondo Gv 18, 28; 19, 14. 31, la Pasqua non fu celebrata che il giorno dopo, alla sera del venerdì. Tutto è stato tentato per spiegare questo disaccordo, sia dando torto a Giovanni, che avrebbe ritardato di un giorno per ottenere il simbolismo di Gesù che muore nel momento della immolazione dell’agnello pasquale (Gv 19, 14. 36), sia pretendendo che in quell’anno la Pasqua sia stata celebrata il giovedì ed il venerdì da gruppi diversi di Giudei, sia infine supponendo che Gesù abbia celebrato la Pasqua il martedì sera secondo il calendario degli Esseni. La cosa migliore è indubbiamente ammettere che Gesù, sapendo che sarebbe morto al momento stesso della Pasqua, abbia anticipato di un giorno, evocando nella sua ultima cena il rito pasquale in modo sufficiente per potervi innestare il suo rito nuovo, che sarà il rito pasquale del NT: questa soluzione rispetta la cronologia di Gv e spiega in modo sufficiente la presentazione dei sinottici.
    3. Pasto religioso e pasto del Signore.
    - Di fatto una prospettiva pasquale sembra soggiacente ai testi della istituzione, molto più che non la prospettiva di qualche solenne pasto giudaico, nonché di un pasto essenico, con cui si è voluto spiegarli. La successione immediata pane/vino, sia nell’ultima cena che nei pasti di Qumrân, è un contatto superficiale è senza valore, perché può risultare nei testi evangelici da un compendio liturgico, in cui non saranno stati conservati che i due elementi importanti dell’ultima cena di Gesù, il pane all’inizio ed il terzo calice alla fine, mentre tutto l’intervallo veniva soppresso; si ha d’altronde un indizio rivelatore di questo intervallo nelle parole «dopo la cena» che, in 1 Cor 11, 25, precedono il calice. Inoltre, ai pasti essenici di Qumrân manca la teologia pasquale che le parole di Gesù evocano e che è gratuito considerare come un elemento posteriore, dovuto all’influsso di Paolo o delle Chiese ellenistiche. Il cerimoniale ben regolato del pasto essenico, analogo a quello di vari pasti di confraternite giudaiche di quest’epoca, può al massimo evocare quel che furono i pasti ordinari di Gesù e dei suoi discepoli, e quel che furono in seguito i pasti di questi dopo la risurrezione, quando si riunirono nuovamente, come un tempo attorno al maestro, certi d’altronde di averlo sempre in mezzo a loro a titolo di Kyrios risorto per sempre vivente. Di fatto non bisognerebbe ritrovare sempre l’eucarestia in questi pasti quotidiani, che i primi fratelli di Gerusalemme prendevano con esultanza spezzando il pane nelle loro case (Atti 2, 42. 46). Questa «frazione del pane» può anche essere soltanto un pasto ordinario, indubbiamente religioso come ogni pasto semitico, accentrato qui sul ricordo e sull’attesa del maestro risorto, ed al quale s’aggiungeva l’eucaristia propriamente detta, quando si rinnovavano le parole e gli atti del Signore per comunicare con la sua presenza misteriosa mediante il pane ed il vino, trasformando così un pasto ordinario in «cena del Signore» (1 Cor 11, 20-34). Liberata dal rito giudaico, questa eucaristia divenne certamente più che annuale, forse settimanale (Atti 20, 7. 11); ma noi non lo sappiamo bene, come non possiamo decidere in più testi se si tratta di una «frazione del pane» ordinaria, oppure dell’eucaristia propriamente detta (Atti 27, 35; e già Lc 24, 30.35).
    III. L’EUCARISTIA, SACRAMENTO DI UN NUTRIMENTO
    1. Il pasto, segno religioso.
    - Istituita nel corso di un pasto, l’eucaristia è un rito di nutrimento. Da tutta l’antichità, specialmente nel mondo semitico, l’uomo ha riconosciuto nel nutrimento un valore sacro, che è dovuto alla munificenza della divinità e procura la vita. Pane, acqua, vino, frutta, ecc., sono beni per cui si benedice Dio. Il pasto stesso ha valore religioso, perché il mangiare in comune stabilisce tra i commensali, e tra essi e Dio, legami sacri.
     2. Dalle figure alla realtà.
    - Nella rivelazione biblica *nutrimento e *pasto servono quindi ad esprimere la comunicazione di vita che Dio fa al suo popolo. La *manna e le quaglie dell’*esodo, al pari dell’*acqua sgorgata dalla roccia di Horeb (Sal 78, 20-29), sono altrettante realtà simboliche (1 Cor 10, 3 s), che prefigurano il *dono vero che esce dalla bocca di Dio (Deut 8, 3; Mt 4, 4), la *parola, vero *pane disceso dal cielo (Es 16, 4). Ora queste figure si compiono in Gesù. Egli è «il pane di vita», anzitutto con la sua parola che apre la vita eterna a coloro che credono (Gv 6, 26-51 a), poi con la sua *carne e con il suo *sangue dati da mangiare e da bere (Gv 6, 51 b-58). Queste parole che annunziano l’eucaristia, Gesù le dice dopo aver nutrito miracolosamente la folla nel deserto (Gv 6, 1-15). Il dono, che egli promette e che oppone alla manna (Gv 6, 31 s. 49 s), si ricollega così alle meraviglie dell’esodo e nello stesso tempo è posto nell’orizzonte del banchetto messianico, immagine della felicità celeste, familiare al giudaismo (Is 25, 6; scritti rabbinici) ed al NT (Mt 8, 11; 22, 2-14; Lc 14, 15; Apoc 3, 20; 19, 9).
    3. Il pasto del Signore, memoriale e promessa.
    - L’ultima cena è come l’ultima preparazione di quel banchetto messianico dove Gesù ritroverà i suoi dopo la prova imminente. La «Pasqua compiuta» (Lc 22, 15 s) ed il «vino nuovo» (Mc 14, 25 par.), che egli gusterà con essi nel regno di Dio, li prepara in quest’ultimo pasto, facendo sì che pane e vino significhino la realtà nuova del suo corpo e del suo sangue. Il rito della cena pasquale gliene offre l’occasione appropriata e ricercata. Le parole che il padre di famiglia vi pronunziava sui diversi alimenti, ed in modo particolarissimo sul pane e sul terzo calice, conferivano loro una tale forza di evocazione del passato e di speranza del futuro, che, ricevendoli, i commensali rivivevano realmente le prove dell’esodo e vivevano in anticipo le promesse messianiche. Gesù si serve a sua volta di questo potere creativo che lo spirito semitico riconosceva alla parola, e lo accresce ancora con la sua sovrana autorità. Dando al pane e al vino il loro senso nuovo, egli non li spiega, ma li trasforma. Non interpreta, ma decide e decreta: questo è il mio corpo, cioè lo sarà d’ora innanzi. La copula «essere» - che indubbiamente mancava nell’originale aramaico - da sola non basterebbe a giustificare questo realismo, perché potrebbe anche esprimere soltanto un significato metaforico: «la messe è la fine del mondo; i mietitori sono gli angeli» (Mt 13, 39). È la situazione ad esigere qui un senso stretto. Gesù non propone una *parabola, in cui oggetti concreti aiuterebbero a far comprendere una realtà astratta; presiede un pasto, in cui le benedizioni rituali conferiscono agli alimenti un valore di altro ordine. E, nel caso di Gesù, questo valore è di un’ampiezza e di un realismo inauditi, che gli vengono dalla realtà implicata: la morte redentrice che, attraverso ad una risurrezione, sfocia nella vita escatologica.
    lV. L’EUCARISTIA, SACRAMENTO DI UN SACRIFICIO
    1. L’annunzio della morte redentrice.
    - Morte redentrice, perché il corpo sarà «dato per voi» (Lc; 1 Cor ha soltanto «per voi», con varianti poco attestate); il sangue sarà «sparso per voi» (Lc) o «per una moltitudine» (Mc/Mt). Il fatto stesso che pane e vino sono separati sulla mensa evoca la separazione violenta del corpo e del sangue; Gesù annuncia chiaramente la sua morte imminente e la presenta come un *sacrificio, paragonabile a quello delle vittime il cui sangue sigillò sul Sinai la prima *alleanza (Es 24, 5-8), nonché dell’*agnello pasquale nella misura in cui il giudaismo del tempo lo considerava pure come un sacrificio (cfr. 1 Cor 5, 7). Ma parlando di sangue «sparso per molti» in vista di una «nuova alleanza», Gesù deve pure pensare al *servo di Jahvè, la cui vita è stata «versata», che ha portato i peccati di «molti» (Is 53, 12), e che Dio ha designato come «alleanza del popolo e luce delle nazioni» (Is 42, 6; cfr. 49, 8). Già prima, egli si era attribuita la funzione del servo (Lc 4, 17-21) ed aveva rivendicato la missione di dare, al pari di quello, la propria vita «in riscatto per molti» (Mc 10, 45 par.; cfr. Is 53). Qui egli lascia capire che la sua morte imminente sostituirà i sacrifici dell’antica alleanza e libererà gli uomini, non più da una cattività (cfr. *prigionia) temporale, ma da quella del *peccato, così come Dio aveva richiesto dal servo. Egli instaurerà la «nuova alleanza» annunziata da Geremia (31, 31-34).
    2. La comunione col sacrificio.
    - Ora ciò che ha maggior carattere di novità è il fatto che egli rinchiude la ricchezza di questo sacrificio in alimenti. Era usanza in Israele, come in tutti i popoli antichi, di percepire i frutti di un sacrificio consumando la vittima; significava unirsi all’offerta ed a Dio che l’accettava (1 Cor 10, 18-21). Mangiando il corpo immolato di Gesù e bevendone il sangue, i suoi fedeli avranno parte al suo sacrificio, facendo propria la sua offerta di amore e beneficiando del ritorno in grazia che essa produce. Affinché possano farlo dovunque e sempre, Gesù sceglie alimenti comunissimi, per fare di essi la sua carne ed il suo sangue in stato di vittima, ed ordina ai suoi discepoli di ripetere dopo di lui le parole che, per la sua autorità, opereranno questo cambiamento. Dà loro in tal modo una partecipazione delegata al suo *sacerdozio. Ormai, ogniqualvolta ripetono quell’atto, oppure vi si associano, i cristiani «annunciano la morte del Signore, fino a che egli venga» (1 Cor 11, 26), perché la presenza sacramentale, che essi realizzano, è quella di Cristo nel suo stato di sacrificio. Essi lo fanno «in sua *memoria» (l Cor 11, 25; Lc 22, 19), cioè rammentano per mezzo della fede il suo atto redentore, o, forse meglio, lo ricordano a Dio (cfr. Lev 24, 7; Num. 10, 9 s; Eccli 50, 16; Atti 10, 4. 31) come una offerta incessantemente rinnovata che chiama la sua grazia. «Anamnesi» che implica il ricordo ammirativo e grato delle meraviglie di Dio, la maggiore delle quali è il sacrificio del Figlio suo, offerto per ridare la salvezza agli uomini. Meraviglia di amore, alla quale questi partecipano unendosi mediante la *comunione al corpo del Signore, ed in lui a tutte le sue membra (1 Cor 10, 14-22). Sacramento del sacrificio di Cristo, l’eucaristia è il sacramento della carità, dell’unione nel *corpo di Cristo.
    V. L’EUCARISTIA, SACRAMENTO ESCATOLOGICO
    1. Permanenza del sacrificio di Cristo nel mondo nuovo.
    - Ciò che conferisce tutto il suo realismo al simbolismo di questi atti e di queste parole è la realtà del mondo nuovo in cui introducono. La morte di Cristo sfocia nella vera *vita, che non finisce (Rom 6, 9 s); è l’era escatologica, dei «beni futuri», nei confronti della quale l’era presente non è che un’«*ombra» (Ebr 10, 1; cfr. 8, 5; Col 2, 17). Il suo sacrificio è avvenuto «una volta per sempre» (Ebr 7, 27; 9, 12 - 26 ss; 10, 10; 1 Piet 3, 18); il suo sangue ha sostituito definitivamente il sangue inefficace delle vittime dell’antica alleanza (Ebr 9, 12 ss. 18-26; 10, 1-10); la nuova alleanza, di cui egli è il *mediatore (Ebr 12, 24; cfr. 13, 20) ha soppresso l’antica (Ebr 8, 13) e procura la *eredità eterna (Ebr 9, 15); ormai il nostro sommo sacerdote siede alla destra di Dio (Ebr 8, 1; 10, 12), «avendoci acquistato una *redenzione eterna» (Ebr 9, 12; cfr. 5, 9), «sempre vivo per intercedere in nostro favore» (Ebr 7, 25; cfr. 9, 24) mediante il suo «sacerdozio immutabile» (Ebr 7, 24). Passato, quanto alla sua realizzazione contingente nel tempo del nostro mondo caduco, il suo sacrificio è sempre presente nel mondo nuovo in cui egli è entrato, mediante l’offerta di se stesso che non cessa di fare al Padre suo.
    2. Mediante l’eucaristia il cristiano partecipa realmente a questo mondo nuovo.
    - Ora l’eucaristia mette il credente in contatto con questo sommo sacerdote sempre vivo nel suo stato di vittima. Il passaggio che vi si opera dal pane al corpo e dal vino al sangue, riproduce nel suo modo sacramentale il passaggio dal mondo antico al *mondo nuovo, che Cristo ha valicato andando con la morte verso la vita. Il rito pasquale, come l’esodo che commemorava, era già esso stesso un rito di passaggio: dalla schiavitù di Egitto alla libertà della terra promessa, e poi, sempre più, dalla schiavitù della sofferenza, del peccato, della morte, alla libertà della felicità, della giustizia, della vita. Ma i beni messianici vi rimanevano oggetto di *speranza, e gli alimenti che si benedicevano non potevano farli *gustare che in modo simbolico. Nella Pasqua di Cristo questo è mutato, perché l’era messianica è effettivamente giunta mediante la sua risurrezione, ed in lui i beni promessi sono acquisiti. Le parole e gli atti, che un tempo potevano soltanto simboleggiare i beni futuri, ormai possono realizzare i beni attuali. Il corpo ed il sangue eucaristici non sono quindi soltanto il *memoriale simbolico di un fatto compiuto; sono tutta la realtà del mondo escatologico in cui vive Cristo. Come tutto l’ordine sacramentale di cui essa è il centro, l’eucaristia procura al credente, ancora immerso nel mondo antico, il contatto fisico con Cristo in tutta la realtà del suo essere nuovo, risorto, «spirituale» (cfr. Gv 6, 63). Gli alimenti che essa assume cambiano esistenza e diventano il vero «pane degli angeli» (Sal 78, 25; cfr. Sap 16, 20), il nutrimento della nuova era. In virtù della loro presenza sull’altare, Cristo morto e risorto è realmente presente nella sua disposizione eterna di sacrificio. Perciò la messa e un sacrificio, identico al sacrificio storico della croce in virtù di tutta l’offerta amorosa di Cristo che lo costituisce, distinto soltanto dalle circostanze accidentali di tempo e di luogo in cui si riproduce. Con essa la *Chiesa unisce in ogni luogo, e fino alla fine del mondo, le lodi e le offerte degli uomini al sacrificio perfetto di lode e di offerta, in una parola, di «eucaristia», che solo ha valore dinanzi a Dio e che solo conferisce loro valore (cfr. Ebr 3, 10. 15).
    P. BENOIT
    → alleanza NT I - benedizione IV 2 - carne 1 3 b - comunione 0; NT - corpo di Cristo II, III 2 - culto NT II, III 1.2 - feste NT II - figura NT I - giorno del Signore NT III 3 - manna 3 - nutrimento III - pane - Pasqua II, III - pasto III - ringraziamento NT - sacerdozio NT III 1 - sacrificio - sangue NT - vino II 2 b.

    EUNUCO (inizio)

    → sessualità I 2 - sterilità - verginità.

    EVA (inizio)

    → Adamo I 2 0, II 2 –Chiesa IV 1 –donna VT 1 –fecondità I 1 –madre –Maria V.

    EVENTO (inizio)

    → miracolo –segno VT II 4 –tempo VT II.

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