ABBANDONO - AMORE - DIZIONARIO DI MISTICA

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ABBANDONO - AMORE

A

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A

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ABBANDONO. (inizio)

I. Il termine a. può avere due significati, l'uno passivo, l'altro attivo. L'anima può essere realmente, o apparentemente, abbandonata da Dio o può abbandonarsi a Dio.1

Rimanendo nell'ambito proprio della mistica, ci soffermeremo sul significato più propriamente passivo dell'a.

II. Nell'esperienza mistica. Il verbo latino derelinquere, da cui la parola italiana " derelizione ", indica, nell'esperienza mistica propria di un'anima già avanzata nel cammino di perfezione, l'a. totale dell'uomo da parte di Dio. Questi, almeno in apparenza, abbandona l'uomo, che pur ha chiamato a percorrere il cammino spirituale della fede, lasciando in lui un senso di solitudine, di aridità, di desolazione. L'uomo, in realtà, non è abbandonato da Dio. Quest'ultimo lo mette alla prova abbandonandolo all'esperienza dolorosa di chi sente che il Padre lo ha consegnato alla morte. Dio si tira indietro rispetto alle sue promesse, respinge l'amore che ha suscitato. E questa la forma più dura della purificazione interiore, che passa per alcuni gradi: l'uomo dapprima sente che Dio si è allontanato, resta silenzioso e assente, quasi dimentico del suo amore, poi avverte il deserto, senza luce, senza consolazione di vita e percepisce che questo deserto è il castigo della sua colpa, che Dio, somma giustizia, vendica l'enormità del suo peccato e che questo castigo è per sempre.

Ma Dio non costringe mai all'esperienza della morte se non per costruire la vita. L'esperienza dell'a. si risolve nell'ultima purificazione del cammino di perfezione nell'intima comunione con Cristo salvatore, facendo zampillare nell'anima l'atto di a. perfetto, che la introduce nella piena partecipazione alla redenzione di Cristo.

Tale esperienza mistica, come tutte quelle della vita cristiana, trova il suo fondamento nel Vangelo, negli insegnamenti e nelle azioni del Signore. Gesù Cristo è il modello di ogni a., dalla greppia di Betlemme e dalla fuga in Egitto alla sua vita nascosta a Nazaret, dalle tentazioni nel deserto e dal mistero del suo battesimo nel Giordano alla sua gloriosa trasfigurazione, dall'orazione sanguinosa nel Getsemani al glorioso mistero della sua morte in croce sul Golgota.

Tale è la grandezza di questo a. che tutta l'esperienza antica trova in esso il suo significato pieno, così che i misteri dell'antica alleanza sono figura di quello del Salvatore: " Egli è colui che prese su di sé le sofferenze di tutti. Egli è colui che fu ucciso in Abele, e in Isacco fu legato ai piedi. Andò pellegrinando in Giacobbe e in Giuseppe fu venduto. Fu esposto sulle acque in Mosè, e nell'agnello fu sgozzato. Fu perseguitato in Davide e nei profeti fu disonorato. Egli è colui che si incarnò nel seno della Vergine, fu appeso alla croce, fu sepolto nella terra e, risorgendo dai morti, salì alle altezze dei cieli. Egli è l'agnello che non apre bocca, egli è l'agnello ucciso, egli è nato da Maria, agnello senza macchia. Egli fu preso dal gregge, condotto all'uccisione, immolato verso sera, sepolto nella notte. Sulla croce non gli fu spezzato alcun osso e sotto terra non fu soggetto alla decomposizione. Egli risuscitò dai morti e fece risorgere l'umanità dal profondo del sepolcro ".2

Caratterizzato dal Cristo della passione, ogni a. è, dunque, sperimentato nella vita interiore del credente come dono del Padre.

I grandi mistici hanno descritto, sotto diverse forme, l'esperienza della desolazione interiore: s. Teresa d'Avila parla della lotta ascetica, propria del cammino di perfezione che passa per varie tappe e gradi di orazione, come di uno sforzo per condurre l'uomo accanto a Dio, e della vita mistica nella quale la vita cristiana raggiunge la sua pienezza, come quella che " mette in luce la vera dimensione cristiana della vita nascosta nella nuova creatura, sviluppa e fa emergere i rapporti che legano la vita del singolo cristiano a quella della Chiesa, accorcia le distanze tra la vita presente, in fede e grazia, e la vita celeste ".3 Allo stesso modo, s. Giovanni della Croce insegna che " perché un'anima giunga allo stato di perfezione, ordinariamente deve passare prima per due forme principali di notti che gli spirituali chiamano purificazioni dell'anima; noi le chiamiamo notti, perché l'anima, sia nell'una che nell'altra, cammina come di notte, al buio ".4 " Questa notte oscura è un influsso di Dio nell'anima, che la purifica nella sua imperfezione ed ignoranza abituale, naturale e spirituale... dove Dio istruisce in segreto l'anima nella perfezione dell'amore, senza che essa faccia nulla né intenda cosa sia questa contemplazione! ".5 S. Francesco di Sales insiste, invece, sull'imitazione di Gesù Cristo come ricerca della perfezione: il massimo dell'amore è rimettersi interamente a lui, come il Cristo in croce fra le braccia del Padre nella " totale rimessa a Dio ", nel perfetto a. nelle sue mani realizzato tramite l'esperienza della " desolazione ".6

Alla base di tutto, c'è la fede nell'infinita amorosa sapienza di Dio, che dona la vita alle sue creature. L'uomo non può fare di meglio che aderire completamente alla " buona " volontà del Padre, che tutto dispone per il nostro bene. " La perfezione consiste nell'unire talmente la nostra volontà a quella di Dio in modo tale che la sua e la nostra non siano più che uno stesso volere e non volere; e chi eccellerà di più in questo punto, sarà il più perfetto ".7

I precetti evangelici di Mt 6,25-34; Lc 11, 9-13; 12,22-31; 22,42 e Mt 26,39, culminanti, con l'evocazione del Sal 31,6, nella preghiera di Lc 23,46, sfociano nell'insegnamento apostolico di 1 Pt 5,6-11 e Rm 8,28-30. Dalla memoria fiduciosa dell'amore del Padre, che mai si dimenticherà dei suoi figli, nascono anche e, per certi versi, soprattutto, nell'esperienza lacerante dell'a., la certezza della fede, la determinazione dell'obbedienza, l'invocazione della speranza e, infine, la luce della carità. Così per Adamo, così per Abramo, Isacco e Giacobbe, così per Mosè, per Davide, per Giovanni Battista, così per Maria, Vergine e Madre, così per ogni creatura rinata nel battesimo, tralcio della vera vite, incorporata a Cristo Signore nell'impegno di una vita nuova (cf Rm 6,2-5; Gal 3,26-28; Ef 4,20-25), secondo il beneplacito dell'Altissimo, in eterno.

Note: 1 Lasciamo da parte una trattazione fra le più ampie, articolate e approfondite dell'a. dell'anima a Dio inteso in senso attivo come atto o stato di chi sostituisce la volontà divina alla volontà umana nella determinazione della propria vita e nelle scelte concrete della propria esistenza, che può trovarsi nella voce Abandon del DSAM; 2 Melitone di Sardi, Omelia sulla Pasqua 65-67: SC 123, 95-101; 3 T. Alvarez, Teresa di Gesù, in DES II, 1870; 4 Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo, I, 1,1; 5 Id., Notte oscura, II, 5,1; 6 Cf Francesco di Sales, Trattato sull'amore di Dio, IX; Id., Trattenimenti, II, XII, XV; 7 Cf Vincenzo de' Paoli, Entretiens, XI, 318.

Bibl. Z. Alszeghy - M. Flick, Sussidio bibliografico per una teologia della croce, Roma 1975; S. Breton, Le Verbe et la Croix, Paris 1981; J.P. de Caussade, L'abbandono alla divina provvidenza, Cinisello Balsamo (MI) 19906; L. Chardon, La croix de Jesus, Paris 1937; A. Dagnino, La vita interiore, Roma 1960; F. Di Bernardo, Passion (Mystique de la), in DSAM XII, 312-338; C. Gennaro, s.v., in DES I, 4-7; G. Jacquemet, Abandon a Dieu, in Cath I, 3-7; A.M. Lanz, s.v., in EC I, 21-24; H. Martin, Dereliction, in DSAM III, 504-517; P. Pourrat, s.v., in DSAM I, 2-49; F. Varillon, La souffrance de Dieu, Paris 1975.

D. Micheletti

ABITUDINE. (inizio)

I. Il termine. A. è una parola derivata dal greco exis e dal latino habitus.1 Indica un'inclinazione costante a fare o ad operare in un modo determinato. Aristotele ( 322 a.C.) la intende come " disposizione ", " tendenza ", " inclinazione " o " atteggiamento ". In forma più precisa, indica un " processo costante nello stesso agire, un'organizzazione di comportamento " (G.G. Pesenti). Di conseguenza, un'azione " abituale " richiede minore attenzione e volontà di altre serie di azioni; comporta maggiore sicurezza e prontezza nell'esecuzione dell'azione.

Gli scolastici intendevano la nozione di a. come qualità. Tommaso d'Aquino, il primo teologo che rifletté su di essa, la definì " una qualità, per se stessa stabile e difficile da rimuovere, che ha il fine di assistere l'operazione di una facoltà e facilitare tale operazione ".2 La scolastica distingue tra " abiti naturali " - acquisiti dalla persona e frutto della libertà - e " abiti soprannaturali " o infusi provenienti della grazia divina, veri e stabili. I secondi non annullano i primi, ma si completano a vicenda. A loro volta, gli abiti naturali possono essere " intellettuali ", se facilitano allo spirito le operazioni concettuali essenziali, o " morali ", se sostengono i principi fondamentali del comportamento.

Così, dunque, l'origine di abito trova il suo fondamento nel desiderio di raggiungere un fine che soddisfa, nell'interesse della persona, ciascuna delle sue dimensioni. Un comportamento " abituale " può vedersi motivato da un'esigenza, una tendenza, un proposito, un piacere, un'esperienza, un sentimento..., che viene riconosciuto dalla persona come un valore di interesse duraturo e di possibile acquisizione; richiede uno sforzo per cominciare, continuare e raggiungere ciò che si desidera, insomma coscienza e maturità. I segni che indicano la presenza dell'a. sono: la facilità nella realizzazione dell'atto, la periodicità costante dell'atto, il piacere che deriva dall'azione realizzata, la resistenza a stimoli contrari ed il rifiuto di quelle attività che non sono implicite nell'a.

II. Nell'educazione degli individui, l'a. assume, pertanto, una grande importanza. Si tratta di un'inclinazione che coinvolge più la persona che i suoi costumi, anche quando le due azioni richiedono ripetizione e libertà. Si può parlare di " abitudini " positive e di " abitudini " negative; attraverso l'a. positiva si possono dominare le tendenze e le passioni, annullare le spinte negative, sviluppare positivamente le immense risorse della psiche umana, per un tempo e una forma duratura; al contrario, l'a. può peggiorare i difetti congeniti in forme quasi incorregibili. In ambedue le alternative, la persona impegnata nell'acquisire un'a. è chiamata a collaborare per fissare i valori e a superare le mete raggiunte.

Parimenti, si può parlare di a. e " disposizioni " allo stesso tempo. La prima dura più della seconda. L'a. è un possesso permanente, mentre la disposizione è transitoria. Si può parlare di a. come automatismo nella condotta? Gli studiosi del comportamento umano dicono di no. Il motivo che adducono è il seguente: l'" automatismo " si differenzia dall'a. perché nell'ultimo è presente la coscienza individuale, nel primo no. Per questo motivo, la responsabilità dell'a. è proporzionale alla maggiore o minore coscienza avuta durante la propria formazione nella scoperta della sua presenza e finalità etica nonché nelle implicanze che comporta nella vita.

III. Quando si parla della finalità dell'a., se ne può scoprire la presenza anche nella spiritualità cristiana. La si può considerare una " legge di grazia ". L'a. infusa, in quanto esperienza di Dio che si trasforma in struttura solida per la crescita e lo sviluppo della vita cristiana, garantendo la maturazione nell'itinerario della fede, è un mezzo per superare la " mediocrità ", intesa come l'atteggiamento vitale di chi ha rinunciato a vivere fino in fondo e lo fa instintivamente. Il mediocre rinuncia all'esigenza del più, senza assumere rischi compromettenti. Sul piano spirituale, la mediocrità si esprime come " tiepidezza ", " insensibilità ", " routine ", " superficialità " (I. Garrido). L'a., orientando alla crescita spirituale, annulla tutte queste forme di mediocrità.

Il cristiano deve prendere sul serio il suo essere e il suo vivere in Cristo perché la fede lo spinge ad inserirsi in un processo complesso che dev'essere preso in considerazione. La vita spirituale richiede dinamismo e impegno personale per superare l'automatismo e l'inerzia che " arrestano " la crescita della fede. Questo processo dev'essere vissuto in modo tale che l'esperienza della identità cristiana giunga ad essere l'esperienza religiosa fondante della persona e della vita del credente. È fondante perché in quest'esperienza trovano il loro fondamento la nuova visione di sé, il nuovo senso della vita, i nuovi valori e il nuovo comportamento (S. Gamarra). Dice lo stesso autore: " Nel momento in cui il vivere l'identità cristiana giunge ad essere esperienza religiosa fondante si scoprono alcune funzioni concrete. Oltre alla funzione dinamizzante e stimolante - per la capacità che apporta di superamento davanti alle difficoltà e di non retrocessione dinanzi al nuovo - le si riconosce una funzione che integra e struttura la persona. Questa vita dell'essere cristiano, con i nuovi valori che comporta e con la nuova situazione dell'affettività e della libertà che implica l'essere totalizzante, va strutturando il processo della vita, della persona ".3 Questa raggiunge la maturità spirituale quando consegue la pienezza di vita nel Cristo e quando questi diventa il centro aggregante della sua personalità, dando unità ai suoi pensieri, affetti, desideri ed azioni.

Questo processo di grazia, che implica un'esperienza pasquale e profondamente contemplativa, è segnata da " incontri " con Dio che ravvivano l'esperienza prima e continuano ad essere momenti forti nel corso di tutta la vita, perché sempre implicano una sorprendente novità. È su questo punto che possiamo segnalare la presenza di certi " abiti ", in positivo, che possono dinamizzare lo sviluppo della vita spirituale mantenendo, asceticamente, lo sforzo e la costanza necessaria. Di qui la relazione tra un'azione abituale e l'ascesi (come si manifesta nel NT: cf Rm 6,13; 13,12; Ef 6,11-12; 1 Ts 5,8 e nella storia della spiritualità) manifestata nella rottura che suppone l'opzione per Gesú, nell'accettazione della kenosis, nel cambiamento radicale del senso della vita secondo i valori del Vangelo, nella continua fedeltà a Cristo nella Chiesa e ai fratelli nel mondo, in un ambiente estraneo e contrario ad essi. " L'uomo non nasce compiuto. Sta anche a lui il farsi. E questo suppone dirigere il potenziale vitale che possiede verso un obiettivo o mete concrete. Perciò, sono necessarie decisioni ferme, non ambigue, che includono il "sì" e il "no" nella vita e in forma permanente " (S. Gamarra). L'ascesi è un mezzo utile in quanto aiuta a conseguire l'obiettivo desiderato, facilitando lo stabilizzarsi dell'" a. ". Non è un fine in se stesso. Nel rinnovamento dell'uomo spirituale influisce lo sforzo personale, ma come frutto dell'azione dello Spirito e dell'efficacia della grazia. Senza dimenticare che " ogni crescita della grazia e delle virtù è opera diretta ed esclusiva di Dio ", occorre segnalare che " nel piano di disposizione, merito e collaborazione, la libertà umana ha campo aperto verso la generosità e il rischio (...). Il battesimo realizza la trasformazione, ma esige anche tutta un'esistenza dedita a verificare questa vita nuova infusa come dono gratuito (...). Lo sforzo significa collaborazione e pone in evidenza la forza della grazia divina, capace di suscitare vita e movimento nell'uomo peccatore (...). È il momento di ricuperare l'equilibrio dell'esperienza cristiana: chiamata libera di Dio e sequela personale ordinata " (F. Ruiz).

Note: 1 Cf per uno studio etimologico più completo la voce Habitude et habitus in DSAM VII, 2-11; 2 STh. I-II, q. 49 a. 2, ad 3; S. Gamarra, Teología espiritual, Madrid 1994, 257.

Bibl. N. Abbagnano, s.v., in Dizionario di filosofia, Torino 1960; J. Ferrater Mora, Diccionario di filosofia, t. II, Madrid 1981; S. Gamarra, Teología espiritual, Madrid 1994; J. Garrido, Adulto y cristiano, Santander 1989; P. Guillaume, La formazione delle abitudini, Roma 1970; V. Marcozzi, Ascesi e psiche, Brescia 1963; S. Pinckaers, s.v., in DSAM VII, 2-11; G.G. Pesenti, s.v., in DES I, 7-10; F. Ruiz, Caminos del Espíritu, Madrid 1988; A. Vergote, Psicologia religiosa, Roma 1967.

F. Daza Valverde

ABNEGAZIONE. (inizio)

Premessa. Nel linguaggio comune a. è una parola che incontra forti resistenze. Dimenticare se stessi, non tener conto dei propri gusti e dei propri interessi, sacrificarsi per gli altri sono espressioni che nella pratica di vita non superano i limiti della " solidarietà " o del " volontariato ". L'impegno per gli altri spesso è assunto come realizzazione dei propri ideali di filantropia umana. La rinuncia da parte dell'uomo a tutto ciò che vi è di egoistico nei suoi desideri o il livello di superamento della stessa dimenticanza di sé a favore degli altri, se è entrato anche nel linguaggio profano, deve la sua origine al vocabolario dell'ascetismo cristiano. Lo stesso attuale uso profano del termine viene dal Vangelo.

I. Nella spiritualità cristiana le nozioni di a. sono numerose e molto imparentate tra loro: rinuncia, spogliamento di sé, distacco, astinenza, nudità spirituale, morte al mondo e a se stessi, disappropriazione, mortificazione, umiltà, obbedienza. Ovviamente la nozione di a. dev'essere maggiormente precisata per distinguerla dalle altre sopra elencate.

Una cosa è la rinuncia a tutto ciò che di esteriore possediamo: beni materiali, amicizia, stima o anche ciò che appartiene al bene del nostro corpo, gioie sensibili; altra cosa è la rinuncia a se stessi, a quanto c'è di più intimo e personale, a ciò che noi siamo.

Celebre è un'espressione di s. Gregorio Magno: " Ivi (Lc 9,23) si dice di rinunciare alle nostre cose, qui (Lc 14,33) si dice di rinunciare a noi stessi. Di certo non è molto faticoso per l'uomo rinunciare alle sue proprietà, molto di più lo è rinunciare a se stesso. Infatti, minore è la rinuncia a ciò che possiede, molto di più la rinuncia a ciò che è ".1

Se vogliamo esprimere il concetto di a. con il termine rinuncia, allora rinunciare significa essere sottoposti al piano di Dio e non essere posti al centro dei propri interessi. Usata nel suo senso completo, a. non è altro che ciò che elimina ogni pericoloso equivoco. Per questa ragione, essa diventa quella disposizione dell'anima che facilita la pratica di tutte le altre virtù, in ciò che queste hanno di contrario all'amor proprio e all'egoismo. Rinunciare, dunque, a tutto, se stessi compresi, per il tutto che è Dio.2

II. Nella Sacra Scrittura. La dottrina dell'a. ha il suo punto essenziale di partenza in Cristo. La presentazione di essa ci viene offerta dai Vangeli sinottici: Mc 8,34; Mt 16,24-26; Lc 9,23-25, dove è collocata nel medesimo contesto così riassumibile: la confessione di Pietro a Cesarea di Filippi, la predizione da parte di Gesù della sua passione, l'annuncio del giudizio e la narrazione della trasfigurazione sul monte. E necessario annotare che l'a. di se stessi per diventare discepoli di Gesù, introduce nel mistero della sofferenza e della croce. Sono appunto le formule evangeliche con le quali l'a. viene espressa a predisporre una tale introduzione: rinnegare se stessi; portare la propria croce; perdere la propria vita. " Portare la croce " ha il senso di " camminare, andare al supplizio ". E Luca aggiunge: ogni giorno. La richiesta è quella del distacco totale.

La croce di Cristo è nel credente, oltre che il segno della sua gloria anticipata (cf Gv 12,26), la frontiera tra i due mondi della carne e dello spirito. Essa è la sua sola giustificazione e la sua sola sapienza. Nella vita quotidiana, l'uomo vecchio dev'essere crocifisso (cf Rm 6,6) perché sia pienamente liberato dal peccato. E solo Cristo a disporre del credente e se questi vuol essere suo discepolo deve giungere alla rinuncia totale di sé e dei propri pre-definiti traguardi. In Giovanni (12,24-26), il tema della rinuncia viene proposto nella parabola del grano che cade in terra, dove la novità consiste in questo: morire per vivere oppure morire per portare frutto. Gesù stesso ne fa l'esperienza nell'agonia del Getsemani, perché la passione è il termine essenziale della missione che egli ha accettato per la gloria del Padre. Seguire Gesù nella rinuncia di se stessi significa condividere il suo destino, le sue prove, la sua passione; essere disponibile non solo al sacrificio dei beni temporali, ma anche della persona stessa.

Il fondamento ultimo dell'a. è la carità di Dio e del prossimo (cf Rm 15,1-3; 1 Cor 10,32-11 10; 32-11,1; 13,15; Fil 2,4; 2,21). Esiste una sola carità: essa ci fa amare Dio e i nostri fratelli per Dio; altrettanto esiste un'a. che fa dimenticare se stessi per Dio e per i fratelli a motivo di Dio. Accanto al fondamento esistono anche dei limiti: non si può rinunciare ad aver diritto ai mezzi essenziali per la propria salvezza e santificazione. La misura dell'a. più ampia è l'amore sovrano di Dio.

III. A. e mistica. Fino a che punto si deve rinunciare non solo ai beni materiali (cf Mt 19,21) ma a se stessi fino al massimo livello di umiltà per essere come Cristo obbedienti fino alla morte? (cf Lc 9,23 e par.; 22,26ss.; Fil 2,6-11). Gli autori spirituali parlano di " gradi ": dal distacco dal peccato mortale fino a quello da ogni piccola imperfezione. L'a. è il prezzo che il credente paga: è la croce quotidiana. La grazia di Dio gli è indispensabile per realizzarla; solo se mosso da essa può avere la certezza di raggiungere questa meta evangelica. Fuori della grazia niente gli è possibile: per questo motivo non deve mai tentare di precederla o di andare oltre ad essa se vuole evitare il rischio dell'illusione e dello scoraggiamento in un cammino tanto duro e faticoso.

L'aiuto divino non è tanto un momento consolatorio; è la forza interiore che conduce alla perseveranza; è soprattutto certezza interiore della vita di unione con Dio e della costante crescita nella propria conformità a Cristo. Ciò avviene mediante l'oscurità della fede, la vera croce di " ogni giorno " da portare sulle proprie spalle per essere autentici seguaci di Cristo, che quotidianamente, dalla grotta di Betlemme fino al Calvario, ha vissuto la sua " condizione di servo " obbediente, immolando se stesso.

In questa prospettiva l'a. diventa la liberazione della carità, dell'agape. In essa, dilatato il cuore, ogni paura sarà eliminata e i momenti critici, soprattutto agli inizi di questo cammino, potranno essere superati. L'anima sarà come immersa nell'umiltà della sua pochezza e nella potenza della presenza di Dio. In questa piena verità delle cose metterà in pratica la fatica dell'a. per amore di Cristo, per abitudine al bene, per il gusto proveniente dalle virtù, nella pace e gioia interiore.

Note: 1 Cf Gregorio Magno, Hom. in Evang. 32, n.1: PL 76, 1233; 2. Cf J. de Guibert, Notion précise et doctrine de l'abnégation, in DSAM I, 102-104.

Bibl. J. Behem-Würthwein, Metanoeo, Metanoia, in GLNT VII, 1106-1195; G. Bertram, Strepho, in GLNT XII, 77-138; J. de Guibert, s.v., in DSAM I, 67-110; C. Di Sante, La conversione: verso una personalità rinnovata, Roma 1985; J. Dupont, Studi sugli Atti degli Apostoli, Roma 1971, 717-814; K. Rahner, Conversione, in Sacramentum Mundi, II, cura di K. Rahner, Brescia 1974, 622-632; A. Tosato, Per una revisione degli studi sulla metanoia neotestamentaria, in RivBib 23 (1975), 3-46.

C. Morandin

ABRAMO. (inizio)

I. La storia di A. Il ciclo della storia di A. nel libro della Genesi è tra i più significativi dell'intera Scrittura tanto che nella preghiera eucaristica lo si venera come " nostro padre nella fede ".

Tale ricordo è motivato dalla sua stessa esistenza assurta a modello di vita di fede, quindi di mistica comunione con il Dio dei nostri padri. Diversi episodi-chiave della vita di A., riportati oltre che nella Genesi in altri brani dell'AT e NT, possono essere ricordati in quanto rivelatori della sua religiosità. Il più importante tra essi è quello relativo all'offerta, da parte di Dio, di una terra e di una famiglia (12,1-3). Questa sfida è annunciata in Gn 12,1-3 ed è suggellata con un patto (17,1-21), in conformità alla tradizione sacerdotale (per un'ulteriore versione vedi il 15,1-19).

Le probabilità di riuscita sono esigue per A., ma la promessa di Dio, specialmente quella di una famiglia, è continuamente ripetuta. Le difficoltà sono determinate da alcune circostanze più volte annotate: A. è vecchio e Sara è sterile (cf 11,30; 15,2; 16,1; 17,17; 18,11). A. stesso chiede a Dio di riconoscere il suo servo Eliezer come il figlio della promessa, ma il Signore non accetterà (cf 15,4-6). Da Agar, la schiava egiziana di Sara, nasce Ismaele ed A. chiede che la promessa si adempia attraverso di lui (cf 17,18), ma Dio rifiuta ancora. La promessa si compirà con Isacco. A. e Sara " ridono " ogni qualvolta si menziona Isacco (cf 17,17; 18,13-15; " allora Sara disse: "Motivo di lieto riso mi ha dato Dio; chiunque lo saprà, riderà di me" " (21,6). Finalmente, con la nascita di Isacco, la promessa sembra compiersi. Comunque, procediamo in direzione dell'Akedah, il " vincolo " di Isacco, secondo la tradizione giudaica, ovvero il sacrificio di Isacco. Dopo quanto è avvenuto, l'offerta di Eliezer, quella di Ismaele e l'inattesa nascita di Isacco, Dio mette alla prova A. (cf 22,1) ordinandogli di sacrificare Isacco sopra un monte, nella terra di Moria (luogo sconosciuto). La narrazione è tracciata con grande accuratezza letteraria e grande tensione, specialmente nel passo in cui padre e figlio intraprendono il viaggio. All'ultimo momento la mano di A. viene fermata dall'intervento dell'angelo del Signore: " Ora so che tu temi Dio " (22,12). Questa è un'esemplificazione del timor di Dio. A. sacrificherà un ariete, visto impigliato in un cespuglio. Questa stupenda scena è stata ripresa dall'arte e anche dalla letteratura successiva (S. Kierkegaard, Timore e tremore, 1843), ma nessun commento in proposito risulta adeguato. I consueti termini, obbedienza, fede, non sono in grado di evidenziare l'intima reazione di A. all'impossibile richiesta di Dio. A., con il suo comportamento, confidando in lui a dispetto delle contrarie apparenze, rende possibile al Signore, di ritornare liberamente su quanto gli ha ordinato. Il commento nella Lettera agli Ebrei (11,19) è troppo distaccato e alquanto razionalistico: " Egli pensava, infatti, che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo riebbe Isacco e fu come un simbolo ". Dopo tutte le promesse fatte e rinnovate (cf 12), dopo tutte le proposte di A. per contribuire al compimento della divina promessa, Eliezer e Ismaele, la " prova " di A. lascia tutti senza parola. L'effettiva " dimora " di A. in Palestina è sancita dall'acquisto della terra in Macbela, nella quale Sara è sepolta. La promessa di una terra è soltanto agli albori. All'inizio A. aveva dato, con magnanimità, a Lot la possibilità di scegliere dove risiedere e Lot aveva scelto di occupare l'area delle città della pianura (Sodoma e Gomorra). Lot non merita molta attenzione, ma c'è un affascinante episodio connesso con la distruzione di queste città: la conversazione tra il Signore e A. (cf 18,16-33). Il Signore decide di non nascondere ad A., che diverrà " una nazione grande e potente " (v. 18,18), ciò che ha intenzione di fare. A. sfida " il giudice di tutto il creato per fare ciò che è retto ". Chiede se il potere di intercessione di cinquanta giusti a Sodoma sia sufficiente per preservare la comunità dalla distruzione. La discussione continua finché il Signore promette che " per amore di dieci giusti non la distruggerà " (v. 32). Lo stesso A. è fedelmente descritto negli episodi della " moglie-sorella " (narrati due volte, 12,10-20; 26,6-11), nei quali fa credere Sara sua sorella per proteggersi. Ciò significa rischiare la vita della donna tramite la quale la promessa dovrà realizzarsi, ma A. non mostra alcun segno di compunzione. La provvidenza di Dio la protegge.

II. A. modello di mistica unione con Dio. A. è divenuto noto per la sua giustizia, grazie a quanto dice di lui s. Paolo: " A. ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia " (Gn 15,6; Rm 4,1-25; Gal 3,6-9). Nel pensiero di Paolo A. è giusto davanti a Dio per la sua fede, non per la legge o la circoncisione. A. ascolta la Parola di Dio e confida nella promessa del Signore. Paolo, perciò, considera la fede di A. come archetipo e modello della fede cristiana (cf Rm 4,19). La promessa fatta ad A. è valida non solo per coloro che discendono biologicamente da lui (gli ebrei), ma per tutti coloro che condividono la sua fede, ebrei e gentili (cf Rm 4,14). A. ebbe fede " sperando contro ogni speranza e così divenne il padre di molti popoli... " (Rm 4,18), quindi nostro " padre nella fede ".

Nella figura di A. Paolo trova, perciò, i fondamenti della sua teologia della giustificazione, realtà ottenuta gratuitamente per fede. Ciò significa che nel rapporto esistenziale con Dio tutto è grazia, alla quale si aderisce per fede. L'obbedienza di A. diventa norma ultima di ogni vita che tende alla perfezione della carità, l'unica realtà che permette all'uomo di entrare nella mistica comunione con il Dio di Gesù Cristo.

Bibl. D. Barsotti, s.v., in DES I, 10-12; P.M. Bogaert, Abraham dans la Bible et dans la tradition juive, Bruxelles 1982; A. González, Abramo padre dei credenti, Francavilla al mare (CH) 1969; E. Mangenot, s.v., in DB I, 74-82; R. Martin-Achard, Actualité d'Abraham, Neuchâtel 1969; L. Pirot, s.v., in DBS I, 8-28; M. Viller, s.v., in DSAM I, 110; S. Virgulin, s.v., in NDB, 3-10.

R.E. Murphy

ACCECAMENTO SPIRITUALE. (inizio)

I. Nozione. L'a. è l'incapacità, in qualche modo colposa, di vedere il vero e il buono. Questa a. si manifesta come peccato oppure come risultato del peccato.

II. Nella Scrittura. Secondo il Deutero-Isaia, i capi di Israele soffrono di a. perché sono egoisti, avidi e pigri (56,10). Questo li rende ciechi alla verità di Dio: " Stupite pure così da restare sbalorditi, chiudete gli occhi in modo da rimanere ciechi... Poiché il Signore ha versato su di voi (i profeti) uno spirito di torpore, ha chiuso i vostri occhi, ha velato i vostri capi " (29,9-10). Sono ciechi perfino al loro a.: " Acceca gli occhi (di questo popolo) e non veda con gli occhi... né si converta in modo da essere guarito " (6,10). L'AT, spesso, descrive l'a. in un contesto giuridico, istruendo così i giudici: " Non farai violenza al diritto, non avrai riguardi personali e non accetterai regali perché il regalo acceca gli occhi dei saggi e corrompe le parole dei giusti " (Dt 16,19). " Il dono acceca chi ha gli occhi aperti e perverte anche le parole dei giusti " (Es 23,8). Dio acceca i giudici corrotti ponendo un velo sopra i loro volti (cf Gb 9,24).

Nel NT il ritenersi giusti e l'ipocrisia portano all'a. Paolo ammonisce quelli che si chiamano giudei: " Sei convinto di esser guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici perché possiedi nella legge l'espressione della sapienza e della verità.... ebbene, come mai tu che insegni agli altri non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? Tu che proibisci l'adulterio, sei adultero? " (Rm 2,19-23). L'amore del mondo può causare l'a.: " Il dio di questo mondo ha accecato la mente incredula perché non vedano lo splendore del glorioso vangelo di Cristo " (2 Cor 4,4). Un'altra causa è l'assenza delle virtù cristiane di sapienza, temperanza, fede, bontà, controllo di sé, pazienza, pietà, amore fraterno... Chi, invece, non ha queste cose è cieco, è miope (cf 2 Pt 1,9). E ancora, l'a. ci rende ciechi alla nostra stessa cecità. L'Apocalisse narra dell'angelo della Chiesa di Laodicea che dice a se stesso: " Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla ", ma non riconosce " di essere un infelice, un miserabile, un povero cieco e nudo " (3,17). Gesù si rivolge agli scribi e ai farisei chiamandoli guide cieche, ipocriti... " Trasgredite... la giustizia, la misericordia, la fedeltà. Queste cose bisognava praticare senza omettere quelle. Ipocriti... pulite l'esterno del bicchiere e del piatto, mentre all'interno sono pieni di rapina e di intemperanza... ipocriti, rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all'esterno sono belli al vedersi, ma dentro sono pieni d'ossa di morti e di ogni putredine " (Mt 23,23-27). " Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco tutti e due cadranno in un fosso " (Mt 15,14). " Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora potrai vederci bene nel togliere la pagliuzza che è nell'occhio di tuo fratello " (Lc 6,42). Gli scritti giovannei considerano l'a. nel contesto della luce e delle tenebre. L'amore e la luce vanno insieme e sono opposti alla mancanza di amore e all'oscurità (cf 1 Gv 2,11). Gesù usa le parole del Deutero-Isaia (Is 6,10): " (Dio) ha reso ciechi i loro occhi e ha indurito il loro cuore perché non vedano con gli occhi e non comprendano con il cuore e si convertano e io li guarisca " (Gv 12,40).

Nel NT, e soprattutto negli scritti di Giovanni, l'a. fisico spesso ha un aspetto metaforico e in qualche modo simbolico. Dopo la guarigione del cieco nato (cf Gv 9) e dopo che i farisei hanno rifiutato di accettare il fatto della guarigione dell'uomo, Gesù dice: " Sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi " (Gv 9,39). I farisei gli chiedono se anche loro sono ciechi. Risponde: " Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite noi vediamo, il vostro peccato rimane " (Gv 9,41). La Bibbia descrive la salvezza messianica come la guarigione dall'a., come luce per i ciechi; Gesù cita il libro di Isaia (61,1-2), " Mi ha mandato... per dare la vista ai ciechi " (Lc 4,18). Il libro dell'Apocalisse consiglia alla Chiesa di Laodicea di " comprare da me... un collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista " (3,18). E specifica il rimedio sicuro per l'a.: la conversione del cuore, " Mostrati dunque zelante, ravvediti. Ecco, sto alla porta e busso " (3,19-20).

III. A. e conversione - L'a., allora, trova la guarigione attraverso la grazia della conversione e questa avviene mediante la misericordia di Dio. Tommaso d'Aquino afferma che l'a. può essere sanato solo dalla misericordia divina.1 L'a. si verifica quando ci si attacca al male e si resiste alla luce di Dio: Dio ritira la luce della sua grazia da quelli nei quali trova degli ostacoli seri ed è in questo senso soltanto che possiamo dire che Dio causa l'a.2 In breve, Gesù dimostra che con la sua venuta non vi può essere più alcuna cecità di sorta: il regno di Dio, la salvezza, ossia la riappacificazione tra l'uomo peccatore, quindi cieco, e Dio, tre volte santo, è avvenuta. Ormai è iniziata un'epoca nuova e l'uomo, recuperata la vista, può tendere con tutto se stesso a Dio, luce infinita.

Note: 1 STh I-II, q. 79, a. 4; 2 Ibid., I-II, q. 79, a. 3.

Bibl. A. Legrand, s.v., in DSAM I, 1175-1176; E. Mangenot, Ignorance, in DTC VII, 731-740; L. Sentis, Saint Thomas d'Aquin et le mal, Paris 1922.

R. Faricy

ACCIDIA. (inizio)

I. Nozione. Comunemente considerata uno dei sette peccati capitali,1 l'a. è vista dagli autori spirituali come una noia e uno scoraggiamento che abbraccia l'anima rendendola incapace di compiere i doveri per i quali invece dovrebbe essere libera.2 Si tratta di una specie di disgusto per lo spirituale a causa degli sforzi fisici richiesti per svolgere con gioia i doveri della vita cristiana.3 E l'indolenza per le cose dello spirito, l'inerzia nell'opporsi al grave peso delle cose terrene e nell'elevarsi al divino.4 Già nella letteratura pagana l'a. ha una lunga storia. Etimologicamente non deriva dal latino acidus, ma piuttosto dal greco a-kedos, o anche acudia, comunque, con il significato di non cura, negligenza, indolenza. E negli autori pagani (come Cicerone 5 ad esempio) può significare anche tristezza e noia.6

II. Nella tradizione ecclesiale. Nei LXX appare diverse volte con il senso generale di trascuratezza e indifferenza (cf Sal 118,28; Sir 29,5; Is 61,3) 7. Ma è anche usata per significare una certa indolenza dell'uomo nei rapporti con Dio (Sir 2,12).8 Il Pastore di Erma l'applica nel senso di noncuranza a fare il bene e a praticare la religione.9 Nonostante le sue possibili origini stoiche,10 la psicologia della tentazione ha ricevuto ampia attenzione dai Padri del deserto del sec. IV i quali l'hanno discussa nel contesto di altri pensieri cattivi come il daemon meridianus (cf Sal 90,6).11

Sembra che fosse Evagrio Pontico il primo ad aver descritto l'a. nel 383,12 basandosi piuttosto sull'esperienza. La solitudine dell'eremitaggio nel deserto, un corpo straziato dal digiuno e una mente affaticata da lunghe preghiere erano considerati i fattori che avrebbero potuto causare la noia o la febbrile attività esteriore che si chiamava a. Nell'elenco delle otto tentazioni principali dei monaci, l'a. occupa il posto tra tristezza e vanagloria. E stato Giovanni Cassiano a descrivere le caratteristiche dell'a. all'Occidente definendola un' ansia oppure un tedio del cuore13 che fa l'uomo sedentario ed inabile a qualsiasi opera entro i muri del monastero, lo rende ozioso e vacuo per ogni esercizio spirituale, cosicché il monaco accidioso non è mai soddisfatto né delle sue occupazioni, né del suo monastero; i suoi doveri inoltre lo stancano, i suoi lavori lo annoiano per cui egli vorrebbe cambiare posto e impiego.14 Antiochio di San Saba (inizio VII sec.), alla descrizione di Cassiano, aggiunge che l'a. rende il monaco incapace di interessarsi a qualsiasi cosa eccetto ai pasti che attende con grande impazienza, sprecando il suo tempo in inutili chiacchiere, sfogliando il libro che dovrebbe invece studiare, e senza far attenzione ai saggi consigli che lo stesso libro contiene.15

Secondo la spiritualità orientale, perciò, l'a. è l'eterna compagna del monaco solitario e non lo lascerà prima della morte e tutti i giorni il monaco dovrebbe combatterla.16

Ma anche nella spiritualità occidentale esiste una letteratura grazie a Gregorio Magno che ne parla prima come di una tentazione, poi come di un vizio e, infine, come di un vizio tentatore. Questo in quanto il cuore, perduto il bene della gioia interiore, va in cerca delle consolazioni esterne.17 Per questa mancanza della gioia interna sembra che s. Gregorio identifichi l'a. con la tristezza.18 Comunque, è grazie alla tradizione pastorale gregoriana che l'a. è stata tolta dal suo contesto tradizionale, come un vizio riservato ai monaci, vedendola invece come un malessere interiore (possibile in tutti) che si esprime come indolenza a svolgere i propri doveri religiosi.19 Tommaso d'Aquino, infine, conosce la tradizione sia di Cassiano sia di Gregorio e preferisce l'identificazione di a. con tristezza. Infatti, la definisce come " il tedio di operare bene e la tristezza prodotta dalle cose spirituali ".20 Praticamente, l'uomo accidioso invece di trovare gioia nelle cose spirituali, incontra tristezza e disgusto, che appesantiscono l'anima e rendono la vita spirituale depressa e indolente. Per Tommaso, l'a. si oppone alla gioia della carità e della bontà e questo può renderla materia di peccato grave.21 L'a. è chiamata peccato capitale in quanto genera altri peccati: malizia, rancore, pusillanimità, disperazione, torpore per i precetti, distrazioni cattive.22

III. A. e vita spirituale. La maggioranza dei commentatori è rimasta fedele alla sintesi tomistica, però c'è stata nella letteratura una tendenza a confondere l'a. con uno dei suoi effetti esterni, cioè la pigrizia. Alcuni, rifacendosi a s. Giovanni della Croce,23 hanno tentato di " battezzare " l'a. rendendola una specie di peccato riservato ad un'élite spirituale, mentre si tratta di una difficoltà spirituale abbastanza comune,24 che trova diverse forme di espressione.

La pratica della vita spirituale è già abbastanza difficile. Se allo stress della vita cristiana si aggiungono le tantissime forme di evasione che il mondo offre cercando di riempire il " mercato " del tempo libero, con il mondo informatico, televisivo, ecc., magari si potrebbe rivedere tutto questo discorso in una chiave totalmente nuova ma sempre con le stesse caratteristiche offerte dalla storia.

Note: 1 Prescindiamo qui dalla discussione sui peccati capitali, ritenuti sette in Occidente ma otto in Oriente, cf S. Nilo, De octo vitiis: PG 79, 1145; 2 Cf C. Bardy, s.v., in DSAM I, 166-169; 3 U. Voll, s.v., in New Catholic Encyclopedia I, Washington 1967, 83ss.; 4 B. Häring, La Legge di Cristo I, Brescia 1957, 386; 5 Cicerone, Ad Atticum, 12, 45, 1; 6 B. Honings, s.v., in DES I, Roma 1975, 14; 7 G. Bardy, a.c., 166; 8 B. Honings, a.c., 15; 9 Pastore di Erma, In Visione, III, 11, 3; 10 U. Voll, a.c., 83; 11 Ibid.; 12 Evagrio Pontico, De octo vitiosis cogitationibus: PG 40, 1274; 13 S. Giovanni Cassiano, De spiritu acediae, Conferenze, 10, in Id., De coenoborium institutionibus: PL, 49, 359-369 e 203, 611; 14 Ibid., 365-367; cf B. Honings, a.c., 15 e G. Bardy, a.c., 167; 15 Antiochio di San Saba, Homilia 26: PG 89, 1513-1516; 16 S. Giovanni Climaco, Scala del paradiso, Gradino XIII: PG 88, 860; 17 S. Gregorio Magno, Commentario su Giobbe, in Moralia 31.45: PL 76; 18 B. Honings, a.c., 15. Alcuni pensano anche che s. Gregorio abbia omesso totalmente l'a. dal suo elenco di peccati principali, inserendovi invece la tristezza, cf U. Voll, a.c., 83. Comunque diversi successori di s. Gregorio preferiscono parlare di a., per esempio: Ugo di San Vittore, De sacramentis, 11, 13,1: PL 176,525; 19 Cf, per esempio: Rabano Mauro, De ecclesiastica disciplina: PL 112, 1251-1253; Jonas Di Orleans, De institutione laicali: PL, 102, 245-246; Alcuino, Liber de virtutibus, c. 32: PL, 101, 635; S. Antonino, Summa theologiae moralis, 2: PL 10, 933-938; 20 S. Tommaso d'Aquino, STh I, 63, 2 ad 2; 21 Ibid. II-II, 35, 3, 2; ecc.; 22 Ibid. II-II, 35, 4, 2, 3. Vedi anche S. Gregorio Magno, Moralia, 31, 87: PL 76, 621. Cassiano poi enumerava: pigrizia, sonnolenza, molestia, inquietudine, distrazione mentale, instabilità della mente e del corpo, loquacità, curiosità: Collationes, 5, 16: PL, 49, 634. Vedi anche l'esposizione di S. Isidoro, In Deuteronomio: PL 83, 366; 23 S. Giovanni della Croce, La notte oscura I, 7; 24 U. Voll, a.c., 84.

Bibl. G. Bardy, s.v., in DSAM I, 166-169; M. Cano, Victory over Self, in Cross and Crown, 8 (1956), 149-153; I. Colosio, Come nasce l'accidia, in RAM 2 (1958), 266-287; Id., I sofismi dell'accidia, in Ibid., 495-511; F. Cunningham, The Christian Life, Dubuque 1959, 242., 185; A. Lipari, s.v., in DES I, 15-17; J. Mac Avoy, Endurcissement, in DSAM IV1, 642-652; H. Martin, Dégoût spirituel, in DSAM III, 99-104; T. Spidlík, La spiritualità dell'Oriente cristiano, Cinisello Balsamo (MI) 1995, 238-239.

M. Attard

ACCOGLIENZA. (inizio)

I. Nella Scrittura. Tutta la storia biblica mostra come l'iniziativa dell'incontro con Dio parta sempre da lui. " Non lo cercheresti se egli non ti avesse cercato per primo " annota s. Agostino. " In principio era la Parola " (Gv 1,1). E allora l'uomo non può essere che ascolto: " Audi, Israel ". Insomma, l'uomo nei confronti di Dio non può essere che risposta e a.

Sarà diverso il rapporto con i fratelli? Certo, almeno in parte. Il rapporto interpersonale è quasi sempre un " dare-ricevere ". Ma più saggio non è colui che parla; è colui che ascolta, come dice tutta la tradizione orientale. Più saggio non è colui che impone agli altri il suo " io ": è colui che accetta e accoglie l'altro come un dono irripetibile.

Per esprimere questo processo di a. il greco adopera il verbo chôréo che vuol dire dare spazio, ricevere, accogliere, raggiungere. E una derivazione verbale da chôros o chôrra che equivale a spazio libero, terra libera. Nell'uso intransitivo il verbo assume il significato di giungere al pentimento (cf 2 Pt 3,9) che corrisponde al significato di decidersi ad un'azione e ad eseguirla. Nell'uso transitivo assume il significato di capacità, ad esempio di recipienti per l'acqua (cf Gv 2,6), di uno spazio determinato (cf Mc 2,2) o anche dell'universo intero (cf Gv 21,25). A volte, assume anche il significato di comprensione di un insegnamento e forse anche messa in pratica di tale insegnamento (cf Mt 19,11ss.).

Per chiarire meglio questa stessa idea il greco adopera due verbi, lambáno e déchomai. Il primo esprime l'aspetto attivo dell'iniziativa, mentre il secondo quello passivo della ricettività. In ultima analisi, entrambi i verbi vengono ad esprimere aspetti tra loro complementari tra fede attiva e passiva nei confronti di Dio o della Parola.

A., però, non equivale a passività. Accogliere è un verbo attivo: e non solo sul piano grammaticale. Quando gli amici di Betania accolgono Gesù, Marta è " affaccendata " (Lc 10,38), perché la sua casa sia in festa: fino a meritarsi il rimprovero del Maestro.

La felice sorte di Betania è la sorte di ognuno nella vita. La esprime bene una immagine dell'Apocalisse: " Sto alla porta e busso: se qualcuno mi apre entrerò da lui e cenerò con lui " (Ap 3,20). E il Maestro che prende l'iniziativa di venire alla porta del cuore umano. Egli " bussa " con le mozioni interiori. Ma non è suo stile sfondare la porta.

Nella Scrittura si possono ritrovare diversi modelli di a.: Natanaele che riconosce il Messia appena lo incontra e lo accoglie (cf Gv 1,48-50). Lidia alla quale il Signore ha aperto il cuore per aderire alle parole di Paolo e che subito ha accolto l'Apostolo in casa sua (cf At 16,14-15). I discepoli della Chiesa primitiva che accolsero la Parola con grande entusiasmo (cf At 17,11).

E poiché la Parola di Dio è " uno specchio ", dall'ascolto nasce la conversione, come attesta la storia della santità. In quello specchio non si vedono solo le meraviglie di Dio, ma anche le macchie del proprio volto interiore. Il Vangelo è quella novità radicale che spinge a rinnovare la propria esistenza.

Qualcuno ha detto che il verso più bello della Divina Commedia è il seguente: " En la sua voluntade è nostra pace ".1 Quella volontà è scritta nel cuore e nella storia personale di ogni uomo. C'è un momento di grazia nella vita di ciascuno in cui tutti i tasselli del mosaico si compongono armoniosamente: e allora il progetto divino appare con chiarezza. La risposta richiede l'a., perché Dio solo " sa cosa c'è nel cuore dell'uomo " (Rm 8,29). " Egli mi conosce fino in fondo " (Sal 138,14). Fin dal grembo della madre conosce l'uomo e gli affida un compito: nell'attuarlo stanno la piena realizzazione della persona e la certezza di percorrere un cammino di gioia. Il " sì " è il monosillabo più importante: pronunciarlo con pienezza è la porta della santità.

" La tua parola è lampada ai miei passi " (Sal 118,105) dice tranquillamente il salmista. Non è cosa facile perché il cuore dell'uomo è spesso incline al male, e il male si rifugia nelle tenebre. Ciò è quanto Giovanni esprime sinteticamente nel Prologo del suo Vangelo: " Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo... Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto " (Gv 1,9.11). Per questo motivo, la storia della salvezza è drammatica: e il nodo del dramma è nel contrasto tra la luce e le tenebre; la luce della Parola e le tenebre del rifiuto. " A quanti però l'hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio " (Gv 1,12). La posta in gioco è decisiva. Il vertice dell'a. sta nell'amare Dio che è amore, come afferma Giovanni (cf Gv 4,8). Se ci si lascia amare, prima ancora l'amore di Dio si diffonde nel cuore. L'espressione è di Paolo, il quale precisa che mediante lo Spirito Santo l'amore di Dio viene ad abitare nell'uomo. Si ama " quasi con il cuore di Dio ", secondo un'espressione tomista parallela a quella già citata. L'amore cristiano non è solo un sentimento che sgorga dal cuore umano: è un dono divino che, accolto, permette di amare in modo divino: perciò è " un comandamento nuovo " (Gv 13,34) che non conosce frontiere né misure né ostacoli.

La risposta dell'uomo a Dio amore significa accogliere il muto messaggio che si sprigiona dal creato e trasformarlo in lode cosciente. Nelle creature e nel creato risplende la gloria del Creatore.

II. Un esempio insuperabile, gli anawim. Quello degli anawim, è un filone aureo di fedeltà che attraversa tutta la Bibbia, e, in qualche modo, riscatta tutte le infedeltà di Israele. Essi sono l'incarnazione più luminosa dell'a.

Chi sono? Sono un gruppo di Israeliti fedeli, designati con il termine di " resto di Israele ": " Un popolo umile e povero... confiderà nel nome del Signore il Resto di Israele " (Sof 3,12). Sono uomini che non hanno nulla e lo sanno. Non possono contare su nessuno. E non avendo nulla da aspettarsi dal mondo, aspettano tutto da Dio. Si presentano a lui come una mano vuota, aperta al dono. Si fanno a. I potenti li guardano dall'alto commiserandoli. Dio abbassa su di loro il suo sguardo e li colma dei suoi beni. Li solleva dalla polvere e li proclama " beati ", cioè felici! (cf Mt 5,1-12).

Maria è l'incarnazione più luminosa di questo " resto di Israele ". Il suo Magnificat il canto insuperabile di questa povertà: il Potente guarda la bassezza della sua serva e lui, lui solo, compie in lei grandi cose (cf Lc 1,46-55). S. Benedetto condensa tutto questo in una frase: operantem in se Dominum magnificant: " Lodano il Signore che compie in essi grandi cose " (Prol. 30).

III. A.: misura dell'essere cristiano. Non è detto che l'a. sia un atteggiamento facile. Ogni volta che qualcuno si offre e chiede di entrare nella vita di un altro (quando si ha cioè una condensazione di presenza) tutto si scuote nell'esistenza. Si attua un risveglio di interesse. I meccanismi di reazione che scattano in tale situazione possono essere due: il primo, negativo, è quello della istintiva difesa. Ogni novità è in qualche modo una minaccia. Meglio " quieta non movere ". Può essere qualcuno che chiede troppo. E allora si ha la chiusura del " no ". Ciò è quanto ha fatto il giovane ricco che " se ne andò triste " (Mt 19,22).

Il secondo atteggiamento - positivo - è quello di fervido assenso. S'intuisce che può essere importantissimo colui che viene. Se scombina le carte della vita è solo per combinarle in meglio. E allora ci si decide per lui. Il cuore si apre al Signore della vita e viene trasformato in lui.

Ma, siccome egli è " altro ", anzi il " Tutt'Altro ", egli diventa una sfida alle abitudini dell'uomo vecchio. Occorre allora cambiare, convertirsi a un incontro vivo che si fa a. E una Persona da incontrare e da accogliere, che diventa poi la novità di ogni giorno, se si conserva viva la capacità di stupore e se si vince quell'" abitudine cosificante " che trasforma in " cose morte " le realtà più vive dell'esistenza. Come l'accettazione della croce è condizione essenziale per seguire il Signore così accogliere l'altro senza riserve è segno di fedeltà al comandamento nuovo dell'amore fraterno senza frontiere. Non solo l'a. del compagno, del familiare o dell'amico, ma quella del forestiero, del lontano, del povero, di colui che non può ricambiare. Un'a. che invita alla rinuncia, alla disponibilità, alla gratuità perché vede nell'ospite, nel forestiero, nel povero specialmente il divino Forestiero che non ha una pietra dove posare il capo (cf Mt 8,20). Nell'affamato, nell'assettato nel pellegrino, nell'ignudo, nell'ammalato, nel prigioniero... è sempre il Cristo che bussa alla porta del cristiano e chiede ospitalità e aiuto (cf Mt 25,35-36).

Ma l'a. e l'ascolto si manifestano e ci interpellano anche in altre situazioni: nell'attenzione all'altro, nella capacità di dialogo, nel fare spazio all'altro diverso da sé. E un atteggiamento questo, una disposizione di fondo che sa accogliere senza animo diffidente e sospettoso, ma con attenzione e amore, di ascolto e di rispetto per l'altro.

III. A. interiore: il mistero della grazia. L'aspetto forse più fascinoso e più misterioso di tale a. è quello che viene denominato " inabitazione ". La grazia non è solo " qualcosa " che Dio comunica all'uomo. E il mistero stesso di Dio che entra nell'uomo. Mai l'uomo avrebbe potuto immaginare questa realtà ineffabile, se Cristo Gesù non lo avesse rivelato: " Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui " (Gv 14,23). Non si tratta di una visita passeggera, di un ospite, per un giorno: è una dimora permanente.

Chi nella vita moderna ha compreso meglio questa verità, facendone il centro della sua vita, è stata Elisabetta della Trinità, la carmelitana mistica di Digione. I suoi scritti sono una splendida sinfonia, in cui questa è la nota dominante. Ecco qualche passaggio: " E così bella questa presenza di Dio! E laggiù in fondo, nel cielo della mia anima che amo trovarlo, perché non mi abbandona mai ".2 Ed ella ritorna spesso su questo " piccolo angolo di me stessa ", su questa " cella che vuoi costruita nel mio cuore ". Si può, dunque, affermare che un piccolo cielo è il cuore dell'uomo. Perché " i cieli non ti possono contenere, ma il cuore dell'uomo sì ", ama ripetere la tradizione del Carmelo. E la ragione è semplice: Dio è Spirito, e il cuore umano è uno spazio spirituale. Sicché Elisabetta esclama: " Mi sembra di aver trovato il mio cielo sulla terra perché il cielo è Dio e Dio è nella mia anima. Il giorno in cui ho capito questo, tutto si è illuminato in me ".3 Questo la trasforma in " laudem gloriae ", le permette di entrare nella vita intima di Dio e di essere trascinata in un misterioso rapporto " con i suoi Tre ": " Beatitudine infinita, immensità nella quale mi perdo ".

Più che preoccupata di ciò che deve fare per Dio, è attenta ed accogliente verso ciò che Dio ha fatto e vuole fare per lei. L'accento non va sullo sforzo umano, ma sull'a. del dono. Sempre ricordando tutto l'impegno che ciò esige.

A sostegno di questa verità vissuta dai mistici c'è un'espressione pregnante della liturgia rinnovata che nella memoria di s. Gertrude implora: " Te in nobis praesentem et operantem laetanter experiamur ", cioè: fa' che facciamo la gioiosa esperienza d'incontrare Te che, presente nel nostro cuore, non cessi di agire. La stessa s. Gertrude scrive: " Hai voluto concedermi l'inestimabile familiarità della tua amicizia con l'aprirmi in diversi modi quel nobilissimo scrigno della divinità che è il tuo cuore divino, e offrirmi in esso con grande abbondanza ogni tesoro di gioia ". Dio entra nel cuore dell'uomo e l'uomo entra nel cuore di Dio.

IV. A. dei fratelli: ospitalità. Non si può accogliere Dio, e poi lasciare i fratelli fuori della porta. Il cristiano arde di carità per il Cristo, ma sa poi incontrarlo ed accoglierlo nella persona concreta dei poveri e dei sofferenti. Queste due facce della carità sono inseparabili come il concavo e il convesso. Cristo nella Incarnazione non ha assunto solo quella umanità germinata nel grembo di Maria, in qualche modo ha assunto ognuno dei cinque miliardi di uomini che vivono sulla terra. Sicché ha potuto dire: " Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me " (Mc 9,37).

Basti citare al riguardo quattro esperienze emblematiche. La prima dall'apostolo Paolo che scrivendo a Filemone dice: " Accogli Onesimo come me stesso " (Fm 17). La seconda dalla Regola di s. Benedetto, che ha creato nei secoli miriadi di " ospizi " in tutti gli angoli dell'Europa: " Nel modo di salutare si mostri somma umiltà a tutti gli ospiti che giungono o partono: inclinato il capo o prostrato tutto il corpo a terra, si adori in essi Cristo che si accoglie. I poveri e i pellegrini siano accolti con particolari cure ed attenzione, perché specialmente in loro si accoglie Cristo " (c. 53). Il latino è ancora più scultoreo " in ipsis magis Christus suscipitur ".

Nel filone francescano basta richiamare il fatto che Francesco inizia la sua vita nuova dopo che, vincendo la ripugnanza iniziale, ha baciato le piaghe purulenti di un lebbroso.

Più vicino a noi in epoca moderna è il padre Peyriguère, discepolo di Charles de Foucauld e contemplativo come lui. Passava ore davanti al SS. Sacramento in adorazione. Ma, conoscendo la sua competenza di infermiere cominciano a chiedere il suo servizio per i malati ed egli acconsente. Poi scrive ad un amico in Europa: " Come è reale, come è terribilmente reale il Cristo nelle membra di questi mocciosi che mi sporcano la barba con il muco del loro naso ". Aveva coscienza insomma per dirla con s. Vincenzo de' Paoli, di " lasciare il Signore per il Signore ".

La storia della santità è tutta disseminata di esperienze come queste. Forse la più splendida vicino a noi è quella del beato Luigi Orione, apostolo della carità, ma che ha fatto riferimento per la sua Congregazione alla Regola di s. Benedetto di impronta chiaramente contemplativa. E ha voluto avere " eremiti " a sostegno di quanti si impegnano a servizio dei fratelli.

L'incontro con gli altri deve superare gli stretti confini della pura cortesia e della civile convivenza per non vanificarsi. La categoria sociale fondamentale è il rapporto " io-tu ". Ora il " tu " dell'altro uomo è il " tu " divino. Ogni tu umano è immagine del tu divino. Di conseguenza, la via verso gli altri e la via verso Dio coincidono. E questa la natura stessa dell'a., atteggiamento tipico dell'esperienza mistica.

Note: 1 Par. III, 85; 2 Lettera 62, in B. Elisabetta della Trinità, Opere, Cinisello Balsamo (MI) 1993, 215; 3 Lettera 122, 279.

Bibl. Aa.Vv., Cultura dell'accoglienza, Roma 1983; G. Agresti, Elogio della gratuità, Roma 1980; A.P. Frutaz, Ospitalità, in DES II, 1792-1793; F. Gioia, Accoglienza dello straniero, Roma 1986; H.J.M. Nouwen, Hospitality, in Monastic Studies, 10 (1974), 1-48; C. Spicq, Agape dans le Nouveau Testament, 3 voll., Paris 1958-1959; P. Viard, Hospitalitè, in DSAM VII, 808-831; C. Zanetti, Dinamismo dell'amore nella relazione di servizio, Milano 1969.

M.A. Magrassi

ADAMO. (inizio)

Premessa. Il nome 'adam deriva da 'adamah, terra. Riferito al primo uomo nel libro della Genesi, 'adam è, al contempo, nome generico per indicare l'umanità (cf Gn 1-2) e nome proprio del primo uomo (da Gn 3,17 in poi).

I. Il primo racconto della creazione (cf Gn 1,1-2,3). Il primo racconto della creazione, di sapore babilonese, fu scritto dalla scuola sacerdotale (P) durante o poco dopo l'esilio di Babilonia (VI-V sec. a.C.). Per P, il creato è come un palazzo che Dio preparò per insediarvi ADAM, ossia l'umanità, come re. 'Adam, vi appare come una creatura del tutto speciale, quasi il culmine di tutto il creato. La sua creazione è preceduta da una deliberazione di Dio. " Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra " (1,26). Si è discusso molto sul significato del termine " immagine di Dio " applicato a 'adam. Dal contesto sembra che esso implichi la superiorità di 'adam sul resto del creato, superiorità che lo pone in una relazione del tutto speciale con il Creatore. Ne segue il compito primario datogli da Dio: reggere il creato a nome suo, come suo rappresentante.

La relazione tra 'adam e il regno animale è pacifica. Non si aggrediscono l'un l'altro perché ad ognuno è assegnato il proprio cibo (1,29). Sarà solo dopo il diluvio causato dalla violenza umana (6,5), che Dio, per tener sotto controllo questa violenza, permetterà all'umanità di mangiare pesci, uccelli, animali e l'erba che prima era stata destinata agli animali (9,1-7).

Un'altra considerazione importante è che 'adam in questo primo racconto della creazione è un termine che include ambedue i sessi perché al v. 27 si dice che " Dio creò 'adam a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina lo creò ". Uomo e donna, quindi, hanno la stessa dignità e sono perfettamente uguali davanti al Creatore e davanti al creato verso cui hanno ambedue insieme lo stesso compito di reggerlo.

II. Il secondo racconto della creazione (Gn 2,4-3,24), di sapore canaanaico, è attribuito allo Jahvista che, secondo il parere più diffuso, scrisse la sua storia della salvezza all'epoca di Davide e Salomone (X-IX sec. a.C.). Il racconto è costruito a modo di dittico. La prima parte (2,4-25) ci descrive la situazione di 'adam prima del peccato e ci delinea l'immagine ideale dell'umanità secondo il progetto originario di Dio. La seconda parte (3,1-24), raccontando la storia del peccato della prima coppia e le sue conseguenze, ci descrive la realtà dell'umanità peccatrice come la sperimentiamo giorno dopo giorno.

1. 'Adam nel giardino di Eden (Gn 2,4-25). Lo scopo della creazione di 'adam, secondo il racconto Jahvista, è che egli lavori la terra che senza il suo lavoro rimarrebbe un deserto (2,5-6,15). Forse questa è la spiegazione migliore del dominio dato da Dio all'umanità sul creato: reggere il creato significa svilupparlo secondo il progetto di Dio. Certo, anche qui, come già nel primo racconto, Dio crea tutto per 'adam, perché 'adam possa vivere contento. Però qui risalta maggiormente la reciprocità tra 'adam e il resto del creato: sono fatti l'uno per l'altro. Questa intima relazione tra 'adam e il creato appare anche dal fatto che 'adam è tratto dalla terra, 'adamah (2,7), proprio come gli animali e gli uccelli (2,19).

Eppure 'adam è superiore al resto del creato tanto che non si trova nessuna creatura che gli possa stare dinanzi da uguale e che soddisfi il bisogno più intimo insito nel suo cuore, di vivere una relazione personale con un altro essere (2,18-20). Questo vuoto lo può riempire soltanto un essere formato dal suo stesso corpo, cioè proprio uguale a lui, della sua stessa natura diremmo noi. Questo è un altro modo per ribadire l'idea già espressa nel primo racconto che l'uomo e la donna nel progetto di Dio godono della stessa dignità e sono perfettamente uguali e complementari.

2. Il peccato di 'adam (Gn 3,1-24). Su questo sfondo idillico appare un altro elemento, il serpente, che seduce la donna e per mezzo suo induce l'uomo a trasgredire il comando di Dio. L'uomo e sua moglie sono accecati dal desiderio di mangiare dall'albero proibito, tanto che esso diventa ai loro occhi un albero come tutti gli altri, " buono da mangiare e gradito agli occhi " (2,6; cf 2,9). Così trasgrediscono il comando di Dio. Le conseguenze sono disastrose.

In primo luogo, la relazione con Dio, che prima doveva essere intima e amichevole, ora è tutta segnata dalla paura e da un forte senso di indegnità (3,8). Inoltre, si è guastata anche la perfetta comunione che esisteva prima tra l'uomo e la donna. A. getta sulla moglie la responsabilità per ciò che è accaduto (3,12) e le dà un nome proprio come aveva fatto prima con gli animali (3,20; cf 2,19-20). Nella mentalità biblica questo è segno di autorità e di superiorità. Anche la relazione di 'adam con il resto del creato è viziata per conseguenza del peccato (3,17-19).

Eppure Dio non dimentica la sua creatura che lo ha disobbedito. Vestendo A. ed Eva con tuniche di pelli (3,21), Dio mostra di avere ancora cura di loro e che, malgrado il peccato, 'adam conserva ancora una certa dignità.

Conclusione. A. in quanto rappresentante dell'umanità, ci indica la nostra vocazione fondamentale quali membri della famiglia umana. Creati ad immagine di Dio, l'uomo e la donna sono chiamati a vivere in comunione con il Creatore, tra di loro e con il resto del creato che devono reggere e sviluppare quali suoi rappresentanti e collaboratori. Questa sublime vocazione è sempre minacciata dal peccato che ci fa perdere di vista la nostra creaturalità per diventare, al posto di Dio, padroni assoluti della nostra vita, nonché degli altri e del creato strumentalizzandoli secondo il nostro capriccio.

Cristo, facendosi uomo e offrendosi vittima per la nostra salvezza, ha elevato la vocazione originaria dell'umanità. Configurandosi a lui, nuovo A., l'uomo trova la sua compiutezza nel donarsi a Dio e ai fratelli ed è chiamato a diventare partecipe della natura divina (cf 2 Pt 1,4) e una sola cosa con i fratelli (cf Gv 17,22-23).

Bibl. G. Barbaglio, Uomo, in NDTB, 1590-1609; J. Barr, The Image of God in the Book of Genesis. A Study in Terminology, in Bulletin of the John Rylands University Library of Manchester, 51 (1968-69), 11-26; Id., Man and Nature. The Ecological Controversy and the Old Testament, in Ibid. 53 (1972-73), 20-22; D. Barsotti, s.v., in DES I, 18-20; U. Bianchi, Adamo e la storia della salvezza, in Aa.Vv., L'uomo nella Bibbia, Milano 1975, 209-223; Id., Prometeo, Orfeo, Adamo. Tematiche religiose sul destino, il male, la salvezza, Roma 1976; M. Gilbert, Soyez feconds et multipliez, in NRTh 96 (1974), 729-742; A.J. Hauser, Genesis 2-3: The Theme of Intimacy and Alienation, in Art and Meaning: Rhethoric in Biblical Literature (ed. D.Y.A. Climes, D.M. Gun, A.Y. Hauser), Sheffield 1982, 20-36; F. Maass, " 'Adam ", in GLNT I, 161-186; I. Onings, s.v., in DSAM I, 187-195; A. Soggin, Testi chiave per l'antropologia dell'AT, in Aa.Vv., L'antropologia biblica, Napoli 1981, 45-70; A. Stolz, Teologia della mistica, Brescia 1940; W. Vogels, L'être humain appartient au sol. Gen 2,4b-3,24, in NRTh 105 (1983), 515-534; C. Westermann, s.v., in DTA I, 36-49.

A. Vella

ADATTAMENTO. (inizio)

I. Termine usato in biologia e nelle scienze umane (sociologia, psicologia) dal significato abbastanza ampio. In generale, sia per la biologia che per le discipline sociali, con il termine a. s'intende definire lo stato di equilibrio (assenza di conflitto e il processo attraverso il quale esso si compie) che un soggetto o un organismo stabilisce con il suo ambiente. Tuttavia, la diversità tra le varie scienze riguarda il concetto di ambiente. La biologia intende l'ambiente organico nel quale è inserito il soggetto o organismo. L'a. in questo senso si compie attraverso la " filogenesi ", ovvero attraverso una serie di modifiche ed evoluzioni organiche che permettano ad una specie la sua sopravvivenza e il suo sviluppo in condizioni sempre più ottimali.

Il concetto di a., in sociologia, riguarda, pertanto, da una parte le trasformazioni che si attuano all'interno dei gruppi e delle organizzazioni sociali per essere maggiormente adeguati alle condizioni macrosociali e con questo garantirsi la sopravvivenza sociale; dall'altra parte, s'intende il processo di adeguamento individuale alle norme sociali. In questo senso, il concetto di a. si riallaccia a quello di normalità.

Per la psicanalisi freudiana, l'a. è inteso nel suo risvolto intra ed interindividuale. Con questo termine s'intende, perciò, il processo mediante il quale le pressioni libidiche trovano un compromesso con i divieti e le norme che provengono dal mondo reale.

G. Froggio

II. Per la persona umana l'a. non è solo legato all'istinto della sopravvivenza e ad alcuni meccanismi di difesa come avviene per tutti gli animali e i vegetali. L'a. nella persona umana è molto più complesso e potrebbe spiegarci perché la nostra razza (a meno che non si autodistrugga) può superare qualunque selezione e può vincere qualunque lotta per la sopravvivenza.

L'a. umano, quindi, non è solo questione di fisico adatto e di intelligenza superiore, ma anche di ideale di vita. Infatti, nei campi di sterminio, alcuni pur essendo di costituzione robusta morivano, mentre altri, molto più gracili, sopravvivevano. Questi ultimi avevano sviluppato un forte spirito di a. perché avevano un compito da compiere nella propria vita inteso come una missione che costituiva lo scopo della loro esistenza e il senso della loro vita.

L'a. esige un grande equilibrio per non cadere in eccessi che, anziché favorire la realizzazione del proprio progetto di vita, lo ostacolano.

I limiti socio-culturali, infatti, non sempre permettono di essere pienamente come si vorrebbe e, spesso, si è eccessivamente rigidi, ragion per cui non si realizza neanche una minima parte dei progetti di vita. Da un punto di vista evolutivo e psicodinamico più che " essere se stessi " è forse più esatto dire " diventare se stessi " o " diventare ciò che si è ".

III. Un buon esempio di a. ci può venire dalla vita dei martiri che avevano ben chiaro in mente su cosa non cedere neanche di fronte alla violenza e alla morte e cosa invece lasciar cadere per meglio realizzare ciò che era ritenuto più importante. I santi sono persone che in moltissime cose sono estremamente semplici e molto più ordinarie di quanto potremmo immaginare, ma hanno sicuramente avuto il coraggio di decidere nella propria coscienza quali perle svendere e quale perla ritenere come la più preziosa ed escludere da un qualunque baratto.

Una chiara gerarchizzazione è alla base dell'a.: l'uomo di Dio ha le idee chiare sul valore da scegliere; sa che non potrà realizzare tutti i valori e che non potrà mai essere perfetto. Egli è sempre proteso verso un'unica direzione: la piena realizzazione di sé in Dio, quale progetto di vita che ha scelto come opzione fondamentale nella sua esistenza terrena.

Bibl. S. Bonino - G. Saglione, Aggressività e adattamento, Torino 1978; L. Cian, Cammino verso la maturità e l'armonia, Leumann (TO) 1982; H. Hartmann, Psicologia dell'io e problema dell'adattamento, Torino 19732; G.G. Pesenti, s.v., in DES I, 20-21.

ADORAZIONE. (inizio)

I. Il termine a. esprime rispetto, riconoscenza, sudditanza, venerazione, timore riverenziale verso una personauna realtà considerata superiore alla persona adorante. Molto spesso, ma non unicamente, il termine si usa per designare l'atteggiamento fondamentale di una creatura verso il suo Creatore, quindi, spontaneamente è riservato ai rapporti dell'uomo con Dio. Come di solito, anche in questo caso, la parola etimologicamente deriva da un gesto concreto, estrinsecato, che dimostra il rapporto: ad os dei romani si riferiva al gesto secolare di portare le dita alle labbra e poi mandare con le stesse dita un saluto o un bacio alla persona venerata. Gesti di a. sono molto diversificati nelle varie culture. Il gesto esterno di a. può essere l'inginocchiarsi, il prostrarsi, il chinare il capo, il baciare il suolo, o anche fare danze rituali, sacrifici propiziatori.

La parte esteriore, però, era sempre in funzione di un'altra più importante, quella interiore. Fondamentalmente, l'a. è l'atto per il quale la persona tutta intera, corpo ed anima, riconosce la sua dipendenza totale da Dio. Davanti all'immensità, alla grandezza, alla santità incomparabile di Dio, la creatura umana non può che manifestare la propria pochezza e la riconoscenza per tutti i benefici ricevuti dal suo Creatore. Dalle radici dell'essere umano sorge il bisogno di riconoscere, apprezzare, usare bene tutti i doni ricevuti, offrendoli in modo integrale a Dio dimostrandogli la propria riverenza e il proprio amore.

L'a. allora viene inclusa nella categoria di culto denominato latria, quel culto cioè che spetta a Dio solo e a nessun altro, come viene ribadito nel primo comandamento del Decalogo. Tale culto è specificamente diverso dalla venerazione mostrata ad altri come, ad esempio, ai santi; la venerazione per questi comunemente si denomina dulia. La venerazione particolare per la Vergine Maria si chiama iperdulia. L'Eucaristia è un atto di culto divino che perpetua il sacrificio perenne di Cristo Gesù al Padre in favore degli uomini. Quando l'Eucaristia si celebra in onore di qualche santo, è sempre il Padre colui al quale tutta la gloria e tutto l'amore sono offerti, per mezzo di Cristo Gesù, il quale, anche nelle sue membra, ha fatto dono perenne di sé a Dio e continua a farlo nella liturgia celeste.

L'a., dunque, è riservata a Dio e, per i seguaci di Cristo, alle tre Persone della SS.ma Trinità. Detta a. si estende alla persona di Gesù Cristo e anche alla sua natura umana. Perennemente la Chiesa ha rivendicato questa verità: poiché la natura umana di Gesù esiste semplicemente per sussistenza eterna del Verbo, la seconda Persona della SS.ma Trinità, in quella mirabile unione che si chiama ipostatica, per la sua stessa natura richiede che la identica a. si offra alla natura divina e a quella umana del Cristo. Questo è uno degli argomenti più validi della Chiesa per ribadire la immutata divinità della persona del Verbo incarnato: se l'umanità di Gesù non fosse ipostaticamente unita al Verbo, allora saremmo idolatri quando adoriamo il Bambino Gesù nel presepio, o Gesù crocifisso. Invece, la Chiesa ha sempre insistito sul fatto che l'a. latreutica fosse estesa a tutti gli stati della vita umana di Gesù, alla sua reale presenza sotto le specie eucaristiche, e persino alla croce di Gesù.

II. Nella liturgia. L'a. è una parte essenziale della liturgia. L'assemblea dei fedeli non si raduna solo per ricevere l'abbondanza dei benefici divini (movimento discendente), ma anche per offrire a Dio il culto e l'amore a lui dovuti (movimento ascendente). In nessun momento, i fedeli radunati intorno alla mensa del Signore possono dare testimonianza più evidente della loro appartenenza a Cristo: per Cristo, con Cristo, in Cristo, nell'unità dello Spirito Santo offrono l'unico sacrificio della nuova alleanza nel quale sono contenuti tutto l'onore e tutta la gloria dovuti a Dio. Sono aiutati ad entrare in questo spirito con preghiere, canti, gesti, funzioni che sottolineano l'offerta di ogni singolo e di tutta l'assemblea, fatta con cuore contrito, umile, confessando la propria piccolezza, ma con lo stesso cuore esultante di gioia, riverenza, devozione, gratitudine, dono di sé davanti all'inestimabile dono che Dio concede nel suo Figlio e in lui di tutte le altre cose.

Poiché i salmi testimoniano questa realtà, spesso vengono usati nella liturgia. Nel Gloria l'assemblea esulta pur nella sua indegnità; in Cristo e per lui rende grazie a Dio per la sua immensa gloria. Per incarnare l'atteggiamento di a. la Chiesa, saggiamente, raccomanda, se si canta durante la celebrazione eucaristica, di non tralasciare il " Santo " a conclusione del Prefazio nel quale sono indicate le ragioni particolari della lode e dell'a. Il canto del " Santo " intende unificare tutta l'assemblea in un atto di riconoscenza a Dio. La dossologia maggiore, che conclude la preghiera eucaristica, intende appunto riconoscere la gloriosa opera della redenzione e santificazione, che si può apprezzare soltanto se si è presi d'ammirazione e da umile riconoscenza e da un'a. mistica. I diversi spazi di silenzio previsti dalla liturgia completano l'intensa a. dovuta a Dio per se stesso e per i benefici abbondantemente elargiti.

La Liturgia delle Ore è particolarmente ricca di elementi che conducono all'a. o suscitano nei partecipanti i sentimenti che sono alla base di essa. Il salmo invitatorio, che cerca di dare il tono di tutta l'ufficiatura, è esplicito nell'appello all'a. S. Maria Maddalena de' Pazzi cadeva in a. profonda ogni volta che si cantava il Gloria Patri alla fine di ogni salmo. S. Teresa Margherita Redi era rapita durante la proclamazione liturgica: " Dio è amore ". Oggi, la Liturgia delle Ore ha come scopo principale l'estendere ai momenti della nostra giornata l'inno di benedizione, di lode, di a. a Dio che riempie tutta la nostra vita.

III. Nella vita cristiana. Nella vita dei santi si nota un approfondimento del senso dell'a. corrispondente alla loro ascesa spirituale. Più l'uomo si avvicina al Signore e più intenso diventa il suo rapporto, più radicale, vivo e necessario è il bisogno dell'a. Quando più si apprezzano le meraviglie del Signore, nella sua vita intratrinitaria, nella sua perfezione, nelle missioni divine in nostro favore, nel suo intervento nel creato, nella sua provvidenza, nella salvezza offertaci, più si sente il bisogno di adorare un così grande Amante e Benefattore degli uomini.

Per offrire un solo esempio di una vita santa permeata da un senso di a., basti citare la beata Elisabetta della Trinità. Nella sua celebre elevazione alla Trinità, ella esprime il senso autenticamente cattolico dell'a. Già le prime parole lo ribadiscono: " Mio Dio, Trinità che adoro ". Per Elisabetta Dio Trinità non è un problema, perché le tre Persone divine sono perennemente inserite nelle vicende storiche degli uomini. Davanti ai suoi " Tre ", ella nutre prima sentimenti di a., poi di riparazione e di petizione. Conoscere Dio in spirito e verità significa adorarlo, lodarlo, onorarlo per ciò che egli è in se stesso. La sua bontà si apprezza ancora di più quando si vede rispecchiata nelle creature: " L'a. mi sembra che si possa definire l'estasi dell'amore. E l'amore suscitato dalla bellezza, dalla forza, dalla grandezza immensa " di Dio.1 E Gesù che prima di tutto adora in spirito e verità; è lui che ci insegna l'autentica a. L'a. non è un atto studiato, formalistico, di fronte al mistero; piuttosto è l'atteggiamento che spontaneamente deriva dall'apprezzamento della " troppo grande " agape di Dio nei nostri riguardi. Anche nella sofferenza atroce, l'immensa agape di Dio rende l'anima ancora più convinta del bisogno dell'a. Il Regno di Dio è dentro di noi; esso è espressione del grande amore di Dio verso di noi. La vocazione cristiana consiste, pertanto, nel ringraziare, lodare, adorare un amore così gratuito e fedele.

L'a. è un valore costante nell'ascesa verso la perfezione cristiana. Sottolinea il fatto fondamentale che ogni realtà autentica è un dono gratuito dall'alto. Espressa con diverse sfumature secondo i diversi approcci alla santità, l'a. è anche una caratteristica comune che evidenzia una via autentica della sequela di Cristo. I benedettini la incarnano nella celebrazione liturgica; i francescani danno voce di a. a tutte le creature di Dio; i domenicani danno corpo all'a. sia negli uffici divini sia nell'ossequio della mente umana; i gesuiti adorano cercando di dare gloria a Dio in tutte le cose; la scuola francese adora immedesimandosi con gli stati d'animo di Gesù. Queste sfumature pongono in risalto la ricchezza dell'a. cristiana, che si realizza in una persona estasiata dall'immensa bontà e grandezza di Dio, doni che egli offre ai suoi amici con gesti di un amore troppo grande per essere apprezzato debitamente, e al quale la persona risponde con gesti e con atteggiamenti interiori di riconoscenza, di lode, di sottomissione, di amore riverenziale. In ultima analisi, la Chiesa esprime, attraverso l'a., quel recondito desiderio di intimità con il Salvatore che ne caratterizza la vita più vera.2

Note: 1 Ultimo ritiro, 8o giorno; 2 Cf Pio XII, Mediator Dei, n. 109.

Bibl. D.P. Auvray, L'adoration, Paris 1973; G. Bove, s.v., in DTE, 17-18; I. Hausherr, Adorer le Père en esprit et en verité, Paris 1967; A. Molien, s.v., in DSAM I, 210-222; R. Moretti, s.v., in DES I, 28-32; B. Neunheuser, s.v., in NCE I, 141-142.

R.M. Valabek

ADOZIONE DIVINA. (inizio)

Premessa. L'esperienza mistica che fanno i cristiani della loro filiazione divina si fonda e si radica nell'esperienza mistica, propria a Gesù, di relazioni intime con il Padre.

I. " Abbà ", Padre mio e Padre vostro. Questa esperienza mistica di Cristo si lascia scoprire nel termine " Abbà ", pronunciato con tanto ardore filiale nella preghiera del Getsemani. " Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu " (Mc 14,36).

Chiamando suo Padre nel modo più familiare, Gesù osa chiedergli l'allontanamento del calice, pur affermando subito la sua disposizione a compiere la volontà paterna.

La parola aramaica Abbà viene citata soltanto in questo testo evangelico, ma è abitualmente impiegata da Gesù nella sua preghiera.1 Avendo il senso di " papà ", essa implica un atteggiamento essenzialmente filiale in un intimo rapporto senza riserve. Essa manifesta la coscienza che Gesù possiede della sua filiazione divina. Tale coscienza non ha cessato di svilupparsi in contatti mistici con il Padre.

Pur rivelando la filiazione divina che gli appartiene a un titolo unico, Gesù fa comprendere la sua intenzione di condividere con i discepoli le sue relazioni filiali con il Padre. A più riprese egli designa questo Padre come " il Padre vostro ", " il Padre vostro che è nei cieli ", " il Padre loro ", " il Padre tuo ".2 Quando insegna loro come pregare, raccomanda di cominciare, come fa lui, con la parola " Padre ", " Abbà " (Lc 11,2).

Risorto, Gesù annuncia a Maria Maddalena, nel messaggio destinato ai discepoli: " Io salgo al Padre mio e Padre vostro " (Gv 20,17). Ha cura di distinguere i due legami di filiazione: quello che caratterizza " Padre mio " e l'altro: " Padre vostro ". Ma, allo stesso tempo, esprime la loro unione: più particolarmente in virtù del dramma redentore che si consuma nella risurrezione, suo Padre è diventato nostro Padre, per cui ormai la nostra filiazione divina è implicata nella sua.

II. Generato per dare ai credenti il potere di diventare figli di Dio. Riportando il messaggio del Risorto, l'evangelista Giovanni si rende ben conto della sua portata, perché già nel prologo del suo Vangelo aveva sottolineato questa condivisione della filiazione divina come scopo dell'Incarnazione: " A quanti l'hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, lui che non dai sangui né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio fu generato " (Gv 1,12-13).3

La nascita verginale di Gesù è un'espressione della sua filiazione divina: essendo pienamente Figlio di Dio nella sua natura umana, egli comunica agli uomini la qualità di figli di Dio, con tutto il potere che significa questa filiazione.

Nell'AT Dio aveva rivelato a Israele il suo amore paterno: " Israele è il mio figlio primogenito " (Es 4,22). Questa affermazione assume un valore nuovo con l'Incarnazione: la grande novità è che il Figlio viene generato dal Padre, per mezzo dello Spirito Santo, nella sua natura umana, come primogenito dell'umanità.

Il prologo di Giovanni pone in evidenza la superiorità del dono divino nel Figlio, che viene " pieno di grazia e di verità ". " Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia " (Gv 1,14.16).

Dandoci il potere di diventare figli di Dio, egli fa abbondare in noi la grazia. E questa grazia è verità, perché la filiazione divina che ci viene offerta è pienamente vera, come partecipazione alla filiazione del Figlio unigenito. Siamo figli nel Figlio.

III. Predestinazione all'a. S. Paolo attira la nostra attenzione sull'iniziativa del Padre nell'instaurazione di questa filiazione divina. Essa è più particolarmente descritta nell'inno della Lettera agli Efesini: " Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo... predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà " (1,3-6).

Tutto proviene dal " beneplacito " (eudokia) del Padre, cioè da un amore gratuito, anteriore alla creazione, perché egli " ci ha scelti prima della creazione del mondo ".

La volontà di Dio è sovrana, ma è essenzialmente una volontà paterna, del Padre di Cristo. La sua bontà si manifesta nell'abbondanza di benedizioni spirituali.

Il Padre ci ha predestinati all'adozione filiale in Cristo. L'adozione indica la differenza fra la filiazione propria a Cristo e la nostra.

Nella società civile greca, l'adozione aveva un significato giuridico. Ma questo significato viene superato: non si tratta soltanto di un titolo esterno di figlio e di erede. La filiazione comporta una trasformazione intima: " Il Padre ci ha predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli " (Rm 8,29). Egli ci concede la partecipazione alla vita divina di Cristo per mezzo dello Spirito. Il ruolo dello Spirito Santo consiste nella nostra elevazione allo stato di figli nel Figlio: " Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio " (Rm 8,14).

A. è, dunque, un'espressione che ha bisogno di essere precisata. La nostra filiazione divina è profondamente reale, come filiazione partecipata dalla filiazione unica del Figlio incarnato.

IV. Prima esperienza mistica. Paolo non ci fa soltanto scoprire meglio il grandioso piano del Padre all'origine dell'adozione filiale; egli ci riferisce l'esperienza vissuta dai primi cristiani.

Dopo aver detto che " Dio mandò il suo Figlio, nato da donna... perché ricevessimo l'adozione a figli ", egli afferma: " E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! " (Gal 4,4-6).

Questa è la testimonianza dell'esperienza mistica fondamentale, esperienza che - secondo la constatazione di Paolo - è la dimostrazione della filiazione divina propria alla vita cristiana. Questa filiazione divina non è soltanto oggetto di fede; essa è sentita e vissuta nel grido " Abbà ", che viene dallo Spirito Santo. Lo Spirito fa pronunciare ai cristiani la parola del Figlio, quella che Gesù non aveva cessato di ripetere nelle sue preghiere: " Abbà ".

Nella Lettera ai Romani, Paolo accenna ancora a questa esperienza piena di significato, sottolineando che la coscienza della filiazione allontana la paura dinanzi a Dio. " Voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: "Abbà, Padre!" Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio " (8,15-16).

Per i cristiani non si tratta soltanto di ripetere la parola " Abbà ", che aveva caratterizzato la rivelazione della filiazione divina di Gesù. Si tratta, per essi, di entrare nel mistero di questa filiazione divina e di riprodurre in essi, nella loro vita, l'esperienza di comunione filiale con il Padre che aveva dato un senso superiore a tutta l'esistenza terrena del Cristo. Il grido " Abbà ", che lo Spirito Santo fa scaturire per sviluppare le disposizioni filiali di Gesù, esprime il contatto mistico con il Padre, lo slancio di un'anima pervasa di meraviglia davanti all'amore del Padre. E in effetti il Cristo che, per mezzo del suo Spirito, ci apre " l'accesso al Padre " (Ef 2,18).

V. Dottrina della divinizzazione e prospettiva filiale. La dottrina enunciata da s. Giovanni e da s. Paolo, è all'origine della teologia della divinizzazione, che si svilupperà nell'epoca patristica, soprattutto presso i Padri greci. Ci basta citare s. Ireneo: " Il Verbo di Dio si è fatto uomo e il Figlio di Dio si è fatto figlio dell'uomo, perché l'uomo, unito al Verbo, ricevesse l'adozione e diventasse figlio di Dio... ".4 E nel pieno sviluppo di questa dottrina, s. Cirillo d'Alessandria scrive: " Siccome il Verbo di Dio abita in noi per mezzo dello Spirito, siamo elevati alla dignità dell'adozione filiale avendo in noi il Figlio stesso, cui siamo resi conformi, per la partecipazione al suo Spirito e, salendo a un livello uguale di libertà, osiamo dire: " Abbà, Padre " ".5

E importante ritornare incessantemente alla dottrina della Scrittura per apprezzare meglio il quadro nel quale si opera questa divinizzazione. E il quadro delle relazioni filiali con il Padre. L'esperienza mistica primitiva ha avuto, in Gesù e poi nei primi cristiani, una caratteristica essenzialmente filiale, che si esprimeva nella parola " Abbà ".

Questa prospettiva filiale è stata sufficientemente mantenuta e sviluppata, in seguito, nella tradizione mistica? Ci si può porre la domanda, specialmente a motivo del fatto che, spesso, le esperienze mistiche si esprimono in termini di contatti con Dio piuttosto che di contatti con il Padre. La figura del Padre non sembra aver ricevuto tutta l'attenzione che merita; essa non è stata riconosciuta in tutto il valore del suo ruolo paterno. Si potrebbe auspicare che l'esperienza della filiazione divina ponga maggiormente in evidenza il volto di colui che Cristo ci ha insegnato a chiamare " Padre ".

Note: 1 Cf J. Jeremias, Théologie du Nouveau Testament, Paris 1973, 82; W. Marchel, Abba Père! La prière du Christ et des chrétiens, Roma 1963, 132-138; 2 " Il Padre vostro ": Mt 6,3.15; 10,20.29; 23,9; Lc 6,36; 12,30.32; Gv 8,42; 10,17; " Il Padre vostro che è nei cieli ": Mt 5,16.45.48; 6,1.14.26.32; 7,11; Mc 11,25; Lc 11,13; " Il Padre loro ": Mt 13,43; " Il Padre tuo ": Mt 6,4.6.18; 3 Sul singolare nel v. 13 come versione autentica: cf J. Galot, Etre né de Dieu, Jean 1,13, Roma 1969; Egli non fu generato dai sangui (Gv 1,13), in Asprenas, 27 (1980), 153-160; Maternità verginale di Maria e paternità divina, in CivCat 139 (1988)3, 209-222; R. Robert, La leçon christologique en Jean 1,13, in RevThom 87 (1937), 5-22; 4 Ireneo, Adv. Haer. III, 19,1: SC 211,374; 5 Cirillo di Alessandria, Thesaurus 33: PG 75, 569cd.

Bibl. Ch. Baumgartner, Grâce, I. Sens du mot; II, Mystère de la filiation divine, in DSAM VI, 701-726; I. Blinzler, Figliolanza, in DTB, 538-551; A. De Sutter - M. Caprioli, s.v., in DES I, 32-35; G. Gennari, Figli di Dio, in NDS, 655-674; P. Grelot, Figlio, in DTB, 350-354; P. van Imschoot, Figlio di Dio. Figliolanza divina, in DB, 367-369; H.M. Oger, Théologie de l'adoption, in NRTh 84 (1962), 495-516; A. Royo Marin, Somos hijos de Dios, Madrid 1977; M. Ruiz Azúcar, Dios es Padre, Madrid 1968.

J. Galot

AFFABILITA. (inizio)

I. Nozione. Questo termine indica un modo di parlare e di agire molto gradito all'interlocutore, che si sente benevolmente accolto. L'a. è una qualità applicata a chi si comporta con il prossimo in modo sereno, cortese e piacevole. La sua affabilità è proverbiale, si dice di una persona che, mediante l'ascolto paziente dei problemi dell'altro, riesce ad intrattenere un dialogo aperto e cordiale. Alla naturale capacità di ispirare fiducia fa riscontro una serie di consigli che ridanno pace e coraggio a chi chiede aiuto.

L'a. forma parte integrante della giustizia in quanto dà al prossimo il rispetto dovuto e tratta tutti, in ogni situazione, con somma squisitezza. Ne differisce, invece, perché non è un obbligo a norma di legge né un effetto di pura gratitudine. Secondo s. Tommaso,1 si tratta di un atteggiamento d'apertura verso il prossimo, specialmente verso coloro che si sentono " emarginati ", dimenticati o disprezzati dalla società in cui vivono. Così ogni persona, senza alcuna distinzione di razza o religione, viene accolta con gioia sincera, amata per quello che è (cf GS 24) e diventa soggetto della reciproca amicizia.

II. Fondamento delle relazioni sociali. Mediante l'a. si rafforzano i vincoli di fraternità e di solidarietà, che costituiscono le norme principali dell'umana convivenza. Allora la singola persona non solo gode di una dignità inalienabile, ma sperimenta, altresì, da parte di tutti, sentimenti di comprensione, di grande stima e di fraterno amore. Come risposta ad una esigenza del cuore umano, l'a. rinnova la regola d'oro nelle relazioni sociali: parlare e comportarsi con gli altri allo stesso modo in cui ognuno vuole essere trattato (cf Mt 7,12). Anzi, i poveri, gli emarginati, i rifugiati meritano una dose straordinaria di a. Chi prova profondo interesse e sincera solidarietà per i problemi degli altri sa apprezzare la persona per quello che è, non solo per la sincerità delle manifestazioni di coscienza o per le qualità umane. Inoltre, serve ben poco una semplice compassione (o un piangere insieme sulle disgrazie altrui) che non comporti un efficace rimedio. L'a. diventa un aiuto positivo, perché si basa, a parte l'efficacia dell'amore di Dio, sulla fiducia nella persona, capace di un rinnovamento interiore e della soluzione dei problemi che sorgono ad ogni passo del cammino. L'atteggiamento di passività del soggetto, dunque, lo spirito di adulazione o, peggio ancora, la connivenza con la situazione sofferta non sono coerenti con la forza rinnovatrice di questa virtù.

III. Una virtù cristiana. Chi sa ascoltare benevolmente il prossimo che sta davanti mette in pratica il nuovo comandamento dell'amore, sintesi di tutte le leggi: un amore infinito, che trova la sorgente in Dio stesso, manifestato chiaramente nella vita e nell'insegnamento di Cristo. Egli, " perfetto Dio e perfetto uomo " (GS 22,38), si comporta sempre con somma delicatezza verso i più bisognosi. Come medico delle anime, proclama di essere venuto per salvare i peccatori (cf Lc 15,1-2) e per guarire i malati (cf Mt 14, 14). Certamente si commuove dinanzi alle miserie umane (cf Mc 1,41), ma offre un rimedio nel segno dell'a.: " Io sono mite e umile di cuore " (Mt 11,29).

Nel dialogo con Nicodemo (cf Gv 3,1-21), nell'incontro con Zaccheo (cf Lc 14,1-10) o nel colloquio con la Samaritana (cf Gv 4,7-42), egli non solo ascolta pazientemente i dubbi di fede o i problemi personali, ma mette l'interlocutore a suo agio. Infatti, si avvicina a ciascuno con semplicità, infonde fiducia al primo saluto e facilita l'apertura del cuore; quando interviene nei rispettivi colloqui cerca di chiarirne alcuni aspetti, senza però censurare le manifestazioni sincere, anche se un po' imbarazzanti. Alla fine, la sua parola illumina la situazione esistenziale e provoca la sincera conversione della persona che, a sua volta, diventa discepola e amica.

L'a. è un atto di mortificazione interiore. Come virtù esige un atteggiamento sereno, frutto della lotta contro la volontà di dominio sugli altri. Radicata nell'umiltà sincera e alimentata dall'amore fraterno, l'a. autentica è un frutto dello Spirito Santo che conosce, muove e trasforma il cuore umano.

L'a. si richiede, inoltre, nei rapporti di carattere sociale. Essa si addice soprattutto a quanti hanno un incarico sociale o una funzione di guida. In particolare, è richiesta ai presbiteri e a coloro che hanno una responsabilità pastorale all'interno della Chiesa;2 ai superiori delle comunità religiose; ai direttori spirituali.

IV. L'acquisto personale dell'a. Ogni cristiano, chiamato alla santità nel proprio stato e ufficio (cf LG 39-42), deve dominare le proprie passioni. Per combattere i nemici esterni ed interni, in particolare l'egoismo, bisogna esercitare la mansuetudine. Anche quando ognuno crede di avere ragione, se si lascia coinvolgere dal disprezzo, con i conseguenti scatti d'ira, verso l'altro dimostra una superbia raffinata. La virtù dell'a. si acquista alla luce di Cristo, mite ed umile di cuore. La conversione del cuore è frutto di una convinzione libera, grazie alla forza persuasiva dell'amore.

Frutto dello Spirito, l'a. è segno dell'amore misericordioso di Dio nei confronti dell'uomo, quindi di quest'ultimo nei rapporti con gli altri. Proprio per questo motivo, l'a. può svilupparsi solo in chi vive radicato nel cuore di Dio. I mistici, infatti, sono coloro che ne manifestano l'attualizzazione più autentica come riflesso di una vita invasa dal Dio dell'amore e protesa verso di lui.

Note: 1 STh II-II, q. 114, a. 2c.; 2 Cf Giovanni Paolo II, Il presbitero uomo della carità, in L'Osservatore Romano, 8 luglio 1993, 4.

Bibl. E. Bortone, s.v., in DES I, 35-36; Francesco di Sales, Trattenimenti spirituali, 4; L.M. Mendizábal, La direzione spirituale. Teoria e pratica, Bologna 1990, 77-85; H.-D. Noble, Bonté, in DSAM I, 1860-1868; Tommaso d'Aquino, STh II-II, q. 114, aa.1 e 2.

E. De Cea

AGILITA. (inizio)

I. Nozione. Eccezionale fenomeno fisico per cui un corpo materiale appare trasportato da un posto all'altro, istantaneamente o quasi, al di fuori dello spazio. Questo tipo di movimento è connaturale ad un essere puramente spirituale come l'angelo, poiché un essere puramente spirituale è localizzabile attraverso la sua funzione; dove egli è presente, ha luogo questo fenomeno. Questo tipo di movimento è, però, fisicamente impossibile per un corpo materiale, sebbene alcuni teologi attribuiscano comunemente il dono dell'a. ad un corpo glorificato e fenomeni di questo tipo, siano ricordati nella Sacra Scrittura (cf Dn 14,33-39; At 8,39-40) e nella vita di alcuni santi, come ad esempio in quella di s. Filippo Neri, s. Antonio da Padova e s. Pietro Alcántara.

II. Spiegazione del fenomeno. Questi fenomeni non possono essere confusi con quelli telecinetici, che riguardano il movimento di un oggetto materiale senza ausilio di un mezzo esterno e secondo la volontà della persona agente. Ci sono molti casi di telecinesi nell'agiografia. Ad esempio, in diverse occasioni si è vista l'Ostia consacrata portarsi dalla pisside o dalla patena, come se fosse in suo potere far sì che si spostasse dal recipiente alla bocca del comunicante. Chiaramente è fisicamente impossibile per un corpo materiale spostarsi da un posto ad un altro al di fuori dello spazio. Il fenomeno di a. si verifica per una causa preternaturale o soprannaturale.

Se il fenomeno di a. risulta causato da un potere diabolico siamo in presenza di un'a. che può essere istantanea solo apparentemente. Un corpo materiale non può spostarsi da un luogo ad un altro al di fuori dello spazio che intercorre tra i due, ma il movimento può essere così veloce che l'occhio umano può non percepirlo. Se ciò avviene ed il trasporto appare effettivamente istantaneo si tratterà certamente dell'opera di un buon angelo, come avvenne ad Abacuc (cf Dn 14,33-39) o di un intervento divino, come nel caso del diacono Filippo (cf At 8,39-40), ragion per cui il corpo fisico può passare attraverso lo spazio alla velocità della luce o dell'elettricità. Come per tutti gli autentici fenomeni mistici straordinari, l'a. è da considerarsi una gratia gratis data e, per alcuni teologi, è un'anticipazione dell'a. dei corpi glorificati, segno della santità dell'individuo.

Bibl. V. Marcozzi, Fenomeni paranormali e doni mistici, Milano 1990, 73; I. Rodríguez, s.v., in DES I, 46; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 1965, 1109-1111.

J. Aumann

AGOSTINO (santo). (inizio)

I. Vita e opere. La vita e gli scritti di Aurelio Agostino fanno un tutt'uno con la sua eredità spirituale, trasmessaci in tre fonti principali: le Confessioni (l'autobiografia di A., a. 397-401); le Retractationes (la recensione delle sue opere, a. 426-427); la Vita Augustini, con il famoso Indiculum o indice dei suoi scritti (registra 1030 opere), scritta dall'amico e discepolo Possidio, tra il 431-439, utilizzando ricordi personali e scritti conservati nella biblioteca di Ippona.

Aurelio A. nasce nel 354 a Tagaste (l'odierna Souk-Ahkras in Algeria), nella Numidia dell'Africa proconsolare, dal padre Patrizio, di professione " curiale " (esattore delle tasse) e di religione pagana, e dalla cristiana Monica ( 387). Egli espleta il suo curriculum scolastico prima a Tagaste, poi nella vicina Madauros, quindi per la retorica a Cartagine. Trascorre in Italia cinque anni (384-388) che gli cambiano la vita. A Roma lo aveva già preceduto l'amico Alipio (cf Conf. 6,8,13). Nella ex capitale dell'Impero egli inizia ad insegnare retorica (cf Ibid. 5,12,22), continuando a frequentare i manichei ai quali si è legato a Cartagine (cf Ibid. 5,10,18). Questi ultimi, insieme al prefetto di Roma, Simmaco, lo aiutano ad ottenere l'insegnamento di retorica a Milano (cf Ibid. 5,13,23), ove A. dà un orientamento diverso alla sua vita. Difatti, conosce il suo definitivo disincanto dal manicheismo già iniziato a Roma, il superamento dello scetticismo nella ricerca; la conversione al cristianesimo della Chiesa cattolica, maturata nel semestre trascorso a Cassiciacum nella villa di Verecondo. Adducendo motivi di salute, il giovane retore abbandona l'insegnamento. Fa ancora ritorno a Milano ma solo per iscriversi, con il nome di Agostino, tra i battezzandi della successiva Pasqua e per ricevere il battesimo dal vescovo Ambrogio (veglia pasquale del 24 aprile del 387). Subito dopo ritorna in Africa, fermandosi un anno ad Ostia in attesa di potersi imbarcare. In quel frattempo muore sua madre Monica. E l'anno 388 ed A., all'età di 33 anni, ritorna a Tagaste dove soggiornerà sino al 391. Là egli vive con alcuni amici e il figlio Adeodato la sua prima esperienza cristiana a guisa di filosofo cristiano che poi si verrà configurando in quella di monaco, dedicandosi allo studio delle Sacre Scritture ed inserendosi più attivamente nella realtà della Chiesa africana. Nel 391 A. viene chiamato dal vescovo d'Ippona, Valerio, a svolgere colà la mansione di presbitero. La nuova situazione incide profondamente nel suo dialogo con la vita, facendo maturare in lui soprattutto la stima per i valori cristiani della gente comune. A. è poi vescovo per ben trentacinque anni: ausiliare tra il 395-396, data della sua ordinazione, e dal 397 (data di morte del vescovo Valerio) a pieno titolo. Egli lascia allora il suo monastero di laici, " i servi di Dio ", che ha fatto costruire ad Ippona e, per poter disporre di una maggiore ospitalità soprattutto a favore di vescovi di passaggio per Ippona, si porta nell'episcopio che trasforma in un monastero di chierici. Agli anni dopo il 396 appartiene la maggiore attività di A. sia come vescovo che come scrittore. A tale periodo appartengono tra l'altro le sue famose Confessioni. Gli altri scritti di A., divisi per lo più in tre blocchi principali, furono legati a tre fattori principali: alla sua conversione (in particolare i Dialogi di Cassiciacum e le Confessioni); al ministero svolto in seguito alla sua elezione a presbitero e vescovo della Chiesa d'Ippona (tempo delle controversie manichea - questa iniziata già dopo la sua conversione -, donatista e pelagiana), strettamente congiunto a quello della sua predicazione (Tractatus in Ioannem, Enarrationes in psalmum o in psalmos, Sermones - oltre cinquecento -; a particolari questioni da lui approfondite. Tra le opere relative a queste ultime ricordiamo le principali. Il De Trinitate in cui A. propone la categoria delle relazioni per parlare del mistero trinitario; la proprietà personale dello Spirito Santo come " amore ", peso, dono, comunione, a differenza del Verbo che è immagine; il rapporto tra il mistero trinitario e la vita di grazia, basato sull'essere dell'uomo formato a immagine e somiglianza trinitaria, in particolare nella sua dimensione spirituale. Egli sintetizza tale rapporto in alcune trilogie diventate patrimonio comune, quali " mens-notitia-amor ", " memoria-intelligentia-voluntas ", ecc. Il De civitate Dei (ventidue libri composti dal 413 al 426-27 e pubblicati ad intervalli) verte sulla storia temporale ed eterna dell'umanità (le due città). " Due amori - egli scrive - danno origine a due città: la città terrena il cui amore di sé giunge sino al disprezzo di Dio; la città celeste il cui amore di Dio giunge sino al disprezzo di sé ". Il De doctrina christiana tratta della chiave di lettura delle Sacre Scritture, che è costituita dall'amore di Dio e del prossimo.

II. Eredità spirituale. Porre in A. il problema della sua spiritualità significa voler cogliere il filtro unificante dei suoi scritti come del suo vissuto cristiano. Risulta, pertanto, difficile isolare in lui alcuni aspetti spirituali, chiedendosi ad esempio se il vescovo d'Ippona sia stato mistico o meno, ecc. Da parte nostra, percorrendo i suoi scritti e la sua attività in ordine storico-genetico, tenteremo di cogliere alcune coordinate che costituiscono il tessuto spirituale della sua letteratura che, allo stesso tempo, risulta una delle principali chiavi di lettura della sua opera. In lui vanno distinte, in ordine cronologico, almeno due fasi concernenti la sua spiritualità: 1. dalla conversione all'ordinazione presbiterale (386-391); 2. dall'elezione episcopale alla morte (397-430). I cinque anni di A. presbitero (391-395-96) possono considerarsi di transizione tra i due periodi.

1. Fase 386-391 (dalla conversione al presbiterato). Le attività dell'anima. Negli anni 386-391, A. matura due coordinate unificanti: la prima, circa il primato di Dio; la seconda, circa l'autorità della Chiesa cattolica che è degna di fede su quanto essa afferma (Dio, Cristo, i Vangeli, ecc.). In tale ottica egli scrive ad esempio il De moribus ecclesiae catholicae et de moribus manichaeorum. Nel dialogo con il mondo della cultura di allora e con le contrapposizioni manichee tra fede e ragione, A. propone la pari considerazione delle due strade possibili di ricerca della verità: l'auctoritas e la ratio. Quanto al primato di Dio, esso costituisce l'incessante ricerca e passione di A. durante l'intero arco della sua esistenza. Dal punto di vista metodologico, egli ipotizza la spiritualità del dialogo quale metodo per cercare Dio. In tale contesto scrive i suoi famosi Dialogi (Contra academicos, sulla possibilità della ricerca della verità; De beata vita, sull'oggetto dei desideri dell'uomo, che è Dio quale suo sommo bene, quindi felicità; De ordine, sul senso della storia umana e la cultura della libertà che essa è chiamata a promuovere). Vuole poi sperimentare i tentativi teorici e ascetici neoplatonici per raggiungere Dio. Ciò coincide con l'abbandono, in un primo momento, del metodo dialogico nella ricerca di Dio, per affidarsi alle forze dell'individuo. I Soliloqui registrano in tal senso un suo duplice tentativo di ricerca di Dio: tramite la virtù (il primo libro) che lo porta ad uno scoraggiamento totale, tanto da volerne abbandonare la ricerca e tramite l'intervento della ragione che lo incoraggia a tentare di cercare ancora (il secondo libro). Questi due tentativi falliti di cercare Dio conducono A. a rinunce più profonde per cercarlo ancora, per poter forse raggiungere quel momento estatico con Dio già sperimentato da Plotino. Egli rinuncia prima alla carriera professionale (cursus honorum), quindi al matrimonio facendo una scelta celibataria. Sposa infatti la continenza, come avevano fatto alcuni soldati che si erano ritirati dalla corte imperiale, come egli riferisce nell'ottavo libro delle Confessioni. Quel rapimento estatico tanto sognato e inseguito non costituisce, tuttavia, l'ago della sua spiritualità, anche se egli nelle Confessioni (9,10,23-26) narra di un momento estatico avuto ad Ostia insieme a sua madre. Esso tuttavia ricalca, nel modo della narrazione, lo schema neoplatonico dei sette gradi dell'attività dell'anima intorno a tre oggetti che fanno la totalità della vita: il corpo, l'anima, Dio. Le attività legate al corpo riguardano la conoscenza sperimentale circa l'animazione, la sensazione e l'arte; quelle legate all'anima sono la virtù (l'impegno morale) e la tranquillità o il sicuro possesso della virtù; quelle legate a Dio (l'ingressus) sono la meditazione e la contemplazione o visione intellettuale della verità. Più tardi egli, nella lettera a Proba sulla preghiera (Ep. 130, a. 413, tempo della polemica pelagiana), richiamando il passo dell'estasi dell'apostolo Paolo, lo dice frutto delle virtù teologali senza attardarsi più sulle attività dell'anima. Egli compone, nel 391, il De vera religione e, parlando della rinascita interiore e del progresso spirituale, lo descrive ancora secondo lo schema settenario dell'attività dell'anima, benché questa volta faccia riferimento allo schema classico delle sette età dell'uomo. La prima età, l'infanzia, si nutre con il latte di cui parla l'Apostolo (cf 1 Cor 3,2) e con gli esempi; la seconda età, la puerizia, guarda al divino con la ragione; la terza età, la gioventù (iuventus), porta l'anima sensitiva ad unirsi alla mente sia sottomettendo a questa l'appetito carnale che provando gusto nel vivere onestamente, senza quindi esservi costretti; la quarta età è la crescita adulta dell'uomo interiore che supera le difficoltà ed anche le persecuzioni; la quinta età è lo stadio della pace e della serenità dello spirito, quello della sapienza; la sesta età è l'oblìo della vita temporale, vivendo ad immagine e somiglianza di Dio; la settima età è la vita fuori del tempo e di ogni età, quella della felicità eterna. Questa segna, con la morte fisica, la fine dell'uomo vecchio e dà inizio alla vita eterna dell'uomo nuovo. L'estasi di A. ad Ostia va collocata verosimilmente nella sesta età (cf Conf. 9,10,24). Dopo la morte della madre, A. ritorna alla casa paterna dedicandosi con gli amici all'otium filosofico della ricerca di Dio, in una solitudine che sa di monachesimo. Ama quel genere di vita, vi coinvolge altri amici e, nella paura di venirne distolto - racconta lui stesso - si astiene dal visitare città prive di vescovi. Dentro lo schema delle attività dell'anima che vuole ascendere a Dio, A. programma a Tagaste la vita dell'otium sanctum dal 388 in poi. La lettera a Nebridio (Ep. 10) ne costituisce, per così dire, la teorizzazione. Ivi delinea la necessità per il saggio di vivere lontano dal mondo, esercitandosi nella virtù per rendersi simile a Dio, una situazione da lui resa con l'espressione deificari in otio. A. esplicita tale attività nel rendere a Dio un culto interiore dotato di " securitas " e di " tranquillitas ", descrivendolo come " adorazione di Dio nei penetrali della mente " (Ep. 10,3). L'espressione, come è stato notato (Folliet), traduce l'intera tradizione stoico-neoplatonica in particolare di Porfirio ( 305 ca.), il filosofo neoplatonico che parla della mente come del tempio in cui il saggio adora Dio.

La tradizione ermetica conosce la medesima concezione. Lega, infatti, il culto di Dio alla conoscenza della mente e alla pietà. In ambito cristiano latino, il vero culto di Dio, quello reso a lui nel santuario dello spirito, viene fatto proprio da Minucio Felice ( III sec.) e da Lattanzio ( 325 ca.). In quest'ultimo esso corrisponde alla giustizia che s'identifica con la pietas. In A. tale culto d'istanza neoplatonica è presente ed esprime il vero culto che, per la mente divenuta santuario, si rende a Dio quando, con il cercarlo e con la preghiera, lo si conosce. La conoscenza diventa quindi la virtù dell'anima che, esercitandosi a cercare Dio, si assimila a lui rendendo l'essere pio, " già divino ". A. deriva facilmente tale spiritualità dagli Oracoli filosofici di Porfirio, da lui citati nel De civitate Dei (19,23). Nel Contra academicos (2,2,3) e nel De magistro (1,2) il saggio neoplatonico, che cerca Dio e lo prega e, così facendo, lo adora in penetralibus mentis, viene tradotto da A. nell'uomo interiore nel quale abita lo Spirito di Dio, Cristo, il maestro interiore. Le espressioni bibliche di " Spirito di Dio, Cristo " nel De vera religione prendono una forma articolata, ma sono adoperate ancora in contesto neoplatonico. Egli scrive infatti: " Non uscire fuori di te, rientra in te stesso perché la verità abita nell'uomo interiore " (39,72, cf anche 26,48-49 e 41,77). E nell'opera antimanichea, Contra ep. ...fundamenti (36), l'Ipponate legge la redenzione di Cristo nei seguenti termini: " (Il Verbo) si è fatto esteriore nella carne per richiamarci dall'esteriorità all'interiorità, perché lui solo è il vero maestro interiore, essendo lui stesso la verità ". La visione dell'uomo spirituale biblico, anche riguardo al linguaggio, inizia in A. con il De sermone Domini in monte del 393. In esso l'ascensione dell'anima contempla ancora sette gradi, ma si riferisce non più all'attività dell'anima secondo lo schema neoplatonico o a quello delle sette età dell'uomo esteriore, bensì alle beatitudini evangeliche e ai doni dello Spirito Santo. Egli inizia dal primo gradino, il timore del Signore o l'umiltà, cui seguono l'ascolto della Sacra Scrittura, la conoscenza di sé con la preghiera, la fortezza, l'esercizio della carità, la purificazione del cuore sino al tranquillo possesso della sapienza o della pace. Nella prima fase della spiritualità agostiniana è presente, tramite il neoplatonismo, tutto il fascino greco dello spirito, della mente o dell'anima che cerca o contempla Dio e le cose oltre il sensibile, fascino che trova un riscontro esperienziale nelle attività dell'anima del cristiano nella linea del sapiente greco.

2. Fase 391-430 (dal presbiterato alla morte). La spiritualità dell'amore. Le opere di passaggio alla seconda fase di maturazione del pensiero spirituale di A. sono date dal De vera religione del 391 e dall'Ep. 10 (a Nebridio) in relazione alle attività dell'anima; dal De sermone Domini in monte e dal De fide et operibus del 393 in relazione allo Spirito Santo, principio della vita spirituale. L'insistenza sulle attività dell'anima, prima in versione neoplatonica e poi in quella cristiana dello Spirito Santo, quale principio che santifica e pacifica l'anima, ha come interlocutori prima i manichei e poi i donatisti. Se i primi annullano, praticamente, le attività dell'anima, i secondi fanno leva sullo Spirito Santo santificatore, escludendo ogni altra mediazione. Nella polemica donatista A. recupera il dono dello Spirito Santo santificatore non come principio in sé, bensì come dono dell'unico mediatore Gesù Cristo, causa e mediazione di ogni santificazione e di vita spirituale. Egli ne fa una peculiare applicazione alla amministrazione dei sacramenti. Questi sono del Signore quanto a potestas, a coloro che li amministrano compete invece solo il ministerium.

A., divenuto presbitero nel 391, percepisce la non accorta azione pastorale sacramentale dei donatisti la quale, ancorata ad una insufficiente teologia dello Spirito Santo, ha diviso la Chiesa africana in donatisti e cattolici. Egli inizia d'allora a percepire in modo diverso la Bibbia quale fonte della fede e della spiritualità cristiana. Ne individua il messaggio essenziale e ad esso adegua la sua visione spirituale, che risulta nuova rispetto a quella della prima fase dei suoi scritti (sino al 391). A. recepisce la sostanza evangelica della rivelazione biblica come carità di Dio e del prossimo. Essa pertanto - egli conclude - va cercata nella Bibbia quale: rivelazione divina, dono dello Spirito Santo diffuso nel cuore dei credenti, chiave ermeneutica delle Scritture, impegno da vivere in ogni stato di vita anche in monastero, sostanza di ogni progresso spirituale. La spiritualità della ricerca di Dio, come attività progressiva dell'anima, viene quindi ripensata dall'Ipponate come amore (carità) nel triplice ambito dell'esistenza del credente, vale a dire personale, ecclesiale e sociale. Egli articola così la spiritualità personale nell'esercizio costante della carità di Dio e del prossimo (il motivo per cui si entra anche in monastero); la spiritualità ecclesiale come comunione tra i battezzati non solo a livello sacramentale e delle comuni divine Scritture, ma anche a livello di condivisione quotidiana dell'eredità cristiana nel vivere l'unità e la pace della Chiesa. In caso contrario si tratterebbe solo di un'appropriazione di parte, come avviene nel caso di eretici e scismatici, e la mancanza della carità priverebbe di effetto salutare qualsiasi realtà cristiana. Gli stessi monasteri di A. vengono impiantati non tanto sugli sforzi ascetici del corpo, quanto sull'ascetica continuativa della dilectio di Dio e del prossimo. A. spinge il principio della carità sin nel sociale; è sua, infatti, l'espressione amor socialis che, nei suoi Sermoni, nel Commento ai Salmi e nella Città di Dio, trova vasta applicazione. Del dono della carità, diffuso nel cuore dallo Spirito Santo, A. recepisce un po' alla volta tutta la sua portata nella vita dell'uomo redento. Essa infatti, essendo nell'uomo principio di ogni bene, lo è anche del suo essere spirituale. L'uomo spirituale, tuttavia, è in redenzione continua, lo Spirito Santo, perciò, lo santifica, ma non sino ad eliminare in lui, nel tempo della storia, tutta la carnalità di cui parla l'apostolo Paolo. In tale ottica, A. attribuisce, all'inizio dell'esercizio del suo episcopato (397), l'affermazione dell'apostolo lex spiritalis est, ego autem carnalis sum (cf Rm 7,14), non solo all'uomo soggetto alla legge mosaica, ma allo stesso uomo redento dalla grazia di Cristo.

La polemica pelagiana che riporta in auge, quale fattore principale del progresso spirituale, le attività dell'anima, sino alla reale possibilità per l'uomo di non poter mai peccare, fa riflettere A. in profondità sulla concezione cristiana dell'uomo spirituale. Egli dedica all'argomento l'opera De perfectione iustitiae hominis nella quale, assieme ad altre opere del medesimo periodo riguardanti il rapporto della grazia con la libertà, esplicita un concetto fondamentale. L'uomo spirituale è l'uomo redento che, tuttavia, resta sempre assoggettato alla legge della concupiscenza. Egli, perciò, dovrà invocare ogni giorno l'aiuto divino e il suo perdono, secondo l'insegnamento della preghiera del Signore che chiede per tutti " rimetti a noi i nostri debiti " (Mt 6,12). Il dominio assoluto dello spirito sulla carne si avrà solo con la risurrezione, quando il corpo corruttibile si sarà vestito d'immortalità. La vita spirituale ha il suo inizio nel germe di vita divina ricevuta nel battesimo; la sua crescita contempla la lotta quotidiana contro ogni concupiscenza, in particolare la superbia, cui vanno contrapposte l'umiltà, la fede, la preghiera, la carità. I peccati commessi per errore, ignoranza e debolezza o imperfezioni che, nel De sermone Domini in monte, sono considerati peccati della vita presente, nella polemica pelagiana vengono trasportati anche nell'altro mondo, bisognosi ancora di essere perdonati. Da tale realtà nasce l'amore per i defunti. Nell'A. della polemica pelagiana, l'uomo spirituale si muove tra il Verbo incarnato, nutrimento e redentore suo come pure di tutti gli altri uomini, e la carità. In tale ottica, egli sviluppa la comprensione dell'uomo spirituale mosso dalla carità, quale educatore di coloro che credono, ma che ancora non sono in grado di trasmettere la loro fede, per diventare anch'essi " spirituali ". L'uomo spirituale, pertanto, creando la propria dimensione spirituale in costante riferimento alla carità, si pone al servizio dell'evangelizzazione della Chiesa. In tale ambito di carità evangelizzante, A. comprende particolarmente quanti scelgono di vivere nei suoi monasteri (i " servi di Dio ", gli " spirituali " a disposizione della missione evangelizzatrice della Chiesa). Parla, infatti, della loro spiritalis dilectio (Regula 6,43), definendoli spiritalis pulchritudinis amatores (Ibid. 8,48) dove lo spiritalis non si oppone al materiale, ma connota ciò che nasce dalla carità. Nei Tractatus sul Vangelo di Giovanni (in particolare Tr. 98 e 120) A. offre una sintesi dell'insieme in relazione al Verbo incarnato, Redentore degli uomini, quale filtro spirituale nel fronteggiare il vissuto quotidiano. Quanto al riferimento a Cristo, il Verbo incarnato è cibo dell'uomo spirituale come di coloro che iniziano a credere, che l'apostolo Paolo qualifica come i " piccoli " (cf In Io. ev. 98,6). Nel Tractatus in Io. ev. 120 A., riprendendo l'immagine del Cristo crocifisso, raccoglie sotto la croce tutti i battezzati, i piccoli e gli spirituali, ponendoli in relazione all'intera umanità. Essi, infatti, dopo che, salendo la croce, passano attraverso il costato aperto del Crocifisso, ne ridiscendono purificati divenendo Chiesa, inseriti così nel suo ministero di incoraggiare l'umanità delle generazioni che si susseguono a salire anch'esse la croce perché, purificandosi nel cuore trafitto del Salvatore, diventino " Chiesa ". Nella Chiesa di Cristo, pertanto, c'è chi arriva prima e chi arriva dopo, ma comune è il servizio da rendere all'umanità costituendo, tra cristiani e non cristiani, un unico essenziale rapporto, quello d'incoraggiarsi a lasciarsi purificare dall'unico Redentore dell'umanità, il Signore crocifisso (cf Ibid.). In relazione alla croce del Signore l'uomo spirituale " agostiniano " raggiunge cristologicamente la dimensione di Cristo redentore ed ecclesiologicamente quella della missione della Chiesa di aiutare l'umanità a lasciarsi avvicinare dalla salvezza del Redentore degli uomini. Quanto al filtro spirituale nel quotidiano, la fede e l'intelligenza spirituale di Cristo si traducono per il cuore umano nella capacità di carità, di Dio e del prossimo. In tale capacità-dono consiste, per A., la vita spirituale con ogni sua possibile crescita. Si diventa spirituali per mezzo della carità, diffusa nel cuore dallo Spirito Santo, che diventa anche categoria epistemologica di Dio e dell'uomo. Per A., infatti, conosce Dio e l'uomo, non chi ne fa oggetto di studio, ma chi li ama. Non si può amare ciò che s'ignora del tutto ma, quando si ama ciò che in qualche modo si conosce, grazie a tale amore si riesce a conoscerlo meglio e più in profondità. L'amore, dunque, ha una forza unitiva e conoscitiva per assimilazione al punto tale che, per l'Ipponate, ogni uomo è il suo amore. La crescita spirituale è quindi relazionata alla carità dalla nascita al suo compimento.

L'uomo spirituale, modellato su Cristo, porta in sé l'immagine dell'uomo celeste; a lui tuttavia sono necessarie, allo stesso modo che al neofita, la fede, la speranza, il lottare e la preghiera per il perdono quotidiano finché si vive nel corpo. Costituisce pertanto l'uomo spirituale non la scienza, ma la carità, che lo spinge ad uscire dal suo deificari in otio per la missione della Chiesa.

A. indica un'articolazione particolare della spiritualità della carità nella trilogia semantica di " cuore-misericordia-amicizia ". L'espressione antropologica di " cuore ", che allora connotava l'uomo concretamente orientato quanto al suo destino, la esplicita nelle categorie di libertà e di grazia; di misericordia e di amicizia. Il cor è la risultanza base dell'incontro tra il libero arbitrio dell'uomo e la grazia di Dio. Il termine " misericordia " appartiene a sua volta alla famiglia semantica di cor (da urere = bruciare la miseria), e l'oculus cordis diventa la capacità propria dell'uomo spirituale. L'oculus cordis affonda le sue radici nei recessi del cuore, che genera il desiderio, l'anima " del vedere del cuore ". Per l'oculus cordis, d'altra parte, " attingendo Dio ", in proporzione del distendersi del desiderio, diventa importante il come nutrirlo. A., evitando di proposito di far leva sull'ascetica del corpo, soggetta di per sé a troppe ambiguità, insiste sugli auxilia comuni a tutti, vale a dire: le divine Scritture, l'assemblea del popolo di Dio, la celebrazione dei misteri, il santo battesimo, il canto delle lodi di Dio, la predicazione (cf In Io. ev. 9,13; 40,10; In Io. ep. 4,6), proponendo ancora una volta la vita spirituale come un bene comune. Se la misericordia è l'atto iniziale necessario per il rapportarsi di Dio con gli uomini e degli uomini tra di loro, l'amicizia ne è il frutto, la conseguenza possibile e inoltre necessaria per vivere la vita umana che è comunicazione interpersonale. Prescindendo dall'amicizia, i rapporti umani verrebbero mediati non dalla realtà delle persone quali esse sono, bensì dall'idea che reciprocamente esse si fanno le une delle altre, cioè a livello di fantasmi, come si esprime A. L'amicizia, infatti, fa sì che i cuori s'incontrino ed appartiene alla categoria dei beni comuni o di tutti. Ogni essere umano, perciò, va educato alla capacità di amicizia e va messo in condizione di poterne usufruire, ponendo Cristo a suo fondamento perché possa essere duratura. Sul piano ecclesiale-sociologico articola poi sul medesimo fondamento la visione e la costruzione delle due città (quella terrena e quella di Dio) nel trinomio Chiesa-" saeculum "-Città di Dio, nel rispetto etico di quell'ordo amoris che distingue l'uti (la natura delle cose di essere usate) dal frui (la natura delle persone di comunicare fruendone). L'amore è il " peso " (pondus) che muove l'animo dovunque si muova (cf Conf. 13,9,10), quindi, è il centro motore dell'etica. L'amore di Dio s'identifica con il vero amore di sé, altrimenti si tratta dell'amore di sé che si oppone a quello di Dio. Questi due amori, in definitiva, riassumono la storia temporale ed eterna dell'umanità, formando le due città che nascono da due amori diversi e contrapposti. La vita etica si risolve pertanto nell'ordo amoris: l'amore conforme alla legge eterna che " comanda di conservare l'ordine naturale vietando di turbarlo " (C. Faustum 22,27).

L'A. credente intravede che Dio porta in sé il segreto del mistero dell'uomo, che anzi proprio nel suo cor ha la sua dimora. Dio, infatti, con la sua presenza risana il cuore contrito, accoglie come offerta gradita il cuore umile e l'uomo " ritrova quel Dio dal quale allontanarsi è cadere, al quale rivolgersi è risorgere, nel quale rimanere è stare saldi, al quale ritornare è rinascere, nel quale abitare è vivere " (Sol. 1,1,3). In Cristo le due vie, quella di Dio e quella dell'uomo, s'incontrano, perciò lui è la via, la verità e la vita dell'uomo. A. chiama pertanto Dio e Cristo col nome di " misericordia ".

" Cor, misericordia, amicizia " appartengono ad una famiglia semantica i cui termini assumono con A. una modulazione antropologico-spirituale di ambito sapienziale denso di mistero. Cor designa l'uomo " misericordia ", " amico ", che si rapporta al livello etico del frui (godere comunicando) e non dell'uti (l'usare, riferito alle cose di cui ci si serve e sarebbe delitto applicarlo alle persone), dopo essersi liberato dai fantasmi umani creati dalla capacità di astrazione dell'essere razionale. Cor è l'uomo che vive il frui della vita, perché capace della comunicazione con le persone, cominciando da Dio. Una progressiva maturazione dell'antropologia cristiana rispetto a quella platonica, porta A. a superare le categorie di homo interior-homo exterior, proprie della tradizione cristiana latina ancorata all'" uomo interiore, quello vero; a sostituire l'uomo esteriore, il perituro ", di derivazione filoniana, con la categoria dell'homo spiritalis in rapporto ad una spiritualità della libertà sotto la grazia di Dio. In tale ottica antropologica il famulus-servus Dei (= il monaco) viene considerato, ad esempio, non tanto come il " domatore della carne ", quanto " colui che ama la bellezza spirituale ". Il frutto di siffatta vita cristiana si assapora per lui nella convivenza in monastero in quel clima di libertà e di grazia che dona di vivere, " non come servi sotto la legge, - egli sottolinea con una non celata soddisfazione per la propria proposta monastica - ma come uomini liberi sotto la grazia " (Reg. 8,48). Siffatta impostazione di vita in comune matura progressivamente in A. come servizio ecclesiale. I passaggi ci sono dati nelle Confessioni (10,43,70), dove egli fa propria l'intuizione paolina " Cristo è morto per tutti " (2 Cor 5,15), applicandola a quanti vivono in monastero nel significato di porsi a disposizione della missione della Chiesa, tirandosi fuori dal loro deificari in otio e dalla falsa spiritualità che considera il lavoro manuale non più consono al loro genere di vita. Le lettere 48 e 243 trattano espressamente dello stretto rapporto esistente tra il vivere in monastero e il servizio ecclesiale da prestare. Un discorso che nella sua riflessione più matura si sviluppa nell'amicizia di Dio con l'uomo, intesa come con-vissuto della libertà umana con la grazia di Dio.

Bibl. Opere: in PL 32-47; PLS II, 417-443; in CSEL diversi volumi e il sussidio Specimina eines Lexicon Augustinianum (=SLA); in CCSL diversi volumi e il sussidio Thesaurus Augustinianus - Series A: formae dell'intero " corpus augustinianum ". Possidio, Augustini Vita (PL 32,33-66), Alba 1955; ed. A.A.R. Bastiansen C. Carena, Milano 1975. Studi: P. Agäesse, Ecriture sainte et vie spirituelle. S. Augustin, in DSAM IV, 155-158; C. Boyer, s.v., in DSAM I, 1101-1130; F. Cayré, La mystique augustinienne, in Aa.Vv., Augustinus Magister III, Paris 1954, 103-168; N. Cipriani, L'uomo spirituale in S. Agostino e S. Giovanni della Croce, in Aa.Vv., S. Giovanni della Croce Dottore mistico, Roma 1992, 131-149; G. Folliet, " Deificari in otio ", Augustin, ep 10,2, in Recherches Augustiniennes, 2 (1968), 225-236; Id., " In penetralibus mentis adorare Deum ", Augustin, ep 10,3, in Sacris Erudiri, 33 (1992-1993), 125-133; V. Grossi, Valenza antropologica della misericordia in s. Agostino, in Aa.Vv., Dives in misericordia, Roma 1981, 189-195; Id., La spiritualità agostiniana, in Aa.Vv., Le grandi scuole della spiritualità cristiana, Roma 1984, 159-204 (in particolare pp. 178-181 e 189-194); Id., Ascetica e antropologia nella Regula ad servos Dei (cc. 3-5) di S. Agostino, Mémorial J. Gribomont, Roma 1988, 315-330; Id., Il " Cor " nella spiritualità di S. Agostino, in Aa.Vv., L'antropologia dei maestri spirituali, Roma 1991, 125-142; M. Schrama, s.v., in WMy, 39-41; A. Trapè (ed.), Sanctus Augustinus vitae spiritualis magister, 2 voll., Roma 1959; Id., s.v., in La Mistica I, 315-360; A. Trapè - C. Sorsoli - L. Dattrino, s.v., in DES I, 51-61; F. Thonnard, Traité de vie spirituelle à l'école de s. Augustin, Paris 1959; A. Tissot, S. Augustin maître de vie spirituelle, Le Puy 1960; W. Wieland, Agostino, in G. Ruhbach - J. Sudbrack, Grandi mistici I, Bologna 1987, 65-95.

V. Grossi

ALBERTO MAGNO (santo). (inizio)

I. Vita e opere. Nasce a Lawingen nel 1193 e muore a Colonia nel 1280. Studia all'Università di Padova ove assiste alle lezioni di Giordano di Sassonia ( 1237), discepolo e successore di s. Domenico ( 1221) ed è attratto dalla vita religiosa. Dedica quasi tutta la sua vita alla ricerca di una " sintesi personale " dei valori culturali e spirituali.

La vastità e profondità delle sue opere gli valgono l'appellativo di " Magno ". Coltiva, con grande dedizione e profitto, durante tutta la sua vita, ogni campo del sapere del suo tempo (filosofia, teologia, mistica, ecc.)

Il suo contributo alle questioni mistiche avrà ripercussioni importanti sulle opere dei mistici renani in modo particolare su Eckhart e su Taulero. La sua dottrina spirituale è disseminata in diverse opere: commenti alla Sacra Scrittura, studi teologici e, soprattutto, il commento integrale agli scritti di Dionigi Areopagita. Nella sua Opera omnia (38 voll., Parigi 1890-1899), meritano una citazione particolare i seguenti trattati: Summa Theologiae, Summa de creaturis, De praedicabilibus.

Come uomo di fede e di scienza, A. cerca sempre una coerenza e una complementarietà tra le due fonti del sapere. A lui va riconosciuto il merito di aver contribuito alla formazione del grande teologo Tommaso d'Aquino e di aver fatto scudo insieme contro gli attacchi di tanti celebri oppositori; si reca perfino a Parigi, pur ottantatreenne, per difendere la dottrina del suo amato discepolo.

Senza dimenticare mai una visione spirituale dei problemi dell'uomo, A. ha trattato concretamente le questioni riguardanti la dimensione ascetica e mistica della vita cristiana. La tradizione ritiene valide le seguenti opere di A.: Liber de perfectione vitae spiritualis, Paradisus animae e De adherendo Deo.

Le due tappe fondamentali del cammino spirituale sono presentate in maniera fortemente congiunta. Per raggiungere la perfezione bisogna fondare bene ogni azione umana. Secondo A., il principio che sostiene tutta la vita spirituale non può essere altro che la carità. Così si riafferma non solo la natura della perfezione cristiana, ma anche l'obbligo di tutti i fedeli a cercare la santità mediante l'esercizio della legge dell'amore.

II. Dottrina mistica. La perfezione richiesta a tutti si acquista personalmente nell'osservanza fedele dei comandamenti di Dio e della Chiesa, specialmente della legge della carità. Seguendo la dottrina dei teologi del tempo, sembra chiaro che alcune categorie di persone (vescovi, religiosi, sacerdoti) siano chiamate in modo speciale alla santità; A. aggiunge, in concreto, che ogni stato di vita ecclesiale richiede una serie di grazie particolari che aiutano il cristiano a realizzare la propria missione, comportando una perfezione relativa.1

In realtà, il mezzo più importante per tendere alla perfezione è la ricerca insieme al compimento della volontà divina. Ogni cristiano deve rispondere liberamente e in modo coerente, anche se differenziato. A. distingue tre tipi o gradi di conformità alla volontà di Dio: conformitas imperfectionis, conformitas sufficientiae, conformitas perfectionis.

Questi termini sono, poi, applicati alle tre categorie tradizionali di cristiani: incipienti, proficienti e perfetti. Secondo il nostro autore, chi fa i primi passi nel cammino spirituale è ancora lontano della perfezione, ma manifesta un'adesione materiale alla causa divina: " Volere ciò che io so che Dio vuole ". La conformitas sufficientiae, che consiste nell'adempimento dei comandamenti, è propria di coloro che hanno già percorso la tappa dell'ascetica e mantengono un'adesione abituale alla causa divina efficiente: " Volere ciò che Dio vuole che io voglia ". Infine, il terzo tipo di conformità è riservato alla categoria dei perfetti. Infatti, questi fedeli aderiscono totalmente e in ogni situazione alla volontà di Dio, come causa finale: " Volere tutto ciò che io voglio per la gloria di Dio, come Dio vuole per la sua gloria tutto ciò che egli vuole".

III. Orientamenti concreti. Quando il cristiano pone tutti i pensieri e le azioni nelle mani di Dio, degno di essere amato al di sopra di tutto, percorre speditamente i diversi gradi della vita mistica. Allora l'anima diventa più " passiva " nel senso che è più disponibile all'azione efficace della grazia; in altri termini, si lascia guidare direttamente da Dio, rispondendo liberamente alle ispirazioni e alle mozioni dello Spirito Santo, causa principale della nostra santificazione.

1. La preghiera con le lacrime. L'opera di trasformazione umana in Dio, fino alla deificazione, si compie soprattutto attraverso la preghiera, un colloquio con il Signore o un dialogo d'amore, manifestato anche attraverso le lacrime.2 Sull'esempio di s. Domenico, questo suo figlio prega molte volte Dio con gli occhi pieni di lacrime per le mancanze personali e per la conversione dei peccatori. Allora la contritio e la compunctio cordis sono effetto della mortificazione sia nella sua funzione espiativa sia, soprattutto, nella funzione perfettiva.

La preghiera diventa meditazione quando "favorisce la conoscenza di sé, questa genera la compunzione, la compunzione genera la devozione e la devozione infine perfeziona l'orazione".3 Se la preghiera, dialogo intimo e personale con Dio, richiede un ambiente di silenzio, A. considera la notte come un periodo molto opportuno per parlare, senza rumori esterni, con chi abita nel nostro cuore. Questa esigenza di solitudine e di intimità favorisce un autentico "soliloquio": parlare a tu per tu con Dio o, meglio, ascoltare nell'intimo della coscienza la voce divina.

Cristo, l'unico mediatore, rende efficace la preghiera dell'uomo perché la sua preghiera è comunione intima con il Padre presso il quale intercede per tutta l'umanità. Egli amava ritirarsi nella notte o sulle montagne per conversare con il Padre prima di prendere decisioni importanti per il futuro della Chiesa (cf Lc 6,12; Mt 9,37-39); nel suo nome sono accolte sempre le nostre preghiere.

2. I doni dell'intelletto e della sapienza. Sembra logico che A., uomo di vasta scienza e di profonda fede, abbia sperimentato gli effetti dei due doni dello Spirito Santo riguardanti il retto giudizio, rispettivamente, sulle verità acquisite con la ragione e le verità comunicate dalla Rivelazione. E anche molto probabile che sia stato lui il primo autore a trattare espressamente del dono dell'intelletto e di quello della sapienza.

Questi aiuti speciali dello Spirito Santo vengono a perfezionare la fede di coloro che sono entrati nella via della contemplazione.4 In particolare, la sapienza, lumen calefaciens, è un modo di conoscenza dei misteri cristiani che non solo fa sperimentare " gustosamente " all'anima i propri effetti, ma aumenta la carità.

La dottrina di A. ha avuto un grande influsso su s. Tommaso d'Aquino. Un altro merito di A. consiste nell'aver gettato le basi per la mistica dell'introversione, che troverà in Eckhart, suo probabile discepolo a Colonia, il principale promotore. D'altra parte, G. Taulero, che attinge alla mistica tedesca, avrà un importante influsso su Giovanni della Croce, il Dottore mistico per eccellenza.

Note: 1 In III Sent. d.29, a. 8; 2 Commenti ai Salmi 39, 78, 141; 3 De oratione dominica, 58; 4 Cf In III Sent., d. 34. a. 2 ad 1.

Bibl. Opere: B. Alberto il Grande, L'unione con Dio, Milano s.d.; Albert le Grand, Commentaire de la "Theologie mystique" de Denys le pseudo-aréopagite suivi de celui des épîtres I-V, Paris 1993; Studi: D. Abbrescia, s.v. in DES I, 61-64; G. Meersseman, Geschichte des Albertismus, Paris-Roma 1933-1935; P. Ribes Montane, Razón humana y conocimiento de Dios en san Alberto Magno, in Espíritu, 30 (1981), 121-144.

E. De Cea

ALFONSO MARIA DE LIGUORI (santo). (inizio)

I. Vita ed opere. A. nasce a Napoli nel 1696 e muore a Pagani (SA) nel 1787. E chiamato giustamente "il dottore della preghiera" perché la preghiera costituisce la caratteristica fondamentale della sua vita, il tema dominante della sua dottrina. Egli l'apprende dall'esempio e dall'insegnamento di sua madre, l'approfondisce nell'oratorio dei Filippini di Napoli da lui frequentato negli anni dell'adolescenza, la vive intensamente da avvocato nell'adorazione eucaristica quotidiana, la eleva su un piano liturgico da quando, nel 1726, a trent'anni, diventa sacerdote. Nel 1732, fondata la Congregazione del SS.mo Redentore, la programma in momenti precisi e frequenti della giornata, l'annunzia con passione nelle numerose missioni predicate nel Regno di Napoli, l'insegna con insistenza nei suoi libri; vescovo di Sant'Agata dei Goti dal 1762 al 1775 vi dà un timbro pastorale e universale, e diviene lui stesso preghiera negli ultimi anni della vita fino alla morte avvenuta il 1 agosto del 1787.

II. L'esperienza mistica. A. contrassegna la sua vita di preghiera in una linea di costante sviluppo, praticandola in tutti gli aspetti. Ha un rapporto di amicizia profonda, di fiducia assoluta, di abbandono filiale con Dio, "conversa continuamente ed è familiare con lui".1 Esprime così la sua esperienza: "Se volete compiacere il suo cuore amoroso, trattenetevi con lui con la maggior confidenza e tenerezza possibile".2 In questo clima giunge all'unione più intima, all'esperienza mistica che si manifesta a volte con estasi e rapimenti.3

Quest'intima unione con Dio è prodotta dall'amore (amor exstasim facit) e si apre in un amore più grande: "L'amore è quello che lega l'anima con Dio; ma la fornace dove si accende la fiamma del divino amore è l'orazione".4 C'è, quindi, una sorta di dialettica tra la preghiera e l'amore. A. ama appassionatamente Gesù Cristo per cui si distacca da tutto e si dona totalmente a lui.5 Possiede un amore di autentico carattere mistico " timoroso, forte, ubbidiente, puro, ardente, inebriante, unitivo, sospirante".6 Il santo vescovo manifesta la commozione della sua anima in tutti gli scritti nei quali l'amore è il tema ricorrente; non c'è pagina in cui esso non sia presente, o come dichiarazione o come promessa o come preghiera o come slancio o come grido. Lo esprime con accenti diversi secondo il mistero della fede contemplato; è amore fatto di tenerezza dinanzi alla realtà dell'Incarnazione, all'evento di Dio divenuto bambino che raggiunge un momento altamente poetico nella canzoncina "Tu scendi dalle stelle". E amore adorante e raccolto, ardente e unitivo nella meditazione della Eucaristia, vissuta nei tre aspetti di sacrificio, di comunione, di presenza; esclama: "Non ti è bastato Signor mio morire per me; hai voluto istituire questo gran sacramento per donarti tutto a me e così stringerti tutto, cuore a cuore, con una creatura ingrata come sono io ".7 A. sperimenta il più grande amore nella celebrazione della Messa, durante la quale si astrae da tutto, s'immerge in Dio, per cui a volte è necessario scuoterlo per riportarlo alla realtà presente. Si distingue ancora per una singolare devozione alla passione del Signore dalla quale è afferrato irresistibilmente e che diventa l'oggetto continuo della sua meditazione; a volte ne viene rapito fino all'estasi: " Acceso il nostro santo di tale devozione verso Gesù crocifisso, lo fa questo amore non solo sobbalzare sulla sedia... ma giunge anche ad elevarlo in aria e tenerlo così sospeso davanti al Crocifisso ".8 A. manifesta l'autenticità del suo amore per Dio nella perfetta osservanza dei comandamenti, nell'assoluta fedeltà alla vocazione cristiana e religiosa, e soprattutto nella conformità alla sua volontà; scrive: " Tutta la nostra perfezione consiste nell'amare il nostro amabilissimo Dio. Ma poi la perfezione dell'amore a Dio consiste nell'unire la nostra alla sua santissima volontà... procuriamo non solo di conformarci, ma di uniformarci a quanto Dio dispone. La conformità importa che noi congiungiamo la nostra volontà a quella di Dio. Ma l'uniformità importa di più; che noi della volontà di Dio e della nostra ne facciamo una sola sì che non vogliamo altro se non quello che vuole Dio, e la sola volontà di Dio sia la nostra. Ciò è il sommo della perfezione".9

III. La dottrina. A. vive personalmente una vera esperienza mistica, ma è piuttosto riservato nell'insegnarla e proporla agli altri. Nei suoi scritti egli insiste sullo sforzo ascetico, sull'attività dell'individuo, raccomanda la pratica nella concretezza della vita e sconsiglia il desiderio o la pretesa di raggiungere i cosiddetti stadi mistici. La sua posizione si spiega alla luce del suo tempo, quando dopo la condanna del quietismo e di alcuni scrittori quali Fénelon, M.me Guyon, il card. Petrucci (1517), c'è un diffuso sospetto per la mistica. Ciò porta il santo a valorizzare le capacità umane e a preferire alla dottrina della passività l'unione attiva in cui l'uomo operando con l'aiuto della grazia ordinaria s'innalza asceticamente fino alla perfetta uniformità alla volontà di Dio, fino alla vera unione dell'anima con Dio. Ma uno scrittore dagli interessi vasti come A. non può trascurare il problema mistico con le sue implicanze, perciò, anche se vi accenna solitamente di sfuggita, tuttavia ne fa un'esposizione abbastanza dettagliata nel libro Pratica del confessore.10 Egli stabilisce all'inizio la differenza tra contemplazione e meditazione: nella prima c'è la ricerca di Dio, nella seconda si contempla senza fatica il Dio già trovato; in essa " opera Dio e l'anima patitur o riceve i doni che le vengono infusi dalla grazia ".11 Ma prima della contemplazione ci sono alcune tappe preparatorie, quali l'orazione di raccoglimento e l'aridità soprannaturale, che è di due tipi: sensibile e spirituale. In questa, attraverso sofferenze indicibili si acquistano il distacco assoluto da tutte le cose, la conoscenza della propria miseria, un gran rispetto verso Dio.12 L'aridità dura fino a quando l'anima purificata profondamente sarà disposta alla contemplazione. Anche nella contemplazione si passa per stadi successivi; prima per il raccoglimento spirituale, quindi per l'orazione di quiete, infine si raggiunge il vertice della contemplazione che è l'unione. Essa può essere attiva o passiva, secondo l'intensità dell'azione di Dio nell'uomo; nell'unione passiva Dio invade l'anima, la possiede totalmente, e tiene avvinte a sé tutte le facoltà sensibili e spirituali; ma tale unione è di breve durata, mentre quella attiva può essere molto lunga. A. non nasconde la sua preferenza per l'unione attiva, la quale produce la perfetta uniformità alla volontà di Dio, in cui consiste la santità.

Note: 1 Modo di conversare continuamente e alla familiare con Dio: è il titolo di un opuscolo di sant'Alfonso; 2 Alfonso de' Liguori, Dissertazioni teologiche-morali riguardanti la vita eterna, Monza 1831, 179; 3 " La frequenza delle sue contemplazioni, il fervore delle sue aspirazioni, la lunghezza del tempo che vi impiega dimostrano abbastanza che il Signore gli rivela i misteri della sua sapienza, trae a sé dolcemente il suo spirito e lo rafforza nell'unzione soavissima dell'eterna sostanziale carità... Allorquando si mette in preghiera diviene subito estatico tanta è la veemenza con cui il suo spirito si immerge nella contemplazione delle cose divine " (C. Berruti, Lo spirito di S. A.M. de' Liguori, Prato 1896, 308); 4 Alfonso de' Liguori, Pratica del confessore, Frigento (AV) 1987, 179; 5 "Chi ama veramente Gesù Cristo perde l'affetto a tutti i beni della terra e cerca di spogliarsi di tutto per tenersi unito a Gesù Cristo. Verso Gesù sono tutti i suoi desideri, a Gesù sempre pensa, sempre a Gesù sospira e solo a Gesù in ogni luogo, in ogni tempo, in ogni occasione cerca di piacere. Ma per giungere a ciò bisogna continuamente tendere a vuotare il cuore da ogni affetto che non è per Dio ", scrive sant'Alfonso in Pratica di amar Gesù Cristo. Opere ascetiche, I, Roma 1933, 141-142; 6 Ibid., 38; 7 Alfonso de' Liguori, Atti per la santa comunione, in: Opere ascetiche, IV, Roma 1939, 399; 8 C. Berruti, Lo spirito..., o.c., 144; 9 Alfonso de' Liguori, Uniformità alla volontà di Dio, in: Opere Ascetiche, I, 286; 10 Alfonso de' Liguori, Pratica del Confessore, 177-206; 11 Ibid., 183; 12 Ibid., 187.

Bibl. A. Bazielich, La spiritualità di s. Alfonso Maria de' Liguori. Studio storico-teologico, in Spicilegium Historicum C.SS.R., 31 (1983), tutto il numero; G. Cacciatore, Sant'Alfonso e il giansenismo, Firenze 1944; Id., La spiritualità di Sant'Alfonso, in Aa.Vv. Le scuole cattoliche di spiritualità, Milano 1944, 279-327; L. Colin, Alphonse de' Liguori. Doctrine spirituelle, II, Mulhouse 1971; V.A. Decham, St. Alphonse considéré dans sa vie, ses vertus et sa doctrine spirituelle, Malines 1840; R. Garrigou-Lagrange, La spiritualité de St. Alphonse de' Liguori, in VSpS 6 (1927), 189-210; C. Henze, s.v., in BS I, 837-859; I. Kannengierser, s.v., in DTC I, 906-920; K. Keusch, La dottrina spirituale di Sant'Alfonso, Milano 1931; A. L'Arco, Sant'Alfonso amico del popolo, Roma 1982; G. Liévin, Alphonse de' Liguori, in DSAM I, 385-389; Id., La route vers Dieu. Jalons d'une spiritualité alphonsienne, Fribourg-Paris 1963; A. Palmieri, s.v., in DHGE II, 715-735; S. Raponi, Sant'Alfonso de' Liguori, maestro della vita cristiana, in Aa.Vv., Le grandi scuole di spiritualità cristiana, Roma 1986, 621-651; Th. Rey-Mermet, Il Santo del secolo dei lumi. Alfonso de' Liguori, Roma 1983; V. Ricci, s.v., in DES I, 64-69; A.M. Tannoia, Della vita ed Istituto del ven. Servo di Dio A.M. de' Liguori, 3 voll., Napoli 1798-1802; G. Velocci, Sant'Alfonso de' Liguori. Un maestro della vita cristiana, Cinisello Balsamo (MI) 1994.

G. Velocci

ALLEANZA. (inizio)

I. Il termine esprime il legame vincolante tra Dio e il suo popolo. Indica un obiettivo essenziale della riflessione mistica.

L'esperienza contemporanea della relazione umana con Dio va inquadrata nel contesto della tradizione biblica, nella quale compaiono due tipi distinti di a. In quella instaurata con Noè, Abramo, Davide, è Dio a scegliere questo vincolo, senza che vi siano delle esplicite, reciproche responsabilità gravanti sull'altro contraente. Nell'a. stipulata sul Sinai, invece, il popolo di Israele accetta obblighi ben determinati.

II. Nella Bibbia: a. AT. Il termine a. appare per la prima volta in Gn 6,18, dove Dio promette a Noè di salvarlo dal diluvio insieme alla sua famiglia. Questa benevolenza concessa da Dio a Noè (cf Gn 6,8) viene formalizzata nell'a., con la promessa che mai più si verificherà un diluvio che distruggerà il genere umano. Dio dà inizio così ad un rapporto speciale con Abramo e la sua discendenza, che sarà numerosa (cf Gn 17,4) e avrà il dominio su quella terra (cf Gn 15,18).

Dio stipula un patto con Davide (cf 2 Sam 7) e gli promette di rendere stabile la sua casa per l'eternità (cf 2 Sam 23,5: " Così è stabile la mia casa davanti a Dio, perché ha stabilito con me un'alleanza eterna "). Se Davide violerà l'a. (i suoi obblighi non sono tuttavia espliciti), gli sarà comminato un castigo (cf 2 Sam 7,14); anche se le eventuali trasgressioni non potranno invalidare l'a. (cf 2 Sam 7,15: "Ma non ritirerò da lui il mio favore... ". Il Sal 88 (89) celebra il patto con Davide (88,4): "Ho stretto un'alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide mio servo". Ciò che il salmista loda è l'eternità di questo patto (cf Sal 104,8-10; 110,5.9). In ciascuno di questi casi è Dio che, per sua grazia, stipula il patto: alla persona non resta che accettare l'offerta. Se l'interazione ha luogo sempre tra Dio e un individuo, Noè, Abramo o Davide, ognuno rappresenta non solo se stesso, ma l'intera comunità, beneficiaria, per suo tramite, delle benedizioni divine.

Una reciproca a. tra Israele e Dio (Es 19,5: " Se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia a., voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli") viene ratificata sul monte Sinai. Si tratta di un accordo scritto (cf Es 31,18), diverso dalla promessa verbale fatta a Noè, Abramo e Davide. La sua struttura formale è simile a quella di altri trattati della tarda età del bronzo e si compone come segue: 1. Identificazione di Dio: Es 20,2; 2. Prologo di carattere storico: Es 20,2; 3. Stipulazione dell'a.: Es 20,3-17; 4. Benedizioni e maledizioni: Dt 28. 5; Ratifica: Es 24,8-6; 6. Conseguenze di un'eventuale violazione.

Quando il popolo di Israele trasgredisce il patto, viene invocata la punizione corrispondente. La tradizione del Deuteronomio traccia appunto la storia delle violazioni di quest'a. che iniziano da Gn 7 e raggiungono il culmine in 2 Re 17, quando il Regno del nord viene spazzato via dagli Assiri. La narrazione del Deuteronomio spiega appunto questi eventi come risultato dell'infedeltà di Israele ai patti; 2 Re 17,7: "Ciò [questa distruzione] avvenne perché gli Israeliti avevano peccato contro il Signore loro Dio, che li aveva fatti uscire dal paese d'Egitto, liberandoli dal potere del faraone, re d'Egitto; essi avevano temuto altri dei".

I profeti dell'VIII secolo a.C., Amos e Osea, accusano il popolo di violare l'a. Tali accuse presuppongono da parte di Israele l'assunzione di determinati obblighi, ma non viene fatto un preciso riferimento alla a. del Sinai. Amos denuncia coloro che " su vesti prese come pegni si stendono presso ogni altare " (Am 2,8). In Es 22,25 e Dt 24,12-13 viene menzionata la legge per cui le vesti ricevute in pegno non possono essere trattenute per la notte. L'accusa principale mossa da Amos ed Osea è l'idolatria (cf Os 4,10-14; Am 5,26). Amos invoca le punizioni minacciate all'atto dell'a. in caso di infedeltà da parte di Israele (cf Am 2,13-16). Isaia e Michea esprimono analoghe preoccupazioni per la violazione della giustizia sociale, alla luce degli obblighi che derivano ad Israele dalla stipulazione dell'a. (cf Is 1,17; 3,14; 10,1-2; Mic 2,2).

Dopo l'esperienza della distruzione di Gerusalemme (586 a.C.), il Deutero-Isaia richiama il popolo all'a. stipulata ai tempi di Davide (Is 55,3: " Io stabilirò per voi un'a. eterna, i favori assicurati a Davide "). Nel Deutero e Trito-Isaia, in Geremia ed Ezechiele viene espresso ancora il concetto di " eternità " dell'a. tra Dio ed Israele (cf Is 55,3; 61,8; Ger 32,40; 50,5; Ez 16,60; 37,26), e della possibilità di un suo rinnovo. Geremia, come Osea, denuncia l'idolatria di Israele come un crimine gravissimo (cf Ger 11,10) contro l'a. e minaccia al popolo le conseguenze della sua violazione. Al capitolo 31 il tono cambia quando il profeta Geremia, vista la distruzione di Gerusalemme, proclama l'avvento di una nuova a. (cf Ger 31,31-34). Ezechiele gli fa eco (cf Ez 16,60-62; 37,22-38). Gli autori del NT vedranno nella morte e risurrezione di Gesù gli eventi che inaugurano questa nuova a.

b. NT. S. Paolo adopera i termini promessa e a. come sinonimi (cf Gal 3,17: una legge promulgata 430 anni dopo non rende vana un'a. già ratificata da Dio e non annulla la promessa). In Gal 3-4 l'apostolo affronta il problema dell'inclusione anche dei gentili nella promessa, interpretando in modo nuovo l'a. di Dio con Abramo. Nel passo della Genesi 12,7, la " tua discendenza" viene riferito a Cristo. In questo modo, Paolo dimostra che l'a. stipulata con Abramo non viene annullata sul Sinai, ma semplicemente tenuta sospesa fino al suo compimento in Cristo. Questi, nuovo Adamo, " discendenza " del vecchio Adamo, esaudisce la promessa, data ora anche ai gentili, i quali, attraverso la fede, vengono giustificati e ritenuti i destinatari dell'a. di Dio con Abramo.

In 1 Cor 11,25 Paolo dichiara che la nuova a., inaugurata sulla croce da Cristo, viene rinnovata all'atto della distribuzione del vino ("Allo stesso modo... prese il calice dicendo: "Questo calice è la nuova a. nel mio sangue: fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me" "). L'offerta del sangue di Cristo ha stabilito un nuovo legame con Dio, dal momento che esso, come dice Paolo in Rm 3,25, è uno " strumento di espiazione", attraverso il quale i cristiani vengono giustificati (Rm 5,9: " Ora, giustificati per il suo sangue"), e invitati alla nuova a. Nei Vangeli sinottici Gesù dichiara, in occasione dell'Ultima Cena, che il sangue da lui versato è quello della nuova a. (cf Mt 26,28; Mc 14,24; Lc 22,20). L'a. mosaica venne ratificata aspergendo il popolo con il sangue sparso sull'altare (cf Es 24,6-8). Ora il sangue versato da Gesù introduce nella nuova a.

Questo concetto teologico viene del tutto chiarito in Eb 8. Con la citazione di Ger 31,31-34, l'autore dimostra che l'a. mosaica era, in qualche modo, manchevole e che dunque s'imponeva la necessità di un rinnovo. Ancora, il simbolo chiave è il sangue versato per la remissione dei peccati che il sommo sacerdote reca con sé ogni anno dentro il Santo dei Santi (cf Eb 9,7). Cristo, invece, non entra in un santuario umano, ma in cielo (9,24), offrendo il suo sangue per la eterna redenzione, quindi Cristo è il mediatore della nuova ed eterna a.

Conclusione. Uno degli eventi mistici centrali della storia della salvezza è l'instaurazione dell'a. tra Dio e il popolo d'Israele. Nell'ambito di quest'ultima, la comunità diviene beneficiaria delle promesse divine (cf Gn 9,15; Es 2,24; Lv 26,42; Ez 16,60). I profeti Amos e Osea indicano che l'esperienza umana dell'ingiustizia subita da Israele comporta l'intervento di Dio a favore del proprio popolo, in virtù dell'a. Il carattere di eternità di questa (cf Gn 9,16; 17,7; 2 Sam 23,5; Sal 104,10; Is 55,3; 61,8; Ger 32,40; Ez 16,60) ridesta la speranza nel popolo che aveva rinnegato le sue responsabilità e per questo aveva subito l'esilio. Attraverso il sangue del Cristo morto e risorto viene instaurata definitivamente una nuova ed eterna a., a cui i cristiani accedono tramite il battesimo. Tale a. con Dio in Cristo Gesù tesse la trama di un rapporto nuovo ed autentico che porta alla mistica comunione d'amore con le divine Persone nell'ambito della Chiesa. L'a. con Dio, pertanto, è il fine ultimo della creazione ed è per questo motivo che i mistici di tutti i tempi vedono in essa la trama di quella realtà da loro definita " matrimonio spirituale ".

Bibl. A. Bonora, s.v., in NDTB, 21-35; W.J. Dumbrell, Convenant and Creation: a Theology of Old Testament Convenants, Nashville 1984; G. Helewa, s.v., in DES I, 69-98; Id. Alleanza nuova nel Cristo Gesù, in RivVitSp 29 (1975), 121-137, 265-282; 30 (1976), 5-31; D.R. Hiller, Covenant: the History of a Biblical Idea, Baltimora 1969; D.J. McCarthy, Treaty and Covenant, Roma 19782; E.W. Nicholson, God and His People: Covenant and Theology in the Old Testament, Oxford 1986.

G. Morrison

ALLUCINAZIONE. (inizio)

I. Definizione. La parola a. può essere definita " una percezione senza oggetto ", vale a dire una percezione falsa, che presenta le caratteristiche fisiche della percezione, ma che insorge senza adeguata stimolazione sensoriale. Tale percezione non viene riconosciuta come falsa né in relazione a un ragionamento critico né in rapporto all'evidenza.

Il termine a. viene dal latino "hallucinatio" che significa " vagabondaggio con la mente ". Nel significato corrente fu introdotto da Esquirol nel 1817 (autore del trattato Des maladies mentales del 1837) anche se la prima citazione viene attribuita a Fernel (1574). Tuttavia, tali fenomeni psicosensoriali erano già noti presso i greci e i latini, anche se riportati in modo elementare.

II. Descrizione del fenomeno. Dal punto di vista descrittivo, il primo elemento da considerare è l'aspetto della "fisicità", della percezione allucinatoria. Ciò vuol dire che l'a. ha caratteristiche fisiche sovrapponibili a quelle della normale percezione, che, unitamente alla strutturazione spesso elevata dell'esperienza allucinatoria (si pensi ad esempio alle voci o alle visioni di individui), conferiscono all'a. i connotati di realtà di cui non è possibile mettere in dubbio l'esistenza. Tale falsa esperienza non è assolutamente correggibile dalla critica, ed è vissuta come verità incontrovertibile. E frequente che il contenuto e il significato dell'a. si riferiscano al paziente stesso.

III. Forme di a. Le a. possono interessare vari settori sensoriali. Le più comuni sono le a. uditive rappresentate da " voci ", spesso bisbigliate o sussurrate, più di rado manifestate con voce chiara e netta. I toni sono di solito allusivi, offensivi o minacciosi. Solo raramente assumono connotazioni " positive " nel senso di guida e consiglio del soggetto. Per ciò che concerne le a. visive, si tratta frequentemente di immagini di tipo primitivo. Altri tipi di a. sono tattili, cinestesiche, olfattive, gustative, ecc. I contenuti riguardano prevalentemente tematiche di natura persecutoria, idee di grandezza, tematiche di colpa o sessuali. Tali caratteristiche si ritrovano in numerose malattie psichiatriche (schizofrenia, disturbi dell'umore, uso di sostanze psicoattive, disturbi organici, ecc.).

Tuttavia, le a. possono essere presenti anche in disturbi " non psicotici ", prevalentemente di tipo isterico, con fenomeni sia di tipo visivo che uditivo, di solito ben organizzati e frequentemente a contenuto fantastico.

In taluni casi si possono verificare episodi di "percezione senza oggetto" anche in soggetti non affetti da alcun disturbo psichiatrico. Eventi di questo tipo possono accadere in circostanze particolari di deprivazione ipnica o sensoriale, in abnormi situazioni di fatica o stress (tra cui rientrano, per esempio, le "a. da spavento" durante la guerra o le "a. da lutto", riguardanti l'esperienza del coniuge deceduto).

IV. Distinzione tra a. e illusioni. E importante distinguere tra a. e illusioni, nelle quali accanto alla presenza di un oggetto reale esterno, si verifica una distorsione della percezione con completamento non reale del fenomeno percettivo, completamento da attribuire all'esperienza soggettiva dell'individuo. Tali fenomeni possono emergere nel momento in cui l'oggetto da percepire non è adeguatamente strutturato o è manchevole in alcuni suoi punti. Una tipologia particolare di illusioni è quella relativa alle " illusioni olotimiche o affettive " che compaiono in connessione con alterazioni delle situazioni emozionali di fondo. Alla base di ciò vi è, infatti, una particolare strutturazione emotiva che condiziona l'attesa percettiva (ad es. ragazzi spaventati, che attraversano un cimitero di notte, possono scambiare la figura di un albero con una figura umana minacciosa).

V. A. e mistica. L'a. presenta un particolare rilievo nell'ambito della mistica, in considerazione della necessità di affrontare una distinzione tra fenomeni di natura spirituale quali visioni, locuzioni, rivelazioni e fenomeni di natura psicopatologica, quali le a.

Nel Castello interiore (Seste Mansioni, 3) s. Teresa d'Avila scrive di individui di fragile equilibrio o di intensa malinconia, a cui non bisogna credere quando raccontano di visioni soprannaturali o di ascolto di parole divine, poiché queste sono causate dalla loro fantasia.

Per ciò che concerne il campo religioso, le a. possono raramente comparire sotto forma di scene celestiali come volti di santi o di Dio (a. emotive) o essere rappresentate da voci di santi inglobate in un delirio mistico. In altri casi, le a. possono avere una fenomenologia cinestesica, rappresentata nel contesto di un " delirio di demonopatia interna ": i pazienti avvertono che il demonio si muove al loro interno causando percezioni di dolore. La loro descrizione s'inserisce in un articolato delirio di colpa e di persecuzione del demonio o del castigo divino. Se le a. sono di tipo olfattivo, l'individuo potrà avere percezione di profumi, o al contrario, di odori nauseabondi, che saranno espressione, nella sua mente, dell'inferno. Frequenti sono le a. di natura sessuale, in cui donne e ragazze avvertono la sensazione di essere state violentate da demoni o da loro adepti.

Tuttavia, tali a. compaiono di solito nelle malattie psichiatriche precedentemente citate. L'osservazione di a. in individui non malati è riscontrabile soprattutto nelle società non occidentali, nel corso di raduni collettivi durante particolari manifestazioni di carattere magico o in talune celebrazioni di natura religiosa. Al contrario, nelle civiltà occidentali, il verificarsi di a. rituali o di massa è da considerarsi evento francamente eccezionale. Possono, invece, talora verificarsi fenomeni di tipo " illusioni affettive " (v. prima, come quando si vede un Crocifisso nella macchia di un muro).

Bibl. American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Washington 1994; C. Andrade - S. Srinath - A.C. Andrade, The Hallucinations in Non-psychotic States, in Canadian Journal of Psychiatry, 34 (1989), 704-706; K. Asaad - B. Shapiro, Hallucinations: Theoretical and Clinical Overview, in American Journal of Psychiatry, 143 (1986), 1088-1097; H. Babkoff - H. C. Sing et Al., Perceptual Distortions and Hallucinations Reported During the Course of Sleep Deprivation, in Perceptual and Motor Skill, 68 (1989), 787-798; L. Bini - T. Bazzi, Trattato di psichiatria, Milano 197174; E. Boganelli, Corpo e spirito, Roma 1951; G.B. Cassano - A. D'Enrico et Al., Trattato Italiano di Psichiatria, Milano 1993; A. Farges, Les phenomens mystiques, II, Paris 1923, 42-107; A. Freedman et Al., Trattato di psichiatria, Padova 1984; I. Gagey, Phénoménes mystiques, in DSAM XII1, 1259-1274; M. Gelden - D. Gath - R. Mayou (cura di), Oxford Textbook of Psychiatry, Oxford 1989; A. Jaffe, Apparitions. Fantômes, rêves et mythes, Paris 1983; K. Jaspez, Psicopatologia generale. Il pensiero scientifico, Roma 1964; I. Modai - P. Sirola et Al., Conversive Hallucination, in Journal of Nervous and Mental Disease, 168 (1990), 564-565; P. Quercy, Les hallucinations. Philosophes et mystiques, Paris 1930; G.C. Reda, Psichiatria, Torino 1993; I. Rodriguez, s.v., in DES I, 98-99; I.M. Sutter, s.v., in A. Porot, Dizionario di psichiatria, Roma 1962, 49-52; J. Tonquedec, Les maladies nerveuses ou mentales et les manifestations diaboliques, Paris 1938, 5-6.

G.P. Paolucci

ALONSO DI MADRID. (inizio)

I. Vita e opere. Non sappiamo quasi nulla della vita di questo francescano spagnolo tranne che nasce a Madrid, probabilmente tra il 1480 e il 1485; prende l'abito nella provincia di Toledo o nella provincia di S. Giacomo dell'Osservanza Regolare; vive per alcuni anni a Salamanca (1529-1533?) e muore intorno al 1535.

Il suo libro, l'Arte para servir a Dios (1521), diventa un classico di risonanza europea insieme all'altro, Espejo de ilustres personas (1524) che costituisce un'applicazione concreta della dottrina dell'Arte. Di entrambe si hanno edizioni in spagnolo, latino, francese, fiammingo, portoghese, inglese, tedesco, italiano.1 Lo Specchio delle persone illustri, aggiunto quasi sempre nelle edizioni all'Arte, è un saggio di spiritualità per laici appartenenti alla nobiltà, secondo la concezione del tempo. Presenta le motivazioni, utili soprattutto ai grandi di questo mondo, per coltivare la vita interiore; insegna come dirigere la propria famiglia in senso cristiano, come santificare le proprie preoccupazioni ed occupazioni, gli svaghi, il riposo, i giorni festivi; propone l'esercizio della preghiera e della contemplazione, la pratica delle virtù, l'utilità del richiamo dell'idea della morte.

II. Insegnamento spirituale. La finalità dell'Arte, che Teresa d'Avila elogiò molto,2 è quella di fornire un aiuto " per saper tradurre in atto le grandi cose che la Scrittura ci insegna; anche la vita spirituale ha bisogno di un'arte ". Nella prima parte A. sostiene che tutti sono chiamati alla santità, ma soprattutto i religiosi. " La vera santità consiste nell'essere uno stesso spirito e uno stesso volere con Dio ". Occorre agire, perciò, sempre con questa intenzione: fare quello che Dio vuole e perché Dio lo vuole: " Non soltanto con amore, ma con amore e per amore ". Cristo ha fatto così la volontà del Padre.

Il peccato ha sconvolto l'armonia dell'anima. Per riparare il guasto provocato dal peccato e per giungere al puro amore di Dio ci sono stati dati vari strumenti, soprattutto la volontà, " il più alto strumento dell'anima ".

Nella seconda parte, l'Arte parla di " alcuni esercizi per riparare la rovina dell'anima ", effetto del peccato. Questi esercizi sono: a. la contrizione; b. l'odio di sé (el propio aborrecimiento, cioè rifiutare tutto quello che comporta una soddisfazione egoistica e che non sia " di Dio o per Dio "); c. la preghiera, soprattutto la preghiera di domanda come manifestazione a Dio dei propri bisogni; d. la pratica delle virtù, non in un esercizio molteplice delle varie virtù, perché quello che importa è " impararle tutte dal libro della vita, che è Gesù Cristo, specialmente dalla sua passione ".

La terza parte dell'Arte è piuttosto contemplativa ed ha come tema l'amore: l'amore di Dio è l'occupazione più alta di ogni creatura.

A. dedica paragrafi pieni di fuoco al tema dell'amore di Dio, distinguendone vari gradi. Un primo grado è amare Dio come benefattore dolce, gustoso e comunicabile. Un tale amore è buono, ma non perfetto. Gli incipienti devono esercitarsi in esso, ma non pensare che la dolcezza e la soavità che si gustano nel contemplare la bontà di Dio siano vero amore: " Un tale amore è debole, perché è un amore dell'amato per interesse e per dolcezza propria ". Ciò nonostante, esso è indispensabile per staccarsi dall'amore delle cose vane e per disporsi agli atti di un amore più elevato. Il vero amore, così come lo troviamo nel Vangelo, è " un'opera o atto che la volontà fa o produce, amando e volendo fortemente, e a volte con grande dolcezza, che Dio sia quale è e abbia gloria, dominio e sovranità su tutti noi e su tutte le cose, e per se stesso; e che tutto quanto esiste e può esistere lo ami e lo serva e gli dia gloria per la sua sola bontà e dignità infinita ".

L'amore del prossimo è la manifestazione concreta dell'amore verso Dio. Occorre amare il prossimo come il Redentore ha amato noi. Nessuno dev'essere escluso dal nostro amore, nemmeno i malvagi, perché il nostro Padre e Signore ama tutti.

L'amore di sé va inteso come impegno ad amare tutto quello che c'è di buono in noi come dono di Dio, ringraziandolo per questo dono. Amare se stessi vuol dire impiegare i doni ricevuti per il proprio bene e profitto, non mettendo il proprio io al centro, ma ordinando tutto alla gloria di Dio.

A. rimane nell'alveo della tradizione, presentando la sua dottrina in forma efficace e penetrante. Il suo carattere metodico ne spiega l'apprezzamento da parte di autori mistici e spirituali del '500 e '600.

Note: 1 Arte di servire a Dio: Specchio delle persone illustri, Venezia 1558; 2 Teresa d'Avila, Vita 13.

Bibl. Opere: Edizione critica di J.B. Gomis, Místicos franciscanos españoles, I, Madrid 1948, n. 38, 83-211. Studi: Donato De Monleras, Dios, el hombre y el mundo en Alonso de Madrid y Diego de Estella, in Collectanea Franciscana, 27 (1957), 233-281, 345-384; 28 (1958), 155-210 (estratto, Roma 1958); F. De Ros, Bibliographie d'Alonso de Madrid, in Collectanea Franciscana, 28 (1958), 306-331; 31 (1961), 218-229, 645-655; Id., En torno a la biografia de Fray Alonso de Madrid, in Estudios Franciscanos, 63 (1962), 335-352; Id., Fray Alonso de Madrid, educador de la voluntad y doctor del puro amor, in Aa. Vv., Corrientes espirituales en la España del siglo XVI, Barcelona 1963, 283-296; J. Goyens, s.v., in DSAM I, 389-391; E. Pacho, s.v., in DES I, 99-100; M. Tietz, s.v., in WMy, 12.

T. Jansen

ALUMBRADOS. (inizio)

I. Il fenomeno. La voce A. è di conio spagnolo e ha avuto più diffusione che precisazioni. Difatti, quasi tutti i dizionari e le enciclopedie, i manuali e anche le opere specializzate adoperano questo termine generalmente senza definirne il nucleo centrale e il contorno, mettendone addirittura in dubbio la sua realtà storica. Così, per esempio, H. Bremond arrivò a dire che era una sorta di " fantasma " storiografico, di cui tutti parlano, ma nessuno va a caccia di esso; più o meno la stessa cosa afferma R. Knox, che segue i passi di Bremond. Altri autori, al contrario, affermano che esso è un fenomeno importante della Spagna mistica, malgrado non abbia, storiograficamente parlando, tratti definiti: " Esiste, infatti, in Spagna una setta misteriosa, il cui nome ritorna costantemente nei testi, quella degli Illuminati o A. Il fatto stesso dell'esistenza di questa setta ha una grande importanza nella storia per comprendere l'anima spagnola ".1

E opportuno, dunque, fare alcune osservazioni come punto di partenza: 1. la voce A. equivale, filologicamente o semanticamente, a Illuminati, radice lessica latina (illuminati); 2. nella sua accezione originaria e in senso positivo fu usata dagli stessi A.: " Il vescovo Cazalla e sua sorella Maria di Cazalla " lo applicavano a coloro che si radunavano per esercizi di pietà; in tali assemblee o riunioni " dichiaravano la luce che fu data a s. Paolo " e sostenevano " che tutti potevano essere illuminati (...) e coloro che si riunivano per questo si chiamavano illuminati (=alumbrados) ";2 3. il popolo diede a questo nome o voce, e a coloro che li incarnavano, un senso negativo, che sarà assunto dall'Inquisizione, per la quale finisce per equivalere a eresia mistica: " Per i nostri peccati, già tra gli uomini c'è chi ritiene oltraggio (...) parlare a Dio, perché la gente chiama ipocriti, A. e uomini cattivi, coloro che parlano a Dio ";3 4. il nome o voce A. designa, di conseguenza, un sottoprodotto tipico della pietà e, prendendolo in questo senso, il Dr. G. Marañón lo diagnostica come " cancro della mistica " e M. Mir lo considera un fenomeno autóctono o proprio della Spagna.

Qui lo prenderemo, seguendo la storiografia e per dovere di chiarezza, nel senso di deviazione dalle forti correnti spirituali, o per dirla in termini succinti, nel senso di eresia mistica: un fenomeno che contrasta, per la sua nera oscurità, con la luminosa bellezza del misticismo genuino.

II. I gruppi. Ad ogni modo, nonostante tutto, il fenomeno degli A. è una realtà storica importante. Si possono e si devono distinguere sei gruppi, prescindendo dai casi isolati che, di volta in volta, nascono qua o là.

Questi gruppi sono: 1. quello del Regno di Toledo (1510-1530 ca.), nel cuore geografico della Spagna; coincide con il possente risveglio della Spagna mistica; lo guidano primariamente laici uomini e donne ed è, per i suoi contenuti dottrinali, quello di una purezza maggiore; 2. quello dell'Extremadura (1570-1590) ripresa possente e ibrida di una rinascita religiosa promossa da predicatori itineranti di dubbia moralità e favorito dalle condizioni climatiche e demografiche della regione; 3. quello dell'Alta Andalucía (1575-1590), qualcosa di più tardivo del precedente, ma molto vicino, per tempo e origine a quello; particolarmente sensibile alle istanze della stregoneria di Montilla, a Baeza raggiunge uno sviluppo carismatico all'ombra dell'Università e si diffonde a Jaén sotto la direzione di Gaspar Lucas e Maria Romera; 4. quello del Perù (1570-1580), di segno tipicamente creolo (dandogli il suo esatto significato), di scarsa estensione, ma dalle radici ideologiche molto profonde, metà angeliste (l'angelo di Maria Pizarro) e metà liberazionista, giacché propugnava una liberazione o indipendenza dal potere temporale (Spagna) e dal potere ecclesiastico (Roma), propugnando una " nuova Chiesa ", senza rughe di tempo e senza macchie di corruzione; 5. quello del Messico (1580-1605), con i suoi epicentri a Puebla degli Angeli e a Città del Messico, scarso in quanto ad adepti, debole quanto a trama, ma con le sue sfumature di " cieli e terra nuovi " (cf Ap 21,5) con il suo fervore apocalittico e con il suo millenarismo ispirato ideologicamente a Gioacchino da Fiore ( 1202) e praticamente alle passioni molto umane; ed infine quello di Siviglia (1605-1630), che fu il più numeroso e il più folcroristico, orchestrato dal " maestro " Giovanni di Villapando, ex carmelitano e dalla " madre " Caterina di Gesù, oriunda di Baeza.

Come si vede, sono gruppi storici, non fantasmi storiografici.

III. La dottrina. Per un approccio al messaggio mistico dell'Alumbradismo spagnolo c'è una fonte primordiale: i processi istruiti dal Sant'Ufficio. Di tali processi si conserva un abbondante numero, specialmente nell'archivio storico nazionale di Madrid e nell'archivio generale della nazione in Messico. Esistono, inoltre, gli Editti contro gli A., che erano dei Sillabi o sommari dei presunti errori della setta e che gli ufficiali del Sant'Ufficio compilavano meticolosamente partendo dalle deposizioni dei testimoni e anche degli stessi rei. Sono molto ricchi di dati anche i Memoriali di fra Alonso de la Fuente ( 1592), che fu lo scopritore del fenomeno alumbradista dell'Estremadura e dell'Alta Andalusia e si adoperò a debellarlo.

Soffermandosi solo sugli Editti, i principali sono tre: il primo, quello del 1525, promulgato dall'Inquisitore Generale, don Alonso Manrique; il secondo, quello del 1574, promulgato dall'Inquisitore Generale don Gaspare de Quiroga, con alcune clausole o aggiunte posteriori; tale Editto si aggiunse all'Editto generale che si ripeteva tutti gli anni in quaresima per attualizzarlo o non lasciarlo dimenticare; fu praticamente il testo base degli Editti che si leggevano nei distretti di Lima e del Messico; il terzo, quello del 1623, promulgato dall'Inquisitore Generale, don Andrés Pacheco, direttamente contro gli A. di Siviglia e preparato dai teologi di quel tribunale sulla base dei processi in corso e con gli Editti del 1525 e del 1574 ca.

L'Editto del 1525 contiene quarantotto proposizioni, tratte per la maggior parte dalle dichiarazioni dei testimoni e dei rei; per questo motivo, alcune hanno una formulazione o redazione oscura o si trovano ripetute, addirittura sembrano contraddittorie. La minuziosa e laboriosa analisi di M. Ortega ha individuato l'autore, il testimone, il tempo e il luogo di quasi tutte. Il nucleo centrale dell'alumbradismo toledano - il più puro ed anche il più eretico - si ritrova nella proposizione nona; divisa, ha quattro parti o quattro tesi: 1. " l'amore di Dio nell'uomo è Dio "; 2. occorre lasciarsi andare o abbandonarsi a questo amore; 3. questo amore comanda l'uomo tanto da renderlo impeccabile; e 4. " arrivando a questo stato " non c'è più che il merito.

Come si vede, gli A. del Regno di Toledo preconizzavano una unione tra Dio e l'uomo che era identità totale, essenziale (" è "); l'eliminazione di ogni mediazione (di Cristo, della Chiesa, dei sacramenti, delle strutture) era una grave conseguenza, benché logica; e la caduta di tutte la barriere etiche - l'impeccabilità - alimentava una condotta sfrenata.

Benché l'Inquisizione associasse l'eresia degli A. a quella luterana per ragioni metodologiche e anche se ha preteso stroncare nell'erasmismo l'ideologia di Pietro Ruiz di Alcaraz e di Maria di Cazalla, i diffusori di questa tesi, oggi nessuno si lascia influenzare da tali asserzioni; né erano né potevano essere luterani e molto meno erasmiani, dato il loro scarso bagaglio culturale, il che non impedisce di riconoscere che si trattava di un'eresia radicale e dalle conseguenze tremende.

L'Editto del 1574 tentò di circoscrivere la pullulante setta degli A. dell'Estremadura; è un editto breve e le sue clausole o proposizioni, radicate nell'humus degli A. toledani, suppongono una fioritura di segno " sensuale ", prendendo il qualificativo nella sua ampia accezione, cioè relativa ai sensi e ai loro meccanismi biologici o passionali. La proposizione decima lo condensa e se ricorriamo alle glosse di Alonso de la Fuente avremo un'interpretazione giusta.

Di maggior interesse sono le varianti degli A. creoli, con i loro anticipi prematuri della teologia della liberazione e con le loro proiezioni millenariste o escatologiche. Assunti che ovviamente vanno oltre i limiti di questa vita, hic et nunc.

Quanto all'Editto del 1623, che è il più famoso ed il più conosciuto, occorre dire che contiene scarse novità rispetto ai precedenti: li integra - quelli che lo prepararono avevano presenti gli editti del 1525 e del 1574 - e vi aggiunge grandezza e spettacolarità; comprende settantasei proposizioni, distribuite in diciassette blocchi o sezioni tematiche: 1. orazione, 2. obbedienza; 3. confessione; 4. comunione; 5. perfezione; 6. amor di Dio; 7. unione con Dio; 8. lussuria; 9. scomunica; 10. rapimenti (estasi); 11. purgatorio; 12. acqua benedetta; 13. immagini; 14. riunioni o conventicole; 15. matrimonio; 16. stimmate o piaghe; 17. teologi o predicatori. Un insieme dogmatico-morale che comprende quasi tutti gli aspetti della vita socio-religiosa. La vastità della tematica è parallela alla vastità dell'A. sivigliano, che arrivò a contaminare più di cento paesi e città e contò migliaia di adepti. Era un A. che si diffuse considerevolmente tra la gente semplice, che in Andalusia gustava sempre la spettacolarità o le manifestazioni esteriori. Sospettosa dell'A. fu la Congregazione del Granato, tipicamente sivigliana che si caratterizzò non per la sua esteriorizzazione, ma per la sua segretezza, cioè, per il mistero che l'avvolgeva.

IV. " Autodafé ". L'esistenza degli A. preoccupò presto l'Inquisizione spagnola. Era una dottrina e una prassi che per estensione e per intensità risultava pericolosa come un'epidemia. Gli Editti svelano il suo profilo eretico e la lettura o la promulgazione annuale dei medesimi responsabilizza i fedeli in ordine alla denuncia. L'Editto si convertì così in arma tagliente, in stimoli di coscienza e in detonatore efficace. Dopo la lettura dell'editto si producevano le accuse; e in linea con queste, l'istruzione dei processi e, se il tribunale lo riteneva opportuno, la detenzione dei presunti A. Il processo terminava in assoluzione dell'istanza - più frequentemente di quanto alcuni credono - o in sentenza di punizione. La sentenza si pronunciava in un " autodefé ", privato o pubblico, a seconda della gravità dei delitti o il numero dei rei.

Per quanto attiene alle sentenze contro gli A., di cento processi conosciuti si arguisce che fu più il rumore che le noci; vi è solo un caso - quello di fra Francesco della Croce - a Lima nel quale si pronuncia una condanna di rilasciato al braccio secolare (pena capitale) e più per implicazioni politiche e di ostinazione del reo che per fatidica logica del processo; in un gran numero di processi si sentenzia atto privato; a Llerena, Cordova e a Siviglia si celebrarono atti pubblici nei quali il gruppo più vistoso fu quello degli A. ammirati dal popolo per la loro finta santità; condannati a pene relativamente leggere - la più dura fu per quelli di Llerena: alcuni anni al remo nelle galere di sua Maestà - si eclissarono con la rapidità dell'orizzonte e ottennero, dopo un certo tempo, indulto misericordioso per buoni penitenti, come recitano i fogli dei processi nei quali si constata questo epilogo.

Note: 1 L. Cristiani, L'Église à l'époque du Concile de Trente, in A. Fliche - V. Martin, Histoire de l'Église, XVII, Paris 1948, 431; 2 Proceso de M.de Cazalla, Madrid 1978, 209; Proceso de Pedro Ruiz de Alcaraz, ms. Archivio Nazionale, Madrid; 3 A. Esbarroya, Purificador de la conciencia, Sevilla 1550; ried. A. Huerga, Madrid 1973, 300.

Bibl. Eulogio de la Virgen del Carmel, Illuminisme et Illuminé: Alumbrados espagnols du XVI siécle, in DSAM VII2, 1382-1392; A. Huerga, Historia de los Alumbrados, 5 voll., Madrid 1978-1994; P. Juan-Tous, s.v., in WMy, 15-16; B. Llorca, La Inquisición española y los Alubrados (1509-1667) según las actas originales de Madrid y otros archivos, Salamanca 1980; E. Pacho, s.v., in DES I, 100-103; Roman de la Immaculada, El fenómeno de los alumbrados y su interpretación, in EphCarm 9 (1958), 49-80; L. Sala Balust, En torno al grupo de alumbrados de Llerena, in Aa. Vv., Corrientes espirituales en la España del siglo XVI, Barcelona 1963, 509-523 (con bibl.).

A. Huerga

ALVAREZ DE PAZ. (inizio)

I. Vita e opere. Diego A. nasce a Toledo (1560), muore a Potosí (1620). Entra nella Compagnia di Gesù nel 1578. È l'epoca del celebre intervento del Generale Mercuriano ( 1580) nel caso dell'orazione di silenzio del P. Baldassarre Alvarez ( 1580), ex confessore di s. Teresa. Non sembra che abbia ignorato l'ambiente di questo intervento né i risultati e neppure l'intervento misurato di Aquaviva ( 1615) nella sua lettera del 1590. Lo stesso A. sembra inquadrare la sua vita nella tradizione di Alonso Ruiz ( 1599) e di B. Alvarez ( 1580). Studia ad Alcalá e, prima di terminare gli studi di teologia lí, si offre per la evangelizzazione dell'America. Si reca in Perù, dove termina i suoi studi ed è ordinato sacerdote, probabilmente da san Turibio de Mogrovejo ( 1606). Ancora giovane sacerdote, dedito all'orazione e al raccoglimento, ha la tentazione di andarsene alla Certosa. La risposta del P. Generale Aquaviva al provinciale del Perù a questo proposito risulta significativa per il modo in cui illumina il caso.1

E nominato professore di teologia e Sacra Scrittura. Esercita l'incarico di rettore dei collegi di Quito, Cuzco e Lima, è viceprovinciale del Tucumán e provinciale del Perù. E sempre un uomo spirituale, interessato allo studio teologico della vita spirituale, e così raccoglie appunti e note che gli servono, insieme con la riflessione e l'attenzione, per la direzione spirituale e per i consigli ad anime elette, per la propria riflessione e orazione, e per la composizione delle sue opere.

Consegna ai posteri una sintesi personale, organizzata sistematicamente, dell'insegnamento patristico e medievale. C'è chi paragona la sua sintesi dottrinale della spiritualità alla Summa di s. Tommaso. Altri preferiscono paragonare la sua riflessione e il suo stile a quello del suo contemporaneo Suárez (1617) sulla filosofia e teologia. È certamente un'opera ampia e tendente ad esaurire la materia. In questo si mostra in sintonia con l'epoca, anche se scrive molto lontano dall'ambiente europeo. Senza aver avuto l'influsso diretto delle opere di s. Teresa e s. Giovanni della Croce, o di altri maestri della scuola carmelitana, condivide con essi tante impostazioni delle questioni e soluzioni, anche se il suo stile è più strettamente teologico che esperienziale. Ma non scrive senza prima aver fatto orazione. La sua erudizione è amplissima e la sua riflessione equilibrata e realista. I Padri più citati sono: s. Agostino, s. Giovanni Crisostomo, s. Gregorio. Conosce Dionigi Areopagita, Climaco ( 650 ca.), Cassiano, s. Bernardo, i Vittorini, Dionigi il Certosino, Gersone, Luis Blois (Blosius), Kempis ( 1471), Herp e Taulero. La sua opera si potrebbe paragonare allo stile herreriano: ampia, di austera gravità, sobria, proporzionata, ispirata.

II. Il suo insegnamento mistico sulla contemplazione e la vita mistica è contenuto nella sua ultima opera De inquisitione pacis sive studio orationis. La meditazione tende alla contemplazione, e quest'ultima appare preceduta nell'opera di A. da un'ampia esposizione dell'orazione affettiva. In essa distingue tre gradi: il primo, quando ancora si insiste in vari e ripetuti affetti nell'orazione; il secondo, in cui c'è un solo atto di amore che si esercita durante qualche tempo senza interruzione, con nostro sforzo aiutati dalla grazia divina; e il terzo, nel quale senza sforzo e con grande soavità rimaniamo in un solo atto di amore che si protrae più a lungo. Da qui, alcuni hanno voluto vedere nella sua orazione affettiva una specie di " contemplazione acquisita ", risultato della semplificazione alla quale si arriva, come abito acquisito, con l'aiuto della grazia ordinaria nell'esercizio dell'orazione. Oppure una contemplazione incoata a conclusione dell'orazione. Allude anche a doni speciali o repentini da Dio concessi ad alcuni spirituali (cf VI, 320b).

A. distingue tra il sapere scolastico e quello mistico, come tra schola intellectus e schola affectus. Quello si acquista con l'intelletto, questo necessita di purezza di vita, desideri, sospiri, petizione e esercizio di virtù. La contemplazione è una intuizione certa, perspicace e libera di Dio e delle cose celesti, che comporta ammirazione, porta l'amore e dall'amore procede. Risiede nell'intelletto e influisce sulla volontà. Non si può mantenere per molto tempo solo con gli aiuti della grazia ordinaria, ma occorre anche l'aiuto speciale di Dio.

La grazia della contemplazione è sottratta, talvolta, a quelli che l'hanno ricevuta, e questo è operato da Dio per maggiore profitto di quelli. In questo periodo di tempo, l'anima deve esercitarsi con la grazia ordinaria nelle considerazioni e affetti, come quando si esercitava quando stava nello stato di coloro che meditano. La contemplazione non è un dono necessario per la salvezza, e non lo si può ottenere per giustizia, però si può impetrarlo dalla misericordia e liberalità divina con gemiti e azioni. Ma non tutti coloro che sono giunti alla perfezione sono giunti alla perfetta contemplazione. Dio ha altre strade per condurre alla perfezione e alla santificazione. Dà la contemplazione, a volte, ad alcuni, che non sono ancora perfetti per aiutarli ad essere più solleciti nella vittoria su se stessi; però generalmente la contemplazione è dono concesso a coloro che già hanno acquisito una tale pace di spirito da poter fissare lo sguardo su Dio. La causa prossima della contemplazione è il dono della sapienza.

L'uomo può disporsi con la grazia ordinaria al dono della contemplazione, superando gli impedimenti alla virtù autentica, aderendo continuamente al Signore con l'intelletto e l'affetto, e insistendo assiduamente nell'orazione. Può chiedere e desiderare ardentemente che il Signore gliela conceda, ma egli non deve cercare di procurarsela da sé perché è un dono di Dio.

A. distingue tra la contemplazione incoata e perfetta. L'uomo già purificato dagli affetti disordinati, virtuoso ed esercitato nella meditazione, può ottenere la prima e vedere umilmente se è ammesso ad essa, quando, lasciati tutti i discorsi e le considerazioni, posto alla presenza di Cristo o della SS.ma Trinità, si applica nell'amore. La contemplazione perfetta si può definire nella sua sostanza, come semplice conoscenza di Dio, nata dal dono della sapienza, che eleva l'anima al seno di Dio e la riempie di ammirazione e di diletto purissimo. Ad essa l'uomo si può preparare, come abbiamo detto prima. Si avverte grazie ai fenomeni che a volte l'accompagnano (estasi, rapimenti, apparizioni, visioni, ecc.). Questi non si possono desiderare né chiedere e bisogna essere molto prudenti e umilmente, se accadono, occorre pregare Dio che conduca per il cammino normale.

III. I gradi della contemplazione. Secondo A., ci sono quindici gradi di contemplazione, che ordinati da minore a maggiore perfezione, intensità e pienezza, sono: 1. intuitio veritatis, 2. secessus virium animae ad interiora, 3. silentium, 4. quies, 5. unio, 6. auditio loquelae Dei, 7. somnus spiritualis, 8. extasis, 9. raptus, 10. apparitio corporalis, 11. apparitio imaginaria, 12. inspectio spiritualis, 13. divina caligo, 14. manifestatio Dei, 15. visio intuitiva Dei.

L'unione contemplativa con Dio è per lui un dono prezioso per il quale Dio si mostra nel fondo intimo dell'anima, presente ad essa, guardandola e amandola con estrema tenerezza (cf VI, 562b).

Per loquela Dei A. intende le locuzioni divine. In essa, Dio, da se stesso o per mezzo della creazione sottomessa a lui, forma nell'anima del contemplativo alcune parole per istruirlo su qualcosa di attinente alla sua salvezza o al profitto del prossimo e lo muove a gran riverenza e obbedienza, o ad altri santi affetti. La loquela può essere esteriore o interiore, immaginativa o intellettuale.

Per sonno spirituale, intende una specie di estasi incoata nella quale l'anima perde a volte l'uso dei sensi esterni (anche se non pienamente) e si comporta nei confronti del sensibile in modo simile a chi comincia a dormire. O, più propriamente, è un grado tanto veemente di amore, che in esso l'anima non avverte l'esercizio del suo intelletto.

Riguardo alle apparizioni, A. insegna a non desiderarle né a chiederle, anzi a temerle, se vengono. L'importante è riverire il divino e il santo che può esserci nell'apparizione presente (questo atto umano di riverenza va rivolto a Dio). Ma per non ingannarsi occorre attendere il suo effetto, se è buono, contare sull'aiuto del direttore spirituale, vedere se tutto si conforma con la Parola di Dio, se conduce all'umiltà e alla virtù. A. ammette un tipo di apparizione corporea che accade non perché una realtà corporea sia formata davanti agli occhi del veggente, ma per la mutazione realizzata nella potenza visiva, percepita a somiglianza di quello che dev'essere visto (cf V, 10,593a-b). La visione puramente intellettuale non comporta illusioni. Però, come non è facile riconoscere quando non c'è in essa alcuna mescolanza di immaginazione, tutte devono essere ricevute con precauzione e sottoposte alla discrezione del direttore spirituale.

Nella visio in caligine (tredicesimo grado della contemplazione), l'uomo non vede nulla, però ha coscienza che è tutto, e fuori di ciò non esiste nulla, la percepisce come vera e l'abbraccia con amore. È come un guardare non guardando, perché percepisce come una specie di oscurità e nebbia che copre tutta la luce (cf VI, 606).

Sulla visione chiara di Dio, A. aderisce all'opinione dei Padri e alla moltitudine di dottori scolastici secondo cui si deve negare che essa si suole concedere ad un uomo mortale. Essa è propria della vita eterna alla quale tendiamo. I santi che, come Agostino, Benedetto, Ignazio, e altri, giunsero al quattordicesimo grado di contemplazione, contemplarono Dio per luce soprannaturale e specie infusa.

Le analisi di A. sulla diversità possibile dei fenomeni mistici sono dettagliate, intelligenti e basate sulla realtà o su una letteratura mistica seria. La sua posizione dinanzi alla necessità o meno di lasciare tutto il sensibile e intelligibile nello stato di contemplazione è personale e sfumata. Non inclina a concedere tale necessità, poiché, secondo lui, l'intelletto umano non dipende dall'immaginazione e dal " fantasma " (cf VI, 550b). Dio, che è datore della contemplazione, può esercitare molto più efficacemente l'intelletto introducendo la sua luce, e indurre in esso la verità che contempla, addormentando l'immaginazione. Allude, per sostenere la sua teoria, al modo di conoscere dell'anima separata e al modo di conoscere di certe anime, alle quali Dio concede di raggiungere sublimità spirituali, nella cooperazione dei sensi e del corpo. Prima (cf 550a), si era riferito alla teoria di s. Tommaso, secondo la quale Dio concede ad alcune anime sante scienza infusa, perché possano usarla senza cooperazione dei sensi, o introduce in esse quasi per transitum specie infuse 2, forse più frequentemente di quello che crediamo noi inesperti. Inoltre, A. si riferisce a Dionigi il Certosino 3 che sostiene la possibilità che Dio elevi l'intelletto umano con una luce speciale nell'uso delle immagini ricevute dai sensi, senza che nessun senso interiore cooperi alla contemplazione.

Riassumendo, ciò che non manca a nessun autentico contemplativo è l'intendere semplicemente e senza discorso, è l'amare più che ordinariamente, è avere il santo affetto del timore, o desiderio delle virtù (cf VI, 551a).

Note: 1 Cf ARSI, Peru. Litt. Gener. 1584-1618, lettera del 24 febbraio 1587 al P. Juan de Atienza; 2 STh II-II, q. 17, a. 10; De veritate, q. 13, a. 2 ad 9; 3 De mystica theologia, a. 8.

Bibl. Opere: De vita spirituali eiusque perfectione, Lugduni 1608; De exterminatione mali et promotione boni, Lugduni 1613; De inquisitione pacis sive studio orationis, Lugduni 1617, raccolte in Opera Iacobi Alvarez de Paz, 6 voll., Paris 1875-1876. Studi: A. Astrain, A la memoria del gran asceta Diego Alvarez de Paz en el tercer centenario de su muerte, in Greg 1 (1920), 394-424; I. De la Torre Monge, La llamada universal a la contemplación en Alvarez de Paz, Santander 1959. E. Hernandez, s.v., in DSAM I, 407-409; E. Lopez Azpitarte, La oración contemplativa. Evolución y sentido en Alvarez de Paz S.I., Granada 1966; T.G. O'Callaghan, Alvarez de Paz and the Nature of Perfect Contemplation, Roma 1950; A. Pottier, Le P. Louis Lallemant et les grands spirituels de son temps, I, Paris 1927, 298-339; A. Poulain, s.v., in DTC I, 928-930.

M. Ruiz Jurado

AMBROGIO DI MILANO (santo). (inizio)

I. Vita e opere. Le fonti principali della vita di A. sono la Vita Ambrosii, scritta dal diacono Paolino nel 422 su suggerimento di Agostino, e il suo epistolario. Aurelio A. nasce a Treviri il 334 o 337 (la differenza è data dalla diversa interpretazione dell'Ep. 59,4 sui movimenti migratori di allora) dal padre Ambrogio, nobile romano funzionario della prefettura imperiale delle Gallie e, per parte di madre (se ne ignora il nome) quasi certamente della gens Aurelia, e terzogenito dopo Marcellina e Satiro. A., dopo lo studio della retorica a Roma (vi era giunto prima del 35254 - periodo di consacrazione a vergine consacrata della sorella Marcellina - con la madre e i fratelli dopo la morte prematura del padre), inizia la carriera (cursus honorum) nella prefettura d'Italia, Illirico e Africa trasferendosi a Sirmio con il fratello Satiro. Nel 370 A. entra a far parte come consularis del Senato Romano ricevendo il titolo di clarissimus. Nel 374, ancora catecumeno, succede per acclamazione popolare all'ariano Aussenzio ( 374) nella sede vescovile milanese. Battezzato il 30 novembre, A. viene consacrato il 7 dicembre del 374 (altri anticipano la data al 1o dicembre del 373).

Da quel momento A. si dedica alla sua attività pastorale studiando la Bibbia, Filone, Plotino, i Padri Greci. La sua attività di pastore è dominata principalmente dal problema ariano. Esso incide profondamente sulla comprensione dei suoi rapporti episcopali con l'Impero e sulla sua teologia spirituale che ha una spiccata dimensione cristologica.

Gli scritti di A. vengono suddivisi, di solito, in due modi: per genere e temi o in relazione all'influsso delle fonti da lui utilizzate.

Quanto alla suddivisione per genere e temi si hanno: - Opere esegetiche: Hexaemeron, De paradiso, De Cain et Abel, De Noe, De Abraham, De Isaac et anima, De bono mortis, De fuga saeculi, De Jacob et vita beata, De Joseph, De patriarchis, De Helia et ieiunio, De Nabuthae historia, De Tobia, De interpellatione Job et David, De apologia prophetae David, Enarrationes in XII psalmos davidicos, Expositio psalmi CXVIII, Expositio Evangelii secundum Lucam, Expositio Isaiae prophetae (frammenti in CCL 14, 403-408), Tituli (21) come didascalie di episodi dell'AT e del NT per la basilica ambrosiana (se ne discute l'autenticità).1 - Opere più strettamente ascetico-morali: De officiis ministrorum, De virginibus ad Marcellinam, De viduis, De virginitate, De institutione virginis et de s. Mariae virginitate perpetua, Exhortatio virginitatis. - Opere più strettamente teologiche e liturgiche: De fide ad Gratianum, De Spiritu Sancto, De incarnationis dominicae sacramento, Explanatio symboli ad initiandos, Explanatio fidei (fr. da Teodoreto in PG 83, 181-188), De mysteriis, De sacramentis (attribuzione discussa), De poenitentia, De sacramento regenerationis sive de philosophia (si conservano frammenti), Inni (18, se ne ritengono autentici 4). - Discorsi: De excessu fratris; De obitu Valentiniani; De obitu Theodosii; Sermo contra Auxentium de basilicis tradendis. - Epistulae (91, la 23 non è ritenuta autentica). Tre epigrafi in distici.2

La suddivisione degli scritti di A. in relazione all'influsso delle fonti contempla due blocchi: gli scritti giovanili, quelli sino al 385387 di marca filoniana e neoplatonica; gli scritti della maturità, quelli dopo il 385387 d'ispirazione basiliana. Il passaggio dal primo periodo al secondo è caratterizzato da tre fattori: l'apertura di A. ad Origene, la scoperta del valore spirituale del Cantico dei Cantici, il confronto con il neoplatonismo. Sulla base ermeneutica di un triplice senso delle Scritture (letterario, etico, spirituale) A. utilizza l'allegoria per ricavarne soprattutto il senso tropologico o morale. Egli non fa un commento sistematico della Scrittura e, se si prescinde dal Vangelo di Luca, commenta in genere fatti e personaggi dell'AT secondo il modulo filoniano di trattare un argomento partendo dal mondo biblico. I titoli stessi dei trattati di A. si ispirano, infatti, principalmente a personaggi della Sacra Scrittura.

Per la comprensione dei suoi scritti, quindi, della sua eredità spirituale va tenuta presente anche la vicenda socio-politica in cui vive il vescovo milanese.3

L'attività pastorale di A. raggiunge gli uomini eminenti del suo tempo come l'intero popolo di Dio, ben oltre l'area milanese. Egli, infatti, è presente ad esempio all'entrata di Paolino ( 431) a vescovo di Nola, alla creazione di nuove sedi episcopali del Nord Italia e dei loro vescovi (Ep. 63 alla Chiesa di Vercelli, un piccolo trattato sulle elezioni episcopali). A. è un vescovo il cui episcopio è il mondo o il saeculum (secondo l'accezione agostiniana del De civitate Dei), egli perciò si fa carico di far lievitare l'esigenza evangelica nel cuore di un vescovo collega (il caso di Paolino di Nola, Ep. 58), dell'Imperatore (Teodosio viene invitato ad entrare nel luogo pubblico dei penitenti, Ep. 51), come delle categorie dei semplici cristiani (ad es. Ep. 63, alla Chiesa di Vercelli).

Un rapporto particolare A. ha con il popolo di Dio, di cui sfrutta tutta la capacità assembleare, in particolare nelle assisi liturgiche. Egli incrementa notevolmente il tenore di quelle assisi, creando quell'insieme di riti, di formulari e di inni denominato liturgia ambrosiana. Per primo introduce antiphonae, hymni ac vigiliae e il canto liturgico alternato (Paolino, Vita Ambrosii in PL 14, 31). Grazie anche all'opera di Simpliciano (il vescovo succeduto ad A.) e ad Eusebio di Vercelli (449-452) si viene costituendo un corpus liturgico rimasto unico nella storia dell'Occidente cristiano. La liturgia ambrosiana è testimonianza di un antiarianesimo dichiarato. Sviluppa, infatti, un forte cristocentrismo relativo alla persona di Cristo: Incarnazione, nascita verginale, accentuazione dell'umanità e divinità e, conseguentemente, della mariologia, in particolare degli aspetti di verginità e maternità. La liturgia ambrosiana conserva sempre, nell'arco della sua formazione (dal sec. IV al sec. X) e nel passaggio culturale dalla fase romano-italica a quella barbaro-longobarda, la centralità del mistero del Cristo creatore e salvatore del cosmo e dell'uomo, datale da A. Il 4 aprile, sabato santo del 397, A. muore.

A. è un vescovo cosciente di dover gestire da responsabile della religione la Chiesa cattolica. Egli la difende perciò con tutti i mezzi a disposizione contro chicchessia, sia pure l'Imperatore. Appoggia incondizionatamente i principi favorevoli alla Chiesa, ponendo i fondamenti dei diritti da riconoscere da parte delle istituzioni civili alla religione cristiana. A. morente pronuncia una famosa risposta che resta impressa anche in Agostino: " Non sono vissuto in mezzo a voi in modo da vergognarmi di continuare a vivere, ma nemmeno temo di morire poiché abbiamo un Signore buono " (Vita Ambrosii 45).

II. L'eredità teologica e ascetico-spirituale di A. sarebbe da collocarsi per gli studiosi nell'ambito di tre indirizzi del sec. IV: la tendenza sociale dell'ascesi evangelica, quella monastica eudemonistico-individuale e quella filosofica a carattere naturale-istintiva.4

La spiritualità ambrosiana presenta in realtà una grande sintesi delle idealità del suo tempo, sviluppando nella linea dell'uomo saggio la sapientia a fondamento delle virtù e la caritas quale sua pienezza (plenitudo). L'uomo, tuttavia, nella visione antropologica di A., essendo sempre indebitato verso Dio, solo grazie all'umiltà può entrare nell'azione misteriosa di Cristo quale causa della sua salvezza e non può fare affidamento sul suo operato (il merito). L'umiltà è intesa dal vescovo milanese non tanto come una virtù tra le virtù, quanto condizione d'animo di fronte a Dio.

Tre sono, quindi, i poli di articolazione della spiritualità ambrosiana: la virtù (tra etica ed ascetica), la carità e Cristo. 1. Si ha per A. un'ascesi dello spirito radicata nello stesso spirito, di derivazione stoica dell'etica ciceroniana e d'influsso origeniano per il rapporto tra l'anima e il Verbo. Essa riguarda il silenzio o la moderazione nel parlare (cf Off. 1,18,67). L'umiltà poi è la forma di ascesi spirituale contro la superbia nella scia di Cristo umile (cf Ibid. 3,5,6). Se a Cicerone ( 43 a.C.) era stato più facile scrivere sulla gloria, ammirandola per se stessa e a causa del bene che spinge l'uomo ad agire, con il cristianesimo, e soprattutto con A., l'umiltà entra a far parte, oltre che della sfera della coscienza individuale, anche della formazione pratica della vita. L'uomo giusto, perciò, anche in caso di offese, col tacere conserva l'umiltà per seguire l'umile Signore (cf Ibid. 1,6,21). La pienezza delle virtù, se non contempla l'umiltà che è capace di supplire anche alle virtù mancanti (cf Expl. ps. 118,20,4), è sterile. Se essa non trova molto spazio nel De officiis lo ha tuttavia nei commenti ai salmi, soprattutto nel salmo 118 che si ispira al Cantico dei Cantici e al Vangelo di Luca, scritti ambrosiani più liberi da modelli filosofici. C'è poi da notare che con il De officiis ministrorum si ha in A. il passaggio dall'etica stoica a quella cristiana. Ciò si riscontra nella diversa definizione del summum bonum, distinguendo tra vita beata (il summum bonum immanente dello stoicismo) e vita eterna (il summum bonum trascendente della fede cristiana) (cf Off. 2,5,18). 2. Gli esercizi di ascesi corporale sono motivati in A. dalla destinazione eterna dell'uomo. I giorni giudaici di digiuno (lunedì e giovedì) vengono spostati dai cristiani nei giorni di mercoledì e venerdì. A. utilizza per la sua comprensione del digiuno soprattutto due omelie di Basilio: In ebriosos (Hom. 14) e l'Exhortatoria ad sanctum baptisma (cf Hom. 13).

A. dedica poi molti discorsi alla castità, che considera non un privilegio delle sole vergini bensì un dovere di tutti i fedeli. Diverso, infatti, è per lui solo il modo in cui la castità si realizza nei singoli stati di vita. " La virtù della castità è triplice: matrimoniale, vedovile e verginale... ognuna ha la sua validità nel proprio stato. In ciò sta la ricchezza della tradizione della Chiesa: A. predica la verginità, ma non rifiuta il matrimonio " (Vid. 4,23). La verginità è vista anzitutto come un abito mentale che è richiesto a tutti. " O vergine - scrive A. - cerca dunque Dio, anzi cerchiamolo tutti " (Virg. 15,93). La vita verginale non si limita alla conservazione della castità, essa comprende l'intera scala delle opere virtuose (cf Ibid. 10,54). La sola verginità della carne (virginitas carnis) non è ancora un merito perché vi si deve aggiungere una mente casta (integritas mentis) (cf Ibid., 4,15). La verginità è stata resa possibile sulla terra solo dopo la venuta di Cristo (cf Ibid., 1,3,11). Nel sec. IV la castità costituisce il punto nodale del pensiero cristiano riguardo al dogma, alla morale e alla prassi della vita. Alcune correnti cristiane del tempo amano scagliarsi contro la carne (caro) leggendola nell'ottica del sesso sino ad identificarla con esso.5 Il piacere sensuale, di conseguenza, viene considerato un male: l'anima può perdere il dominio della sua parte razionale. In tale ottica anche A. identifica l'istinto sessuale con il serpente del paradiso (cf Ser. 49; Ep. 63,14). Per lui la sessualità non comprende l'uomo intero ma solo la sua parte fisica, quella relativa al ventre, perché l'anima è senza sesso (cf Lc 2,28; Fid. 4,3,28). Ciò che si concede alla sessualità è perciò una concessione fatta al ventre, vale a dire ai bisogni istintivi dell'uomo. A., tuttavia, per impostazione mentale e pratica, è portato a valutare concretamente le possibilità umane di seguire il Vangelo. Evitando perciò posizioni di radicalizzazioni, egli coinvolge sempre sul possibile (cf Expl. ps. 118s. 5,18). 3. La sequela Christi: A. fa leva non tanto sul perseguimento della virtù in sé, quanto sull'imitazione di Cristo. Nell'ultimo paragrafo del De Isaac ad esempio, dietro la descrizione del sommo bene, fa risplendere il volto personale di Dio e di Cristo. L'unirsi a Dio è beatitudine, è voluptas (cf Isaac 8,78) e " la fonte di questa vita per tutti è Cristo " (Ibid. 8,79). Una spiritualità, quella ambrosiana, possibile ad ogni cristiano perché Cristo nasce nel cuore di ognuno, mediato da quel processo incarnazionistico discensionale, che dal cuore di Dio Padre giunge al cuore della vergine Maria e a quello del credente (Expl. ps. 118s. 6,6; Isaac 4,31) dove viene deposto il seme della divinizzazione dell'uomo (cf Expl. ps. 118s. 12,16).

A. precisa poi l'Incarnazione di Cristo nel cuore del credente esplicitandone la forma assunta. E quella del Servo sofferente, del Cristo della passione e della morte in croce, radice di ogni virtù del cristiano e della sua crescita spirituale (cf Ibid., 6,33; 12,16), partecipando egli alle sofferenze-energia del Crocifisso (cf Ex. Lc. 7,176-186). " La Chiesa - egli scrive - ...dopo aver partorito il Verbo e averlo seminato nel corpo e nelle anime degli uomini per mezzo della fede nella croce e nella sepoltura del corpo del Signore, sceglie per ordine di Dio la società del popolo più giovane " (Ibid. 10,134). A. riannoda così ogni rapporto del credente e della Chiesa con Cristo alla fonte iniziatica che è Cristo crocifisso e sepolto, sottolineandone sempre la stretta interdipendenza. " Cristo, egli sintetizza, è la fede di tutti; la Chiesa è, per così dire, la norma della giustizia, il diritto comune di tutti; infatti essa insieme prega, insieme agisce, insieme è messa alla prova " (Off. 1,142). Tale esplicitazione traduce in teoria spirituale il concetto dell'iniziazione cristiana ai misteri, cui A. dedica molta parte della sua attività letteraria (cf De mysteriis, De sacramentis) e pastorale. Il vescovo di Milano è da considerarsi, inoltre, a giusto titolo il fondatore della spiritualità liturgica in Occidente. I sacramenti, infatti, costituiscono per A. il legame con il vivere cristiano. Questo consiste nella crescita di Cristo nel credente, anzi il vivere è l'esplicitazione del rito celebrato che, a sua volta, dà al rito liturgico o sacramento la possibilità di crescita, evitando di abortire il Cristo.

La sequela del Signore si colloca per A. fondamentalmente nell'amore, così come nei Vangeli Cristo lo cercava. A proposito della donna che aveva unto di unguento profumato i piedi di Gesù, A. commenta: " Il Signore (di quella donna) non cercò quindi il profumo, ma ne amò l'amore " (cf Ex. Lc. 6,28). In tale prospettiva il vescovo di Milano evita di leggere la sequela evangelica come una nuova legge da osservare nella linea dell'osservanza mosaica.

Egli, commentando il salmo 118, nota in proposito che il salmista al custodivi della legge aggiunse il dilexi, per mostrare che l'osservanza non è nata dal timore ma da un'esigenza di amore. L'eredità spirituale ambrosiana si inscrive, in sintesi, nella comprensione del Verbo incarnato secondo la fede nicena, esplicitata sul piano teologico antiariano, sul piano liturgico cristologicamente e sul piano del vissuto nella carità quale sua pienezza.

Un ruolo particolare, poi, ha nella spiritualità di A. l'uso del Cantico dei Cantici. Se nel De Isaac egli delinea una spiritualità individuale ispirata a Gesù, nel Cantico dei Cantici, assieme al De Isaac, l'Expositio psalmi 118 e il De virginitate (opere degli anni 387-390), pone in rapporto Cristo, la Chiesa e il cristiano. Se l'equazione di Origene Verbum-anima portava ad una spiritualità individuale, in A. emerge nel binomio Cristo-Chiesa, una, ecclesiale, sacramentale. Nella stanza nuziale Cristo, infatti, consegnò alla sua Chiesa le chiavi per poter aprire i tesori della scientiae sacramentorum (cf Expl. ps. 118, 1,16) al fine di trovare i sacramenta baptismatis (cf Ibid. 2,29). La Chiesa, infatti, ha due occhi: uno più penetrante (acutior) che vede i mistica, e uno meno acuto (dulcior) che vede i moralia (cf Ibid. 11,7 e 16,20). Ciò che negli scritti dogmatici di A. è presentato come frutto dell'azione redentrice di Cristo, nell'ambito del Cantico dei Cantici si trasforma in spiritualità ecclesiale: Ecclesia vel anima, vale a dire la Chiesa è l'humus dell'anima cristiana ed essa non è mai un'entità astratta perchè vive nelle anime.

A. delinea nel De Isaac vel anima la spiritualità dell'anima singola nel rapporto Verbum-anima. L'anima, più che nella sua distinzione da corpus e mens, è indicata come sinonimo di uomo credente. Si parla dell'anima perché il progresso spirituale era allora dato, in chiave platonica (plotinianaporfiriana), dall'attività dell'anima. A., applicando il triplice modo di leggere le Scritture (morale, naturale e mistico) ai libri di Salomone (i Proverbi, la sapientia moralis; l'Ecclesiaste, la sapientia naturalis; il Cantico, la sapientia mystica: cf Ex. Lc. prol 2; Expl. ps. 118, 1,3; Isaac 4,23), indica con tale ripartizione contenuta nel Cantico, i gradi successivi di conoscenza dell'anima nel suo progressivo rapportarsi al Verbo (cf Isaac 4,14; 4,27; 8,68). Il sensus moralis è lo sforzo di essere virtuosi; il sensus naturalis è il distacco dalle cose terrene, l'abbandono dei visibilia e sensibilia (cf Ibid. 4,11; Expl. ps. 118, 8,18 e 14,38); il " senso mistico " è la compiutezza nell'amore (cf Isaac 4,24-26): tre sensus che corrispondono all'ascesa dell'anima a Dio attraverso l'institutio, il processus e la perfectio. A. distingue generalmente nel processus animae quattro gradi ascensionali (cf Ex. Is. 6,50): il desiderio del Verbo; la ricerca del Verbo; il superamento della concupiscenza carnale " attraverso gli sforzi della virtù " (Isaac 4,16); la sequela Christi quando l'anima, respirando il profumo della fede (cf Ibid. 4,37), produce frutti di carità (cf Ibid. 5,47). Il Verbo ritrovato dall'anima pone questa nella tensione di aiutare altre anime (cf Ibid. 4,11; 6,53). E la perfezione nell'amore che corrisponde al dono di Dio che è Cristo stesso.

Si suole distinguere in A. una spiritualità ispirata da Gesù (quella etica della sequela) e una ispirata da Cristo che tende al Kyrios glorificato 6 che riporta la distinzione fatta a suo tempo da E. Bömminghaus, (Iesus Frömmigkeit...).

Quanto alla questione di una mistica ambrosiana, va osservato che essa non va equiparata ai fenomeni mistici di accezione semantica moderna, ma va letta nell'ambito della tradizione origeniana del senso mistico e dell'unione dell'anima con il Verbo. Il senso mistico (sensus mysticus) della Scrittura è cogliere il senso spirituale della Parola di Dio, oltre quello letterario e morale, penetrando nei secreta mysteria, ad esempio nell'amore di Gesù per il suo popolo. Nel descrivere l'unione dell'anima con il Verbo, A. parla, tuttavia, di una mors mystica e in diversi gradi, dell'anima che già su questa terra abbandona e fugge i legami del corpo. Ma ciò è detto in senso etico. A. si esprime nei seguenti termini: " Evadi dal corpo, completamente - dice Cristo all'anima - tu non puoi essere presso di me, se non sei prima emigrata dal corpo, perché colui che si trova nella carne, si è allontanato dal regno di Dio " (Isaac 5,47). " Caro " e " corpus ", " mundus " e " terra " sono per A. non solo realtà biologiche e spaziali, ma etiche e teologiche. Il credente opera il transgressus ex terris con la fede e le opere (cf Isaac 5,47; Expl. ps. 118, 8,18). Alla meta stoica della lotta etica, l'imperturbabilità, fanno riscontro in A. la fiamma dell'amore che unisce l'anima al Verbo e la morte mistica del morire al peccato che si traduce nel con-morire con Cristo, partecipando alla passione e alla morte di Cristo. Lo sposo divino poi, nella linea del Cantico dei Cantici, non comanda ma attira e l'anima non teme ma brama.

Il legame dell'anima con il Verbo è chiaramente rapportato, infine, in A. all'intelligenza delle Sacre Scritture: " Bevi dapprima l'Antico Testamento, per bere poi anche il Nuovo Testamento... Coloro che bevvero nel tipo furono saziati, coloro che bevvero in verità furono inebriati. Una buona ebbrezza che infuse gioia e non portò alcuna confusione. Una buona ebbrezza che fortificò il passo dello spirito sobrio " (Expl. ps. 118, 1,33). A. plasma la struttura spirituale della Chiesa milanese a livello del singolo credente e dell'Ecclesia chiamata allora a nuovi compiti di guida morale e spirituale della società.

Note: 1 Ed. S. Merkle, in Römische Quartalschrift, 10 (1986), 185-222; 2 Si riportano tutti i titoli degli scritti ambrosiani perché hanno, apertamente o in filigrana, la presenza di due componenti: il problema ariano e quello della vita morale dei cristiani; 3 Sotto Valentiniano I prevale la politica del non intervento, quindi una reciproca liberalità tra i vari gruppi religiosi. Attraverso poi i popoli invasori delle istituzioni romane, appoggiati dall'imperatore di Oriente, l'arianesimo viene veicolato in Occidente. L'azione di A. di fronte alla penetrazione dell'arianesimo in Occidente è continua e di vaste proporzioni consequenziali per il futuro assetto tra Chiesa e Impero. Nel 379 l'imperatore Teodosio viene conquistato interamente alla causa cattolica, un dato che porta all'editto antieretico del 22 aprile del 380 e all'editto di Tessalonica " cunctos populos ", che pone la fede cattolica a unica religione pubblica dell'Impero. A. ottiene la restituzione ai cattolici di una basilica occupata dagli ariani e fa sentire il suo intervento presso l'imperatore in occasione dei Concili di Aquileia del 381 e di Roma del 382 e, soprattutto presso Graziano, per la controversa questione della statua della Vittoria portata in Senato da dove viene tuttavia rimossa nel 382, e forse non è estraneo alla recrudescenza delle leggi antipagane. Sotto Valentiniano II, cui Agostino dedica il discorso ufficiale, A. fa occupare dai fedeli, in occasione della Pasqua del 386, la Basilica Porziana voluta dal vescovo ariano Aussenzio. La Corte imperiale, che ha proclamato la libertà di culto per gli ariani, minaccia la pena di morte a chi la impugni. A., rinchiusosi con i fedeli nella basilica porziana che viene assediata dalle truppe imperiali, costringe Valentiniano II a revocare i provvedimenti. L'eccidio di Tessalonica del 390 porta A. ad abbandonare Milano per non incontrare Teodosio e a scrivergli una lettera riservata invitandolo alla penitenza pubblica. L'imperatore, emanata prima a Verona una legge sulla condanna a morte da non eseguire prima di trenta giorni dalla sua pubblicazione, ritorna a Milano chiedendo, tramite il magister officiorum Rufino, la penitenza pubblica che assolve nel Natale del 390. L'anno 391 segna, con una serie di leggi emanate da Teodosio, la fine ufficiale del paganesimo: proibizione di ogni culto esteriore pagano, chiusura dei templi, distruzione del Serapeo di Alessandria; emanazione di una legge contro gli apostati dalla fede cristiana. Nell'anno seguente vengono proibite anche le forme private del culto pagano; 4 E. Bickel, Das asketische Ideal bei Ambrosius, Hieronymus und Augustin, in Neue Jahrbucher f.d. klass. Altertum, Geschichte u. deutsche Literatur und Paedagogie, 19 (1916), 455; 5 W. Chubart, Religion und Eros, München 1944; 6 in K. Baus, Das Gebet zu Christus beim hl. Ambrosius, Trier 1952, 128ss.

Bibl. Aa.Vv., Cento anni di bibliografia ambrosiana (1874-1974), Milano 1981; G. Bardy, s.v., in DSAM I, 425-428; K. Baus, Das Gebet zu Christus beim hl. Ambrosius, Trier 1952; E. Bickel, Das asketische Ideal bei Ambrosius, Hieronymus und Augustin, in Neue Jahrbucher f.d. klass. Altertum, Geschichte u. deutsche Literatur und Paedagogie, 19 (1916), 437-474; Id., Das Nachwirken des Origenes in der Christus-Frömmigkeit des heiligen Ambrosius, in Römische Quartalschrift, 49 (1954), 21-57; E. Bömminghaus, Iesus Frömmigkeit oder Christusfrömmigkeit, in Zeitschrift fur Askese und Mystik, 1 (1925), 252-265; P. Borella, Il rito ambrosiano, Brescia 1964; P. Courcelle, Plotin et St. Ambroise, in Revue de Philologie, 76 (1950), 29-56; E. Dassmann, La sobria ebbrezza dello spirito. La spiritualità di sant'Ambrogio vescovo di Milano, Milano 1975; V. Grossi, La verginità negli scritti dei Padri. La sintesi di S. Ambrogio: Gli aspetti cristologici, antropologici, ecclesiali, in Aa.Vv., Celibato per il regno, Milano 1977, 131-164; J. Huhn, Das Geheimnis der JungfrauMutter Maria nach dem Kirchensvater Ambrosius, Würzburg 1954; H. Lewy, Sobria ebrietas. Untersuchungen zur Geschichte der antiken Mystik, Giessen 1929; A. Madeo, La dottrina spirituale di sant'Ambrogio, Roma 1941; A. Paredi, S. Ambrogio e la sua età, Milano 19933; B. Parodi, s.v., in BS I, 985-989; C. Sorsoli - L. Dattrino, s.v., in DES I, 106-109; A.M. Triacca, Ambrosiana (liturgia), in DPAC I, 153-156.

V. Grossi

AMERICANISMO. (inizio)

I. Il fenomeno. La connessione con la mistica è abbastanza limitata e marginale, una volta chiariti i vari significati attribuiti al termine A. Vanno da " eresia " fino a " fantasma ": da qui l'idea di essere davanti ad una realtà pericolosa, equivalente ad una deviazione dottrinale della fede cristiana, fino all'opinione di considerare tutto un " mito ". Tutte e due le posizioni estreme corrispondono storicamente a due tipi di a., comunque, tutti e due sono vincolati in qualche modo alla figura di Isaias Hecker (1888).

L'a. politico-religioso, rappresentato principalmente dai vescovi J. Ireland e J. Kaene e dai loro seguaci in Europa F. Klein e D. O'Connell, non fu altro che un fenomeno di " inculturazione ", consistente nella legittima " americanizzazione del cattolicesimo "; rispondeva al sentimento di molti cattolici americani che perseguivano un adattamento delle espressioni religiose alla sua peculiare idiosincrasia. In tal senso, fu una realtà di ampia estensione e consistenza. Paradigma della corrente fu considerato il fondatore dei Paulisti, I. Hecker. La diffusione della sua vita in Europa, attraverso la versione francese con introduzione di F. Klein (1897), diede origine all'a. dottrinale, cioè, all'elaborazione in chiave teorica dei criteri e dei principi che ispiravano la " prassi americana ".

II. I teorici della sintesi, specialmente Ch. Maignen e Périès, giunsero a considerarla una nuova scuola teologica piena di errori, tendente all'eresia. I punti principali erano: esistenza di una naturale aspirazione al bene soprannaturale; esagerato ampliamento dell'azione dello Spirito Santo; distinzione arbitraria e pericolosa tra le virtù attive e quelle passive; negazione della distinzione tra precetti e consigli, con logica avversione per la vita religiosa; errata spiegazione della vita spirituale.

La sintesi tracciata dai critici europei, principalmente francesi, coincide sostanzialmente con le deviazioni denunciate da Leone XIII nella lettera al card. Gibbons Testem benevolentiae.1 Non è una condanna concreta, ma una messa in guardia davanti alla " somma delle opinioni che alcuni chiamano a. " I punti segnalati come possibili deviazioni erano: la Chiesa avrebbe dovuto essere più indulgente con le altre confessioni in materia di dottrina e disciplina; era superflua l'esistenza di una guida o magistero esterno, dato che esisteva una nuova effusione di grazia dello Spirito Santo; le virtù naturali erano più adatte ai tempi moderni che quelle soprannaturali; le virtù passive erano tipiche di altri tempi, mentre le virtù attive erano le più adeguate; le virtù passive vincolate alla vita religiosa erano le meno convenienti per i tempi moderni; dovevano trovarsi nuovi mezzi per portare conversioni alla Chiesa.

Tutti i principali fautori dell'a. politico-religioso protestarono dicendo che nessuno professava dottrine denunciate nella lettera pontificia, pertanto non avevano difficoltà ad accettarla nella sua integrità. Di conseguenza, coloro che attaccavano Maignen, Périès e altri denunciavano un'" eresia fantasma "; una creazione degli stessi, una dottrina che non era mai esistita. Anche se gli istigatori dell'intervento pontificio insistettero e riaffermarono l'esistenza dell'" eresia ", tutto si pacificò con l'intervento di Leone XIII. Il verdetto della storia ha riconosciuto il " mito e la realtà ".

III. A. mistico. Coloro che denunciarono i " pericolosi errori " del movimento lo chiamarono " l'a. mistico", dando all'aggettivo un'accezione notevolmente lontana da ciò che era usuale allora nel campo teologico. In realtà, la sintesi dottrinale dell'a., tale come essi la organizzavano, e tale come appariva subito nella lettera di Leone XIII, lasciava poco spazio per la mistica, come esperienza interiore. C'era appena una finestra aperta con l'insistenza nella presenza e azione dello Spirito Santo. Non concretizzava, tuttavia, né le forme né le espressioni personali di quest'azione. La pretesa negazione del soprannaturale e il discredito delle virtù teologali e passive, lasciava quasi senza base qualunque tipo di esperienza mistica. Tradizionalmente, questa si presentava come qualcosa di più tipico della ricettività che dell'attività, mentre si affermava che l'a. predicava l'attivismo, il valore primario delle virtù attive.

Era esatta l'identificazione di un punto fondamentale della " prassi americana " nella esaltazione dello Spirito Santo e della sua azione nelle anime e nella Chiesa. Era qui che si collegava in maniera più diretta e profonda con la figura emblematica di I. Hecker. I suoi scritti autobiografici, meglio ancora che la biografia di W. Elliott, dimostrano l'importanza da lui attribuita all'ispirazione diretta dello Spirito Santo, come sottolineava bene F. Klein nella versione francese. Hecker era penetrato profondamente nella realtà della vita cristiana. Nella sua inquietudine nel cercare la verità e il sentiero sicuro della santità, ha provato intense esperienze intime, anche prima del suo passaggio definitivo alla Chiesa cattolica. Nella descrizione della sua vita interiore dimostra un'ampia conoscenza dei grandi mistici della tradizione cristiana, nonché dei suoi schemi e del suo vocabolario, però la sua è indubbiamente una " mistica dell'azione ", non una mistica contemplativa.

Se si deve parlare di mistica nell'a. reale, la si deve situare in questa linea; di fatto, i primi movimenti " pentecostali " e " carismatici " in America del nord appaiono storicamente come prolungamento di questa " mistica dell'azione ". I. Hecker ne è, in questa prospettiva, il paradigma e anche il leader. Convergono e si confondono in lui la mistica come esperienza e la mistica come leadership.

Note: 1 22.1.1899, cf AAS 31 (1940), 474-478.

Bibl. O. Confessori, L'americanismo cattolico in Italia, Roma 1984; R.E. Curran, Prelude to " Americanismus ": The New York Accademia and Clerical Radicalism in the Late Nineteenth Century, in Church History, 47 (1978), 48-65; F. Deshayes, s.v., in DTC I, 1043-1049; W. Elliot, The Life of Father Hacker, New York 1891; J. Ellis, The Life of James Cardinal Gibbons, Archibishop of Baltimore (1834-1921), 2 voll., Milwaukee 1954; A. Houtin, L'Américanisme, Paris 1903; Ch. Maignen, Études sur l'américanisme. Le Père Hecker est-il un saint?, Paris 1898; T. McAvoy, The Great Crisis in American Catholic History 1895-1900, New York 1957; Id., Americanismo: mito e realtà, in Con 27 (1967), 130-144; E. Pacho, s.v., in DES I, 109-112; G. de Pierrefeu, s.v., in DSAM I, 475-488;

E. Pacho

AMICIZIA. (inizio)

A. I. Nozione. Rapporto connotato da diversi sentimenti ed aspetti, diverso dall'amore, che si stabilisce tra due o più persone.

Secondo Davis (1986), l'a. per essere considerata tale, e distinguersi da quella che viene generalmente definita "conoscenza", deve possedere i seguenti elementi: a. il piacere: due amici godono della reciproca compagnia, stanno bene, per la maggior parte del tempo in cui stanno insieme a scapito dei momenti di tensione e di fastidio; b. l'accettazione: è fondamentale l'accettarsi reciprocamente per quello che si è da entrambe le parti, senza cercare di fare dell'altro una persona diversa da quella che è; c. la fiducia: esiste la reciproca convinzione che quello che fa l'altro sia per il proprio bene; d. il rispetto: ognuno attribuisce all'altro buone capacità di giudizio nelle proprie scelte; e. l'assistenza reciproca: possono contare l'uno sull'altro nei momenti di bisogno; f. la comprensione: comprendono quasi per intuito il comportamento l'uno dell'altro; g. la spontaneità: ognuno di loro si sente libero di essere se stesso nei rapporti con l'amico.

II. Diverse teorie sono state formulate per spiegare l'a. e i meccanismi attraverso cui due o più persone si scelgono. Si ritiene che in generale l'a. dipenda da alcuni bisogni: in particolare dal bisogno di affetto e di appartenenza descritto da Maslow (1973); dal bisogno di sicurezza secondo il quale gli uomini, così come alcuni animali, si riunirebbero in gruppo per sentirsi più protetti; dal bisogno di approvazione sociale, la cui soddisfazione porta ad un maggiore sviluppo della propria identità personale; dal bisogno di certezza: secondo Festinger (1951), attraverso il processo di " confronto sociale " gli individui possono osservare, mediante le reazioni degli altri, quali siano i comportamenti più idonei, riducendo in questo modo l'incertezza.

Per ciò che concerne la scelta delle a., le ricerche (Secord, Backman, 1964) hanno mostrato che le persone tendono a scegliere come amici: 1. coloro con i quali hanno maggiore possibilità di interagire; 2. coloro che mostrano le caratteristiche di personalità che sono maggiormente stimate secondo le norme e i valori del gruppo sociale; 3. coloro che sono maggiormente simili a loro stessi per quanto riguarda gli atteggiamenti, lo status sociale e i valori; 4. coloro dai quali ci si sente di essere a propria volta scelti o, quantomeno, di essere considerati favorevolmente.

III. Dal punto di vista psicologico, l'a. è un fenomeno che accompagna l'uomo per tutta la vita, anche se nelle diverse tappe del ciclo vitale assume caratteristiche e significati diversi. Si manifesta in forme diverse nei due sessi (più profonda e intima per le femmine). Inizia nell'età prescolare sotto forma di adesione al gruppo di gioco; nella preadolescenza ha un significato improntato al cameratismo ed allo spirito della " banda "; nell'adolescenza si tende a scegliere pochi amici con i quali stabilire rapporti più profondi e cercare insieme le prime risposte alle domande esistenziali. Nella giovinezza l'a. sembra lasciare il posto al rapporto di coppia, all'a. s'inizia a dare un significato diverso, maggiormente orientato sulla opportunità. Nell'età matura, poiché sembra compaia una nuova paura per la solitudine, si cerca di circondarsi di un certo numero di amici, che di solito vengono ben selezionati, nei quali si ricercano caratteristiche, anche fisiche, simili alle proprie.

Bibl. K.E. Davis, Amicizia e amore a confronto, in Psicologia contemporanea, 13 (1986), 18-25; L. Festingerz - H. Kelley, Changing Attitude through Social Contacts, Michigan 1951; A. Maslow, Motivazione e personalità, Roma 1973; A. Riva, Amicizia. Integrazione dell'esperienza umana, Milano 1975; P. Secord - F. Backman, Psicologia sociale, Bologna 1964.

B. Premessa. L'a. è una realtà divina e umana molto importante. Dio " parla agli uomini come ad amici e tratta con essi per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé " (DV 2). Il vivere dell'uomo è un convivere e si convive nella relazione. La persona è ciò che è la sua relazione con gli altri, nell'accoglienza generosa e nella totale donazione disinteressata. L'a. è per eccellenza l'amabilità e l'accordo che segnano e definiscono la vita umana.

Tuttavia, nell'ambito cristiano regnano il silenzio e la diffidenza, mentre nella vita e nella letteratura dominano le reticenze nei confronti dell'a. " Le amicizie particolari " erano considerate legioni di demoni che si scagliavano sui cristiani neofiti, soprattutto sui consacrati nella vita religiosa, contro i quali bisognava combattere " con eguale forza ". Si diceva che " tra santo e santa si innalzava un muro di pietra ", ma abbiamo anche un'eredità validissima, un tesoro nascosto negli alvei più profondi dei secoli o nella nostra storia più recente: i mistici. Mi riferisco a questi ultimi, in modo particolare a Teresa di Gesù e a Giovanni della Croce per proporre alcune riflessioni sull'a. spirituale. E noto a tutti che Teresa ha definito la preghiera come " rapporto di a. " 1 e Giovanni della Croce ha scritto: " Dio si comunica... con amore così vero che non vi è... amore di amico che lo possa eguagliare ".2

I. Ogni amore viene da Dio (cf 1 Gv 3,17). Senza questa fonte non vi è corrente che irrighi i nostri campi né terra che alimenti le nostre radici. Il mistico comincia sempre da Dio per avvicinarsi alle persone.3 Per questo motivo, egli ci offre la possibilità e gli elementi che caratterizzano l'a.: la benevolenza, l'aiuto e la fiducia, come dice un grande umanista spagnolo.4 L'amore che Dio è e che da lui procede crea la bontà nella persona amata, rendendola amabile, degna di amore, piena di amabilità. " Il mirare di Dio è amare ",5 " in tale amore [Dio] la [l'anima] rese amabile e piacevole a sé " 6 e così " la rende bella e la esalta, tanto da renderla compartecipe della stessa divinità ".7 Poiché è Dio l'amante e in lui l'atto è coestensivo al suo essere, " egli non ama alcuna cosa meno di se stesso... pertanto, quando Dio ama un'anima in un certo modo, la pone dentro di sé e la rende uguale a sé ".8 In precedenza, Giovanni della Croce aveva già notato le qualità di Dio come amante, prima ancora che amato, e della persona amata, prima ancora che amante, quando scriveva: " L'unico desiderio di Dio è quello di esaltare l'anima... poiché non vi è altra cosa in cui la possa esaltare se non rendendola uguale a sé... ": uguaglianza di a.9

Cosa significa questa " uguaglianza di a. "? La massima comunione di vita e la più alta personalizzazione e distinzione dei protagonisti dell'a. Giovanni della Croce spiega ulteriormente il suo pensiero: nell'unione trasformante " gli stessi beni di Dio diventano i beni dell'anima sposa, perché egli glieli comunica... con grazia e in abbondanza "; 10 così l'anima - la persona - " sembra Dio stesso e possiede ciò che possiede Dio stesso ".11 " Ambedue sono una cosa sola per trasformazione d'amore ", " l'uno è l'altro ".12 Infine, con le parole della teologia scolastica, dice che " sono due nature nell'unico spirito e amore ",13 " pur conservando ciascuno di essi [Dio e la persona] il proprio essere, ognuno sembra Dio ".14

Questa massima comunione di amore e profondissima personalizzazione dell'uomo implicano che questi riceva, in sommo grado, la vita cioè " i beni " di Dio e, al tempo stesso, doni tali beni, cioè sia passivo e attivo o passivamente attivo. " In una certa maniera, la persona è Dio per partecipazione ", ed " essendo divenuta, per mezzo di questa sostanziale trasformazione, ombra di Dio, essa compie, in Dio [nel mistero intratrinitario] e per Dio, [a causa della grazia della filiazione ricevuta] quello che [lo stesso Signore] fa da sé in essa per se stesso ".15 Il dottore spagnolo sottolinea, poi, con temerarietà e audacia di mistico nonché con la sicurezza di teologo: l'anima " dona a Dio lo stesso Dio in Dio ";16 " dà quanto riceve da lui "; estendendo tale donazione " fuori " del mistero di Dio, comunità di persone, con questa pennellata geniale: " L'anima vede... che come cosa sua lo può dare e comunicare a chi vuole ".17 Da questa realtà ci si può addentrare ora nell'a. " spirituale " dei mistici, cioè di tutti coloro nei quali la grazia di filiazione adottiva ha raggiunto una crescita notevole. Pertanto, è da questo versante della filiazione adottiva che occorre contemplare, godere e presentare la trasformazione del protagonista dell'a. giacché, seguace del Figlio primogenito " per essenza ", gode " degli stessi beni ",18 come figlio adottivo per grazia.

Basta solo una parola che riguardi direttamente l'essere della persona creata e redenta servendomi, a tale scopo, di una precisa e meravigliosamente ricca affermazione di Giovanni della Croce: " L'anima chiede l'uguaglianza di amore con Dio che ha sempre desiderato, a livello naturale e soprannaturale, poiché l'amante non può essere contento se non sa amare quanto è amato ",19 concluderà lo stesso Giovanni della Croce nel paragrafo successivo: " Finché l'anima non raggiunge questa meta, non è contenta ". Il motivo è che non ha raggiunto il suo centro, il " più profondo centro ", " al quale possono giungere il suo essere, la sua virtù, la forza della sua azione e del suo movimento ": 20 " eguaglianza di a. ".21 Questa consiste nella piena manifestazione, nel culmine della verità di Dio e della verità della persona in una reciproca gravitazione d'amore.

II. L'a. spirituale. E una comunicazione fondamentale tra Dio e l'uomo, per mezzo della quale questi è, naturalmente e soprannaturalmente, reso capace di riceverla e concederla a qualsiasi tu, cioè a Dio e alla persona. Amare qualcuno significa amarlo anche per il fatto che in lui c'è Dio e perché quest'uomo è immerso in Dio e partecipa della sua vita. Tutto questo apre due vie naturali di accesso entrambe essenziali e indissociabili: negativamente: potenziare nell'altro, coinvolgendosi con lui in questo compito, la purificazione di " tutto ciò che non è Dio ", secondo la nota formula di Giovanni della Croce. Per questo motivo, " ciò che non è Dio ", in una maniera o in un'altra, prosciuga le fonti dell'amore nell'uomo e, allo stesso tempo, gli impedisce di scoprire il bene o ciò che è " amabile " nell'altro. Positivamente: attivare e accompagnare, nel dinamismo crescente della gratuità, lo sviluppo di ciò che è Dio nell'altro e nello stesso soggetto. Scrive a tale proposito s. Teresa: " E assai raro che queste grandi amicizie siano ordinate a infiammarsi vicendevolmente nell'amore di Dio...; quando l'amore tende al servizio di sua Maestà, lo si vede chiaramente (= se muestra) perché la volontà invece di lasciarsi dominare dalla passione cerca ogni mezzo per vincere ogni passione. Vorrei numerose amicizie di questo genere nei monasteri ".22 " Servire sua Maestà " significa sviluppare e affermare la propria vocazione, la " prima " è quella di divenire persona, la " seconda " si riferisce alla dimensione umana, sociale e religiosa in cui la persona si realizza. Amare ed essere amato per coloro che hanno fatto di Dio l'opzione della propria esistenza e il tu di riferimento essenziale e determinante, vuol dire assumere la " grazia " di essere in relazione, il che ha per i credenti in Cristo nel Dio e Padre di Gesù Cristo il cemento, il coronamento e la forza motrice per raggiungerlo.

Ma occorre anche dire che l'opzione per Dio sarà autentica nell'affermazione e nello sviluppo di tutto ciò che è umano, particolarmente nella relazione amicale con l'altro, al fine di fare verità, nella maggiore armonia e approssimazione possibile: ciò è quanto " definisce " l'uomo nuovo, primogenito della nuova umanità: " divino e umano insieme ".23

Nulla dell'umano può essere immolato sull'altare del divino, ma tutta la persona è assunta e ricreata.24 Dio non annulla, non esige sacrificio di nessuna cosa creata per lui. Nella persona " non " manca nulla di quanto costituisce l'uomo per natura, " ma i suoi atti molesti e disordinati ", afferma Giovanni della Croce,25 devono essere controllati,26 " perdono la loro imperfezione naturale e si mutano in divini ".27

Occorre sottolineare questo circa l'a. tra persone, realtà suprema, massimamente rivelatrice di tutto lo sviluppo personale. Ciò che Dio " esige " è " stare nel mezzo ", come punto e ragione d'incontro, grazia che rende possibile e " definisce " tale incontro. " Tra noi cinque che ora in Cristo ci amiamo " scriveva s. Teresa.28 E s. Agostino nelle Confessioni: " La vera a. esiste solo tra coloro che tu [Signore] unisci tra di loro per mezzo della carità ".29 Esperienza che Teresa converte in consiglio per tutti: " Consiglio a quanti si dedicano all'orazione... di procurare a. e conversazioni con persone che praticano il medesimo esercizio ".30

Questo consiglio nasce dalla sua esperienza nel campo delle relazioni di a., alcune delle quali " danneggiavano tutto ".31 Un giorno Teresa sente queste parole: " Non voglio più che conversi con gli uomini, ma soltanto con gli angeli ".32 E chiarisce immediatamente il significato, aggiungendo: " Quelle parole si avverarono esattamente, perché da allora in poi non ho più potuto avere consolazione, a. e amore speciale se non con persone che vedevo amare e servire Dio ".33 E segnala l'effetto rapido istantaneo: " Il Signore mi ha aiutato dandomi tanta forza e libertà da farmi rompere ogni legame".34 Gli amici veri e "i migliori congiunti (=parenti) [sono] quelli che sua Maestà vi invierà ", " quelli che vi amano soltanto per Dio"; 35 amici nella libertà e per la libertà. E questa la nota caratteristica dell'a. con il padre Graziano: "Dà libertà". 36

Quando, come educatrice delle sue sorelle, s. Teresa parla dell' "amore puro spirituale", che "è buono e lecito e che dobbiamo portarci ",37 scriverà: "Felici le anime che sono oggetto del loro amore! Fortunato il giorno in cui si sono conosciute! O mio Signore, non mi accorderesti la grazia di farmene trovare molte capaci di amarmi così?" e, rivolgendosi alle sue monache: "Amatele pure quanto volete simili persone...". Prosegue con questo tono rispondendo alle opinioni contrarie: "Ammesso che vi sia qualcuno che arrivi alla perfezione, subito vi diranno magari che un ricorso del genere non è necessario, in quanto basta possedere Dio. Ma sta di fatto che per possedere Dio è un ottimo sussidio frequentare i suoi amici ".38

E importante che l'incontro amicale si realizzi " nel Cristo ", colui che rende possibile l'a. e il dono che mutuamente si offrono gli amici e che reciprocamente scoprono come motivo determinante della sua a. Così insegna alle sue monache s. Teresa nel suo rapporto con il confessore: " Religiose che devono essere occupate in orazione continua per le quali l'a. con Dio è il motivo della loro vita, non si attacchino a un confessore che non sia un gran servo di Dio..., essendo come dovrebbe, se vedono che il confessore non comprende il loro linguaggio e non è portato a parlare di Dio, non gli si possono affezionare, perché non è come loro ".39 Spingendo agli estremi la sua affermazione, aggiunge: "E impossibile", "perdurare nell'amarla " [la persona] "se non abbia in sé beni celesti e grande amore di Dio". "Senza ciò, ripeto, non la possono amare, neanche se quella persona le obbliga a forza di sacrifici, muoia di amore per loro e riunisca in sé tutte le grazie possibili ".40

Espressione-"sacramento" dell'a. intratrinitaria e di quella che si dà tra Dio e la persona, mezzo per il perfezionamento umano e al tempo stesso finalizzazione del movimento della persona a essere, nella duplice, armoniosa direzione verso Dio e verso il prossimo, l'a., come tutta la persona umana, ha bisogno di cura, di essere coltivata generosamente e di una profonda purificazione. Il cammino dell'uomo verso Dio è "notte oscura ", dice ripetutamente Giovanni della Croce. E cammino di umanizzazione. Il santo scrive che "la notte oscura purifica tutti questi amori ".41 E questo perché pone l'uomo di fronte alla verità radicale di se stesso, " di qui nasce l'amore verso il prossimo ",42 amore senza nessun tornaconto avendo presente solo il profitto dell'altro. Amore gratuito, disinteressato, frutto della notte purificatrice.

Apprendere ad amare è il più lento, il più duro e il più lungo apprendistato, giacché si tratta di amare nella gratuità, " passando da sé all'altro ", come definisce l'amore Giovanni della Croce.43 Ma la difficoltà e la durezza nelle persone chiamate all'a. servono da incentivo per il conseguimento di ciò che è per grazia possibile.

Note: 1 Vita 8,5; 2 Cantico spirituale 27,1; 3 Abitualmente i teologi espongono questo tema attraverso un movimento ascendente. Così, per esempio, S. De Guidi, Amore e amicizia, in DTI I, 319-341; 4 Cf P. Lain Entralgo, Sobre la amistad, Madrid 1986, 157-171; 5 Cantico spirituale 31,8; 6 Ibid., 2; 7 Ibid., 4; 8 Ibid., 32,6; 9 Ibid., 28,1; 10 Ibid., 14,29; 11 Salita del Monte Carmelo II, 5,7; 12 Cantico spirituale 12,7; 13 Ibid., 22,3; 14 Ibid., 5; 15 Fiamma viva d'amore 3,78; 16 Ibid.; 17 Ibid.; 18 Cantico spirituale 36,5; 39,5-6; 19 Ibid., 38,3; 20 Fiamma viva d'amore I,11; 21 Cantico spirituale, 28,1; 22 Ibid., 4,6-7; 23 Teresa d'Avila, Castello interiore, Seste Mansioni, 7,9; 24 Alla fine del Cantico spirituale (40,1.5-6), il Dottore mistico offre un'idea ispiratrice circa la partecipazione di tutta la persona nella festa dell'amicizia con Dio, anche con gli amici. Questo è l'ampiamento di un principio antropologico: " Siccome... questi due elementi [sensitivo e spirituale] formano un medesimo soggetto, entrambi partecipano a ciò che l'altro riceve, ciascuno alla sua maniera " (Notte oscura I, 4,2); 25 Cantico spirituale 20,7; 26 Ibid., 4; 27 Ibid.; 28 Vita 16,7; 29 Libro IV, c. 4,7; 30 Vita, 7,20; 31 Ibid., 23,5; 32 Ibid. 24,5; 33 Ibid., 6; 34 Ibid., 7; 35 Cammino di perfezione 9,4; 36 Nessuno potrà rompere questa amicizia (cf Lettera del 28 agosto 1575). Cristo " è il mediatore di matrimoni " (Lettera del 9 gennaio 1577); 37 Cammino di perfezione 6,1; 38 Ibid. (red. El Escorial) 11,4. Sulle vibrazioni e modulazioni umane dell'amore cf M. Herráiz, Sólo Dios basta, Madrid 19924, 306-340; 39 Cammino di perfezione 4,15; 40 Ibid., 6,8; 41 Notte oscura I, 4,8; 42 Ibid., 12,8; 43 Cantico spirituale 26,14.

Bibl. T. Alvarez, s.v., in DES I, 112-117; L. Borriello, Amore, amicizia e Dio in S. Teresa, in EphCarm 32 (1981), 35-90; S. Galilea, L'amicizia di Dio. Il cristianesimo come amicizia, Cinisello Balsamo (MI) 1989; T. Goffi, s.v., in NDS, 1-19; N.M. Loss, Amore d'amicizia nel Nuovo Testamento, in Sal 39 (1977), 3-55; A. Riva, Amicizia. Integrazione dell'esperienza umana, Milano 1975; C. Schütz - R. Sarach, L'uomo come persona, in Mysterium salutis IV, cura di J. Feiner e M. Löhrer, Brescia 1970, 308-332; G. Vansteenberghe, s.v., in DSAM I, 500-529; T. Viñas, s.v., in Dizionario Teologico della vita consacrata, Milano 1994, 45-56.

AMORE. (inizio)

I. "Dio è a." (1 Gv 4,8): tale affermazione, semplice ed assoluta al tempo stesso, porta subito al cuore di quest'altissima parola e indica anche una via di ricerca, un metodo di approfondimento. Se l'a. è Dio stesso, una conoscenza autentica dell'a. non può che nascere dall'ascolto di Dio, non può che essere frutto di una sua rivelazione. Occorre, dunque, farsi attenti a Dio. Come si manifesta? Che cosa dice dell'a. con il suo essere ed agire? A chi apre la Bibbia, egli si presenta, in primo luogo, come Colui che crea e trova gioia nel contemplare le sue creature. In principio è l'armonia, quasi dialogo silenzioso ed amoroso tra lo sguardo del Signore che vede la bontà dell'opera delle sue mani e la creazione intera che risponde alla sua chiamata e gioisce per colui che l'ha creata (cf Gn 1; Bar 3,32-38; Prv 8,22-36; Gb 38-39; Sal 8.103; Dn 3,52-90, passim).

L'a. è la vita e la sorgente della vita: è la Vita inesauribile. Sue caratteristiche peculiari sono la gratuità e il dono: " Bonum diffusivum sui ", l'a. per sua natura si diffonde, afferma la teologia scolastica, e diffondendosi genera attorno a sé altro a.: l'a. non si accontenta di amare, ma rende capaci di amare. Stabilisce con gli uomini una realtà di pace, di reciproca benevolenza, di comunione. Tuttavia, in seguito a " quel misterioso peccato d'origine " - come lo definisce Giovanni Paolo II nell'Enciclica Veritatis splendor - l'uomo è permanentemente tentato di volgere il cuore altrove, lontano da Dio; è tentato di staccarsi dal " fontale A. ". L'unità si spezza, inizia la storia della divisione. Insieme all'a. che è Vita, e in lotta accanita contro di esso, appare la morte. Rotta l'alleanza originaria, la creazione precipita in una situazione lacerante, tragica.

II. L'intera Bibbia, ed in particolare il libro dei Salmi, è attraversata dal grido straziante dell'uomo che aspira alla vita e continuamente sperimenta la propria ontologica finitezza. L'immagine di Dio che egli porta scolpita nel cuore, già causa della sua gioia, è ora fonte di una insopprimibile nostalgia del bene che ha perduto e che gli è sempre necessario per sentirsi felice. La realtà concreta in cui l'uomo si trova immerso sembra, all'opposto, parlargli solo di ombre fugaci, di vanità e corruttibilità: " Perché quasi un nulla hai creato ogni uomo? " (Sal 88,48), chiede il salmista. E ancora domanda: " Quale vantaggio dalla mia morte, dalla mia discesa nella tomba? Ti potrà forse lodare la polvere e proclamare la tua fedeltà nell'a.? " (Sal 29,10). " Può Dio aver dimenticato la misericordia, aver chiuso nell'ira il suo cuore? " (Sal 76,10). Impossibile. Anzi, ancor prima che nell'uomo la lontananza dall'a. diventi desiderio e preghiera, Dio-Amore risponde mostrando il suo volto più segreto e nascosto, quello della fedeltà misericordiosa. È questo, infatti, il Nome di Dio, rivelato a Mosè nella teofania del Sinai: " Allora il Signore scese nella nube, si fermò là presso di lui e proclamò il nome del Signore. Il Signore passò davanti a lui proclamando: "Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà" " (Es 34,5-6).

Nel rapporto con il popolo eletto Dio esige la corrispondenza al suo a.; è il patto di alleanza che non va tradito: " Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze " (Dt 6,5).

La Sacra Scrittura moltiplica all'infinito le immagini che guidano alla conoscenza di Dio-Amore. Egli è il pastore che cerca sui dirupi le sue pecore, fascia quella ferita, guarisce quella malata (cf Sal 22; Is 40,11; Ez 34,11-31, passim); è il vignaiolo che pianta con cura la sua vigna, la custodisce, la irriga, la pota e attende con ansia il suo frutto (cf Is 5; 27,2-6; Sal 79; Gv 15,1-8, passim); è il mercante che vende tutti i suoi averi per acquistare la perla preziosa (cf Mt 13,45ss.); è il padre che castiga, per correggerlo, il figlio che ama (cf Prv 23,13); è la madre che non può dimenticarsi del suo bambino (cf Is 49,15), perché ha viscere di misericordia (cf Ger 31,20); soprattutto è lo Sposo innamorato che cerca instancabilmente la sua sposa. C'è un filone di pensiero che percorre tutti i libri biblici secondo cui l'a. tra l'uomo e la donna è immagine del rapporto tra Dio e l'umanità, tra Cristo e la Chiesa, quasi a dire che, per capire la concretezza, la tenerezza di questo a., noi non abbiamo immagine più penetrante che l'a. dell'uomo verso la donna. Queste nozze, che si consumeranno nell'eternità, cominciano da lontano, in quel preciso momento della storia in cui Dio, giunta la pienezza dei tempi, nel cuore della notte, delle tenebre e della lotta, si rivela, scende nella condizione umana, ridice la sua Parola d'a. al cuore dell'umanità, come canta una bellissima antifona gregoriana del tempo di Natale, Dum medium silentium: Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, discese... (cf Sap 18, 14-15). " E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi " (Gv 1,14). È Cristo che " esce come uno sposo dalla stanza nuziale " (Sal 18,6). Molto significativamente nei Vespri dell'Epifania, il canto del Magnificat è accompagnato da un'antifona che svela tutto il mistero del Natale in chiave di manifestazione dell'a. di Dio nelle nozze del Verbo incarnato con la Chiesa. Per questo motivo in antico la festa dell'Epifania era preferibilmente scelta per la celebrazione della Professione monastica e consacrazione delle vergini.

III. Nella nascita di Cristo, Dio riversa sul mondo il suo smisurato a., che si rivela ora anche come autentica " passione ", ossia come capacità di patire. Tutta la vita di Gesù altro non è se non una progressiva e sempre crescente manifestazione d'a., che culmina proprio nella sua passione, documento autentico di un a. inequivocabile, generoso fino allo spargimento del sangue; un a. fatto di pazienza, di magnanimità, di assoluta gratuità e oblatività: " Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine " (Gv 13,1). Per a., Gesù offre se stesso al Padre; vittima innocente, espia volontariamente il peccato del mondo: " Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui " (Is 53,5). E nel donare la vita, non solo riapre la porta del cielo, ma dona anche il " comandamento nuovo ": " Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri " (Gv 13,34). Quel comandamento che già compendiava tutta la Legge e la faceva, in un certo senso, andare oltre se stessa, viene ora donato all'uomo perché, praticandolo, possa ritrovare la sua piena felicità, la somiglianza con Dio. " Gesù chiede di inserirsi nel movimento della sua donazione totale, di imitare e di rivivere l'a. ... di colui che ha amato fino alla fine ". Tuttavia, " imitare e rivivere l'a. di Cristo non è possibile all'uomo con le sue sole forze. Egli diventa capace di questo a. soltanto in virtù di un dono ricevuto. Come il Signore Gesù riceve l'a. del Padre suo, così egli, a sua volta, lo comunica gratuitamente ai discepoli " (VS 20-21). E questo dono è lo Spirito Santo. Dopo la risurrezione, Gesù, apparso ai Dodici nel cenacolo, " alitò su di loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo" " (Gv 20,22). Solo diventando nello Spirito creature nuove è possibile rispondere con l'a. all'a. di Dio, perché solo con lo Spirito Santo la carità viene riversata nel cuore dell'uomo (cf Rm 5,5). Sono significative al riguardo le parole dette da Gesù nell'ultimo giorno della festa delle capanne: " Chi ha sete venga a me e beva, chi crede in me. Come dice la Scrittura, fiumi d'acqua viva sgorgheranno dal suo seno " (Gv 7,37-38). E l'a. è questo fiume che, perennemente unito alla sua sorgente, scorre fino agli estremi confini della terra portando vita nel deserto. Come canta un'Ode di Salomone: " Un ruscello è sgorgato, è diventato torrente... ha inondato l'universo, lo ha trasportato verso il tempio. Ostacoli e dighe non hanno potuto fermarlo... " (Ode 6). Ecco la missione della Chiesa, pellegrina nel tempo verso la Gerusalemme celeste, dove, nella comunione dei santi, l'A. sarà tutto in tutti. La santità non è altro che la piena realizzazione dell'a. nella relazione con Dio e con il prossimo. Per questo i più grandi mistici sono coloro che, conformandosi a Cristo, si sono consumati nell'a.

Bibl. H.U. von Balthasar, Solo l'amore è credibile, Torino 1965; E. Bianchi - L. Manicardi, La carità nella Chiesa, Magnano (VC) 1990; T. Federici, Letture bibliche sulla carità, Roma 1970; C. Gennari, s.v., in DES I, 117-120; A. Nygren, Eros e agape. La nozione cristiana dell'amore e le sue trasformazioni, Bologna 1971; A. Penna, L'amore nella Bibbia, Brescia 1972; G. Quell - E. Stauffer, Agapao, in GLNT I, 57-146; C. Spicq, Agapè dans le Nouveau Testament, Paris 19663.

Benedettine dell'isola San Giulio (NO)

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