SACRAMENTI - SETTE CRISTIANE - DIZIONARIO DI MISTICA

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SACRAMENTI - SETTE CRISTIANE

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SACRAMENTI. (inizio)

Premessa. Con l'avvenimento del Concilio ecumenico Vaticano II si è aperto un ulteriore capitolo nella storia e nei contenuti della mistica. Esso viene ad aggiungersi a quanto è andato maturando nell'arco di venti secoli, a partire dalle prime forti ed essenziali esperienze del mistero realizzate dalle primitive comunità cristiane, fino a quelle più diversificate che la storia della spiritualità e della mistica sottopongono all'attenzione del credente e lo interpellano nella sua ricerca di assoluto.

L'evento " spirituale " del Vaticano II segna una tappa miliare di questo fiume maestoso di esperienza cristiana che parte comunque e sempre dall'evento liturgico della celebrazione per ritornare continuamente a tale locus dell'esperienza di Dio e con Dio dopo aver attraversato il vissuto. Il titolo di un prezioso contributo di L. Bouyer, Mysterion. Dal mistero alla mistica,1 non è solo un'intuizione recente, ma la puntualizzazione di un dato di fatto costante nella vita cristiana: la mistica costituisce il vertice di quell'esperienza del mistero che parte dalla vita, s'incontra con esso nella celebrazione, per ritornare ad una vita sempre più misterica, cioè all'insegna e come prolungamento del mistero " celebrato ".

Il punto essenziale è determinato dalla esperienza personale e comunitaria del mistero del Cristo, perché in lui " Dio non solo parla all'uomo, ma lo cerca "; 2 parallelamente è attraverso di lui che l'uomo ricerca e incontra Dio nel suo mistero trinitario. Questa esperienza, che diventa soglia obbligatoria per un incontro interpersonale con il mistero di Dio, il cristiano la inizia, la continua, la sviluppa nel contesto proprio del sacramento. E possibile, pertanto - anzi doveroso - accostare i s. come locus imprescindibile per la realizzazione di una mistica cristiana.

I. " Per celebrare i santi misteri... " Una delle prime frasi che il fedele raccoglie all'inizio di ogni celebrazione memoriale della Pasqua nell'Eucaristia è: " Per celebrare i santi misteri... ". L'espressione dà l'avvio ad una esperienza trinitaria unica nel suo genere, che rinvia a quanto ha annunciato Paolo quando tratta dell'" adempimento del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio " (Ef 3,9). Non è solo un mistero " rivelato ". Cristo stesso lo ha portato a compimento nella sua Pasqua, e lo ha affidato alla sua Chiesa come una realtà da prolungare, attualizzandolo, attraverso la celebrazione: " Fate questo in memoria di me " (1 Cor 11,24.25).

Da quell'Ultima Cena, ritualizzazione del mistero compiuto sulla croce, la Chiesa ha iniziato a prolungare in ogni tempo e in ogni luogo l'evento unico e irripetibile che dà senso al mistero pasquale, anzi che ne costituisce l'essenza, annunciandolo e celebrandolo.

1. Un culto in Spirito e verità. Le esperienze religiose dell'uomo biblico sono senza dubbio complesse; esse rivelano un cammino di progressiva educazione ad un rapporto con il Dio che si è fatto storia nella storia di un determinato popolo. E un cammino esperienziale quello che viene delineandosi lungo l'ampio arco di vicende umano-divine raccontate nell'AT; un'esperienza in cui la " conoscenza " si attua e si manifesta anche nelle forme cultuali.

Ma è proprio osservando la reazione dei profeti di fronte alle " vuote " forme cultuali (rito) che si percepisce la progressiva precisazione del senso del culto visto come esperienza religiosa integrale; il culto non ha senso se non è garantito e accompagnato da scelte di vita personali e di gruppo improntate alle più diverse forme di giustizia. L'indice non è puntato contro il linguaggio rituale sic et simpliciter, ma contro un linguaggio che non ritualizza una scelta di vita perché questa manca.

La rivelazione, in tal modo, elabora e conferma una vera rivoluzione sacrificale. Il sacrificio - cruento o incruento - acquisterà il suo ruolo di sacrum facere, cioè di riportare alla santità della sua origine quello che di più prezioso ha l'uomo - la sua vita -, quando non sarà un gesto vuoto o automatico, ma un segno reale di una vita realmente vissuta nell'ottica dell'alleanza che il rito formalizza.

L'esempio e l'insegnamento del Cristo costituiscono il termine ultimo di riferimento per vedere la dimensione cultuale come l'esperienza misterica di una relazione totalizzante - pur nella limitatezza del linguaggio simbolico - con la Trinità SS.ma.

2. Il culto della Chiesa. Fin dagli inizi, la Chiesa matura progressivamente - non senza inevitabili difficoltà e incertezze - l'abbandono di una mentalita veterotestamentaria. La triade " fede-sacramenti-opere " viene a caratterizzare, in una prospettiva di sintesi, il superamento di ogni frammentazione. L'esperienza religiosa per il cristiano non sarà un momento tra i tanti della vita, ma il momento in cui scelte di fede e di vita troveranno la loro sintesi e il loro inveramento.

L'ascolto di una Parola di salvezza avrà piena attuazione nella celebrazione dei " s. della fede " e nella condotta di una vita morale improntata all'impegno e alla giustizia, ispirata alla carità sacrificale del Cristo.

Partecipando alla pienezza del Cristo, il fedele prende parte al suo sacerdozio, è costituito in tempio vivente di Dio, in popolo sacerdotale, in offerta gradita: si realizza così una piena immedesimazione nella missione e nell'opera del Cristo sotto l'azione dello Spirito. Il culto del cristiano sarà, pertanto, un culto " spirituale " perché mosso e vivificato dallo Spirito e tale da ricondurre ogni volontà e ogni realtà creata all'interno del progetto dell'alleanza.

In quanto " partecipazione al mistero ", il culto cristiano realizzerà un'esperienza mistica. Ed è proprio in questa ottica che il CCC presenta la liturgia come " opera della santa Trinità ", specificando che il Padre " è riconosciuto e adorato come la Sorgente e il Termine di tutte le benedizioni della creazione e della salvezza; nel suo Verbo, incarnato, morto e risorto per noi, egli ci colma delle sue benedizioni e per suo mezzo effonde nei nostri cuori il Dono che racchiude tutti i doni: lo Spirito Santo " (n. 1082).

Lo sviluppo successivo permette di constatare la pluriforme varietà con cui l'esperienza religiosa cristiana si è manifestata e condensata in particolari esperienze che, accanto ai s., hanno contribuito a diffondere, nel tessuto dei più diversi quotidiani, aspetti religiosi complementari ma comunque importanti ai fini di una celebrazione del " sacrificio spirituale " nella liturgia della vita.

II. I " s. " vertice dell'esperienza misterica cristiana. Sulla linea della primordiale esperienza celebrativa realizzatasi nella solenne liturgia dell'alleanza (cf Es 19-20 e 24) si modula la dinamica sacramentale del tempo della Chiesa. Parola e sacramento sono i due momenti di un interloquire divino-umano, di un rapporto dialogico che si muove sempre dal: " Se vorrete ascoltare la mia voce... " (Es 19,5), attraversa una verifica: " Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo! " (Es 19,8), e si conclude in un segno di alleanza che suggella i due movimenti: da parte di Dio e da parte del fedele (cf Es 24,7-8).

Il sacramento diventa pertanto il momento di una fede ritualizzata, che a sua volta ritualizza sia i passaggi fondamentali della vita (battesimo, confermazione, ordine, matrimonio), sia le rinnovate scelte di una esistenza in Cristo (Eucaristia, penitenza, unzione).

L'incontro liberante tra il Dio della vita e la vita del fedele nel sacramento trova la sua realizzazione piena quando questo è la sintesi di un " prima - durante - dopo " celebrativo. Se il " durante " è il luogo in cui il linguaggio rituale manifesta, con la forza che gli è propria, la capacità simbolica dell'evento salvifico, il " prima " costituirà la garanzia della veridicità del linguaggio simbolico, e il " dopo " non sarà che un ulteriore inveramento di quanto vissuto già prima nella verità, dopo essere stato filtrato attraverso l'azione divino-umana nel sacramento stesso.

Vista in questa ottica, l'esperienza religiosa tipica del vissuto cristiano viene ad essere identificata con una pluralità di forme che vanno da quelle più ordinarie di rapporto con Dio (a partire dalla preghiera...) a quelle più personali e totalizzanti quali i s. Si può, allora, affermare che il vertice dell'esperienza religiosa cristiana si attua nei s. della fede e principalmente nell'Eucaristia? La risposta è già nella vita cultuale del Signore Gesù. Quando egli ha comandato: " Fate questo in memoria di me " (1 Cor 11,24.25) non ha lasciato una norma rubricale relativa al come si doveva ritualizzare la sua Pasqua, ma un'indicazione di vita: una scelta tutta orientata alla volontà del Padre, scelta che nel sacramento di quell'Ultima Cena, come in ogni Eucaristia, ha trovato e continua a trovare il segno di inveramento pieno attraverso la celebrazione dei santi misteri.

1. Storia di salvezza in atto. Presupposto il comune punto di partenza che vede la liturgia come il prolungamento nel tempo del mistero della Pasqua del Signore, è possibile specificare quanto annunciato in modo assertivo nel titolo per vederne l'articolazione nella prassi, e come la stessa prassi ne venga variamente " informata " in modo che questa possa essere un'esperienza religiosa autentica, quindi mistica.

In Sacrosanctum Concilium 5-7 si legge che le celebrazioni sacramentali della Chiesa si pongono su una linea di ininterrotta continuità della storia della salvezza. Dopo aver ricordato la prima grande fase degli interventi di Dio nella storia soprattutto dell'antico Israele, con un discorso prettamente biblico la Sacrosanctum Concilium pone in evidenza il vertice di tali interventi nel mistero dell'Incarnazione del Cristo, della sua passione, morte, risurrezione e dono dello Spirito (cf SC 5). Dal compimento di tale mistero " è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa " (SC 5). L'attuazione del comando di Cristo di evangelizzare e sacramentalizzare dà inizio al tempo della Chiesa: un cammino in cui la salvezza operata una volta per sempre sulla croce attende di diventare esperienza viva e vivificante di coloro che accolgono la Parola di verità e di vita per essere quei " veri adoratori che il Padre ricerca " (SC 6).

E da questa impostazione biblico-teologica che scaturisce la comprensione del momento sacramentale come perpetuazione del mistero pasquale di Cristo nel tempo; della liturgia, cioè, come storia di salvezza in atto; anzi come il momento ultimo di questa storia, in quanto l'eskaton non sarà altro che la ricomposizione in Dio per Cristo nello Spirito 3 di quanto era stato primordialmente concepito dalla divina Sapienza.

L'esercizio del sacerdozio di Cristo (cf SC 7) assicura la permamenza della realtà del memoriale della sua Pasqua nel tempo: all'interno di una comunità di fede si compie la memoria reale e attualizzante della Pasqua di Cristo (anamnesi) non per una semplice commemorazione, ma per un inserimento nel dinamismo liberante dell'avvenimento pasquale (partecipazione) attraverso l'opera unificatrice e trasformatrice dello Spirito (epiclesi). La realizzazione della santificazione ricordata dalla SC passa attraverso il linguaggio performativo dei " segni sensibili ", allo stesso modo con cui nell'AT Dio interveniva nella storia " a più riprese e in più modi " (Eb 1,1).

2. " Culmen et fons ". L'espressione di SC 10: " La liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù " è qui ripresa per porre in evidenza una scalarità di forme nell'ampia varietà di espressioni che l'esperienza religiosa cristiana possiede, dalle più semplici e immediate fino a quelle mistiche.

E ancora un testo della SC che può introdurre nella presa di coscienza e nel rispetto di una gradualità di queste forme: " La sacra liturgia non esaurisce tutta l'azione della Chiesa... " (SC 9); predicazione, fede, penitenza, s., opere di carità e di apostolato... sono tutti elementi che si intersecano e si compenetrano in un cammino unitario che trova nell'Eucaristia il punto sintesi che consiste nella " santificazione degli uomini e glorificazione di Dio in Cristo " (SC 10); e tale sintesi è la vita mistica.

L'" esercizio dell'ufficio sacerdotale di Gesù Cristo " realizza al massimo grado le potenzialità della Pasqua attualizzandole nei fedeli attraverso i s., principalmente l'Eucaristia. Ma tale esercizio poggia su varie dimensioni e situazioni che, nel loro insieme e nella loro progressione verso il sacramento, danno un quadro relativamente completo dell'esperienza religiosa cristiana.

Tentiamo di individuare i passaggi fondamentali precisando subito, però, che la classificazione non vuol avallare l'impressione di passaggi progressivi: tutti si intersecano e si intrecciano tra di loro, secondo le situazioni e gli stati d'animo in cui viene a trovarsi chiunque compie un cammino di fede.

Un primo livello di esperienza religiosa cristiana è quello che si attua in un'iniziale accoglienza dell'annuncio del mistero cristiano attraverso l'ascolto della Parola di vita, nell'accettazione di un Dio presente nella propria storia, e nella risposta orante al Dio della vita. La preghiera cristiana, nelle sue diverse forme, è il segno di un'esperienza vitale di accoglienza e risposta di tale " mistero ".

Un secondo livello può essere individuato nei cosiddetti pii esercizi. La pietas, cioè il rapporto vitale tra il singolo e Dio, ha " luoghi " particolari di manifestazione. I pii esercizi costituiscono un capitolo interessante e importante di questo rapporto, in quanto se da una parte manifestano una gamma davvero ampia di realizzazione, dall'altra pongono in evidenza una risposta di fede inculturata che si pone a complemento di altre forme.

Ad un terzo livello è possibile individuare alcuni sacramentali che per la loro forte incidenza nella vita di ogni giorno possono costituire un momento forte di esperienza religiosa, soprattutto per coloro che vi partecipano casualmente, per curiosità, per motivi di affetto o di compassione. La diversità delle circostanze attiva una varietà di esperienze che - se ben animate e condotte - portano a " passare oltre " il segno per cogliere il significato del mistero celebrato, lasciandosi portare dal linguaggio simbolico.

Finalmente, ad un quarto livello si colloca l'esperienza specifica dei s. Il mistero compiuto nella Pasqua del Cristo può essere oggetto di esperienza vitale solo se diluito nell'arco di sviluppo e di crescita dell'esistenza umana. Ecco perché ci sono dei s. che caratterizzano i passaggi fondamentali della vita e altri che accompagnano la crescita spirituale del singolo in comunità. E tutti i segni sacramentali, nella loro reciproca interconnessione, non fanno altro che ripresentare un aspetto della Pasqua del Signore perché diventi realtà di vita del singolo. Il vertice di questa esperienza sacramentale è, di solito, indicato con il termine mistica in quanto si tratta di un'esperienza religiosa che scaturisce dalla celebrazione del mistero e a questo continuamente riconduce come a sua fonte.

a. Immersi per risorgere " alla vita immortale " (battesimo). L'inizio dell'esperienza mistica cristiana ha il suo fondamento nella rigenerazione battesimale. Battezzato nel nome della Trinità SS.ma, attraverso il " lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito " (Tt 3,5) il fedele, inserito come membro vivo nel popolo sacerdotale, inizia il suo cammino di configurazione a Cristo; una configurazione che raggiungerà, di mistero in mistero, il suo compimento nell'essere " concittadini dei santi nel convito eterno ".4

" Il dono nuziale del battesimo, prima Pasqua dei credenti, porta della... salvezza " segna l'" inizio della vita in Cristo, fonte dell'umanità nuova ": 5 un inizio che è apertura e insieme garanzia di quella " pienezza del corpo di Cristo ",6 il cui conseguimento può essere garantito, sorretto e accompagnato solo da un'esperienza costante del mistero celebrato.

b. " Consacrati con l'unzione dello Spirito " (confermazione). Nella confermazione il mistero della Pasqua diventa attualizzazione dell'opera dello Spirito che trasforma il fedele " in tempio della... gloria " di Dio.7 E questo che permette di portare a pienezza la realtà battesimale, di perfezionare nel cristiano " la somiglianza a Cristo "8 e di garantire la " piena conoscenza di tutta la verità ".9

" Il sigillo dell'unzione crismale " 10 è l'espressione di quell'esperienza misterica che apre ad una vita di testimonianza del Signore risorto, ad un' offerta di sé come risposta totale al Dio dell'alleanza, ad una " santità della vita " che rispecchi " il carisma profetico del... popolo " di Dio.11

c. Invitati al " convito nuziale " della nuova alleanza (Eucaristia). Il culmine dell'esperienza misterica cristiana si compie nella partecipazione alla Pasqua annuale, settimanale, quotidiana. Una sintesi eloquente di quanto si compie attraverso la celebrazione dell'Eucaristia è espressa in un embolismo prefaziale: " In questo grande mistero tu [Padre] nutri e santifichi i tuoi fedeli, perché una sola fede illumini e una sola carità riunisca l'umanità diffusa su tutta la terra. E noi ci accostiamo a questo sacro convito, perché l'effusione del tuo Spirito ci trasformi a immagine della tua gloria ".12

S'intravede in questa prospettiva eucaristica quanto Paolo cerca di esprimere a proposito della comunione sempre più perfetta con il mistero di Cristo quando accenna al cristiano " con-sofferente " (Rm 8,19), " con-crocifisso " (Rm 6,6), " con-morto " (Rm 6,8), " con-sepolto " (Rm 6,4), " syn-phytos " (Rm 6,5), " syn-koinonós " (Rm 11,17), " con-risuscitato " (Ef 2,6), " con-vivificato " (Ef 2,5), " con-vivente " (Rm 6,8), " con-glorificato " (Rm 8,17), " co-erede " (Rm 8,17), " con-sedente " (Ef 2,6), " con-cittadino " (Ef 2,9), " con-regnante " (2 Tm 2,12): sono come altrettante tessere che strutturano il grande mosaico della vita mistica.

d. Riconciliati " nella morte e risurrezione " (penitenza). L'esperienza di una vita penitente e riconciliata è garantita dall'incontro con Cristo morto e risorto nel segno sacramentale della conversione. La liberazione " dalle seduzioni del male " 13 e l'esperienza della " gioia della... misericordia " 14 sono le condizioni per essere trasformati in sacrificio gradito al Padre, dopo aver ricomposto " nell'unità ciò che la colpa ha disgregato ".15

Occasioni " di riconciliazione e di pace " offerte dal sacramento permettono di ritrovare " la via del ritorno " al Padre e insieme costituiscono l'occasione per un'ulteriore apertura " all'azione dello Spirito Santo " in modo da vivere " in Cristo la vita nuova ".16

e. Uniti per " una comunione senza fine " (matrimonio). Il mistero dell'alleanza nuziale nel sacramento del matrimonio diventa quotidiano " simbolo dell'unione di Cristo con la Chiesa ".17 " Esprimere nella vita il sacramento che celebrano nella fede "18 per gli sposi diventa un progetto di azione dalle più ampie articolazioni. In definitiva, però, tutto si concentra e trova senso in quella dimensione cultica e comunionale dell'esistenza in Cristo che fa dei coniugi i sacerdoti-celebranti della loro totale comunione di vita.

Ogni attività, pertanto, e ogni espressione di comunione trova nei più diversi linguaggi dell'essere e dell'agire cristiano quasi la " forma rituale " della risposta al Dio dell'alleanza. La visione mistica della vita matrimoniale assurge così a realtà attualizzante in una particolare scelta e condizione di una risposta di fede che ha inizio nel battesimo e continuamente si ristabilisce e si sostiene nei s. della riconciliazione e dell'Eucaristia.

f. Scelti come " dispensatori dei santi misteri " (ordine). Il prolungamento visibile del ministero di Cristo Pastore, che genera e unifica la vita del popolo di Dio, è segnato dal sacramento dell'ordine. La donazione completa alla comunità ecclesiale sulla linea degli apostoli che " hanno fondato la Chiesa come... santuario " di Dio " a gloria e lode perenne del [suo] nome "19 fa della vita del vescovo una conformazione speciale al mistero di Cristo Pastore. Ed è nell'esplicitazione di questo mandato che il vescovo realizza la mistica del servizio alla comunità a lui affidata e all'intera Chiesa di Cristo.

La continuazione dell'" opera santificatrice di Cristo " 20 è affidata al ministero presbiterale. Attraverso questo servizio " il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto, perché congiunto al sacrificio di Cristo "; 21 ma la stessa realizzazione di tale servizio diventa per il presbitero locus del proprio sacrificio spirituale. La vita in Cristo che continuamente cresce nella celebrazione dei santi misteri acquisisce ogni giorno più i connotati di un'autentica vita mistica, in quanto espressione e prolungamento del mistero che celebrano.

g. Unti per essere " partecipi della vittoria pasquale " (unzione). Celebrare il sacramento dell'unzione come vittoria sui limiti della malattia nella configurazione al Cristo sofferente che giunge alla gloria mediante la via della croce costituisce il traguardo di una vita mistica. La trasformazione progressiva e costante della realtà battesimale verso una sempre più piena conformazione a Cristo trova nella celebrazione dei santi misteri non un appuntamento qualunque, ma la garanzia certa e ineludibile di una " trasfigurazione " totale - superati i limiti dell'umana natura - della personalità cristiana nella Persona divina del Cristo nel suo mistero pasquale. Unire le proprie " sofferenze alla Pasqua del Cristo crocifisso e risorto " 22 è toccare il culmine della vita mistica; qui tutti i termini di Paolo che iniziano con syn- diventano inveramento e condizione di inserimento pieno nel Mystérion.

3. Complessità e armonia dell'esperienza misterica cristiana. La riflessione ha evidenziato l'ampio sviluppo che l'esperienza religiosa cristiana matura lungo il tempo, e insieme ha ricordato i termini essenziali per proseguire il cammino di verifica, di indagine, di formazione di tale esperienza nell'oggi.

La complessità di tale esperienza pone in evidenza un cammino non complicato ma ricco e diversificato. Non si può dire con onestà di ricerca di aver fatto un'esperienza mistica cristiana solo perché essa si è modulata su uno dei quattro ambiti accennati sopra. Ciascuno di quelli può essere un punto di partenza; ma la complessità dell'esperienza mistica ricorda che se questa vuol essere organica e solida deve attraversare i quattro settori, farli interagire in modo che siano espressioni di vita (veri simboli) e proiettarli continuamente verso il vertice di tutto qual è l'esperienza pasquale nel mistero dell'Eucaristia.

L'armonia dell'esperienza mistica cristiana è determinata sia da quanto è vissuto spiritualmente all'interno delle singole aree, sia dal rapporto con le altre. Una non esclude mai l'altra; anzi, ciascuna ha la capacità di aiutare a sviluppare le migliori potenzialità delle altre, in quanto all'origine è sempre la presenza misterica del Dio dell'alleanza che domanda di fare (o di rinnovare) alleanza con l'uomo. E un'armonia, inoltre, non superficiale; dal momento che coinvolge, attraverso forme rituali vere, le intime fibre della persona, il momento esperienziale diventa occasione per manifestare e per radicare ulteriormente quella sintesi interiore che solo nell'esperienza cristiana può trovare la sua più piena realizzazione (e questo sia in rapporto con se stessi, sia con gli altri, sia con il cosmo), e il cui traguardo ultimo è la visio Dei.

III. Per una vita mistica. Il raggiungimento di una vita vissuta come " culto spirituale " costituisce il traguardo di ogni esperienza sacramentale quando questa è assunta come sintesi di un impegno di vita che precede quanto si celebra nel sacramento e che prolunga nuovamente nel tessuto quotidiano quanto espresso nei simboli cultuali. Tutto questo permette di concludere quanto sopra evidenziato con alcune sottolineature.

Con l'espressione " liturgia della vita " divenuta sempre più frequente, non s'intende una frase ad effetto per fare di tutto un liturgismo, ma sulla linea di Rm 12,1 arrivare a fare della vita un'autentica liturgia, cioè un culto, un sacrificio spirituale che il fedele celebra nel proprio quotidiano e presenta al Padre per Cristo nello Spirito attraverso i simboli sacramentali. E sempre " per Cristo, con Cristo e in Cristo " che la vita mistica si sviluppa come tale.

Che i s. siano il " locus princeps " della mistica non è un'affermazione parziale ma un dato di fatto. La realtà non è nuova, in quanto la storia delle comunità ecclesiali di ogni tempo testimonia questo dato di fatto; nuova o rinnovata può essere la sensibilità che riemerge in questo segmento della vita della Chiesa a motivo di un'esperienza sacramentale più compresa, più partecipata in quanto più impregnata dall'annuncio e dalla conoscenza diretta della Parola di Dio.

La precedente sottolineatura permette di rilevare ancora che la teologia mistica prima si fa e poi si sistematizza. Sia all'origine che nelle successive tappe di sviluppo, la mistica ha sempre un'esperienza diretta con il mistero del Cristo incontrato nei suoi santi misteri. La sistematizzazione di ogni esperienza costituisce un tentativo, sempre tanto limitato rispetto ad un'esperienza comunque ineffabile, di esplicitazione in termini umani di un evento che coinvolge la persona o un insieme di persone. Tuttavia, pur nella parzialità dell'espressione umana, la sistematizzazione viene a costituire una pagina che arricchisce e alimenta il grande fiume della spiritualità cristiana.

Sembra di poter così affermare una linea di complementarietà tra la mistica e la spiritualità cristiana. Se difficile può risultare l'individuazione del segno di demarcazione tra i due ambiti, forse ancora più arduo può apparire il collocamento separato di una vita mistica in quanto vissuta come prolungamento del mistero e una vita spirituale in quanto vita nello Spirito. Ambedue gli spazi costituiscono sempre il locus e sono frutto delle diversificate epiclesi sacramentali dello Spirito che procede dal Padre e dal Figlio, e che tendono a fare della vita del fedele un culto misterico-spirituale.

Se quanto sopra rilevato corrisponde al vero, allora è possibile, anzi doveroso affermare che non ci possono essere esperienze mistiche più determinanti di quelle realizzate nei s., specialmente nell'Eucaristia " sacramento dei s. ". La storia delle esperienze mistiche ne è una conferma evidente. Ma l'affermazione può costituire anche un criterio ermeneutico per una comprensione più piena e vera della mistica cristiana, come pure una garanzia orientativa per educare i fedeli.

Il raggiungimento del traguardo della vita mistica, infine, non appare in questa ottica come un privilegio riservato ad una élite di persone, ma come un impegno che sta davanti a chiunque percorre il cammino di fede sulle orme del Cristo. Per questo è fondamentale il ruolo dell'animazione e della formazione iniziale e permanente in qualunque stato di vita, in modo che l'espressione rituale del mistero costituisca lo specchio della dimensione mistica della vita del fedele.

Note: 1 Cf L. Bouyer, Mysterion. Dal mistero alla mistica, Città del Vaticano 1998; 2 Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Tertio millennio adveniente, 7; 3 Cf l'anakephaláis di Ef 1,10; 4 MR = Messe rituali: per il battesimo, Sulle offerte B, 713; 5 MR, Preghiera eucaristica, Prefazio del battesimo, 345; 6 MR, per il battesimo, Dopo la comunione A, 715; 7 MR, per la confermazione, Colletta A, 718; 8 Ibid., Sulle offerte A, 719; 9 Ibid., Colletta D, 718; 10 Ibid., Sulle offerte B, 719; 11 Ibid., Dopo la comunione B, 721; 12 MR, Prefazio della SS. Eucaristia II, 348; 13 Rito della penitenza, La riconciliazione di più penitenti con confessione e assoluzione individuale, Orazione C, 56; 14 Ibid., Orazione D, 56; 15 Ibid., Orazione E, 56; 16 MR, Preghiera eucaristica della Riconciliazione I, 919; 17 MR, per la messa degli sposi, Colletta A, 737; 18 Ibid.; 19 Pontificale romano, Ordinazione del vescovo, Imposizione delle mani e preghiera di ordinazione, 49; 20 Ibid., Ordinazione dei presbiteri, Omelia, 91; 21 Ibid.; 22 MR, per l'unzione degli infermi, " Hanc ígitur " proprio nel Canone Romano, 730.

Bibl. Una trattazione teologico-sistematica della mistica può essere realizzata principalmente a partire dall'incontro tra teologia biblica e teologia liturgico-sacramentaria. Pertanto i numerosi studi presenti nei recenti Dizionari costituiscono la base per un prosieguo della riflessione. Nel contesto, essenziale è la conoscenza " teologica " del libro liturgico non tanto come strumento per la celebrazione, quanto per la vita: i contenuti eucologici, infatti, sono una pagina viva che esprime le modalità con cui la Chiesa celebra e intende vivere il Mistero. Studi: D. Borobio (ed), La celebrazione nella Chiesa. 2: I sacramenti, Leumann (TO) 1994; J. Castellano, s.v., in DES III, 2206-2219; I.H. Dalmais, s.v., in DSAM XIV, 45-51; H. Denis, Sacramenti sorgente di vita, Roma 1986; A. Fantozzi, I sacramenti della Chiesa e la vita cristiana, Leumann (TO) 1987; E. Lodi - E. Ruffini, Mysterion e sacramentum, Bologna 1987; S. Marsili, s.v., in NDL, 1271-1285; A. Noceut et Al., Anàmnesis 31: la liturgia, i sacramenti; teologia e storia della celebrazione, Genova 1986; J. Ratzinger, Il fondamento sacramentale dell'esistenza cristiana, Brescia 1971; C. Rocchetta, La mistica del segno sacramentale, in La Mistica II, 47-76; R. Tura, Il Signore cammina con noi. Introduzione ai sacramenti, Padova 1978.

M. Sodi

SACRO. (inizio)

I. Il termine "mistica" è stato variamente interpretato nel corso della storia cristiana. Alcune volte, nel passato, contemplazione e mistica sembrarono essere intercambiabili. Nelle sue origini, la mistica era in relazione all'uso paolino del mysterion nella Scrittura, indicando così qualcosa di nascosto o segreto. Il mistero di Dio e del s., sono divenuti espressione nella rivelazione, ragion per cui Dio è avvicinabile attraverso la conoscenza e l'amore. Nell'ebraismo, nel cristianesimo e nell'Islam, la mistica emerse come vocabolo che descriveva l'atto di relazionarsi ad un testo sacro, giungendo così ad un significato più profondo del testo.

II. Più specificatamente, per i cristiani, la mistica pose le sue fondamenta sulla conoscenza e sull'esperienza più profonda del mistero di Cristo come rivelato nelle Scritture del NT. Questo concetto è stato sviluppato negli scritti dei Padri della Chiesa e in particolar modo da Origene e da Clemente. Generalmente, la mistica si riferisce ad una relazione con Dio e con il s. in cui il proprio stato di consapevolezza nutre una coscienza, piena d'amore, del mistero presente, dietro l'ordinaria routine di una sacra disciplina. In tutta la letteratura mistica appare un certo senso di unione con il s. e con il divino.

Solo in tempi recenti, il termine mistica è stato proposto come referente quasi esclusivo per fenomeni straordinari quali le visioni, le estasi, le locuzioni e le levitazioni. Comunque, tali fenomeni dovrebbero essere interpretati quali possibili elementi che contribuiscono all'esperienza mistica e non come criteri valutativi di un autentico misticismo. Lungo la tradizione, la mistica cristiana si è manifestata come una qualificazione della vita di grazia da dove sorge una coscienza profonda e amorevole verso Dio o verso il s. Questo stato di coscienza si è manifestato sia come una conseguenza di essere autentici discepoli di Cristo e sia come un immeritato dono dell'amore di Dio, come recita la lettera di san Giacomo: " Avvicinatevi a Dio ed egli si avvicinerà a voi " (4,8). Uno studio della mistica cristiana e della sua relazione con il s., includerebbe non solo gli scritti dei primi Padri della Chiesa orientale ed occidentale, ma anche la tradizione medievale messa in luce sia da s. Bernardo di Clairvaux e da s. Tommaso d'Aquino, sia nei testi di donne mistiche come Ildegarda di Bingen e Giuliana di Norwich. I mistici della Renania, Meister Eckhart, Enrico Suso, Giovanni Ruusbroec, così come l'influente Tommaso da Kempis ( 1471) e i mistici inglesi hanno messo in evidenza un' unione in Dio attraverso la crescita nella preghiera ed il vivere virtuoso. La tradizione carmelitana ha prodotto testi altamente psicologici sulla vita mistica scritti da s. Teresa d'Avila e da s. Giovanni della Croce. Rivedendo l'articolazione della tradizione mistica, ossia, dell'unione tra " l'anima " e Dio o il s., predominano due forme di esperienza nella grazia, cioè: l'eredità catafatica, che riflette la mediazione della vita creata che giunge all'esperienza mistica (cioè gli scritti di s. Ignazio di Loyola e s. Teresa di Lisieux), e la tradizione apofatica, che si focalizza di più sul distacco da tutto l'immaginario per entrare più profondamente nell'esperienza dell'oscurità luminosa (cioè i testi della Nube della non-conoscenza e gli scritti di Giovanni della Croce). La teologia contemporanea cerca di elaborare una visione più integrata e sviluppata della vita spirituale nella quale la mistica appare come una particolare espressione della vita nella fede. Il Concilio Vaticano II ha sottolineato come tutti i cristiani siano chiamati alla santità della vita (cf LG 40). Tale santità è espressa in modo più adatto in una vita di carità e di amore verso Dio e il prossimo. In questo contesto, una vita nella fede si muove attraverso l'autotrascendenza e l'unione con Dio. Questo viaggio è descritto in modo vario, ossia attraverso l'illuminazione contemplativa, l'unione o il matrimonio mistico. Il teologo Karl Rahner ha articolato una teologia che contribuisce in modo particolare ad una comprensione più universale dell'esperienza mistica. Rahner nota una fondamentale apertura dello spirito umano verso l'autotrascendenza nella conoscenza e nell'amore. Questa posizione di base rivela un desiderio del mistero divino e di Dio. Rahner parla di una " mistica del quotidiano ", cioè di una scoperta della presenza di Dio nell'ordinario e nel quotidiano. S. Teresa di Lisieux con la sua " piccola via " offre una espressione particolarmente adatta di quella " mistica del quotidiano". Per s. Teresa, " tout est grâce " (tutto è grazia); i suoi scritti rivelano un'unione sempre crescente tra l'amore di Dio e l'amore del prossimo attraverso l'identificazione con il mistero pasquale di Cristo. Thomas Merton, un monaco trappista, i cui scritti hanno dato un grande contributo alla vita contemplativa ed alla mistica, fornisce una visione spirituale unitamente alla teologia espressa da Rahner. Tutta la santità è trasformazione in Cristo che in tutte le epoche ha trovato un'espressione mistica così come l'esperienza dell'intimità divina nel contesto dell'ordinario e del quotidiano.

Bibl. G. Baget Bozzo, Dal sacro al mistico, Milano 1981; H.U. von Balthasar, La meditazione, Alba (CN) 1955; L. Bouyer, Mysterion. Dal mistero alla mistica, Città del Vaticano 1998; L. Dupre - J. Wiseman (ed.), Light from Light: an Anthology of Christian Mysticism, New York 1988; T. Merton, Mistici e maestri zen, Milano 1969; R. Otto, Il sacro, Milano 19762; A.N. Terrin, Il sacro off-limits, Bologna 1994.

J. Russell

SALMI. (inizio)

Premessa. Il libro dei salmi è stato da molti ritenuto una scuola di preghiera. Essi ritraggono con molto realismo i vari atteggiamenti dell'umanità davanti a Dio: lode, lamento, speranza, gioia, desiderio, rabbia, fiducia, amore; un ampio ventaglio di emozioni e desideri. La preghiera è una delle componenti essenziali nell'incontro del mistico con Dio, perciò non sorprende che i s. abbiano giocato un ruolo nella vita spirituale dei cristiani (ad esempio, le Enarrationes in Psalmos di Agostino). Malgrado le differenze di età, cultura, e perfino di comprensione religiosa, queste preghiere si prestano a diverse interpretazioni. La costante preghiera dei s. ne accresce la comprensione. Per esempio, la prospettiva veterotestamentaria era limitata a questa vita; era qui che si sperimentavano la presenza di Dio e la " salvezza ". Oltre la morte c'era lo Sheol o inferi dove non era possibile nessun contatto d'amore con il Signore (cf Sal 6,6; 30,10; 88,12, ecc.). Nonostante tale limitazione, i s. sono stati compresi e recitati alla luce della rivelazione posteriore, come espressione della pienezza di vita in Cristo. Nel corso dei secoli si sono approfonditi vari approcci ai s. Qui si illustreranno tali approcci e il loro contenuto potenziale per la preghiera e la mistica cristiana.

I. Analisi storico-critica. Questo approccio cerca di avvicinarsi il più possibile al significato storico-letterale di un s., il significato, cioè, che aveva per gli autori o l'autore. In questo secolo sono emersi due importanti orientamenti: il carattere liturgico di molti s., (essi furono composti in primo luogo per la liturgia), e in secondo luogo, il carattere letterario delle composizioni: inni o cantici di lode, rendimento di grazia, lamenti (individuali e collettivi) espressione di fiducia e s. storici e sapienziali. Ognuno di questi ha una particolare struttura e un suo filo conduttore. Così, troviamo negli inni l'opera della creazione e gli interventi salvifici di Dio nella storia d'Israele; nei lamenti, invece, troviamo il grido d'aiuto, la descrizione dell'afflizione, motivi per impetrare l'aiuto di Dio e (abitualmente) la certezza del soccorso. Il ringraziamento è la lode a Dio per la liberazione dai propri affanni, spesso accompagnato da un sacrificio nel tempio. Altri tipi di s., invece, sono stati denominati dal loro contenuto: i Canti di Sion (inni su Gerusalemme) i s. regali (che riguardano il re regnante, l'unto) e i s. di intronizzazione (che lodano la regalità del Signore). L'approccio riconosce l'antichità delle intestazioni (Davide è l'autore di settantatré s.), e le strutture particolari presenti in essi come nel Sal 51, ma si ritiene che le intestazioni fissino i s. troppo rigidamente ad un contesto passato del quale non conosciamo nulla. Non si può, pertanto, lasciare alcuna libera interpretazione alla preghiera.

Questo significa che il cristiano deve pregare i salmi come un israelita? No, ma è utile per un cristiano conoscere, per quanto è possibile, il significato del salmo nella vita di Israele. Si diventa capaci, quindi, di estendere il significato del salmo e di muoversi in un contesto cristiano moderno dove si trovino delle specifiche sfumature cristiane rispetto ad alcuni concetti come " vita ", " salvezza ", ecc. Questa è la libera interpretazione, menzionata sopra. Si possono pregare i salmi alla luce della rivelazione posteriore. Ma è utile cominciare dal senso letterale per muoversi verso un significato più pieno. Occorre essere consapevoli di ciò che si dice e si prega. Questa comprensione merita di essere chiamata cristiana perché stabilisce una continuità tra il senso storico-letterale e la pienezza cristiana (cf Eb 1,1: " Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio... ").

II. Analisi tipologica. In quest'ottica, le persone, le azioni e le esperienze contenute nei s. hanno delle corrispondenze equivalenti nel NT. L'esistenza della tipologia è indiscutibile. Persino nell'AT, l'Esodo divenne un simbolo della liberazione dall'esilio babilonese (cf Is 42,16; 43,16-17; ecc.). Paolo stabilisce una corrispondenza tipologica fra Adamo e Cristo (cf Rm 5,12-21). Nel caso specifico dei s., Davide (visto come il protagonista di molti s.) può essere ed era compreso da molti come figura di Cristo. L'approccio tipologico divenne un modus privilegiato nel periodo patristico, ma era esagerato. C'è un senso tipologico, ma bisogna cercare un valido criterio nel NT che stabilisca la corrispondenza. Non si può essere semplicemente compiacenti verso l'altrui immaginazione, come hanno fatto molti dei Padri. La liturgia riflette varie corrispondenze tipologiche (cf l'Exsultet della liturgia pasquale) e i cristiani dovrebbero esserne coscienti. Ma ci si potrebbe chiedere se la tipologia sia significativa per il cristiano medio dell'era moderna.

III. Analisi cristocentrica. Questa interpretazione è orientata immediatamente al NT e all'era cristiana, poiché interpreta i s. come riferiti direttamente a Cristo e al cristiano come membro del Corpo di Cristo, la Chiesa. Si può trovare un'esemplificazione di quanto detto nelle stesse Enarrationes in Psalmos di Agostino. Per esempio, Cristo prega per noi (come nostro sacerdote) e prega anche in noi (come nostro capo) ed è pregato da noi (come nostro Dio). Nella sua introduzione al commento al Sal 98, Agostino ci dice che quando ascoltiamo un salmo o qualsiasi passo dell'AT, dobbiamo " vedere Cristo ", " capire Cristo ". Di conseguenza, il commento al primo versetto, inizia: " Il Nostro Signore Gesù cominci a regnare... ". Il suo commento al Sal 3 comincia con l'affermazione che esso si riferisce alla passione di Cristo e alla risurrezione piuttosto che ad Assalonne (che cerca Davide, come dice l'intestazione). Il commento continua a riferirsi all'intero Cristo, il Corpo mistico: " Sia la Chiesa e il suo Capo " e conclude il suo commento citando nuovamente il Sal 3,5: " Mi sveglio perché il Signore mi sostiene ". Acutamente, Agostino, aggiunge " Chi dei fedeli non può fare di questa lingua la propria lingua? ".

C'è molto da dire sull'approccio cristologico di Agostino e di altri santi cristiani. Il loro linguaggio è diretto e centrato su Cristo in modo ammirevole. Probabilmente Gesù stesso avrebbe potuto pregare in questo modo, adattando i Sal 22, 31 e 69, solo per menzionarne alcuni, che potevano essere interpretati facilmente in modo molto personale. Comunque, ci si potrebbe anche chiedere se il cristiano di oggi troverebbe questo metodo adatto. Ciò richiederebbe una profonda conoscenza della teologia.

La legge suprema della preghiera è la libertà, nel senso che non c'è un metodo che deve essere seguito. Ognuno chiede quello che è meglio per lui: un accento sull'assimilazione e il rivivere l'esperienza del salmista in relazione alla propria comprensione (il metodo storico-critico), o leggere l'AT secondo il metodo tipologico, o utilizzare tutte le varie possibilità con Agostino (Dio, Cristo, il Corpo mistico e colui che prega).

Occorre fare alcune osservazioni che riguardano l'uso dei s. nella liturgia. Prima di tutto, il sistema monastico dei versi alternati in modo automatico spesso pecca contro la struttura e perfino il significato del s. Sarebbe meglio se qualche struttura rimpiazzasse la recita disattenta dei versi fra le due parti. La stessa osservazione è vera per ciò che riguarda il modo in cui il s. viene usato nel lezionario: il s. è ridotto ad informazioni frammentarie che non vengono assimilate (specialmente se mormorate dal lettore) perché si cerca di ricordare il versetto responsoriale che viene ripetuto. In ultimo, c'è il problema della violenza e della vendetta che ricorre in molti s. (come in tutta la Bibbia). Qual è l'effettiva reazione cristiana a questo? In primo luogo, non ci dovrebbe essere alcuna censura sullo Spirito Santo, secondo la quale alcuni versi non vengono stampati completamente. In secondo luogo, non è opportuno per il lettore cristiano giudicare il salmista dell'AT. Non ha senso alcuno dire che quelle violente espressioni (come alla fine dei Sal 137 e 139 o del Sal 109) non sono " cristiane ". Certo che non lo sono! Ma neanche vanno respinte perché indegne di una meditazione cristiana. Se i lettori non si possono identificare con il salmista in questi versi, possono almeno ascoltare e meditare su tale violenza. Anche essi appartengono ad una generazione violenta e vendicativa. Questo fatto non può essere negato dopo gli orribili eventi del nostro secolo.

Bibl. S. Agostino, Enarrationes in psalmos: CCSL 38-39, Turnhout 1956; A. Cànopi, I salmi, Milano 1997; G. Castellino, Libro dei Salmi, Roma 1955; D. Cox, I salmi incontro con il Dio vivente, Cinisello Balsamo (MI) 1986; A. Deisler, I salmi, Roma 1991; N. Füglister, Das Psalmengebet, München 1966; W.L. Holladay, The Psalms through Three Thousand Years, Philadelphia 1993; C.M. Martini, Che cosa è l'uomo perché te ne curi? Pregare con i Salmi, Torino 1983; R.E. Murphy, The Psalms Are Yours, New York 1993; G. Ravasi, Il libro dei Salmi, 3 voll., Bologna 1986.

R.E. Murphy

SANTO - SANTITA. (inizio)

I. Premessa. Per comprendere esattamente che cosa sia un s. è necessario risalire alla realtà della santità cristiana stessa.

Di questo argomento ha diffusamente trattato il Concilio ecumenico Vaticano II nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa: ciò non deve stupire perché il fine di essa consiste proprio nel fare sì che gli esseri umani, rispondendo alla grazia di Dio, siano, nello Spirito Santo, uniti a Cristo e così " per lui, con lui ed in lui " il Padre sia glorificato.

Non esiste dunque via più sicura per parlare di tale tema che quella di seguire i passi che lo stesso Concilio ha fatto nel trattarne. Eccone i principali.

I. La s. cristiana consiste nell'unione con Cristo. Il Vaticano II, conformandosi saggiamente agli usi di una lunga prassi conciliare non ha voluto dare una definizione tecnica. Tuttavia, pur senza dare una definizione teorica e scolastica, il Concilio ha proposto - in modo positivo - una dottrina sulla natura della s. cristiana che, d'altronde, è in perfetta armonia con la tradizione, e ciò che essa ha autenticamente insegnato.

1. L'insegnamento del Vaticano II. Che nella LG la tematica della nostra s. e santificazione sia sviluppata in base alla categoria della nostra unione con Cristo, risulta innanzitutto evidente dall'impostazione del cap. V che tratta ex professo di questo tema.

a. Primo dato fondamentale. La Chiesa stessa è santa perché Cristo, " il solo santo ", l'ha amata come una sposa e ha dato se stesso per essa al fine di santificarla. Con ciò è detto che la s. della Chiesa deriva totalmente dalla s. di Cristo e dal suo amore per essa, amore che lo spinse al sacrificio della croce affinché essa potesse essere la sua sposa. Da notare che si è fatto esplicitamente ricorso alla categoria dell'amore che, secondo la sua natura, procede dal desiderio dell'unione mutua e la stabilisce di fatto. Molto appropriatamente, dunque, l'intensità e l'intimità di questa unione viene spiegata servendosi dell'immagine biblica dello sposalizio tra Dio e il suo popolo eletto.

b. Secondo concetto basilare: Cristo ha congiunto la Chiesa a sé come suo corpo. La s. della Chiesa viene, dunque, ancor più chiaramente ed esplicitamente descritta per mezzo della categoria della " unione " con Cristo, ossia per mezzo di quella categoria che in modo eminente esprime l'identificazione di Cristo con la sua Chiesa.

c. Il terzo motivo addotto per spiegare la s. della Chiesa, il fatto cioè che Cristo l'ha colmata con il dono dello Spirito Santo, è intimamente e organicamente connesso con la precedente considerazione: lo Spirito Santo, infatti, è l'anima del Corpo mistico che, permeandolo tutto, lo vivifica e lo unisce a Cristo, ossia ci comunica la s. proprio perché e in quanto ci unisce a Cristo e in lui ci rende partecipi della vita divina.

Analizzando questo testo della Lumen Gentium 39, notiamo in primo luogo che l'obbligo morale di tendere alla s., comune a tutti i membri della Chiesa, viene dedotto precisamente dalla loro ontologica appartenenza ed unione alla Chiesa, la quale viene proclamata indefettibilmente santa. Tutti i fedeli devono essere santi nella loro condotta morale perché devono agire in conformità a quello che essi sono nell'ordine dell'essere, cioè uomini che vivono nella Chiesa che è santa, come viene sviluppato nel brano immediatamente seguente.

II. S. ontologica, s. morale. Accettate come sicure premesse le nozioni offerte dalla Sacra Scrittura e dalla tradizione, autenticamente interpretate dal magistero della Chiesa, secondo le quali la s. viene descritta e definita mediante la categoria della " unione con Dio ", risulta chiaro che il concetto di s. dal piano ontologico si estende a quello morale e soggettivo: " I seguaci di Cristo, chiamati da Dio e giustificati in Gesù Cristo non secondo le loro opere, ma secondo il disegno e la grazia di lui, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l'aiuto di Dio, mantenere e perfezionare, vivendola, la s. ricevuta. Li ammonisce l'Apostolo che vivano "come si conviene a santi" (Ef 5,3) " (LG 40).

Da ciò deriva che la s. viene allora apprezzata sotto un altro aspetto della sua vera ricchezza, cioè come qualcosa di deliberatamente vissuto, che permea l'esistenza stessa di una persona appunto perché essa, con la ricchezza del suo essere e con la spontaneità del suo libero volere si unisce a Dio donandosi a lui nel calore dell'amore.

Proprio per questo, essendo la s. personale, si capisce che essa reca pure con sé e necessariamente le caratteristiche tipiche di ogni persona ed ha pure, come nota essenziale, un continuo dinamismo: infatti, come l'essere personale dell'uomo sviluppandosi si arricchisce o si depaupera, così anche l'unirsi dell'uomo a Dio, appunto perché legato allo sviluppo della personalità stessa è in continua fase di arricchimento o di depauperamento. Ma come lo sviluppo di una personalità dovrebbe seguire uno sviluppo di costante ascesa, così anche la santificazione.

E doveroso poi aggiungere la riflessione che noi dobbiamo considerarci quali siamo di fatto, cioè persone reali esistenti in un ordine storico concreto, persone umane che vivono nell'ordine soprannaturale, dotate ed arricchite di una vita divina che ci viene comunicata da Dio.

Siccome l'elevazione dell'uomo all'ordine soprannaturale non ne sopprime la personalità, anche il processo della sua santificazione in Cristo avviene in quel modo che è proprio delle persone, cioè ad un livello sia ontologico che morale.

Per questo s. Paolo, al quale è caro chiamare semplicemente " santi " coloro che sono battezzati, perché uniti a Cristo, non cessa di esortare i cristiani a vivere consapevolmente e con vero senso di responsabilità la vita divina di cui sono stati fatti partecipi, li sprona quindi a fare propri i sentimenti stessi di Cristo e a " rivestirsi " di lui. Questo comporta e richiede da parte di coloro che sono stati battezzati una risposta consapevolmente data - lungo tutto l'arco del loro pellegrinaggio terreno - alle mozioni dello Spirito che abita nei loro cuori e cerca di uniformarli sempre più a Cristo.

Da ciò appunto deriva che il cristiano si deve donare con slancio generoso a Cristo e a Dio; non può e non deve mai dire " basta "; egli deve costantemente vivere la sua unione a Gesù Cristo ed al Corpo mistico di lui che è la Chiesa.

Per questo, la vocazione del cristiano alla s. può dirsi veramente un invito all'eroismo; lo stesso sacramento della nostra incorporazione in Cristo ci obbliga, infatti, ad essere pronti ad ogni istante al sacrificio più sublime della carità, quello cioè dell'immolazione incruenta per amore di Cristo e della sua Chiesa. Si capisce allora che la vocazione alla s., quale deriva dall'incorporazione stessa in Cristo, è così impegnativa che ogni cristiano, proprio perché cristiano, è chiamato ad essere s. nel senso più stretto della parola.

Questo è appunto ciò di cui tratta e su cui si diffonde il n. 40 della Lumen Gentium a cui è stato dato, anche se non ufficialmente, il sottotitolo di " Vocazione universale alla s. ". Il paragrafo conclusivo di tale numero della Costituzione dice esplicitamente: " E chiaro dunque a tutti, che tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità: da questa s. è promosso, anche nella società terrena, un tenore di vita più umano. Per raggiungere questa perfezione, i fedeli usino le forze ricevute secondo la misura con cui Cristo volle donarle, affinché, secondo l'esempio di lui e fattisi conformi alla sua immagine, in tutto obbedienti alla volontà del Padre, con piena generosità si dedichino alla gloria di Dio e al servizio del prossimo " (LG 40).

Potrebbe quasi sembrare che, avendo il Concilio presentato con tanta chiarezza quanto esposto fin qui, non ci sarebbe altro da aggiungere. Invece, ulteriore luce è stata offerta in merito a due punti di grande importanza per la pastorale e per la spiritualità. Ciò può essere detto nel modo seguente.

III. La s. è una, ma dev'essere coltivata secondo la vocazione propria di ciascuno. Dire che la s. cristiana è " una " equivale ad affermare che la vita di unione con Cristo è una. Ciò significa che tutto quello che può e dev'essere detto sulla funzione dello Spirito Santo, sulla natura e gli effetti della grazia ed il suo dinamismo, sul battesimo, la cresima e l'Eucaristia, sul culto liturgico e la preghiera privata, sulla fede, la speranza, la carità e tutto l'organico complesso delle virtù, come pure sulle dimensioni escatologiche ed ecclesiali della nostra vita cristiana; insomma tutto ciò che può essere proposto come essenza della vita cristiana in quanto tale o come proprietà, qualità e caratteristiche tipiche di coloro che, mossi dallo Spirito Santo, vivono la loro unione con Cristo nella Chiesa, spiega ed approfondisce il senso dell'affermazione che la vita di unione con Cristo, cioè la s. di tutti i fedeli, è una.

Non solo dal punto di vista strettamente teologico, ma anche da quello della vita pastorale, è sommamente importante concepire e proporre tutta la dottrina della s. dei cristiani nella prospettiva della loro unione con Cristo nella Chiesa, insistendo in questo contesto sul fatto che la s. dei cristiani è una. E infatti chiaro: l'insistenza sulle dimensioni cristocentriche, pneumatiche ed ecclesiali della vita e s. cristiana, comuni a tutti i fedeli, conferisce a tutto l'insegnamento teorico e pratico circa la tendenza dei cristiani alla s. un orientamento sano e fertile, perché ancorato a principi dogmatici saldi e profondi, mentre elimina i pericoli tutt'altro che immaginari di un divorzio fra teologia e vita spirituale che, come la storia ampiamente dimostra, comporta sempre un impoverimento se non addirittura la sterilità di entrambi i settori.

Dopo aver posto in chiaro e sottolineato il fatto che la s. cristiana, proprio perché " unione con Cristo " è fondamentalmente una, è però altrettanto doveroso parlare delle sue diversificazioni. E ciò deve anch'esso essere posto in risalto, e con fermezza, sia dal punto di vista teologico-dogmatico che da quello della pastorale e della spiritualità. Infatti, l'enfatizzare esageratamente - come a volte è stato fatto - la " unità " fondamentale dell'unione con Cristo a danno delle diversificazioni costituisce un errore teologico madornale che comporta conseguenze disastrose sia nei riguardi dell'intensità della stessa unione del singolo cristiano con Cristo, come pure a riguardo della ricchezza del corpo di Cristo che è la Chiesa. E proprio in essa e tramite i suoi membri che egli intende completare la perfezione della sua umanità, di ciò che attraverso essa opera nel tempo e nello spazio, e della stessa glorificazione che per essa offre all'eterno Padre.

Proprio per questo il Concilio stesso, per ovviare a perniciose interpretazioni che venivano, e forse vengono ancora, erroneamente diffuse, volle deliberatamente sopprimere l'aggettivo che era stato apposto all'affermazione della una sanctitas: ci riferiamo al termine eadem (=stessa). Più ancora, il Concilio volle contrapporre a questo l'insegnamento delle diversificazioni e differenziazioni della s. cristiana. Le parole aggiunte immediatamente dopo la parte della frase in cui si ritrovano le parole una sanctitas sottolineano, infatti, che la s. cristiana, radicalmente una in quanto unione a Cristo, si differenzia però " secondo i doni e gli uffici propri di ciascuno".

L'insegnamento della Sacra Scrittura sulla sovrana libertà e liberalità di Dio nella distribuzione delle sue " grazie " e dei suoi " doni ", dati a noi secondo la misura della donazione di Cristo è inequivocabilmente chiaro in proposito e viene d'altronde ampiamente confermato da tutta la storia della nostra salvezza. In essa troviamo, infatti, numerosi esempi di " vocazioni " o " chiamate " del Signore date soltanto ad alcuni e che, lungi dal riferirsi esclusivamente ad alcuni compiti esterni o ad uffici della Chiesa, sono invece delle autentiche chiamate ad un tipo di s. personale particolare o, come vediamo nel caso della beata Vergine Maria, assolutamente unica ed irrepetibile. In tutti questi casi si tratta sempre di una chiamata ad una s. che non è alla portata di chi non ha ricevuto una simile chiamata.

D'altronde, queste " chiamate ", mentre sottolineano l'aspetto dell'assoluta libertà di Dio nel prendere l'iniziativa di stabilire una unione con le creature, richiamano il fatto che Dio dirige a ciascuno la sua chiamata e con ciascuno vuole stabilire un'unione personale. Orbene, ogni unione fra persone possiede un'impronta tipica, unica, irrepetibile, determinata da tutti quei fattori in virtù dei quali ogni persona si distingue dalle altre. Per questo, considerando i rapporti personali e l'unione che due persone hanno con una terza, non possiamo mai parlare di identità, ma dobbiamo piuttosto ricorrere alla categoria della similitudine; in altri termini, siamo nel campo dell'analogia e non in quello della univocità.

Tutto ciò vale naturalmente anche per i nostri rapporti personali con Cristo e per la nostra unione con lui; anzi, qui vale in modo del tutto speciale, preminente ed unico, perché i rapporti e l'unione personale corrispondono alle più intime tendenze della nostra persona come tale e la impegnano totalmente in tutte le manifestazioni dell'esistenza e della vita.

Anzi, proprio nell'ordine della nostra unione con Cristo, questa diversificazione dei rapporti delle singole persone con lui viene accentuata e diviene ancor più operante per il fatto che la nuova vita non ci viene data secondo le rigide leggi della giustizia distributiva, bensì secondo la sovrana liberalità del Signore: " A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo " (Ef 4,7). E tutto questo conferisce alla stessa persona umana elevata all'ordine soprannaturale delle caratteristiche personali ancor più spiccate di quanto esse non lo siano nel puro ordine naturale.

D'altronde, la dottrina che ci presenta la s. dei cristiani come " una " e " differenziata secondo la misura della donazione di Cristo " - la quale a sua volta è alla radice della ricca varietà di funzioni, uffici e stati di vita in seno alla Chiesa - viene enfaticamente, e a più riprese, ribadita nella Lumen Gentium e precisamente nei passi più salienti che trattano della universale vocazione alla s. A titolo di esempio citiamo alcuni di questi brani: " (La s. della Chiesa) si esprime in varie forme presso i singoli, i quali nel loro grado di vita tendono alla perfezione della carità " (LG 39); " Per raggiungere questa perfezione i fedeli usino le forze ricevute secondo la misura con cui Cristo volle donarle " (LG 40); " Tutti i fedeli quindi sono invitati e tenuti a perseguire la s. e la perfezione del proprio stato " (LG 42). Il concetto teologico, poi, che la s. dei cristiani è una, ma simultaneamente diversificata e differenziata, è alla base di tutto ciò che il Concilio insegna non solo nel n. 41 della Costituzione circa il "multiforme esercizio della s.", bensì anche nel n. 42 sulla " via e mezzi di s ".

Alla luce di quanto esposto con oggettività scientifica e sulla base dell'insegnamento conciliare a proposito della s. cristiana, è possibile ora occuparsi dell'aspetto più particolare e cioè di chi è "s.".

IV. Il s. nel cristianesimo. Sul fondamento di quanto detto trattando della s. cristiana, non è difficile rispondere alla domanda che rimane aperta e che riguarda l'ordine esistenziale e personale dei cristiani.

In modo piuttosto sintetico possiamo dire che " santa " è quella persona che, essendosi aperta alla grazia di Cristo e seguendo docilmente l'azione del suo Spirito, si è lasciata conquistare dall'amore di lui e vi ha corrisposto con la spontaneità dell'amore: così essa si è incondizionatamente data a lui, quindi, in modo costante e crescente (nonostante le debolezze e gli errori), si è conformata a lui, ai suoi criteri e alle sue " vie ". Perciò, in unione a Cristo, essa ha vissuto facendo in tutto ciò che piace al Padre, accogliendo amorosamente da lui i suoi piani ed i progetti che su di essa aveva, allo scopo di formarne - tramite l'azione dello Spirito creatore, i suoi doni e carismi - quel membro del Corpo mistico di Cristo a cui competeva non solo svolgere un determinato compito e missione, ma anche evidenziare qualche aspetto particolare della fisionomia spirituale di Cristo.

Conseguentemente a tutto ciò, si comprende agevolmente come e perché le persone che si lasciano animare in tutta la loro vita ed attività dallo Spirito di Cristo e partecipano alla sua vita continuano e completano l'opera salvifica di Cristo anche in quanto lo rendono visibile agli altri uomini nelle loro persone, nelle circostanze concrete dell'ambiente e del mondo in cui esse vivono. Ogni persona, infatti, che nell'ambito delle sue limitate ma irrepetibili caratteristiche, qualità e circostanze personali vive la vita di Cristo Capo, fa sì che Cristo Capo, nell'ambito delle possibilità offertegli dal libero contributo e dalle qualità di questa persona, viva in essa, come in un suo membro, la sua stessa vita: ogni persona quindi che partecipa profondamente della vita e dell'amore di Cristo, diffonde intorno a sé il calore dell'amore di lui e lo splendore della sua vita e fa vedere l'amabilità di lui nelle circostanze in cui ella si trova; ogni persona che è unita intimamente a Cristo attira gli uomini verso di lui, perché essi, colpiti ed affascinati dalla sua bontà, salgono al capo che ne è la sorgente. Il Concilio stesso ha ben voluto porre in luce questa realtà dicendo: " Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell'immagine di Cristo (Cf 2 Cor 3,18), Dio manifesta vivamente agli uomini la sua presenza e il suo volto. In loro è Egli stesso che ci parla, e ci mostra il contrassegno del suo regno " (LG 50). Ed è così che Cristo, appunto mediante l'esempio concreto e vivo di coloro che a lui si danno incondizionatamente, continua a far vedere agli uomini di tutti i tempi nuove forme e stili autentici di vita cristiana, modi pratici di attuare, nelle circostanze sempre varianti della vita, l'ideale cristiano di unione e conformità a lui; egli continua a fare vedere come ogni uomo nelle circostanze e modalità particolari della sua vita, può e deve lasciar vivere Cristo in sé affinché tutto ciò che è autenticamente umano venga da lui elevato e santificato a maggior gloria di Dio, diventi cioè di Cristo, come Cristo è del Padre.

Il s. è appunto una persona che vive così.

Bibl. E. Ancilli, Santità cristiana, in DES III, 2240-2249; L. Bogliolo, L'influsso della glorificazione dei Servi di Dio nella spiritualità, in Congregazione per le Cause dei Santi, Miscellanea in occasione del IV centenario della Congregazione per le Cause dei Santi (1588-1988), Città del Vaticano 1989, 237-263; Congregatio pro Causis Sanctorum, Index ac Status Causarum, a cura di P. Galavotti, Città del Vaticano 1988, I-IV Supplementum, Ibid., 1989, 1991, 1992, 1994; B. Fraling, Heilige, in WMy, 218-220; J. Guillet, Sainteté de Dieu, in DSAM XIV, 184-192; P. Molinari, I Santi e il loro culto, Roma 1962; Id., L'indole escatologica della Chiesa peregrinante e i suoi rapporti con la Chiesa celeste, in G. Baraúna (cura di), La Chiesa del Vaticano II. Studi e commenti intorno alla Costituzione dommatica " Lumen Gentium ", II, parte VII, Firenze 1965, 1113-1133; Id., La santità dei cristiani, in Aa.Vv., Ecclesia a Spiritu Sancto edocta " Lumen Gentium ", 53. Mélanges théologiques, Gembloux 1970, 521-546; Id., Il Santo alla luce della teologia dogmatica, in Aa.Vv., Miscellanea Amato Pietro Frutaz, Roma 1978, 285-310; Id., Santo, in NDS, 1369-1386; Id., Martire, in Ibid., 903-913; P. Molinari - P. Gumpel, Eroismo, in Ibid., 478-488; P. Molinari, Criteri per la Canonizzazione, in E. Ancilli (cura di), Santità cristiana. Dono di Dio e impegno dell'uomo, Roma 1980, 349-386 (ed. aumentata pubblicata separatamente con il titolo: La santità canonizzata, Roma 1980); P. Molinari - P. Gumpel, Il Capitolo VI " De Religiosis " della Costituzione dogmatica sulla Chiesa. Genesi e contenuto dottrinale alla luce dei documenti ufficiali, Milano 1985; P. Molinari, La storia del capitolo VII della Costituzione dogmatica " Lumen Gentium ": indole escatologica della Chiesa pellegrinante e sua unione con la Chiesa celeste, in Congregazione per le Cause dei Santi, Miscellanea in occasione..., o.c., 113-176; Id., Canonizzazione dei Santi (Canonizatio Sanctorum), in Nuovo Dizionario di Diritto Canonico, Cinisello Balsamo (MI) 1993, 108-120; Id., L'elemento "esperienziale" nei materiali storici e teologici delle Cause dei Santi. Un contributo allo studio ed approfondimento della spiritualità cristiana?, in Aa.Vv., Miscellanea in onore del P. Charles A. Bernard, Roma 1995, 279-306; P. Palazzini, La santità coronamento della dignità dell'uomo, in Congregazione per le Cause dei Santi, Miscellanea in occasione..., o.c., 221-236; G. Philips, L'Eglise et son mystère au IIe Concile du Vatican. Histoire, texte et commentaire de la Constitution " Lumen Gentium ", II, 7, Paris 1968, 161-205; C. Pozo, Teologia dell'aldilà, Roma 19833, 503-539; A. Solignac, Sainteté - Santification de l'homme, in DSAM XIV, 192-194; J. Sudbrack, Heiligkeit und Mystik, in WMy, 222.

P. Molinari

SANZ GIOVANNI. (inizio)

I. Vita e opere. Nasce a Onteniente (Valenza) il 28 giugno 1557, professa nel convento carmelitano di Játiva il 1 febbraio 1573 ed è ordinato sacerdote nel 1581. Nei collegi di Onda e Valenza compie i suoi studi che completa nell'Università di quest'ultima città, conseguendo il dottorato in teologia nel 1586. Insegna filosofia nel convento di Calatayud e teologia nei conventi di Onda e Valenza, alternando l'insegnamento con la predicazione fervorosa della Parola di Dio. Disimpegna anche diversi altri incarichi di responsabilità nel suo Ordine: maestro dei novizi per cinque anni, sottopriore di Onda nel 1585, primo definitore della Provincia nel 1587, priore di Valenza nel 1597, di nuovo primo definitore nel 1600 e provinciale dal 1603 al 1606, facendosi promotore della fioritura dell'osservanza e degli studi. Uomo di grande pietà, è stimato anche come direttore spirituale di anime elette sia secolari che religiose, realizzando un gran lavoro soprattutto tra le monache di clausura, in collaborazione con l'arcivescovo di Valenza che, alla morte di S. nel 1608, istruisce il processo della beatificazione, anche se questo non arriverà a termine.

S. pubblica in vita solo i suoi Abecedarios espirituales y el ejercicio dellos (Valenza, s.d.), insieme a fervorose aspirazioni, raccolte in ordine alfabetico in sei gruppi, in memoria delle cinque piaghe di Gesù Cristo, più un altro gruppo dal titolo Puntos de perfección, preceduti da una breve introduzione e da otto avvertenze per l'esercizio delle stesse. Saranno stampate dopo la sua morte nel 1610 e di nuovo nel 1612, nella biografia dello stesso da J. Pinto di Vittoria che vi aggiunge altri nuovi abbecedari e alcune lettere del S. Il Pinto lascia un'altra opera, Ramillete de la esposa de Dios, per la formazione spirituale delle monache di clausura e attualmente andata perduta.

II. Insegnamento spirituale. S. è un fervente promotore dell'orazione aspirativa, considerata il mezzo migliore per raggiungere l'unione mistica con Dio, che egli concepisce come eminentemente affettiva. Paragona tale unione di fatto alla vita delle lumache attaccate alle pietre delle sorgenti " che non vedono, non odono, non gustano, non odorano; hanno soltanto il senso del tatto, in modo che la loro vita è stare unite alle pietre ", alludendo, senza dubbio, al testo di s. Tommaso nel quale il Dottore angelico dice che l'amore è come il tatto per il quale l'anima aderisce alle cose.1 Per S. la vita mistica non è altra cosa che un'esperienza saporosa, attraverso l'amore della nostra unione con Cristo, " nostro fratello e pietra di rifugio ", alludendo qui al testo dell'Apostolo: " Petra autem erat Cristus " (1 Cor 10,1). Tale esperienza si raggiunge in virtù dell'azione dello Spirito Santo, attraverso soprattutto il dono della pietà, " per effectum amoris filialis quem in nobis facit ", secondo quanto dice anche s. Tommaso.2

Presupposte certe condizioni, che trovano una notevole coincidenza dottrinale in s. Giovanni della Croce, anche se probabilmente S. non conobbe gli scritti del mistico spagnolo, egli insiste soprattutto nell'esercizio dell'aspirazione che considera " un cammino molto facile, soave e da cui nessuno si può esimere ", e che definisce " una teologia mistica, con la quale si raggiungono i raggi della luce divina e una... sapienza segreta che non si raggiunge con una moltitudine di libri né dispute, ma con l'allargamento del centro del cuore, ravvivato dal fuoco dell'amore ". L'insieme delle sue aspirazioni rivela anche la profondità dei suoi sentimenti. Questo costituisce il miglior contributo dottrinale di S., che si colloca pienamente in un'antica tradizione spirituale che trovò grande accoglienza tra gli spirituali spagnoli.

Note: 1 S. Tommaso, STh I-II, q. 86, a. 1; 2 Id., In Ep. ad Rom., 8,16.

Bibl. La fonte principale per lo studio di Sanz è l'opera di Juan Pinto de Vitoria, Vida del venerable siervo de Dios... Juan Sanz, Valencia 1612, che raccoglie la maggior parte dei suoi scritti spirituali riprodotti tutti nell'ed. di R. López Melus, Abecedarios espirituales, Madrid 1957. Più critica e completa rimane quella di P.M. Garrido, Juan Sanz, Escritos espirituales, Madrid 1995; P.M. Garrido, El carmelita Juan Sanz (1557-1608) promotor de la oración metodica y aspirativa, in Carm 17 (1970), 3-70; una visione più sintetica è offerta da P.M. Garrido, s.v., in DSAM XIV, 344-348. Altri studi sono quelli di C. Catena, La meditazione in comune nell'Ordine carmelitano: origini e sviluppo, in Carm 2 (1955), 326-328; C. Peeters, Sanz Juan... Wenken over het aspiratief gebed, in Tijdschrift voor geestelij Leven, 17 (1961), 352-357; R. Robres Lluch, En torno a Miguel Molinos y los origenes de su doctrina. Aspectos de la piedad barroca en Valencia (1578-1691), in Anthologica annua, 18 (1971), 405-406.

P.M. Garrido

SAPIENZA. (inizio)

Premessa. Il dono della s. rappresenta il più alto grado di conoscenza e di esperienza della vita spirituale. Non si tratta di una s. umana, come frutto maturato alla luce della ragione né di una s. teologica, acquisita in base all'elaborazione dei dati rivelati. La s. è, innanzittutto, un dono dello Spirito Santo comunicato ai cristiani gratuitamente con liberalità e benevolenza.

I. Nella Scrittura. Non c'è dubbio che lo Spirito Santo agisca mediante il dono della s. nel nostro intelletto e nella nostra volontà, producendo una meravigliosa conoscenza esperienziale delle cose divine, ma la prova principale dell'esistenza di questo dono, in quanto realtà soprannaturale, si trova nella Scrittura.

E classico il testo di Isaia che parla del germoglio della radice di Iesse: " Su di lui si poserà lo spirito del Signore: spirito di s. e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore " (Is 11, 2).

Altri brani dell'AT (cf Gn 41,37; Nm 24,2; Sal 31,8; 118,30-31; 142,10; Sap 7,28; 10,10; Sir 15,2; Is 6,1; Mi 3,8) e del NT (Lc 12,12; 24,25; Gv 3,8; 14,17; At 2,2; Rm 8,14; 1 Cor 2,10,12,18; Ap 3,1; 5,6) vengono a confermare sia l'esistenza dei doni dello Spirito Santo sia l'efficacia della sua azione in particolare.

Grazie al dono della s., l'anima può avere una esperienza così alta e profonda delle cose soprannaturali che risulta quasi indescrivibile in termini umani. Questa " visione " di Dio durante il pellegrinaggio terreno diventa il segno più chiaro della visione beatifica, fonte della suprema felicità.

II. Cos'è la s.? Per comprendere meglio la natura di questo dono dello Spirito si può tentare la seguente definizione: " La s. è un abito soprannaturale che, unito strettamente alla virtù della carità, giudica rettamente le cose soprannaturali nelle ultime cause, grazie a un aiuto speciale dello Spirito Santo che ce la fa gustare per una certa connaturalità ".

Non è possibile dare un giudizio esatto sui misteri divini senza una luce soprannaturale. Proprio il dono della s. viene ad illuminare la nostra mente per giudicare, senza possibilità di errore e secondo le ultime cause, sia la natura di Dio sia il contenuto dei suoi misteri. Si tratta di una esperienza sublime, irripetibile, quasi incomunicabile.

I teologi e i mistici affermano, da un punto di vista dottrinale e pratico rispettivamente, che il giudizio e il gusto delle cose divine vengono acquisiti dall'anima grazie a una certa " connaturalità ". In realtà, è una caratteristica propria del dono della s. possedere, nel senso di fare un'esperienza personale, le realtà che deve giudicare.1

Questo dono infuso dallo Spirito Santo si colloca al primo posto, perché riguarda direttamente le cose soprannaturali. Il cristiano, sotto l'influsso della s., acquista una conoscenza chiara, dà un giudizio esatto e ha un'esperienza personale delle realtà che superano le facoltà umane, quella dell'intelletto e della volontà.

Come causa della contemplazione infusa, l'atto mistico per eccellenza, il dono della s. ci permette di contemplare Dio mediante un'intuizione profonda, non attraverso una serie di ragionamenti discorsivi.

Inoltre, questo dono va normalmente unito alla carità, la virtù teologale più importante, perché unisce direttamente a Dio e permette di sperimentare in questa vita le sue dolcezze; infine, perché resterà nella vita eterna. E siccome la perfezione cristiana consiste essenzialmente negli atti più perfetti di carità, la s. conserva un rilievo di primo ordine.

La necessità della s., si giustifica o perché il cristiano non ha raggiunto ancora il fine proprio, cioè la santità, o perché sono poco intensi gli atti di carità. Ma questa virtù ha bisogno realmente di un dono dello Spirito Santo? Mentre l'abito della fede è un po' oscuro, perché tratta di cose " non viste ", o quello della speranza riguarda realtà " non ancora possedute ", la carità invece ci unisce direttamente all'oggetto proprio: Dio-Amore. Ma, ciò nonostante, se la carità non fosse mossa dalla s. non potrebbe realizzare atti più intensi né tantomeno potrebbe svilupparli sotto l'influsso divino.

L'agente di questa virtù teologale, senz'altro la più perfetta, è la persona che vive in grazia, che opera però in modo umano. Perciò, quando vuole esercitare la carità in grado perfetto, deve avvalersi della s. infusa direttamente dallo Spirito Santo. Ancora di più: l'agente della s. è il Verbo che " spira l'Amore ".2 Proprio in questo modo soprannaturale consiste la nota caratteristica di ogni dono in confronto con la virtù corrispondente.3

La s. è un dono che risiede propriamente nell'intelletto mediante il quale la persona umana aspira a conoscere la verità suprema, Dio stesso, fonte della felicità. Sebbene il desiderio di possedere Dio, con la gioia conseguente, appartenga alla volontà, la conoscenza della verità infinita e il giudizio sulle cose divine è un'operazione specifica dell'intelletto.

III. La carità, causa principale della s. Per superare alcune polemiche circa il rapporto tra conoscenza e amore, facendo prevalere un elemento sull'altro, possiamo ricorrere direttamente a s. Tommaso. La s., come dono, " ha la causa nella volontà, cioè nella carità, ma l'essenza nell'intelletto, il cui atto è quello di giudicare rettamente ".4

Soltanto la carità è capace di muovere liberamente il soggetto verso il bene conosciuto fino al punto di possederlo, cioè di averne un'esperienza viva e personale.

Il compito preciso della s. è quello di comunicare una modalità divina che realmente perfeziona gli atti della carità. In quanto abito, la s. si trova in tutte le anime che, vivendo nella grazia, desiderano ardentemente la perfezione incarnando gli insegnamenti di Cristo.

Tra i vari effetti attribuiti al dono della s., conviene sottolineare: a. una sensibilità autenticamente divina per dare un giudizio retto su Dio in se stesso o sulle cose soprannaturali; b. un modo divino di sperimentare nel profondo dell'anima la luce che proviene da Cristo, giacché la s. incarnata ci ha rivelato la profondità e l'ampiezza dei misteri divini; c. una partecipazione ineffabile alla vita trinitaria, percependo chiaramente la presenza delle tre divine Persone; 5 d. una spinta efficace alla carità per produrre atti eroici e per animare, allo stesso tempo, tutte le altre virtù affinché possano agire in modo divino.

Sebbene sia difficile esprimere in termini umani tutti questi effetti soprannaturali, la ricerca del teologo alla luce dei dati rivelati viene a chiarire l'esperienza del mistico che, a sua volta, conferma l'azione trasformamte dello Spirito nella vita del cristiano.

IV. Come alimentare il dono della s.? Prima di tutto lottando contro la stoltezza, opposta radicamente al dono della s. La stoltezza consiste in un certo oscuramento della luce soprannaturale che rende impossibile il discernimento autentico delle cose divine. Già s. Paolo previene i cristiani contro una forma di stoltezza, propria dei sapienti di questo mondo, che è contraria alla prospettiva di Dio (cf 1 Cor 1,25-27; 3,19). Tale ignoranza spirituale ci impedisce non solo di dare un retto giudizio dal punto di vista di Dio, ma anche di sperimentare queste cose con quel gusto proveniente dalla conoscenza per connaturalità. In secondo luogo, superando la miopia spirituale: l'anima deve vedere sia le realtà divine sia le realtà umane da un punto di vista divino. Senza questo sforzo per giudicare ogni avvenimento alla luce che viene dall'alto, si cade rapidamente in una specie di miopia spirituale. Bisogna chiedere il dono della s. che punta direttamente alla Causa prima, andando oltre le cause seconde. Infine, occorre nutrire un gusto sempre più profondo dei valori soprannaturali. Senza disprezzare le cose buone di questo mondo, occorre cercare decisamente i valori della vita spirituale che rendono l'uomo felice. Quando l'anima è troppo legata al modo umano di pensare e di agire, sente una certa nausea verso le cose divine. Il dono della s., invece, aiuta il cristiano a gustare gli effetti della presenza di Dio, appagando così la sete di felicità insita nel cuore umano.

V. La s. porta al senso di Dio. Chi ha ricevuto questo dono dello Spirito Santo è capace di contemplare la verità divina in se stessa, di riflettere sulle conseguenze concrete nella propria vita spirituale e di sentire più chiaramente l'opera trasformante della grazia. Oltre a dare un giudizio retto sulle cose divine, la s. regola gli atti umani alla luce di Dio.

D'ora in poi, tutta l'esistenza umana entra in un'orbita trascendente. Ogni avvenimento è visto alla luce di Dio e in ordine alla perfezione personale. Perfino le tentazioni sono considerate occasioni per acquistare nuovi meriti e le più dolorose malattie, sopportate con rassegnazione cristiana, aiutano a scoprire il volto glorioso del Signore. In breve, si tratta di una conoscenza teorica e pratica allo stesso tempo. La conoscenza acquisita grazie al dono della s. non è soltanto speculativa, ma anche pratica: Dio, oggetto trascendente, è percepito sperimentalmente dall'anima. Quanto più chiara è la sua visione di Dio tanto meglio riesce a sentire la sua presenza e la sua azione. Non si tratta di un atto qualunque della ragione umana, ma di una visione chiara o di una intuizione profonda di Dio, Bene supremo.

L'intelletto umano, illuminato dalla s., riesce a riflettere sulle verità rivelate perché non agisce più con la forza della ragione, ma in base a una luce soprannaturale fino ad arrivare ad una unione tale che, secondo il Dottore mistico, " l'intelletto umano e quello di Dio sono una cosa sola ".6

Come forma contemplativa, la s. ci fa comprendere, in grado supremo, tutti i misteri divini e tutte le realtà create alla luce della Causa prima. In quanto s. d'azione, questo dono scopre le motivazioni concrete delle cause seconde, sotto lo sguardo di Dio. Così la dimensione contemplativa diviene anche guida di tutte le azioni umane.7

La conoscenza sapienziale di Dio comporta anche una serie di sentimenti profondi. La pace, in primo luogo. La settima beatitudine è un frutto maturo del dono della s.: " Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio " (Mt 5,9). S. Tommaso, sulla scia di s. Agostino, spiega questa associazione sia per quanto riguarda il merito, perché la pace è la " tranquillità dell'ordine ",8 sia per quanto riguarda il premio, perché i cristiani diventano figli adottivi di Dio grazie al Figlio unigenito del Padre, s. eterna.9

La s. causa anche gioia. Essa, " sapida scientia ",10 in quanto conoscenza che produce la gioia più profonda nel cuore umano, rinnova continuamente il gusto delle cose soprannaturali. Perciò, l'anima che riposa in Dio è immensamente felice.11

Altri sentimenti affettivi sono l'ammirazione dinanzi agli effetti causati direttamente da Dio e lo stupore dinanzi al suo mistero insondabile.

Secondo l'insegnamento della Scrittura, è impossibile vedere Dio in questa terra " faccia a faccia ", senza morire (cf Es 33,20). Esiste una differenza sostanziale tra l'esperienza di Dio in questa terra e quella riservata in cielo.

I teologi sono d'accordo nel ritenere che l'anima non può contemplare Dio se non nella gloria celeste. Per questo, a volte, i mistici sono tentati di varcare i limiti del tempo e desiderano rompere l'ultimo legame con questo mondo per unirsi per sempre a Dio, Amore Amato, nell'eterna visione beatifica.

Difatti, tutte le forme di conoscenza e di amore che l'anima può possedere di Dio sono limitate sia dalla condizione temporale sia dalla capacità recettiva del soggetto. Perfino la trasformazione totale dell'anima in Dio, ultimo grado della vita spirituale, è un'esperienza non definitivamente perfetta, ragion per cui s. Giovanni della Croce precisa: " La perfezione dell'amore glorioso... è totalmente ineffabile ".12

Conclusione. E evidente che il dono della s., in quanto giudizio retto delle cose soprannaturali, è unito strettamente alla virtù della carità. Questo tipo di conoscenza provoca un amore più intenso che, allo stesso tempo, cerca di approfondire i misteri divini per prestare un'adesione completa e piena d'amore a Dio, sommo Bene.13 In questo modo, il rapporto conoscenza-amore si rafforza a vicenda.

L'anima in grazia riceve dal dono della s. la capacità di conoscere e sperimentare Dio insieme ai suoi misteri, sempre più perfettamente. Il modo soprannaturale con cui il cristiano pratica la carità ammette diversi gradi, secondo la propria disponibilità e l'intensità di operazione del dono. L'illuminazione divina dell'intelletto umano non consiste soltanto in una comprensione chiara delle realtà che trascendono la natura umana, ma soprattutto in una esperienza che sa gustare le infinite dolcezze di Dio.

Ai " viatori ", che hanno sperimentato la presenza di Dio nell'intimo dell'essere e in modo sublime, non resta altro che rinnovare la propria disponibilità all'azione sempre più efficace dello Spirito Santo. Così potranno scoprire meglio le insondabili ricchezze divine, fare di esse un tesoro proprio e praticare in grado perfetto la carità. Quasi identificati con Cristo, s. eterna, desiderano soltanto unirsi a Dio-Amore nella visione beatifica.14

Note: 1 Cf STh II-II, q. 45, a. 2; 2 Cf STh I, q. 43, a. 5, ad 2; II-II, q. 45, a. 6, ad I; II-II, q. 68, a. 1; 3 Afferma chiaramente s. Tommaso: " Dona a virtutibus distinguuntur in hoc quod virtutes perficiunt ad actus modo umano, sed dona ultra humanum modum " (III Sent. 34, q. 1, a. 1); 4 STh II-II, q. 45, a. 2; 5 Giovanni della Croce afferma che l'anima deve liberarsi da ogni vincolo terreno per essere degna dimora della SS. Trinità. E come può sperimentarne gli effetti concreti? Mediante una illuminazione nella sapienza del Figlio, l'amore gioioso dello Spirito Santo e l'abbraccio potente del Padre buono: cf Fiamma viva d'amore I, 15;6 Ibid., II, 5,30; 7 Cf S. Agostino, De Trinitate, 12,14; 8 Id., De civitate Dei, 19,13,1; 9 Cf STh II-II, q. 45, a. 6; 10 Cf Ibid., q. 180, a. 7; 11 Fiamma... o.c., IV, 3,15; 12 Cantico spirituale, 38,4; 13 Cf STh II-II, q. 180, a. 7, ad 2; 14 Cf Cantico ..., o.c., 31,7.

Bibl. Aa.Vv., s.v., in DSAM XIV, 72-132; P.E. Bonnard, Cristo Sapienza di Dio, Torino 1968; U. Degl'Innocenti, La conoscenza sapienziale in sant'Agostino e san Tommaso, in Aquinas, 3 (1966), 143-162; M. Gilbert, s.v., in NDTB, 1247-1447; M. Gilbert - J.N. Aletti, La Sapienza e Gesù Cristo, Torino 1981; A. Grion, s.v., in DES III, 2250-2253; J.B. Metz, s.v., in DT III, 231-249; M.M. Philipon, I doni dello Spirito Santo, Milano 1965, 223-271; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 625-638.

E. De Cea

SATANA. (inizio)

Premessa. Il cosmo è uno smisurato campo di battaglia. S. Agostino parla delle due città antagoniste, quella di Dio e quella degli uomini e s. Ignazio di Loyola descrive i due stendardi nemici, quello di Cristo e quello del demonio. I Padri del Concilio Vaticano II evocano le due forze nemiche sempre in lotta nel corso dei secoli.

I. Il termine s. deriva dall'ebraico satan che significa avversario. Nel NT si usa, invece, il termine diábolos da diaballo che significa separare, dividere, mentre damonion è di dubbia etimologia.

Creati da Dio come esseri puramente spirituali, gli angeli operarono una scelta che diede modo di distinguerli in buoni o obbedienti a Dio e cattivi o disobbedienti. I primi conservarono il nome di angeli, i secondi furono chiamati diavoli, demoni, satana. S., quindi, è un angelo divenuto volontariamente cattivo, pertanto il suo potere, di gran lunga superiore a quello degli uomini, viene usato per fini malefici, essendo egli pieno di odio contro Dio e contro gli uomini. Dio avrebbe potuto benissimo precipitare tutti gli angeli ribelli nelle profondità dell'inferno, ma s. Tommaso osserva giustamente che " è proprio del saggio saper utilizzare i mali per fini buoni superiori. Perciò, mentre il Signore precipitò all'inferno una parte degli angeli cattivi, rinchiuse l'altra parte nell'atmosfera terrestre affinché tentasse gli uomini ".1 Dio, dunque, si sarebbe servito della loro malizia per dare all'uomo l'occasione di esercitarsi nella pratica delle virtù, quindi di progredire nel suo cammino verso di lui. Gli angeli ribelli sono così diventati, loro malgrado, dei servi del Signore. Ma se i demoni lavorano per il regno di Dio è a loro insaputa. La loro intenzione non è la gloria di Dio né il vero bene dell'uomo, bensì il contrario: cercano di vendicarsi per essere stati esclusi dal paradiso e di far cadere l'uomo nel peccato o almeno nella mediocrità, per impedirgli di unirsi a Dio già quaggiù, e di entrare poi in paradiso. Nel pensiero di Dio, le tentazioni dei demoni offrono così all'uomo l'occasione di lottare, cioè di scegliere tra il bene e il male. Si può perciò affermare che, in un certo senso e paradossalmente, il tentatore diventa, suo malgrado, un benefattore degli eletti.

II. Nella vita spirituale. E significativa l'attenzione prestata dai santi, dai mistici e dai maestri spirituali, alla presenza attiva di s. nella vita quotidiana dell'uomo, come è significativa l'importanza che essi attribuiscono alle prove e alle tentazioni per la vita spirituale.

S. Giovanni della Croce osserva che il diavolo si accanisce soprattutto sulle anime profondamente unite a Dio, e specialmente sui mistici e sui contemplativi, perché non sopporta che essi possano vivere già quaggiù nell'intimità con Dio. Inoltre, s. conosce quanto grande sia l'influsso di questi amici di Dio sugli uomini, quindi impedire il progresso spirituale di una di quelle anime innamorate di Dio equivale, di fatto, a ritardare il cammino di molte altre. Le anime mediocri, invece, poco interessano al maligno, perché più facilmente possono cadere in suo possesso.

Nelle sue insinuazioni, il demonio scatena delle forze inimmaginabili. Difatti, " nessun potere umano può reggere al confronto con quello del diavolo. Solo il potere divino riesce a superarlo e solo la luce divina può capire le sue astuzie ".2 Il Dottore mistico è rimasto colpito dalla veemenza degli attacchi del diavolo di cui parla la Sacra Scrittura e che egli stesso ha sperimentato. Per sottolineare la violenza degli attacchi di s., egli ricorre a concetti presi in prestito dall'arte militare. Tutta l'opera demolitrice di s. ci viene descritta come una lotta, una battaglia spirituale, un combattimento, una furibonda guerra, in cui non mancano assalti e attacchi, agguati ed imboscate, scontri violenti in cui si combatte, si resiste, si prevale e si vince o si perde.3

Di quella lotta tra le forze del male e del bene la Chiesa è ben cosciente, perciò avverte instancabilmente i suoi figli dei gravi pericoli che continuamente li minacciano. Nella Liturgia delle ore, ogni settimana la Chiesa ricorda l'ammonimento di s. Pietro alle prime comunità cristiane: " Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro cercando chi divorare " (1 Pt 5,8).

Il Maestro stesso ci esorta alla vigilanza. L'ultima domanda del Padre nostro non è forse una richiesta d'aiuto? " Non c'indurre in tentazione, ma liberaci dal male ", cioè fa che il maligno non abbia presa su di noi.

Note: 1 Cf STh I., q. 64, a. 4; 2 Cantico spirituale III, 9; 3 Cf P. Brocardo di S. Vito, in Aa.Vv., Miscelanea sanjuanista, Roma 1943, 140-141.

Bibl. Aa.Vv., s.v., in DSAM III, 141-238; Aa.Vv., Satan, Paris 1948; C. Balducci, s.v., in DES I, 757-762; Id., Gli indemoniati, Roma 1959; Id., Il diavolo, Casale Monferrato (AL) 19895; W. Baskin, Dictionary of Satanism, New York 1972; G.F. Bonneffoy, Demonio, in EC IV, 1422-1426; E. Castelli, Demonio, in Ibid., 1426-27; M. Flick, Riflessioni su Satana oggi, in RasT 20 (1979), 58-65; G. Huber, Vattene via Satana! Il diavolo oggi, Città del Vaticano 1993; R. Laurentin, Il demonio. Mito o realtà? Insegnamento ed esperienza del Cristo e della Chiesa, Milano-Udine 1995; A. Marranzini, Si può credere ancora nel diavolo?, in CivCat 128 (1977)2, 15-30; A. Soupa - M.M. Bourrat, Esiste il diavolo? Che cosa ne dicono la Bibbia e la psicologia, Milano 1997; A.C. Tassinario, Il diavolo secondo l'insegnamento recente della Chiesa, Roma 1984; G. Tavard, Satana, Cinisello Balsamo (MI) 1995; I. de Tonquédec, Alcuni aspetti dell'azione di satana nel mondo, in Aa.Vv., Satana, Milano 1954, 319-330.

G. Huber

SCALA. (inizio)

I. L'immagine della s., usata dai mistici cristiani per rappresentare la vita spirituale come un' ascesi progressiva verso Dio, è già presente in Platone, che conosce il principio delle tre vie, purgativa, illuminativa e unitiva e in Aristotele ( 322 a.C.), che distingue tre vite: vita di godimento, vita politica e vita contemplativa.1

II. Per gli autori cristiani il tema della s. trova la sua origine in alcuni testi biblici. Il primo riguarda il sogno di Giacobbe (cf Gn 28,12-13) che sarà indefinitamente usato dalla tradizione. Ma anche i tre piani dell'arca di Noè (cf Gn 6,16), i sei gradini del trono di Salomone (cf 1 Re 10,19), i sette o otto gradini del tempio di Ezechiele (cf Ez 40,26 e 31). Accanto al tema della s., alcuni autori insistono su quello dell'albero - l'albero del paradiso e quello della croce: Quodvultdeus, ( 453 ca.), Metodio l'Olimpo (inizio IV sec.), Germano II di Costantinopoli ( 1240) - sempre interpretato come una salita verso la santità. Ma è la visione di Giacobbe che sarà privilegiata, da Origene fino ai nostri giorni.

Questi, ispirandosi a Filone di Alessandria distingue tre tappe, tre gradi nell'ascesi mistica, con la loro corrispondenza biblica: 1. la purificazione (greco katharsis, latino: purgatio) durante la quale l'uomo si purifica dei suoi peccati con la penitenza e con la conversione che rimandano al libro dei Proverbi; 2. l'illuminazione (greco: phôtismos; latino: illuminatio) che si riporta al progresso nella virtù che, dopo un'apertura alla grazia, permette di avvicinarsi al termine e si riferisce all'Ecclesiaste; 3. l'unione, la vita unitiva, quella dei perfetti (greco, teleiôsis; latino, perfectio) che è la piena beatitudine dell'uomo, l'unione con Dio, e corrisponde al Cantico dei Cantici.

E a partire da questo quadro, o all'interno di questo, che si svilupperanno gli altri schemi dell'ascesi mistica. Gregorio di Nissa nella sua Vita di Mosè, riprende il tema dell'ascesi verso Dio sulla base di questa trilogia. Dionigi l'Areopagita avvicina le tre vite, purgativa, illuminativa e unitiva, alle due triadi della gerarchia ecclesiastica: I. triade iniziatrice; II. triade degli iniziati di cui i tre ordini: 1. ordine purificato (catecumeni, penitenti); 2. ordine illuminato (popolo santo); 3. ordine perfetto (monaco), segnano i diversi gradi gerarchicamente ordinati dell'ascesi degli esseri a Dio. Benedetto s'ispira a Cassiano per tutto il cap. VII della sua Regola, sull'umiltà, s. delle virtù che comprende tutta la vita ascetica. Giovanni Climaco, abate del Sinai, diede il titolo di Scala (greco: klimax) al suo trattato in ricordo della scala di Giacobbe. Egli vi distingue trenta gradini (riferimento ai trent'anni della vita nascosta del Cristo). Questi sono divisi in tre parti: 1. principianti (distacco dai beni terreni); 2. proficienti (acquisizione delle virtù); 3. perfetti (trattato della vita mistica, elogio della carità). La trilogia vita purgativa, vita illuminativa, vita unitiva fa posto ad un altro schema: principianti, proficienti, perfetti (vedi Teresa d'Avila, Baldassarre di santa Caterina, ecc.). Questo schema sarà ripreso e ampliato durante tutto il Medioevo da Bernardo nel suo commento al Cantico dei Cantici; da Bonaventura nel suo De triplici via, da Tommaso d'Aquino nella Summa theologica (II-II, q. 24, a. 9) e nel Super Isaiam (44,3).

Qualunque sia il numero dei gradini di questa scala spirituale, tre, quattro in Riccardo di San Vittore nel suo De quatuor gradibus violentae caritatis, cinque in Bernardino di Laredo nella sua Subida del Monte Sion, sei in Bonaventura nel suo Itinerarium mentis in Deum, sette in Benedetto o Francesco di Assisi e i suoi sette gradi della contemplazione, dieci in Giovanni della Croce nella Notte oscura, o ventisei in Angela da Foligno, si tratta sempre di salire i gradini delle virtù del Cristo.

La cima di questa scala spirituale, che è il Cristo - Christus scala nostra -, può essere l'umiltà come in Benedetto, il supremo amore come in Ruusbroec, o la contemplazione perfetta come in Riccardo di San Vittore e Giovanni della Croce. Insomma, l'ultimo scalino è sempre Dio o il Cristo. La scala è un mezzo per arrivarci, come la croce è l'unico luogo in cui si uniscono cielo e terra. Per giungervi, i cristiani devono restare uniti al Cristo che nella sua ascensione è salito verso il Padre da dove ritornerà per introdurli e porli accanto a sé.

Note: 1 Etica nicomachea, 1. I, c. 5.

Bibl. E. Bertaud - A. Rayez, s.v., in DSAM IV1, 62-86; G. Climaco, L'Échelle sainte, Bégrolles-en-Mauges 1978; G. Penco, Un tema dell'ascesi monastica; la scala di Giacobbe, in Vita Monastica, 14 (1960), 99-113; P. de Surgy, La source de l'échelle d'amour chez saint Jean de la Croix, in RAM 27 (1951), 18-40.

S.M. Morgain

SCARAMELLI GIAN BATTISTA. (inizio)

I. Vita e opere. S. nasce a Roma il 23 dicembre 1687. A diciannove anni termina i suoi studi di filosofia con i gesuiti nel Collegio romano ed entra nel noviziato di Sant'Andrea, il 20 settembre 1706. Terminato il noviziato nel 1708 e l'anno di retorica, comincia l'insegnamento prima a Ragusa per tre anni e poi a Loreto per due anni. Studia archeologia e diventa maestro supplente nel Collegio germanico. Dopo l'ordinazione sacerdotale, comincia quello che sarebbe stato, durante tutta la sua vita, il suo lavoro apostolico caratteristico: le missioni popolari prolungate durante trenta lunghi anni attraverso gli Stati pontifici e i ritiri spirituali al clero. Nei pochi momenti che gli restano liberi, a Macerata si dedica allo studio della spiritualità e alla composizione delle sue opere. Di tutte, solamente una, La vita di suor Maria Crocifissa Satellico (Venezia 1750), appare durante la sua vita e, dopo quattro edizioni, è posta all'indice dei libri proibiti nel 1769 forse perché l'autore si pronuncia molto chiaramente sulla santità della religiosa, senza che vi sia stato un precedente giudizio ufficiale della Chiesa. Tolte alcune affermazioni categoriche, il libro è liberamente stampato nel 1819. Le altre opere di S. appaiono dopo la morte dell'autore: Il discernimento di spiriti per il retto regolamento delle azioni proprie ed altrui (Venezia 1753), Direttorio ascetico (Venezia 1754), la cui diffusione è enorme. La seconda opera conta quattordici edizioni prima di compiersi cinquanta anni dalla sua apparizione. Altra opera dello S. è La Dottrina di s. Giovanni della Croce (un riassunto delle sue opere: Venezia 1815, Lucca 1860, Napoli 1892). Oltre queste opere ve ne è una incompiuta che alcuni (O. Marchetti) attribuiscono a S.: Vita della serva di Dio Angela Cospari fondatrice delle sigg. Maestre pie in Borgo San Sepolcro. Quest'opera resta incompiuta per la morte dello S. avvenuta l'11 gennaio 1752.

II. Insegnamento spirituale. L'opera forse più originale e importante dello S. è Il direttorio mistico (Venezia 1754). Contiene cinque parti dedicate ai " direttori di quelle anime che Dio dirige attraverso la via della contemplazione " (p. 532): 1. nozioni preliminari di teologia e psicologia; 2. sulla contemplazione in generale: natura, proprietà, effetti, disposizioni necessarie, ecc.; 3. i dodici gradi della contemplazione che procedono da atti non diversi da essa come l'orazione di raccoglimento, il silenzio spirituale, l'unione fruitiva d'amore, l'unione estatica, il rapimento, ecc.; 4. i gradi di contemplazione che procedono da atti distinti da essa: visioni, locuzioni interiori, rivelazioni, ecc.; 5. la purificazione passiva tanto dei sensi come dello spirito.

Quando S. descrive i diversi gradi di contemplazione s'ispira senza dubbio a Diego Alvarez de Paz, ma sottolinea sempre che l'unione mistica consiste in una conoscenza di Dio tutta sperimentale e piena d'amore. E questa l'opinione dei santi Padri e dei teologi mistici più esperti che S. conserva integra nel suo insegnamento, ma l'esperienza lo ha convinto dell'importanza della direzione spirituale per chi desidera avanzare nella via spirituale e giungere all'unione con Dio, per cui essa diventa preoccupazione costante del suo insegnamento.

Bibl. C. Becker, s.v., in WMy, 451-452; H. Bleienstein, J.B. Scaramelli und sein " Führer auf den Wegen der Mystik ", in ZAM 15 (1940), 124-135; S. Conte, La pratica della direzione spirituale nello Scaramelli, in ScuCat 72 (1944), 40-57, 111-127; L.A. Hogue, s.v., in DTC XIV1, 1259-1263; O. Marchetti, Un'opera inedita... attribuita al P. Scaramelli, in AHSI 2 (1933), 230-257; G. Mellinato, s.v., in DSAM XIV, 395-402; D. Mondrone, s.v., in DES III, 2262-2265.

J. Collantes

SCUOLE DI SPIRITUALITA. (inizio)

Premessa. S'intende qui parlare solo di " scuole " di spiritualità cristiano-cattoliche e non di tutte ma solo di alcune che hanno avuto ed hanno ancora oggi grande influsso nella Chiesa senza voler minimizzare l'importanza di quelle tralasciate. Ci limitiamo, infatti, ad esaminarne cinque: la benedettina, la domenicana, la francescana, la carmelitana, la ignaziana; una dell'alto Medioevo, due del basso Medioevo e due dell'Evo Moderno.

Pur partendo dagli stessi principi biblici del Dio, uno e trino e dell'opera redentrice di Gesù Cristo, esse si diversificano l'una dall'altra non solo per il contesto storico-vitale di tempo e di luogo in cui sono sorte, ma per la personalità dei fondatori, per l'accentuazione di una verità dogmatica o di un aspetto della vita di Cristo e di conseguenza per la pratica preferenziale di una virtù caratteristica. Per illustrare ciascuna " scuola " ci serviremo del seguente schema: a. il fondatore e i suoi seguaci; b. i fondamenti dottrinali; c. le pratiche specifiche; d. i riflessi mistici.

1. La scuola benedettina. Anche se non la prima in senso assoluto, essendo stata preceduta per lo meno dalla tradizione di s. Basilio e di s. Agostino, è quella che ha dominato quasi esclusivamente l'Occidente europeo durante tutto l'alto medioevo senza perdere di intensità nei secoli seguenti fino ai nostri giorni.

a. Il fondatore e i suoi seguaci. La s. b. prende le mosse da s. Benedetto, detto appunto " il patriarca del monachesimo occidentale " che con la Regula monasteriorum e la costruzione del monastero di Montecassino diede l'avvio al movimento della vita cenobitica. Da questo ceppo si svilupparono altri germogli che ne arricchirono la portata ecclesiale e sociale in un continuo rinnovamento e benefica evoluzione: i cluniacensi o " monaci neri ", i cistercensi o " monaci bianchi ", i camaldolesi, i vallombrosani, i certosini, i silvestrini... e in ultimo i trappisti... Fra tanta fioritura di uomini si stagliano le forti personalità di s. Gregorio Magno, di s. Pier Damiani, di s. Anselmo, arcivescovo di Canterbury e di s. Bernardo abate di Clairvaux.

b. I fondamenti dottrinali. Non essendo possibile una sintesi univoca per la varietà degli autori che si susseguirono nell'arco di parecchi secoli con sfumature personali, ci limiteremo a fermarne il fondo comune da cui nessuno prescinde. In tutti s'intravedono queste idee: la celebrazione della vita monastica: " Extra claustra, nulla salus ", prevalendo ancora la visione dualistica di inconciliabilità tra corpo e anima, tra mondo e Vangelo di derivazione greco-romana e patristica; un senso di distacco tra Dio e l'uomo concependo l'uno come somma maestà sia nella creazione come nella redenzione - il Cristo " Pantocrator " - e l'altro come incapace di bene e vittima del peccato; il parallelismo tra la società civile e quella ecclesiastica frutto del feudalesimo imperante che si risolveva in una organizzazione rigidamente gerarchica e frammentaria.

c. Le pratiche specifiche. S. Benedetto nella sua Regola fa leva sulla " conversio morum " o cambiamento di vita che comporta, in senso negativo: la " rinuncia " al mondo o " fuga mundi " per rinchiudersi nei monasteri, sempre edificati lontano dalle zone abitate e autosufficenti per le varie necessità materiali; la " subjectio abbati " o " obbedienza " per l'ordinamento della vita interna del monastero; la " stabilitas loci " contro ogni nomadismo, per cui il proprio monastero è culla e tomba per ognuno; la " vita comune ", sostanziata dalla pratica di due virtù: l'umiltà nel rinnegamento di sé per evitare ogni privilegio e la rigida povertà personale nel distacco da ogni proprietà, anche minima. Positivamente poi la " conversio morum " esige: l'impegno nella preghiera liturgica, più o meno solenne, da occupare gran parte della giornata e l'applicazione al lavoro manuale o intellettuale, contro ogni sfruttamento e a stimolo delle classi dominanti, viventi di rapine e saccheggi.

d. I riflessi mistici. Tenendo presenti i presupposti dottrinali e le conseguenti pratiche religiose, si spiega come s. Benedetto possa chiamare il suo insegnamento " divini schola servitii ", mirando a mettere l'uomo alla presenza di Dio e di Cristo, sia nell'esercizio della preghiera liturgica e della " lectio divina ", come nel lavoro. Non s'insiste sulla vita di grazia, sull'unione con Dio e sulla contemplazione, ma sulla sintonia tra il sentimento della recita corale e la voce: " Ut mens nostra concordet voci nostrae ", evitando il pericolo del meccanicismo. S. Benedetto resta più asceta - la virtù più studiata è l'umiltà - che mistico, più attento all'esterno e comunitario che all'interno e personale, più preoccupato di scuotere col timore che con l'amore di Dio e di Cristo. Ciò non ha impedito che lo stesso s. Benedetto, come altre sante e santi benedettini, abbiano avuto esperienze di vita mistica e goduto di visioni soprannaturali come di numerose rivelazioni.

2. La " scuola domenicana ". Questa scuola sorge nel basso Medioevo, nel 1200, quando s. Domenico ( 1221) inizia la sua opera di evangelizzazione, fondando l'Ordine dei " frati predicatori ". In un'epoca di vasto risveglio religioso e sociale, intellettuale e morale, con profonde tensioni sul piano disciplinare e teologico, s. Domenico sposa la causa della Chiesa, divenendo con il suo movimento campione della fede cattolica.

a. S. Domenico e i suoi seguaci. S. Domenico, sacerdote e canonico della cattedrale di Osma (Spagna), volendo combattere gli eretici albigesi della Francia meridionale, si mantiene sempre su un piano colto, mentre asceticamente accetta la vita apostolico-evangelica, vivendo in povertà e rompendo gli schemi del monachesimo tradizionale che esigeva la " stabilitas loci ". Tra i suoi seguaci, innumerevoli furono coloro che ne valorizzarono l'eredità; e fra essi possiamo solamente ricordare i più noti per santità e dottrina: s. Alberto Magno, s. Tommaso d'Aquino, s. Caterina da Siena, s. Antonino, arcivescovo di Firenze ( 1459)...

b. I fondamenti dottrinali. Sebbene l'Ordine domenicano abbia sicure ascendenze agostiniane, non vi resta ancorato perché si adegua alla cultura scolastica del momento e tenta di cristianizzare Aristotele ( 322 a.C.), trascurando Platone. Fu una svolta di grande significato, perché si allargò il campo dialettico, filosofico e scientifico, avvantaggiandosene anche la teologia. Da questo fervore culturale conseguì la scelta di alcuni principi filosofico-teologici: il primato dell'intelletto sulla volontà e sull'affetto, l'insistenza sullo studio e la necessità della " contemplazione " divina; i domenicani non trascurano né la " vita comune ", né la mortificazione, né l'ufficio liturgico.

c. Le pratiche specifiche. I domenicani, pur accettando la Regola di s. Agostino che già prevedeva " la vita mista " monastico-canonicale, ne aggiornarono la formula, mantenendo la " vita comune ", ma rinnegando la " stabilitas loci " per darsi ad un apostolato più libero ed incisivo. Ciò comportava: una nuova organizzazione dell'istituto con un'autorità centrale e relative suddivisioni subalterne; una più accentuata adesione alla sede pontificia - l'Inquisizione romana è un loro tradizionale appannaggio -; un culto vivace per gli studi, per i centri universitari e per la produzione letteraria. Inoltre hanno incrementato la devozione alla Madonna lanciando la recita del santo rosario e celebrato la Messa con rito mozarabico di origine spagnola.

d. Riflessi mistici. La s.d. è stata sempre in pieno vigore nella Chiesa sia sul piano dottrinale ad opera dei suoi esimi teologi sia sul piano pratico per i suoi numerosi scrittori mistici come Eckhart, Taulero, Susone..., incitando i cristiani tutti alla perfezione evangelica. Partendo dalla scelta intellettualistica, essa punta sulla " contemplazione " acquisita o infusa di Dio-verità apparendo più teocentrica che cristocentrica. Sviluppa in modo particolare la teoria e l'azione della grazia di Dio come dei doni dello Spirito Santo, da offuscare quasi la partecipazione attiva dell'uomo per cui qualche autore mistico dei sopraricordati fu sconfessato e la sua opera inserita nell'Indice dei libri proibiti.

B3. La scuola francescana. Sempre nel basso Medioevo nei primi del '200, cioè contemporaneamente a quella domenicana, appare la s.f. dovendo affrontare le stesse problematiche ecclesiastiche e civili per avviarle verso soluzioni accettabili e feconde per la cristianità. Si sviluppa per opera di s. Francesco d'Assisi che fondando il primo Ordine per uomini consacrati, i frati minori, il secondo per donne consacrate, le clarisse e il terzo per persone coniugate, i terziari, sembrò dare un respiro cristiano cattolico a quelle tensioni restaurando così la Chiesa come gli aveva detto il Crocifisso di San Damiano.

a. S. Francesco e i suoi seguaci. Non essendo s. Francesco (1226) né sacerdote né letterato come s. Domenico sceglie una diversa strategia d'azione avvicinandosi al popolo con la testimonianza di una povertà radicale con la semplice predicazione di penitenza e nel pieno rispetto della gerarchia ecclesiastica. Non ammettendo poi neppure la proprietà comune svolge un apostolato itinerante non solo in mezzo ai fedeli, ma anche nelle terre degli infedeli aprendo l'era delle missioni moderne. Enorme fu la ripercussione della sua opera che fu ampliata ed approfondita dai suoi seguaci fra cui possiamo ricordare s. Antonio da Padova, s. Chiara da Assisi, s. Bonaventura, Giovanni Duns Scoto ( 1308), Raimondo Lullo, s. Bernardino da Siena, s. Pietro d'Alcántara...

b. I fondamenti dottrinali. Dagli Scritti di s. Francesco e dei suoi sopraddetti seguaci che ne hanno interpretato le intuizioni si constata che la s.f. si riallaccia alla tradizione platonico-agostiniana, si mantiene più concreta che speculativa e, di conseguenza, sposa il primato della volontà sull'intelletto, valorizza l'affettività come pure l'azione. Partendo poi dal concetto che Dio è il " Sommo Bene ", ne deduce che la felicità umana consiste nella sua fruizione, onde il motto: " Gustata aliis tradere "; insiste anche sulla visione centrale del Cristo come mediatore unico di natura, di grazia e di gloria, prendendovi particolare rilievo la presenza della sua Madre SS.ma; diffonde, infine, un profondo senso di pacificazione e di fraternità cosmica essendo pervasa da un ottimismo incorregibile.

c. Le pratiche specifiche. S. Francesco respira il suo tempo e ne trasfigura le leggittime aspirazioni per un ritorno all'osservanza del Vangelo nell'imitazione del Cristo crocifisso e della vita degli apostoli al di fuori di ogni formula monastica tradizionale. Si esaltano così l'itineranza incessante, la predicazione popolare, la povertà assoluta sostenuta dal lavoro e dalla mendicazione, la libertà spirituale nella riduzione delle penitenze e delle mortificazioni corporali. Se ne avvantaggiò soprattutto l'organizzazione del primo Ordine, i frati minori, che fece perno sulla persona del Ministro Generale che aveva autorità diretta su ogni identità subalterna e sugli individui. S. Francesco poi mantenne fede salda verso il Romano Pontefice e la gerarchia cattolica; adottando, inoltre, il rito della Curia romana per la recita dell'Ufficio divino e per la celebrazione della Messa, ne favorì la diffusione. Infine la s. f. ha incrementato la devozione all'umanità di Cristo nei suoi misteri nodali del presepio, della croce e del tabernacolo, come pure il culto alla Madonna, difendendone il privilegio dell'Immacolata Concezione, diffondendo il suono dell'Ave Maria e la recita della corona delle " sette allegrezze".

d. I riflessi mistici. L'atmosfera mistica è proprio l'ambiente vitale dei francescani incominciando da s. Francesco e s. Chiara per arrivare a s. Bonaventura, il " principe dei mistici " alla b. Angela da Foligno, a s. Caterina da Bologna, alla b. Battista Varano, a s. Pietro d'Alcántara, a Maria d'Agreda, a s. Carlo da Sezze... Tutti insistono sull'identificazione al Cristo e per mezzo di lui sul pervenire alla piena conformità alla volontà del Padre in un supremo gesto d'amore e di totale abbandono al Sommo Bene. Prevale l'esperienza mistica dei carismi sulla teorizzazione, anche se questa non è assente specialmente nell'approfondimento dei doni dello Spirito Santo e delle beatitudini evangeliche. Merito, poi, innegabile della s.f. è l'aver universalizzato l'obbligo della perfezione cristiana additandola anche alle persone coniugate ed impegnate nelle faccende secolari con l'istituzione del Terz'Ordine chiamato oggi Ordine francescano secolare.

4. La scuola carmelitana. Sebbene come " scuola " si affermi nell'età moderna, il '500, i carmelitani hanno origini che risalgono al sec. XII quando alcuni eremiti si ritirarono sul Monte Carmelo ove era già vissuto il profeta Elia. Passando poi dall'Oriente all'Occidente europeo nel '200 subirono l'influenza dei due Ordini recenti: domenicano e francescano abbandonando in parte l'eremitismo primitivo, dandosi all'apostolato e alla cultura. Proprio nel '500 con la riforma iniziata da s. Teresa d'Avila e proseguita da s. Giovanni della Croce si afferma questa s.c. che è tra le più significative.

a. Santa Teresa e i suoi seguaci. L'avvio alla s.c. è dato dai due santi Dottori della Chiesa: s. Teresa d'Avila e s. Giovanni della Croce che, impegnati nella stessa riforma, scrissero varie opere validissime di argomento ascetico-mistico basandosi sulle loro esperienze personali, sebbene non immuni da letture di autori precedenti. Essendo il tempo del Concilio di Trento (1545-1563) e della Controriforma cattolica, la loro azione fu accolta universalmente e diede frutti copiosi non solo in seno all'Ordine carmelitano e nella Spagna ma in tutta la Chiesa. Innumerevoli i loro seguaci fra cui non si può dimenticare s. Teresa di Lisieux, che con la sua autobiografia Storia di un'anima lanciò la formula dell'" infanzia spirituale ".

b. I fondamenti dottrinali. Avendo semplicemente descritto, tanto s. Teresa d'Avila quanto s. Giovanni della Croce, i fenomeni mistici della loro vita, non hanno speculato su di essi né si sono appellati a teorie filosofico-teologiche perché hanno tenuto presenti come destinatari i loro discepoli. Vi si avverte anzi un inconfessato senso antintellettualistico, anche se si premurano di analizzare scrupolosamente le emozioni e i doni soprannaturali di cui si sentono arricchiti. Partono, infatti, dalla dottrina comune ribadita dal Concilio di Trento contro i protestanti sul peccato, sulla responsabilità dell'uomo e sull'obbligo della perfezione cristiana senza alludere a specifiche deviazioni dottrinali del loro tempo.

c. Le pratiche specifiche. Se si guarda lo schema organizzativo dell'Ordine, i carmelitani appaiono paralleli ai movimenti del basso Medioevo chiamati " mendicanti " avendone adottato la formula dell'autorità centralizzata e della " vita mista ", accantonando il primitivo eremitismo di matrice orientale. Neppure la riforma del '500 interruppe questa linea ormai assodata, pur avendo richiamato con vigore la pratica del silenzio, della solitudine, della mortificazione e della preghiera additati però come mezzi di autentico apostolato. Anche nelle pratiche di pietà questa " scuola " si presenta biforcata: da una parte, si è adattata ai tempi moderni esaltando un possente cristocentrismo e, dall'altra, ha mantenuto gelosamente una spiccata devozione mariana risalente alla indimenticabile cappella della Madonna sul Monte Carmelo, propagandandone lo " scapolare ".

d. I riflessi mistici. Secondo questa scuola, due sono i mezzi per arrivare all'unione con Dio: la preghiera e la contemplazione, perciò ambedue questi elementi vengono analizzati scrupolosamente nel loro sviluppo progressivo. Tanto la preghiera, infatti, quanto la contemplazione liberano l'uomo dagli impedimenti che lo tengono lontano da Dio: la prima attraverso la " notte dei sensi ", attuata nella mortificazione, nella penitenza, nel distacco da sé e da ogni appetito terreno; la seconda, attraverso la " notte dello Spirito " vissuta, nell'aridità spirituale e nel dubbio sulla fede. Si arriva così allo sposalizio " con Dio " in due momenti: il " fidanzamento " e il " matrimonio ". E il trionfo dell'amore e della carità totale ove l'uomo quasi scompare ridotto al nulla e Dio troneggia rivelandosi il tutto. Ne deriva il motto programmatico: " nada " (uomo) e " Todo " (Dio); a merito della s.c. vanno notati due pregi: la novità del linguaggio e l'equilibrio nei rapporti di radicale relazione tra Dio e l'uomo.

5. La scuola ignaziana. Sempre nell'età moderna, il '500, accanto alla s.c. sorge vigorosa quella ignaziana o gesuitica per opera di s. Ignazio di Loyola e della sua Compagnia di Gesù. Mentre, però, la s.c. ha radici anteriori e si mantiene nell'alveo degli Ordini mendicanti, la s.i. è totalmente nuova senza addentellati con la tradizione monastica, sposando l'attività apostolico-sacerdotale, ignorando quasi la vita comunitaria per una maggiore disponibilità personale alle diverse prestazioni pastorali. Rispondendo perciò essa alle esigenze del suo tempo, non trovò ostacoli per inserirsi potentemente nelle correnti culturali della Chiesa apportandovi notevole contributo.

a. S. Ignazio e la sua " Compagnia ". Ultima in questa sede, ma non ultima per importanza e validità la s.i. ha origine e fa perno su s. Ignazio di Loyola che fondò la " Compagnia di Gesù " radicandola sui suoi scritti principali: il libro degli Esercizi, le Costituzioni e l'Epistolario. Per arginare l'onda protestantica e rivitalizzare la Chiesa, egli assume le direttive della Controriforma Cattolica. Essendo stato soldato, ha una mentalità militare e dà alla sua " Compagnia " non solo il nome, ma una struttura altamente gerarchizzata. Questa rigida fisionomia non perde mordente nei seguaci che ne approfondiscono i germi vitali come si può constatare nella serie rigogliosa di santi molto illuminati: s. Francesco Saverio ( 1552), s. Pietro Canisio ( 1597), s. Alfonso Rodríguez ( 1617), s. Roberto Bellarmino... e di scrittori illustri in campo filosofico, teologico e ascetico-mistico: Alfonso Rodríguez ( 1616), Francesco Suarez ( 1617) Alvarez de Paz, Luigi Lallemant, Paolo Segneri ( 1694), Gianbattista Scaramelli... fino ai nostri giorni.

b. I fondamenti dottrinali. S. Ignazio e i suoi figli respirano profondamente l'atmosfera umanistico-rinascimentale che esalta la dignità dell'uomo per cui essi non tendono alla sua annichilazione, ma a raddrizzarne le deviazioni. L'uomo, infatti, è nato per dare gloria a Dio e per servire alla sua divina maestà sull'esempio di Gesù Cristo, l'uomo perfetto. Tutto ciò che può ostacolare questo cammino dev'essere rigettato, onde l'insistenza sull'esercizio delle virtù morali e teologali e soprattutto sullo sforzo di rettificare l'intenzione nei rapporti con gli uomini e le cose ovunque Dio si riveli. Ancorati saldamente alla dottrina tridentina della Chiesa, con rinascente impegno culturale, combattono a viso scoperto gli errori del loro tempo propagandati dal protestantesimo, dal giansenismo e dal quietismo...

c. Le pratiche specifiche. I gesuiti sono totalmente entro l'ambientazione dell'età moderna e assumono la formula dei " chierici regolari " non distinguendosi che accidentalmente dalle altre " Congregazioni " contemporanee come i teatini, i somaschi, i barnabiti, i lazzaristi... Si diversificano, però, da esse per il dinamismo travolgente, per il taglio militaresco e duraturo dell'educazione personale, per il maggiore impegno nei molteplici settori dell'apostolato, per l'apertura missionaria, per il voto di obbedienza al Romano Pontefice... Sul piano concreto, la s.i. ha diffuso la pratica degli " Esercizi spirituali ", dell'esame di coscienza e del ritiro mensile, la devozione al Sacro Cuore di Gesù, le " Congregazioni mariane " per l'associazionismo cattolico, i " collegi " per lo studio, l'apostolato della preghiera...

d. I riflessi mistici. Pur partendo dal motto " Ad majorem Dei gloriam ", la s.i. blocca l'attenzione sul Cristo obbediente totalmente alla volontà del Padre nell'opera della redenzione in favore dell'umanità. Ne deriva una forte spinta all'azione apostolica per cui si può parlare di una " mistica dell'azione ". Non che si dimentichi la contemplazione: si fondono i due momenti per diventare " contemplativi nell'azione " e " attivi nella contemplazione ". Si scruta fino in fondo la psicologia dell'uomo e si assegna un compito ad ogni sua facoltà per valorizzarne le risorse per un proficuo esercizio delle varie virtù e le pratiche di pietà. Infatti, si insiste in modo particolare sull'" obbedienza cadaverica " e sulla preghiera nei suoi diversi aspetti. Se ne conclude che la s.i. è anche antropocentrica e teocentrica oltre che cristocentrica, più ascetica che mistica, più concreta che speculativa...

Conclusione. Come si può notare da questa breve carrellata, si è solo illustrato più che esaurito l'argomento delle s. Soltanto per necessità di spazio ne abbiamo esaminato cinque che ci sono apparse più presenti nella cultura contemporanea, pur riconoscendo che altre avrebbero meritato pari menzione avendo ognuna una propria fertilità nel campo della Chiesa cattolica. La preferenza è stata determinata dalla specificità della dimensione mistica di cui ciascuna è portatrice per non ripetere concetti comuni o particolari di scarsa importanza.

Bibl. Oltre alle opere generali e collettive: Le scuole cattoliche di spiritualità, Milano 1949; Le grandi scuole di spiritualità cristiana, Roma 1984; R. Blatnicky, Il concetto di " Scuola di spiritualità ", in Rivista di Pedagogia e Scienze religiose, 5 (1967), 48-108; L. Bouyer - E. Ancilli - B. Secondin, Storia della spiritualità, 10 voll., Bologna 1984ss.; V. Grossi - L. Borriello. - B. Secondin, Storia della spiritualità, 8 voll., Roma 1987ss. e alla voce relativa del DSAM IV1, 116-128 si possono consultare ancora: 1. Per la spiritualità benedettina: Aa.Vv., San Benedetto agli uomini di oggi, Roma 1980; A. Quaglia, S. Benedetto e s. Francesco. Due regole a confronto, Padova 1990; G. Turbessi, Ascetismo e monachesimo in s. Benedetto, Roma 1965. 2. Per quella domenicana: P. Lippini, La Spiritualità domenicana nella legislazione e nella storia dell'Ordine, Bologna 1958; M. Vicaire, Storia di s. Domenico, Alba (CN) 1960. 3. Per quella francescana: M. Ciccarelli, I capisaldi della spiritualità francescana, Benevento 1955; T. Matura, Il progetto evangelico di s. Francesco d'Assisi oggi, Assisi (PG) 1979; A. Quaglia, S. Benedetto e s. Francesco... già citato. 4. Per quella carmelitana: E. Ancilli, Il Carmelo. Invito alla ricerca di Dio, Roma 1970; Gabriele di s. Maria Maddalena, La spiritualità carmelitana, Roma 1943; 5. Per quella ignaziana: J. de Guibert, La spiritualité de la Compagnie de Jésus, Toulouse 1938; K. Rahner, La mistica del servizio. Ignazio di Loyola e la genesi storica della sua spiritualità, Milano 1959.

A. Quaglia

SCUPOLI LORENZO. (inizio)

I. Vita e opere. Nasce ad Otranto verso il 1530; è battezzato con il nome di Francesco. Nel 1569 è ammesso tra i teatini di Napoli, dove il 25 gennaio 1571 fa la professione con il nome di Lorenzo. Ordinato sacerdote nel 1577, esercita il ministero a Piacenza e a Milano insieme a s. Andrea Avellino ( 1608), suo maestro di noviziato. Nel 1581 è destinato alla casa di Genova. Calunniato di grave colpa rimasta ignota, è condannato al carcere per un anno e sospeso " a divinis " dal Capitolo generale del suo Ordine nel 1585. S. si sottomette così esemplarmente alla dura pena da acquistare grande fama di singolare virtù. Soltanto nel 1610 sarà pienamente riabilitato. Nel 1588 è trasferito alla casa di Venezia. Qui, nel 1589, esce anonima la prima edizione del suo libro Combattimento spirituale, attribuito a " un servo di Dio ", in ventiquattro capitoli. Nello stesso anno, ancora a Venezia, appare la seconda edizione, di trentatré capitoli. Un ulteriore aumento di ventisette capitoli si trova nell'edizione di Napoli del 1599. L'anonimato cessa, dopo oltre cinquanta edizioni, con l'edizione di Bologna del 1610, che esce con il nome dell'autore, Lorenzo Scupoli, subito dopo la sua morte, avvenuta a Napoli il 28 novembre dello stesso anno. Il testo più conosciuto è quello di sessantasei capitoli, pubblicato la prima volta nell'ed. di Roma del 1657, a cura del teatino Carlo De Palma sul manoscritto dello S. e sulle migliori edizioni precedenti.

II. La dottrina. L'opera dello S. è stata definita " un corso di strategia spirituale " (P. Pourrat). In essa, infatti, troviamo esposto un piano metodico di lotta interiore contro se stessi e contro le passioni per " accostarsi sempre più a Dio e diventare uno stesso spirito con lui " (c.1). Per riuscire in questa che è " la più grande e nobile impresa " si propone l'uso di quattro " armi sicurissime e necessarissime ": la diffidenza di sé (c.2), la confidenza in Dio (c.3-6), l'esercizio (c.7-43), l'orazione (c.44-60). Per lo S. l'evangelica abnegazione di sé (Mt 16,24) si concretizza e si attua in un agonismo interiore che tende a " regolare talmente la volontà da renderla in tutto conforme al compiacimento divino " (c.10). Un programma intenso e pratico, che prende l'uomo nella sua totalità: intelletto (c.7-9) e volontà (c.10-11), passioni e appetiti (c.12-18), sensi e sentimenti (c.19-26). Tutto dev'essere " conquistato " (c.33-43) e offerto, in un sacrificio di puro amore a Dio in Cristo (c.58). E un esercizio interiore che scava in profondità e che " va fatto con fortezza d'animo ", per seguire e imitare Cristo " divin capitano, in onore del quale si combatte " (c.15). Il desiderio di questa sequela e di questa imitazione muove l'anima a unirsi ai sentimenti più intimi di Gesù, in un rapporto vitale e trasformante che ha il suo centro e il suo apice nella comunione eucaristica (c.53-59). L'orazione, fatta di meditazione, di contemplazione, di colloqui, di giaculatorie, deve permeare tutta la vita, portarla ad una esperienza forte di Dio e arrivare alla semplicità e alla quiete di uno sguardo pieno di puro amore, nel quale, senza nulla dire, " io miro e rimiro tale Signore " (c.45). Lungo il trattato si evidenziano non solo l'aspetto ascetico della vita mistica, ma anche quello dell'amore e della pura amicizia con Dio, per fare in tutto solo quello che a lui è gradito (c.55). Per lo S., pertanto, l'ascesi esposta è il passaggio obbligato per giungere all'unione mistica.

Lo stile denso, chiaro e preciso, e spesso diretto, dimostra che l'autore aveva assimilato e vissuto sperimentalmente la dottrina che propone.

Il Combattimento spirituale è come una conclusione sintetica e un frutto delle idee e delle correnti spirituali che caratterizzarono il sec. XVI, principalmente in Italia, e che si manifestarono specialmente nei Chierici regolari. Il libro è come un autoritratto spirituale non solo dell'uomo che ne fu l'autore, ma anche di tutta la sua età.

Bibl. F. Andreu, s.v., in EC XI, 203-204; E.M. Lajeunie, S. François de Sales. L'homme, la pensée, l'action, Paris 1966, 165-174; B. Mas, s.v., in DES III, 2276-2278; Id., s.v., in DSAM XIV, 467-484; I. Mercier, s.v., in DTC XIV, 1745-1746; W.V. Mudon, Theatine Spirituality. Selected Writings, New York 1996, 1-63; M. Petrocchi, Storia della spiritualità italiana (secc. XIII-XX), Roma 1984, 221-223; A. Portaluppi, Dottrine spirituali, Alba (CN) 1943, 170-171, 174-176; P. Pourrat, La spiritualité chrétienne, III, Paris 1926, 358-368; I. Silos, Historiarum Clericorum Regularium, Pars II, Roma 1655, 77-279, Pars III, Palermo 1666, 606; A.F. Vezzosi, I Scrittori de' Cherici Regolari detti Teatini, II, Roma 1780, 276-301. Cf Le introduzioni alle edizioni più recenti del Combattimento spirituale, come quelle di New York 1978, Milano 1985, Cinisello Balsamo (MI) 1992, Madrid 1996.

B. Mas

SECOLARISMO. (inizio)

I. Nozione. S. indica l'esito peggiore - fuorviante perché ideologico (stat, pro ratione, voluntas) - del complessivo e per sé " neutro " processo storico-culturale attraverso il quale l'uomo progressivamente si emancipa da interferenze sacro-religiose percepite (e talvolta lo sono veramente) come eccessivealienanti. Quindi, non è il processo in sé a fare problema - ché una qualche desacralizzazione potrebbe essere benefica alla fede stessa (cf la demitizzazione bultmanniana, nel suo nucleo essenziale) -, bensì lo spirito o atteggiamento ideologico con il quale si affronta e gestisce tale processo, sicché gli esiti risultano diametralmente opposti: al recupero della migliore secolarità (in corretta partnership tra Dio e l'uomo: cf GS), nella secolarizzazione moderata, corrisponde l'esclusione di ogni riferimento trascendente, considerato inutile e addirittura dannoso, nella secolarizzazione radicale o s. che, emblematicamente, recita: " Dio, se c'è, che fa? E se non c'è, tutto è lo stesso! " (J.P. Sartre). D'altronde, sotteso a questi opposti esiti (cf secolarizzazione) c'è un fascio di questioni per niente facili come, per es., di quale sacroreligioso si tratta? e queste categorie sono omologabili tout court con l'autentico Dio rivelato, per definizione Mistero Tutt'Altro e categoriabile solo analogice? A tali questioni il s. risponde abbreviando semplicisticamente e concludendo all'espulsione della trascendenzaescatologia dal cosmo sociale (perciò stesso rinchiudendolo nella gabbia dell'immanentepenultimo).

Un tale s. - che rappresenta l'ipostatizzazione del saeculum (=questo mondo), gestito in proprio dall'uomo, senza rimandi (ontologici né etici) trascendenti - è maturato per fasi successive, cui hanno dato mano le varie scienze dell'uomo (filosofia e psicosociologia soprattutto), via via passando dall'ateismo di assimilazione, che riteneva Dio " immanente e produttore dell'energia del mondo ", all'ateismo di sostituzione, con l'emblematica radicazione del fatto morale nella società e non più in Dio (E. Durkheim, 1906), per concludersi ai nostri giorni con l'ateismo dissolutivo (caratterizzante la fine stessa della modernità). Un ateismo dissolutivo che nel s. - ecco il punto qualificante - non enfatizza tanto la negazione di Dio, ritenuto ormai una " moneta fuori corso ", quanto il regnum hominis, col triplice primato del fare sul contemplare, del tecnico sull'etico, dell'avere sull'essere, che ultimamente sfocia nel dogma fondamentale del produrre per consumare e viceversa. In questo scenario, la religione decade a fatto privato, meramente soggettivo, de-istituzionalizzato; a un puro bricolage se non a un optional, che non interessa la maggioranza dei tecnopolitani... Anche se, tra i grattacieli, proliferano apprendisti stregoni, riflusso del sacro, movimenti religiosi alternativi, sette, New Age ecc., mentre si verifica un'esplosione selvaggia di eros parallela alla rimozione della morte, con le questioni ultime che essa evoca. In breve, perché la caduta dell'esperienza religiosa autentica, non sublimando più i bisogni bio-psico-sociali dell'uomo, lo apre sulla voragine del nonsenso (S.S. Acquaviva). Non è questa la spiegazione ultima della crisi attuale (alle soglie del postmoderno), ma innegabilmente è la conclusione più vistosa del s. che ha assemblato l'ala peggiore della modernità: Dio come mito infantile, estromesso dalla scienza (A. Comte), come sovrastruttura ideologica (K. Marx), come malattia psichica (S. Freud), come rappresentazione e garanzia collettiva della società (E. Durkheim).

Nell'accezione globale che qui interessa, le prime forme del s. appaiono in Inghilterra nel 1846, quando G.J. Holyoake fonda la " Londoner Secular Society ", il cui programma - condensato nel termine s. che appare qui per la prima volta - consiste nell'interpretare e regolare la vita a prescindere da Dio e dalla religione. Tra gli epigoni nel mondo anglosassone ricordiamo sia la " World Union of Free-Thinkers ", su base positivistica e a carattere molto irreligioso - fondata nel 1869 in occasione del Congresso anticlericale di Napoli (il suo esponente più rapprentativo ai nostri giorni fu B. Russel); sia l'Humanist Manifest, lanciato nel 1933 in USA e nel quale si riconobbero a lungo i due gruppi universitari "The Chicago Family" e "The Columbia Family"; sia l'"International Humanist and Ethical Union" fondata nel 1952, cui sono affiliate varie organizzazioni e la cui presenza è attiva negli organismi internazionali tipo FAO, UNESCO, ecc.; sia l'" Associazione Umanistica Olandese " e le varie Logge massoniche, il cui vago deismo prepara meglio d'ogni altra strategia l'ateismo de facto e la rifondazione autonoma dell'etica laicista. Nel resto d'Europa, una versione del s. inglese è rintracciabile presso il filosofo V. Cousin e discepoli, in Francia - riguarda soprattutto l'emancipazione dell'insegnamento in genere e della filosofia in specie dall'ancillaggio teologico -, mentre in Germania troviamo la " Deutsche Gesellschaft für ethische Kultur " nella quale si riunirono, nel 1892, positivisti e tecnocrati infatuati dal valore avveniristico della scienza e della tecnica. Tra l'altro, E.Lang sognò in quegli anni una Lega di Stati, che definì " l'analogon secolarizzato del papato medievale ". Anche se il futuro prossimo doveva smentire tragicamente queste illusioni - cf. Prima Guerra mondiale, letteratura della crisi, ecc., - il s. di fine '800 e primo '900 si caricò di tale faziosità ideologica e antireligiosa da rendere tuttora arduo un discorso obiettivo sui vari aspetti della secolarizzazione, nonostante l'importante decantazione operata da M. Weber, E. Troeltsch, ecc. negli anni Trenta.

II. S. e teologia. E in base a questa provvidenziale decantazione ideologica e semantica che, negli anni Sessanta, in area protestante - ma in significativo parallelo con l'ottimismo del Vaticano II (cf GS) e la sua fiduciosa interpretazione dei " segni del tempo " - è attecchita la teologia della secolarizzazione che, una volta per tutte, ha distinto gli opposti esiti dell'unico (e per sé " neutro ") processo di emancipazione: infatti, l'uomo (figlio maggiorenne) può cogliere e valorizzare la migliore partnership con Dio (Padre), oppure - come registrato in tutta la Bibbia - può anche ribellarsi e opporvisi (la possibilità di autodistruzione è il rischio compreso nel dono stesso della libertà: cf Gn 3). Al contempo, e non meno significativamente, occorre osservare l'evoluzione avvenuta nei documenti ecclesiastici che, superando la tradizionale ma ristretta accezione di offesavulnus all'integrità materiale e spirituale della Chiesa, distinguono accuratamente il processo socioculturale dagli opposti esiti (socioculturalmente corretti o ideologicamente forzati). Illuminante quanto disse Paolo VI alla Plenaria del Segretariato per i non credenti (Oss. Rom., 19 marzo 1971): la secolarizzazione, implicante un'autonomia crescente del profano (da un malinteso sacro), è un fatto caratteristico della nostra civiltà occidentale, ed entro certi limiti è lecita (cf. GS e fonti bibliche). Bisogna però distinguerla dal s. in cui può facilmente degenerare, come ha rilevato lo stesso H. Cox, ne La città secolare (citaz. esplicita del Papa). Ancora: il s. è una forma di materialismo e, come tale, esclude ogni riferimento a Dio e alla trascendenza. In questo senso una secolarizzazione radicale (=s.), che svuota la città umana di ogni riferimento a Dio, costituisce il nemico mortale del cristianesimo e apre la via al nichilismo (di cui, in altro senso, è la forma più sofisticata: alla fine della modernità).

Bibl. Oltre alla bibliografia italiana ragionata, curata da P. Vanzan e G. Basso, in RasT 11 (1970), 120-141; 13 (1972), 195-213 e 264-287, cf: S.S. Acquaviva, L'eclissi del sacro nella civiltà industriale, Milano 19754; S.S. Acquaviva - R. Guizzardi, (cura di), La secolarizzazione, Bologna 1973; S.S. Acquaviva - R. Stella, Fine di un'ideologia: la secolarizzazione, Roma 1989; R. Bellah, Al di là delle fedi. Le religioni in un mondo post-tradizionale, Brescia 1975; P. Berger, L'imperativo eretico, Leumann (TO) 1987; D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Cinisello Balsamo (MI) 1988; P.M. van Buren, Alle frontiere del linguaggio, Roma 1977; S. Burgalassi - C. Prandi - S. Martelli, Immagini della religiosità in Italia, Milano 1993; H. Cox, La città secolare, Firenze 1968; Id., La seduzione dello spirito, Brescia 1974; L. Gilkey, Il destino della religione nell'era tecnologica, Roma 1972; F. Gogarten, Destino e speranza dell'epoca moderna, Brescia 1972; P. Grassi, Secolarizzazione e teologia, Urbino (PS) 1992; A.M. Greeley, L'uomo non secolare, Brescia 1973; A. Jnijk, Secolarizzazione, Brescia 1973; C.S. Lewis, Scusi, qual è il suo Dio?, Torino 1981; J.F. Lyotard, La condizione postmoderna, Milano 1981; T.W. Ogletree, La controversia sulla morte di Dio, Brescia 1974; G. Patella, Sul postmoderno, Roma 1990; L. Richard, Teologia della secolarizzazione, Roma 1990; J.A.T. Robinson, Il volto umano di Dio, Brescia 1974; J. Sperna Weiland, La fine della religione, Brescia 1974; P. Vanzan, La socioteologia della secolarizzazione vent'anni dopo, in CivCat 132 (1982) 2, 130-142. Cf inoltre: E. Ancilli, Secolarizzazione e vita spirituale, in DES III, 2288-2294; C. Geffré, s.v., in DSAM XIV, 494-508; M. Mannoni, s.v., in DES III, 2282-2288; A. Milano, s.v., in NDT, 14381465; M. Sodi, s.v., in NDL, 1355-1370; P. Vanzan, s.v., in DTI III, 220-231.

P. Vanzan

SECOLARIZZAZIONE. (inizio)

I. Il termine e il suo uso. Parola e categoria dalle molteplici vicende semantiche e ideologiche, anche perché il termine stesso e i fenomeni cui allude sono complessi e variamente ipotecati sia quanto all'etimo, sia quanto alla grammatica e sintassi che le varie scienze utilizzano per spiegarne le valenze. Senza dire che altro è la s. come processo, implicante desacralizzazione e autonomia - ossia il progressivo " disincanto del mondo " (desacralizzazione) e affermazione del protagonismo umano nel fare la storia (gestendo in proprio l'autonomia delle realtà terrene) - e altro sono gli opposti esiti di quel processo: il recupero della corretta secolarità, ma in buona partnership con Dio (cf GS) o l'ideologica chiusura nel secolarismo ateo e immanentista, assolutizzando l'uomo e il suo mondo contro Dio.

Rifacendosi al latino saeculum, nel Medioevo s. indicava prevalentemente la vita nel " mondo " dei cristiani laici - ma anche dei preti diocesani (perciò detti " secolari ", ancor oggi) - distinguendoli, con qualche inflessione negativa, dai monaci che, ritirandosi dal mondo (il profano), acquistavano uno speciale rapporto con Dio (il Sacro), grazie a una " regola " di perfezione (e tali preti sono detti, ancor oggi, " regolari "). Nell'Evo Moderno invece (dal '500 al '900), parallelamente alla divaricazione tra fede e ragione, Chiesa e Stato, ecc., s. venne utilizzata per indicare la progressiva emancipazione della societàculture (secolari), prima dalle istituzioni ecclesiastiche (sacre), e poi anche da Dio (ateismo). Ciò avvenne attraverso una serie di eventi molto diversi, che ricordiamo per evidenziare l'intricata memoria storica di questa categoria e i vari " giochi linguistici " nei quali fu successivamente coinvolta.

Anzitutto, s. fu usata per indicare l'operazione politico-giuridica che vide le autorità civili (secolari) espropriare i beni materiali (sacri) della Chiesa e successivamente, con passo abbastanza breve e logico, giustificare il " latrocinio " de facto con la negazione de jure delle competenze acquisite in oltre un millennio dalla Chiesa nell'ambito materiale e delle relazioni sociali. A questo livello tutto inizia con l'equivoco di Westfalia (1648) e si consuma al tempo della Grosse Säkularisation (1803), grazie pure al supporto delle argomentazioni illuministiche del '700. Quest'ultimo cenno richiama alla memoria che, parallelamente al fatto politico-giuridico, la s. ha pure una valenza filosofico-culturale: quella riguardante l'emancipazione del pensiero in genere e della scuola (Università) in particolare dalla tutela clericale prima, e metafisico-religiosa poi. Emblematica l'opera della Massoneria in quest'ambito, col risultato di orientare il processo di s. verso l'esito peggiore: il secolarismo autarchico-immanentista, che raggiunse l'acme sul finire dell'800, quando il laicismo abolì le Facoltà di Teologia e impresse alla cultura generale la stessa aggressività già vista nella Grosse Säkularisation politica. Per tutte queste vicende la s. ebbe a lungo una risonanza negativa per i cristiani in genere e nella Chiesa cattolica in particolare (cf la " questione romana "), finché verso la metà del '900 - in significativo parallelo col dibattito sulla " fine della modernità " - le rivisitazioni di M. Weber, E. Troeltsch, R.E. Park, T. Parsons, H. Becker, ecc., proposero un'altra spiegazione dei citati fenomeni socioculturali e politici: non interpretandoli come semplicistiche reazioni anticlericali (e verso quale Chiesa?) o pura emancipazione dal sacro (ma quale?), bensì come non facili, ma promettenti tentativi di " sintesi " tra il meglio di ieri (tradizione giudeo-cristiana) e il meglio di oggi (innovazione moderna), per costruire un miglior domani (l'orizzonte postmoderno).

E così, nonostante tutto, gli esiti dei mutamenti socioculturali, politici e religiosi avvenuti nell'Occidente moderno, che hanno favorito la svolta dall'interpretazione religiosa a quella secolare della vita o anche il cosiddetto passaggio dalla societàcultura " agricola-chiusa-sacrale " a quella " industriale-aperta-secolarizzata ", vanno considerati " ambigui ", ma non destinati fatalmente al peggio. Il peggio avviene quando - per esempio nel secolarismo, ripetiamolo - si butta via, con l'acqua sporca di una malintesa religionesacralità, pure il bambino della fede autentica e del corretto rapporto tra Dio e l'uomo. Il meglio invece consiste nella purificazione di tale fede dalle sovrastrutture religiosesacrali, così da ritrovare l'impatto col biblico Dio Tutt'Altro: l'unico che soddisfa (e non aliena) le esigenze sia dell'innata esperienza trascendentale di base, sia del migliore protagonismo umano nell'edificare una migliore " città dell'uomo " (peraltro avanguardia del regnum Dei, che i figli maggiorenni realizzano insieme al Padre). L'ambiguità consiste dunque in questo: a un processo di s. fondamentalmente neutro - la progressiva emancipazione di areerealtà mondane (scienza, politica, ecc.) da interferenze religiosesacrali errate o improprie - seguono esiti diametralemente opposti, e cioè l'affermazione dell'uomo (e delle sue capacità di realizzarsi in proprio) contro Dio, o il recupero della migliore partnership tra Dio e l'uomo (cf Gn 1 e 2), col giusto porsi dell'uomo tra Dio e il mondo (F. Gogarten). Sottesa agli opposti esiti trapela poi, innegabilmente, la malintesa o corretta presenza di (e relazione a) Dio nel mondo, sicché dobbiamo alla sociologia postmoderna questi guadagni: la s. non riguarda primo et per se Dio, ma l'uomo, - quindi, non l'aldilà (extracategoriale) ma l'aldiqua (sperimentale); - e del regime sacro-religioso-trascendente si interessa nella misura in cui può mortificare o favorire la complessa realtà huius saeculi. E se, innegabilmente, tale s. può favorire il secolarismo, che nega l'orizzonte escatologico - donde l'avversione di molti verso la s. in blocco -, è anche vero che questo esito avviene per accidens e si può ricondurre o a un errato concetto di Dio e dell'ambito sacro-religioso nella gente, o a una qualche forzatura ecclesiastica nel presentare i rapporti Dio-uomo-mondo (che scatena un'altrettanto errata reazione laica).

II. Teologia della s. Su questi guadagni ha lavorato, negli anni '60, la cosiddetta " teologia della s. ", che non è un'altra scuola o corrente teologica, ma una prospettiva altra secondo cui leggere le vicende complessive dell'Occidente: non più secondo l'apriori ideologico-laicista della progressiva emancipazione del mondo dalla tutela sacro-religiosa per essere finalmente se stesso, bensì in quella della purificazione e migliore realizzazione sia del sacro-religioso sia del mondo alla luce della fede giudeo-cristiana. Una socioteologia o teosociologia, la si è detta, perché ritiene la sociologia il " luogo teologico " privilegiato della nuova evangelizzazione (postmoderna), in quanto consente di entrare dalla parte del tecnopolitano (sua mentalità e lingua), ma per " uscire " dall'altra parte, rompendo con la forza biblico-kerygmatica (più che teologico-predicamentale) la clausura del penultimo, in cui la s. diventerebbe secolarismo. E innegabilmente - a prescindere dalle lacune, su cui torneremo - questa socioteologia riuscì a far confrontare il portato essenziale della rivelazione giudeo-cristiana con le altrettanto infrastrutturali emergenze dell'uomo contemporaneo nel quale, a ben guardare, si ripropongono le antiche e sempre nuove sfide tra " dio " e Dio (idoli e JHWH), religione e fede (circoncisione e grazia) uomo minorenne e adulto (cf Gal 4,1s. 1 Cor 13,11). Il grande merito di questa socioteologia consiste nell'aver intuito che anche oggi, non meno di ieri, solo la purificazione delle prime valenze può condurre alla riscoperta delle seconde, cosicché il trapasso socioculturale in atto costituisce sì " il tramonto degli dèi ", ma per riscoprire il vero Dio e, con lui, il vero uomo e il rapporto non alienante tra i due. Ma per fare ciò bisogna procedere con grande acribia e usando l'interdisciplinarità, specie da quando la s. è uscita dalla penombra delle Università e, finita in pasto ai mass media, ha significato tutto e il contrario di tutto: diventando un elemento mitologico o, peggio, una " abbreviazione intellettuale " (T. Luckmann) e un " articolo di consumo ideologico " (P. Berger).

Perciò questa socioteologia, proprio valorizzando i guadagni emersi dall'accennata rivisitazione sociologica postmoderna, ha dimostrato - all'opposto delle prevalenti conclusioni secolariste moderne - come la s. culturale e politica altro non significhi che l'emancipazione dell'uomo e delle realtà mondane (saeculum) dagli influssi non tanto di Dio (extracategoriale per definizione), quanto di un certo sacro-religioso, avvertito come sovrastrutturale, perciò mortificante le possibilità " secolari ". Si tratta, quindi, di fare luce sul vero Dio e sulla corretta partnership Dio-uomo, anche dimostrando come l'enfasi del tecnopolitano nel plasmare il proprio destino senza rimandi ulteriori - discutibilmente intesi come puro aldilà e perciò alienanti - riveli una profonda ignoranza dell'autentico Dio biblico.

Proprio facendo leva sul fatto che l'uomo secolare postmoderno non esclude le dimensioni ulterioritrascendenti (come invece fa il secolarista moderno), la teologia della s. evidenzia come le migliori istanze secolari trovino fonte e culmine proprio nella rivelazione giudeo-cristiana, sicché un cristianesimo purificato ad intra dalle sovrastrutture " religiose " è in grado non solo di parlare efficacemente di Dio, proprio muovendosi " sulla linea di confine " che divide l'ateismo e la religione tradizionalmente intesi, ma pure d'incalzare ad extra la migliore mondanizzazione del mondo e umanizzazione dell'uomo. Il tutto poi in chiave cristologica, perché solo nella figura e opera di Gesù, l'uomo-per-gli-altri, è possibile ritrovare i sentieri perduti che riconducono all'esperienza diretta e personale del Mistero Tutt'Altro (trascendente e ineffabile) di cui, nonostante tutto, pure il tecnopolitano avverte la nostalgia. Senza con questo ricadere nell'alienazione tipo la " religione magica " o il " dio tappabuchi " (D. Bonhoeffer), ma onestamente riconoscendo quanto l'ulteriorità - altro nome della trascendenza, che urge nel cuore dell'uomo - non sia alienante, ma infrastrutturale pure oggi, come ieri e sempre.

Concretamente, questa socioteologia purifica il termineconcetto " religione " da perduranti valenze " sacro-pagane " come qualità delle cose (A.M. Greeley), proprio recuperando l'originale nozione biblica del " santo relazionale " (M.D. Chenu). Infatti, mentre il sacro pagano è una realtà a parte, un " in sé cosale " opposto al profano (pro-fanum = fuori dal fanum: luogo sacro), il santo biblico denota una relazione interpersonale che l'uomo stabilisce col Tutt'Altro ogni volta che questi lo tocca o gli si rivela. Perciò, nella concezione biblica non esistono più il sacro o profano come qualità delle cose, ma solo la relazione (o meno) dell'uomo col Santo. E questo santo relazionale non distrugge o sminuisce ma perfeziona l'uomo e, attraverso di lui, tutte le realtà di cui fa uso santo: in grado cioè di sprigionarne tutte le potenzialità, conforme al detto scolastico: " La grazia suppone la natura e la perfeziona ". Perciò, quando l'uomo usa delle cose secondo i fini loro propri, anche sottraendole a funzioni ritenute sacre, egli le dissacra rispetto alla concezione pagana, ma in forza dell'Incarnazione le cristifica (P. Teilhard de Chardin). Perché questa è la novità rivelata: il Logos incarnato, portando a compimento l'opera del Logos creatore, ha eliminato per sempre la divisione tra sacro e profano, restituendo la sua consistenza al creato (cf 1 Cor 3,23). Perciò il desacralizzare un numero sempre maggiore di cose e fenomeni, che nelle società pretecniche e sacrali ricevevano un'interpretazione religiosasacrale, necessaria per la fondazione e consistenza di quelle società (M. Eliade), lungi dall'essere un male è il benefico risultato della rivelazione biblica, cui la s. è profondamente funzionale (mentre il secolarismo ne rappresenta la caricatura ideologica: H. Cox).

Bastano questi cenni per intravedere la ricchezza e originalità di questa teologia, nella quale confluiscono molteplici elementi: la desacralizzazione (sia della natura che della storia); la demitizzazione del kerygma e la disellenizzazione della teologia; la controversia sulla dereligionizzazione in atto nella tecnopoli; la svolta antropologica e l'avvento del pluralismo culturale; l'ancor incerta trasposizione di credenze e modelli di comportamento dalla sfera " religiosa " a quella " secolare "; la differenza tra religione e fede, talvolta sconfinante in una malintesa escatologizzazione (fuga mundi) o nell'esagerato incarnazionismo (fino agli eccessi secolaristi della " morte di Dio "). Ma proprio questa ricchezza è fonte di vari cortocircuiti: non sempre infatti, " entrando con la posizione altrui ", si esce con la propria! Accade così che, talvolta, questa socioteologia usi semplicisticamente le " abbreviazioni " di sacro, secolare, religione, cristianesimo tradizionale (caricatura della fede?), o non distingua criticamente religione e fede, Dio e JHWH, rischiando di cadere in una nuova specie di monocausalità: quella che spiega il processo di s. non più in chiave secolarista, ma biblico-ottimimista. Sennonché, a omettere le necessarie mediazioni c'è il rischio di sostituire al deus ex machina ideologico del secolarismo quello non meno pericoloso di un'interpretazione fideista della Bibbia. In quest'ottica è significativo che la teologia della s. non cerchi tanto di spiegare i fatti attraverso la conoscenza scientifica, quanto di comunicare risultati interessanti sull'uomo " tra Dio e il mondo ", che ottiene utilizzando materiali elaborati da altri specialisti: di suo c'è l'assemblaggio, e in chiave d'ecumenismo interdisciplinare (ma senza aver ben individuato il metodo né l'oggetto formale propri). Essendo tuttavia possibile liberarla da queste e altre ingenuità, la teologia della s. può ritrovare la sua funzione, che è quella di far riscoprire il valore della fede autentica (esperienza trascendentale di base) anche nella societàcultura postmoderna.

Bibl. vedi alla voce SECOLARISMO.

P. Vanzan

SEGNI DEI TEMPI. (inizio)

I. L'espressione s., sebbene sia di origine biblica (cf Mt 16,3) e, in un certo senso, abbia validi antecedenti nella storia della teologia (si pensi a Melchior Cano [ 1560] e alla sua concezione della storia umana come locus theologicus) ha acquistato una dimensione di autenticità nel magistero pontificio di Giovanni XXIII (il primo ad usarla in maniera esplicita) e nel Concilio Vaticano II del quale si può affermare che fu uno dei capisaldi fondamentali. Dopo il Concilio si è convertita in concetto chiave tanto in teologia come nella pratica pastorale della Chiesa.

Sebbene Pio XII avesse già parlato in varie occasioni di " segni di un'alba nuova ", fu Giovanni XXIII nella Costituzione apostolica Humanae Salutis, con la quale convocava il Concilio, ad usare l'espressione come tale, sottolineando che, pur considerando i gravi mali che si possono constatare con preoccupazione nella società moderna, la Chiesa deve tener ferma la speranza e la fiducia nel Salvatore, scoprendo i segni della sua presenza che lasciano sperare tempi migliori. In seguito, il concetto s. è diventato fondamentale nella struttura della Pacem in Terris (sebbene l'espressione come tale non appaia nell'originale latino) nella quale il papa non solo guarda attentamente a questi segni, ma li cita alla fine di ognuna delle quattro parti che compongono l'enciclica. Anche Paolo VI già dalla sua prima enciclica Ecclesiam suam richiamò l'attenzione sull'importanza che l'essere attenti ai s. ha per la Chiesa e la sua missione. In seguito, usò tale espressione molte volte lungo tutto il suo pontificato.

II. Nel Concilio, l'espressione s. non ebbe un significato chiaro e inequivocabile fino a quando la sottocommissione della terza sessione presieduta dal card. McGrath la definì così: " I fenomeni che per la loro generalizzazione e la loro frequenza caratterizzano un'epoca e attraverso i quali si esprimono i bisogni e le aspirazioni dell'umanità presente ". Sebbene alcuni avessero considerato questa definizione limitata all'aspetto sociologico, essa fu accettata con una unanimità relativa in quanto alcuni esegeti sostenevano che il significato dato dal Concilio fosse diverso da quello dato dalla Scrittura. L'espressione signa temporum appare espressamente in tre testi conciliari: GS 4 (in cui si evidenzia come per compiere la sua missione la Chiesa debba scrutare a fondo i s.); UR 4 (ove si considera l'impegno ecumenico come s.); e PO 9 (ove s'invitano i presbiteri ad ascoltare i laici, perché insieme a loro possano essere interpretati meglio i s.). Si ritrovano espressioni simili in GS 11, 44; PO 15, ecc.

III. Teologicamente, si può dire che la riflessione sui s. inglobi le grandi tematiche della teologia cattolica. Infatti, la fede secondo la prospettiva dei s. non è semplicemente una risposta di adesione intellettuale alla rivelazione quanto un atteggiamento dinanzi ai segni che la storia offre. Soprattutto è importante la dimensione cristologico-escatologica dei signa temporum. Cristo è il segno per eccellenza, il segno della volontà salvifica di Dio e dell'avvento del regno. In un certo senso, Cristo fu ed è segno, significato e significante. In lui siamo stati salvati. Simultaneamente, viviamo nel tempo della speranza, della pienezza della ricapitolazione di tutte le cose in Cristo. Il tempo che va dalla prima realizzazione del regno (già) alla piena realizzazione nell'eschaton nel quale Cristo sarà tutto in tutti (non ancora) è la storia. In questa storia s'incontrano i " segni del Segno ", cioè i segni della presenza del Cristo risorto e vivo nello Spirito, che ci annunciano la vittoria definitiva di Dio ed invitano ad unirci alla corrente salvifica che ci conduce verso l'eschaton.

IV. Discernimento dei s. Poiché la storia umana registra in sé segni negativi e positivi, cioè la lotta tra il male e il bene, la Chiesa è impegnata in un continuo esercizio di discernimento dei s. Secondo la GS occorre, prima di tutto, essere attenti a quanto il segno dice servendosi delle scienze umane nel rispetto della loro autonomia; in secondo luogo, occorre accostare tale segno con una certa " simpatia ", cioè con un atteggiamento cordiale e critico nello stesso tempo (G. Gennari); infine, è necessario giudicare (diiudicare) questi segni non in maniera asettica, ma con la prospettiva, in senso cristiano, della trasformazione del mondo. Non basta, perciò, soltanto scoprire i s.: occorre collaborare con Dio per l'avvento del regno, in un connubio tra grazia e libertà.

V. Sul piano mistico. Ma il processo di discernimento dei s., per la loro stessa natura di segno (quale riferimento ad una realtà ulteriore), esige una certa familiarità o intimità con Dio. Infatti, per comprendere ciò che Dio vuole dirci attraverso i segni saranno di grande aiuto una certa intimità con la sua Parola, la creazione di un silenzio interiore che ci aiuti ad ascoltare meglio e senza interferenze (gusti personali, ideologie, vane illusioni...) i segni della nostra epoca. In definitiva, si tratta di acquisire la mentalità di fede necessaria perché i segni risultino un vero e proprio incontro con la volontà salvifica di Dio (M. Ruiz Jurado). In questo modo la mistica dei segni non allontanerà dal mondo, al contrario lancerà in esso con una visione nuova e più profonda.

Per questo motivo si può affermare che, come tutta la realtà cristiana, questi s. posseggono una certa dimensione mistica che apre orizzonti molto interessanti. Le gioie e i drammi dell'essere umano possono convertirsi in una contemplazione del Cristo morto e risorto e in un incontro personale con lui, così da fare esclamare con il discepolo prediletto, che lo riconobbe nella luce tenue dell'alba: " E il Signore " (Gv 21,7). Per questo motivo, si può affermare che la mistica come vocazione universale alla santità è uno dei s. che affascina le nuove generazioni.

Bibl. M.D. Chenu, La Chiesa nel mondo. I segni dei tempi, Milano 1965; Id., I segni dei tempi, in Aa.Vv., La Chiesa nel mondo contemporaneo, Brescia 1966, 85-102; J. Esquerda Biffet, Magisterio y " signos de los tiempos ". Condicionamiento mutuo?, in Burgense, 10 (1969), 239271; G. Gennari, s.v., in NDS, 1400-1422; J.P. Jossua, Discerner les signes des temps, in VieSp 114 (1966)1, 546-569; X. Quinzá Ilcó, Signos de los tiempos, Panorama bibliográfico, in Miscelánea Comillas, 48 (1991), 253-283; M. Ruiz Jurado, Los signos de los tiempos, in Manresa, 40 (1968), 5-18; J.L. Segundo, Revelación, fe, signos de los tiempos, in Aa.Vv., Mysterium Liberationis, I, Madrid 1990, 443-466; P. Valadier, Signes des temps, signes de Dieu?, in Études, 335 (1971)2, 261-280; D. Valentini, Discorso teologico su " i segni dei tempi ", in Aa.Vv., Spirito Santo e storia, Roma 1977, 193-211.

F. Millán Romeral

SEMPLICITA. (inizio)

I. La nozione. E un atteggiamento profondo della persona che segue i criteri più chiari alla luce di Dio e della propria coscienza. La s. si radica sulla sincerità del cuore e si manifesta in opere buone che glorificano il Padre che è nei cieli.

Per praticare questa virtù, che va unita alla prudenza, Gesù propone il seguente paragone: " Siate... semplici come le colombe " (Mt 10,16; cf Lc 11,34). La colomba è segno della pace proprio per il suo comportamento: candido, innocuo, improntato alla bontà.

Come l'occhio è " la lucerna del corpo " (Mt 6,22), così l'anima del cristiano dev'essere trasparente nelle opere e retta nei giudizi. Dio rivela i segreti dell'arcana sapienza ai piccoli (cf Mt 11,25), cioè a coloro che non hanno doppie intenzioni e si comportano come bambini fiduciosi nella bontà del padre.

II. Nella vita cristiana la s. è una virtù strettamente unita alla verità. I semplici di cuore sono trasformati dalla luce della Verità, che libera da ogni condizionamento o travisamento. S. Tommaso considera la s.1 un atteggiamento interiore che favorisce la ricerca della verità. Questa, a sua volta, ha una forza di convinzione intrinseca che rende il cuore umano più libero per pensare e più coerente nell'agire. La persona semplice si lascia illuminare apertamente dalla verità, che trasforma e salva.

Il Signore conosce veramente quanto accade nell'intimo del cuore di ogni persona, perciò vuole la sincerità dei sentimenti. Concretamente, le opere di penitenza devono riflettere una conversione profonda del soggetto, mentre il progresso nella vita spirituale si misura dal grado di docilità dell'anima all'azione dello Spirito Santo. Soltanto chi prega con un cuore sincero è ascoltato da Dio e diventa più disponibile all'opera risanatrice della grazia che arriva alla perfezione mediante la deificazione dell'anima. Allora il Dio amato trasforma totalmente la persona umana, l'unica creatura degna del suo amore infinito.

Il punto di riferimento immeditato delle opere umane è la coscienza, che scopre nel modo più semplice una legge inscritta da Dio, alla quale deve obbedire. In base alla sensibilità ai dettami della coscienza, che diventano leggi interiori, la singola persona discerne ogni atto libero e responsabile. Ecco perché la coscienza è sempre più stimata e degna del massimo rispetto, in quanto " nucleo intimo, sacrario inviolabile, luogo di conversazione diretta tra la persona umana e Dio " (GS 36).

Il vizio opposto alla s. è l'ipocrisia. Si tratta di un comportamento che non manifesta i sentimenti più profondi; anzi fa opera di depistaggio o cerca di far capire all'interlocutore il contrario di ciò che realmente pensa. Come la menzogna distrugge la verità dei fatti, così l'ipocrisia si oppone radicalmente alla s. interiore.

La s. interiore verso Dio e verso la coscienza rende la persona umana più aperta al dialogo con tutti, più rispettosa delle opinioni altrui e più amante della verità oggettiva. Una verità iscritta nell'intimo della coscienza e rivelata totalmente in Cristo, nostro Salvatore.

III. Nella fase mistica l'anima sarà trasformata più conformemente alla figura di Cristo quando si lascia guidare senza resistenze dallo Spirito Santo, rinnovando ad ogni atto le disposizioni più profonde verso Dio e verso il prossimo. Si arriva, così, alla s. che è un passo avanti nel cammino della perfezione cristiana, cioè alla semplificazione interiore.

Beati i semplici di cuore perché non solo avranno un'esperienza sublime di Dio in questa terra, ma lassù lo contempleranno nei cieli " faccia a faccia ", aperti al suo assoluto, partecipando alla sua comunione di vita intratrinitaria.

Note: 1 Cf STh II-II, q. 109.

Bibl. Aa.Vv., s.v., in DSAM XIV, 892-921; A. Ardolin, La sencillez, in Cuadernos monásticos, 17 (1982), 339-351; R. Garrigou-Lagrange, Le tre età della vita interiore, III, Roma 1984, 193-204; A. Meynard, Trattato della vita interiore, Torino 1936; D. Milella, s.v., in DES III, 2295; F. Pollien, La vita interiore semplificata, Roma 19697.

E. De Cea

SENSI. (inizio)

I. Realtà psicosomatica. I s. spalancano la persona all'ambiente vitale che la circonda, al mondo esterno in cui è immersa: rendono, così, praticabili le sue esigenze più elementari di sostentamento o di difesa e favoriscono quelle più alte della vita spirituale che assume la solidarietà con le cose come base per la propria attività simbolica. Il rapporto fra la persona e l'ambiente, che passa attraverso i s., è comunque un rapporto complesso: per un verso la persona imprime il sigillo della sua intenzionalità su tutto ciò con cui viene a contatto, per un altro è invasa da fuori, è sfidata nella sua interiorità. I s. sono, insieme, la base di un'attività spirituale e libera capace di produrre miti, arte e religione come il luogo della sua vulnerabilità e della sua sconfitta in una resa, in una configurazione amorfa all'ambiente. Questa complessità spiega la profonda diversità di giudizi: da una parte vi è chi insiste sulla lotta tra la sensibilità e l'attrazione al bello e al bene fino a rifiutare ogni moto sensibile nel sogno della apathéia; dall'altra vi è chi valorizza ogni esigenza sensibile fino a considerare frustrazione disumanizzante ogni rinuncia, ogni mancata soddisfazione dei s. In realtà, bisogna riconoscere la profonda unità del soggetto umano e, al suo interno, il valore dei s.: in effetti, le scelte libere e intensamente condivise provocano una partecipazione anche sensibile, ricca di passione e di affetti; al tempo stesso esistono nella persona una disarmonia ed una ferita tali per cui la " parte appetitiva non obbedisce pienamente alla ragione, ma solo con una certa opposizione ".1 L'affermazione, che per i credenti risale al peccato di origine, è comunque indubitabile: il cammino spirituale ha bisogno di un equilibrio che dev'essere conquistato.

II. Nella vita spirituale. Questa complessa realtà psicosomatica è il terreno in cui la vita spirituale attecchisce, si sviluppa e cresce secondo leggi che le sono proprie e che devono essere interpretate e applicate nel rispetto della sua natura e dei suoi specifici dinamismi. Gli atti soprannaturali che costituiscono la nostra vita teologale si legano, quindi, profondamente alla concretezza della persona, alle leggi e alle dinamiche che ne guidano la vita: si inseriscono nella nostra interiorità senza forzature, ma anche senza miracolismi. Poiché la grazia non distrugge, ma assume, purifica e trasforma la natura, il dono della vita divina è sì gratuito e soprannaturale ma, ugualmente, rimane inserito e proporzionato alla persona che lo riceve. In questo senso, il primato ontologico della grazia nella vita del battezzato non è sganciato da ogni rapporto con la vita psichica: la orienta, ma ne è pure condizionata. L'esempio del battezzato in età infantile è chiarissimo al riguardo e apre infinite analogie sulla condizione delle persone spiritualmente infantili. Ne consegue la necessità di accettare la propria sensibilità senza drammi e senza infingimenti: occorre inserirla nel proprio cammino verso Dio senza tentare inutili e impraticabili repressioni. La psicologia, del resto, evidenzia che una tendenza non scompare perché inibita: è solo resa inconscia o spostata verso fini più accettabili a livello consapevole.

Entrando nel merito del problema, occorre riconoscere che i s. non sono proporzionati all'oggetto della vita spirituale, non sono proporzionati a Dio. La pagina di Gv 20,24-29 richiama con forza come solo la fede apostolica sia l'ambito che legittima la pretesa di vedere e di toccare: solo in un quadro di fede ecclesiale - ricorderà 1 Gv 1,1-3 - la comunione può risalire fino a ciò che era fin dal principio. Anche Paolo (2 Cor 5,16) ribadirà l'assoluto primato della conoscenza di fede sulla conoscenza storica di Gesù, ma questo non impedirà alle chiese di richiamare (cf 1 Cor 12,3; 1 Gv 2,22; 4,2-3; 2 Gv 7) che l'umanità di Gesù appartiene al contenuto fondamentale della fede. Proprio la verità dell'umanità di Gesù, cioè l'Incarnazione, permetterà di andare al di là del divieto veterotestamentario delle immagini: non si tratta di imporre al Dio invisibile un qualche schema umano ma, piuttosto, di mantenere viva la memoria della umanità salvifica del crocifissorisorto. Su questa base e a questo scopo l'utilizzo dei s. nella vita spirituale trova una sua giustificazione e un suo significato. Il dibattito e la soluzione del problema delle immagini, la devozione medievale ai misteri della vita di Cristo, la pietà affettiva ed emotivamente partecipe che i francescani riserveranno soprattutto alla passione e alla nascita di Gesù, la composizione di luogo insegnata da Ignazio, le celebrazioni popolari tuttora in voga sono le forme principali che hanno incanalato la nostra sensibilità al servizio di quell'incontro con Cristo che, certo, non può avvenire che nella fede. Ciò a cui si mira è il partecipare intensamente all'umanità di Cristo così da lasciarla giganteggiare in noi: la comunione affettiva con la sua vita è quasi un passaggio obbligato per la sua imitazione. Il rischio di psicologismo, indubbiamente presente, è evitato se si mantiene unita questa memoria dei misteri di Gesù con la vita sacramentale che, comunicando la grazia, configura obiettivamente al Signore Gesù.

Mettere l'immaginazione al servizio della memoria di Cristo non è l'unica forma di utilizzo spirituale della sensibilità: anche la vita in Cristo non può fare a meno di interessarla. Naturalmente, la vita in Cristo va assunta secondo le sue leggi specifiche che la pongono sul fondamento del battesimo: " Vi siete spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo " (Col 3,9). Lo spogliarsi di sé, la rinuncia e la conversione, anche là dove investono la sensibilità, sono indispensabili per chiarire questa trasformazione, questo mutamento che permette di aderire a Cristo: l'ascesi e il combattimento spirituale sono dinamiche irrinunciabili di quel cammino che, solo, lascia intendere la novità operata nell'uomo.

Per spiegare questo fatto, i Padri si servono, a volte, del racconto di Cana: l'acqua cambiata in vino è il simbolo di un passaggio, è l'abbandono di una vita che va lasciata per abbracciarne un'altra. Più spesso il combattimento spirituale è motivato con l'opposizione tra uomo interiore e uomo esteriore e con la necessità del distacco dal mondo. L'uomo esteriore è ricondotto a un mondo sensibile dominato appunto dai s.: per vivere il dono dello Spirito occorre distaccarsi dal sensibile e andare oltre la stessa ragione. Gregorio di Nissa 2 paragona l'uomo ad una fortezza le cui cinque porte, i cinque s., devono essere custodite con cura per evitare le incursioni del nemico. Se questi, infatti, trova complicità in noi, la nostra vita finisce per essere asservita alle tentazioni. Occorre, allora, l'ascesi che ha il compito di mantenere libero il cuore e di orientarlo a ciò che merita di essere amato: riunifica così la vita attorno all'amore di Dio, non certo attorno al disprezzo del mondo.

In effetti, la grande insuperabile stagione ascetica dei Padri del deserto avrà bisogno di venir riequilibrata attraverso un magistrale lavoro di interiorizzazione: solo se caricato di amore, l'atto ascetico conduce a Dio. L'ascesi riporta così il cuore al suo vero tesoro (cf Mt 6,21): al di là dei suoi molti desideri, lo porta a riconoscere il dono di Dio (cf Gv 4,10). La positività di questo atteggiamento si comprende là dove l'essere-liberi-da si svela come un essere-liberi-per; il pieno amore esige il pieno distacco, non solo sotto il profilo etico ma anche sotto quello metafisico: a tal punto Dio sorpassa la dimensione creaturale che solo il distacco da sé può lasciargli spazio.

La dimensione ascetica introduce, così, alla configurazione a Cristo, alla carità, alla comunione della nostra persona, ormai purificata, con il Dio tripersonale. Abbiamo qui un sentire spirituale che non coincide con la dottrina dei s. spirituali, ma li precede. Non rimanda ad una autotrasparenza, ma alla consapevolezza avvertita della presenza di Dio; non si rivolge agli oggetti esterni ma a Dio stesso quale fondamento ultimo della propria autocoscienza.

Se un'antica eresia, testimoniata da Giovanni Damasceno e da Teodoreto di Ciro ( 460), quella dei messaliani, pretendeva addirittura che ricevere lo Spirito fosse un'esperienza sensibile e visibile, rimane comunque vero che il dono divino investe e configura a sé la vita del credente determinandone, in modo nuovo, l'intera personalità. E questa la dottrina dei s. spirituali: non indicano il superamento della corporeità ma, piuttosto, la sua collocazione nel quadro della vita nuova, nel quadro della vita di fede e di amore. Il sentire qui in gioco è l'impatto, emotivo e sentimentale, che la percezione di un'esperienza interiore e soprannaturale possiede sull'insieme delle relazioni che caratterizzano il vissuto di una persona: il vertice si avrà là dove " la sensibilità è ormai riformata e purificata e resa conforme alla parte spirituale di modo che non soltanto non turba lo spirito ma anzi si unisce ad esso, partecipando ai suoi beni ".3

Non fa parte del cammino spirituale ricercare questa ridondanza affettiva dello spirito sui s. o, addirittura, pretenderla e provocarla, ma è certo compito del credente conoscerla e metterla a frutto nella sua capacità di radicarci in Cristo e di riconciliarci con noi stessi e con la totalità della vita. La comunione con il mistero divino si svela qui comprensiva di una luminosa pace con sé e di una gioiosa armonia con il mondo. E questo il nucleo centrale dell'esperienza mistica che, nel suo conseguimento dinamico, coinvolge e trasforma misticamente, ma non meno realmente, l'intera persona.

Note: 1 STh I-II, q. 58, a. 2; 2 Gregorio di Nissa, Commentario sul Cantico 195, 19-196,8; 3 Giovanni della Croce, Cantico spirituale A, str. 39, 1.

Bibl. Aa.Vv., Nos sens et Dieu, Paris 1954; Aa.Vv., Le mépris du monde, Paris 1965; C. Campo, Sensi soprannaturali, in Id., Gli imperdonabili, Milano 1987, 231-248; A. Gentili - M. Regazzoni, Sensi spirituali, in DES III, 2297-2300; F. Marxer, Die inneren geilstlichen Sinne, Freiburg 1963; Meister Eckhart, Del distacco, in Id., Trattati e prediche (cura di G. Faggin), Milano 1982; J. Mouroux, L'esperienza cristiana, Brescia 1956; Id., Senso cristiano dell'uomo, Brescia 1961; K. Rahner, I " sensi spirituali " secondo Origene, in Id., Teologia dall'esperienza dello Spirito, Roma l978, 133-163; Id., La dottrina dei " sensi spirituali " nel Medioevo. Il contributo di Bonaventura, in Id., Teologia dell'esperienza dello Spirito, Roma 1978, 165-208; R. Zavalloni, Le strutture umane della vita spirituale, Brescia 1971.

G. Colzani

SENSI SPIRITUALI. (inizio)

I. Il problema. Il cristiano è chiamato a vivere con il Padre e il Figlio, nello Spirito, un rapporto di conoscenza e d'amore sempre più intenso e a trovare in questa comunione di vita la sua beatitudine. La conoscenza e l'esperienza d'amore sono una realtà che il cristiano si trova nella necessità di percepire e di esprimere, ma non è in grado di farlo con i normali processi naturali di percezione e di comunicazione. E, tuttavia, non può non tener conto di questi processi, in quanto è l'uomo, con tutte le sue facoltà, a dover vivere questa esperienza. In questo contesto si pone il problema della funzione dell'attività sensibile nell'esperienza spirituale. Certamente esiste una partecipazione dei sensi nella vita spirituale, in cui " lo spirituale e il corporeo sono integrati insieme nell'economia dell'Incarnazione ".1 Così avviene nella liturgia o nella contemplazione delle icone. E pure consigliato, in particolare da Ignazio di Loyola, l'uso immaginario dei sensi nella meditazione.2 Cosa dire però di quell'esperienza contemplativa in cui i sensi corporei non partecipano né immediatamente né mediante l'immaginazione, ma ai quali, nella tradizione cristiana, ci si richiama in maniera non facilmente definibile? E l'interrogativo che si pone s. Agostino: " Ma che amo quando amo te? Non la bellezza dei corpi, non l'armonia del tempo, non il candore di questa luce così amica degli occhi umani, non le dolci melodie dei vari canti... Eppure amo una certa luce, una certa voce, un certo odore, un certo cibo e un certo amplesso, quando amo il mio Dio, luce, voce, odore, cibo, amplesso dell'uomo interiore che è in me... ".3 Con questo interrogativo si entra nella problematica dei s.

II. Testimonianze. A iniziare da Origene il tema dei s. ricorre nella dottrina di molti maestri. Dovendo esprimere il rapporto dell'uomo con Dio, la dottrina varia necessariamente secondo l'antropologia, il pensiero teologico e mistico, l'esperienza degli autori. Ci limitiamo a richiamarne qualche testimonianza significativa. La prima è quella di Origene, per il quale l'uomo, oltre ai sensi corporali, possiede cinque s., chiamati pure sensi divini, sensi dell'anima o del cuore, sensi dell'uomo interiore. La dottrina di Origene ha come presupposto la sua antropologia, ma cerca il fondamento nella Scrittura. Secondo l'antropologia origeniana, una parte delle anime, create all'inizio tutte uguali e libere, a causa del loro grado di peccato sono state rivestite dei corpi e poste nel mondo materiale per essere messe alla prova. C'è, quindi, in ognuno di noi un uomo esteriore, carnale, e uno interiore, spirituale, che hanno rispettivamente membra e sensi corporali e spirituali. I sensi carnali servono a farci conoscere le realtà materiali, quelli spirituali ci permettono di percepire le realtà spirituali, invisibili, eterne, divine. Come per tutte le verità, la giustificazione dell'esistenza dei s. va trovata nella Bibbia: " Colui che esamina più profondamente le cose, dirà che esiste, come l'ha chiamato la Scrittura, un senso generico divino. Solo il beato saprà trovarlo, come è detto in Salomone: "Tu troverai il senso divino" (Prv 2,5). Ci sono diverse specie di questo senso: una vista per contemplare gli oggetti sopracorporali, come è manifesto per i cherubini e i serafini; un udito capace di distinguere voci che non risuonano nell'aria; un gusto per assaporare il pane vivo disceso dal cielo per dare la vita al mondo, come pure un odorato il quale percepisce le realtà che hanno portato Paolo a dichiararsi buon odore di Cristo; un tatto che possedeva Giovanni quando ci dice che ha toccato con le sue mani il Verbo della vita ".4 I s. non sono una proprietà stabile: si perdono per il peccato e sono ottenebrati dai vizi. Per riacquistarli bisogna mortificare i sensi corporali ed esercitarsi in quelli spirituali, i quali sono posseduti pienamente solo dai perfetti. E il Logos che dona luce agli occhi dell'anima e il buon uso degli altri s. E chi tornerà a Cristo " si delizierà non soltanto nel senso del mangiare e del gustare, ma anche nell'udito, nella vista, nel tatto e nell'odorato. Correrà, infatti, all'odore del suo profumo: così si delizierà in tutti i suoi sensi nel Verbo di Dio colui che sarà giunto al massimo di perfezione e di beatitudine ".5 La dottrina dei s. svolge un ruolo essenziale nella mistica di Gregorio di Nissa. Anche per lui " duplice è in noi la sensazione: l'una è quella del corpo, l'altra è più divina... Le operazioni dell'anima posseggono, infatti, una certa analogia con le funzioni sensoriali del corpo: noi lo possiamo apprendere dalle parole delle quali ci stiamo occupando. Il vino e il latte infatti si giudicano con il senso del gusto; ma se quel vino e quel latte sono di natura intellettuale, sicuramente dev'essere di carattere intellettuale anche la capacità dell'anima che li percepisce. Ancora, il bacio si attua attraverso la sensazione del tatto, poiché nel bacio le labbra si toccano. Ma c'è anche un contatto particolare, quello dell'anima: essa tocca il Logos e questo avviene per mezzo di un contatto non ben definibile, incorporeo, intellettuale ".6 Nel Nisseno si trovano uniti " due aspetti essenziali della mistica. Da una parte essa è tenebra per lo spirito, ma d'altra parte essa comporta una conoscenza di Dio di ordine esistenziale che è precisamente ciò che cerca di esprimere la dottrina dei s. ".7 Il tema dei s. continuerà il suo cammino nella spiritualità orientale, in modo particolare in Evagrio, in Diadoco di Foticea, nelle omelie dello Pseudo-Macario ( 389 ca.), in Simeone il Nuovo Teologo. Non sappiamo quanto questa dottrina sia penetrata in Occidente. Tra i Padri latini appare in Agostino 8 che certamente esercitò un influsso notevole nel tempo successivo. Confermano la presenza del tema maestri di mistica come s. Bernardo o Guglielmo di St. Thierry. Ma chi ha trattato più accuratamente dei s. è stato s. Bonaventura nel quadro delle sue sottili e ricche analisi teologico-mistiche della vita di grazia, del suo sviluppo, dei suoi effetti. Per il Dottore serafico, " l'anima che crede, spera e ama Gesù Cristo, che è il Verbo incarnato e ispirato ", riacquista i s. mediante i quali " ora essa vede e sente il suo sposo, lo odora, lo gusta e lo abbraccia, e può giubilare come la sposa del Cantico dei Cantici che fu scritto per l'esercizio della contemplazione secondo questo quarto grado che nessuno comprende se non chi lo riceve, poiché consiste più nell'esperienza dell'affetto che nella speculazione razionale ".9 Tra gli autori successivi che trattano dei s. ricordiamo Giovanni Ruusbroec, Dionigi il Certosino, s. Brigida, Giuliana di Norwich. Invece dai grandi mistici spagnoli Teresa d'Avila e Giovanni della Croce la dottrina dei s. non viene valorizzata, anche se nei loro scritti si trovano elementi utili per la comprensione della stessa. E probabilmente una delle ragioni che hanno portato a una certa dimenticanza del nostro tema. A. Poulain, nel suo Des grâces d'oraison (Paris 1901), lo riproponeva all'attenzione degli autori spirituali.

III. Interpretazione. Che significato dare alla dottrina dei s.? Cosa sono in realtà? La risposta è facile in un'antropologia, come quella di Origene, per la quale l'uomo interiore è realmente dotato di sensi capaci di percepire le realtà del mondo intelligibile, s. dei quali i sensi corporei non sono che un'immagine sbiadita. Al di fuori di questa antropologia si prospettano varie interpretazioni. La più semplice è ritenere i s. una pura metafora con cui si cerca di tradurre, con il linguaggio della percezione sensoriale, l'esperienza ineffabile di Dio. Soluzione semplice, ma che lascia il dubbio se renda sufficientemente ragione di quanto i testimoni hanno voluto esprimere con la dottrina dei s., perché resta il fatto che Origene o Agostino o Bernardo, pur restando fuori dei fenomeni mistici straordinari per i quali va fatto un altro discorso, hanno sperimentato il contatto con Dio, con Cristo o con i doni di grazia, come se lo percepissero con i sensi, ma elevati, spiritualizzati. A questo punto sembrano due le possibilità di soluzione: o si tratta di operazioni dell'intelletto e della volontà che assumono connotazioni analogiche in riferimento alle percezioni sensoriali, oppure sono i sensi corporei che vengono elevati e coinvolti nelle esperienze spirituali più indicibili. La prima soluzione viene elaborata da autori scolastici, in particolare da Alberto Magno e da Bonaventura da Bagnoregio. Per quest'ultimo, i s. sono atti dell'intelligenza (vista e udito) e della volontà (gusto, odorato, tatto). Essi si risvegliano nell'anima nella quale la grazia si è ramificata mediante gli habitus delle virtù, dei doni dello Spirito Santo e delle beatitudini. E " allora l'uomo è idoneo sia alla contemplazione sia alla vista e all'abbraccio dello sposo e della sposa che debbono avvenire secondo i s. ", i quali " indicano le percezioni mentali relative alla verità da contemplare ".10 La seconda soluzione trova oggi maggiore favore, poiché tiene conto dell'unità fisico-spirituale dell'uomo. Secondo A. Stolz, la dottrina dei s. " dice una spiritualizzazione, un'attività dei sensi diretta dallo Spirito Santo, e non l'esistenza nello spirito di sensi propriamente detti, che siano in opposizione alle facoltà sensibili organiche ".11 " Certamente l'insegnamento costante della spiritualità cristiana afferma la necessità di liberarsi dagli attaccamenti disordinati della sensibilità per elevarsi all'unione con Dio: la " notte dei sensi " rimane un passaggio obbligato. Tuttavia, man mano che l'anima liberata si trasforma e si unisce a Dio, la beatitudine raggiunta rifluisce nei sensi purificati, coinvolgendoli nella conoscenza, nella pace e nell'amore sperimentati. Questo è quanto si può dire in generale. Per esaminare dettagliatamente il problema, diventa necessario l'esame accurato dei singoli autori, come pure l'approfondimento del valore del discorso analogico e simbolico.

Note: 1 P. Evdokimov, Teologia della bellezza, Roma 1981, 52; 2 Cf Esercizi spirituali, n. 47, nn. 65-70, nn. 121-125; 3 Confessioni 10,6,8; 4 Contra Celsum 1,48; cf De princ. 1,9; Com. in Cant. 1 e 2; 5 Com. in Cant. 1, 3; 6 In Cant. 1; 7 J. Daniélou, Platonisme et théologie mystique, Paris 19532, 224; 8 Cf Sermo 159; Confessioni 10,6,8; 9 Itinerarium mentis in Deum 4,3; 10 Breviloquium 5,6; 11 Teologia della mistica, Brescia 19472, 192.

Bibl. Ch.-A. Bernard, Teologia spirituale, Cinisello Balsamo (MI) 19893; M. Canevet, s.v., in DSAM XIV, 598-617; J. Daniélou, Platonisme et théologie mystique, Paris 19532; J. Mouroux, L'esperienza cristiana, Brescia 1956; M. Olphe-Galliard, Les sens spirituels dans l'histoire de la spiritualité, in ÉtCarm 43 (1954), 179-193; K. Rahner, Le début d'une doctrine des cinq sens spirituels chez Origène, in RAM 13 (1932), 113-145; Id., La dottrina dei " sensi spirituali " nel Medioevo, in Id., Nuovi Saggi VI, Roma 1978, 165-208; A. Stolz, Teologia della mistica, Brescia 19472.

U. Occhialini

SENSO DI DIO. (inizio)

Premessa. L'espressione " senso di... " indica l'avere la piena coscienza di una determinata realtà, del suo valore obiettivo. Indica, inoltre, lo scoprire il valore delle cose, la loro finalità, conoscere la ragione del nostro vivere in piena armonia con l'ideale proposto. Non ci si preoccuperà, qui, di esaminare filosoficamente l'importanza del senso, si tenterà di comprendere la portata del valore teologico-spirituale della conoscenza che l'uomo deve avere del senso-valore-obiettivo di Dio nella sua vita. E Dio, e soltanto Dio, che dà senso, contenuto, valore alla vita umana e che permette di creare una visione armonica della creazione dove tutto, nella sua capacità, rivela la presenza della stessa Trinità. Il non saper leggere il libro dell'universo, il non cogliere l'epifania della divinità significa sperimentare la più angustiante povertà ontologica.

La percezione che l'uomo di tutti i tempi ha delle realtà trascendenti fa comprendere come non sia possibile vivere senza incontrarsi e confrontarsi con il problema dell'esistenza di Dio.

L'ateo si presenta come il vero povero, che, cieco, non riesce ad imboccare il cammino e ad orientare la propria vita verso l'infinito. E colui che tenta di vedere Dio senza vederlo, perché non possiede il coraggio della fede: " Nessuno ha mai visto Dio " (Gb 1,18).

La coerenza induce la persona umana a ricercare il perché ultimo della propria esistenza, a sentirsi capace di cercare, incontrare ed accogliere il mistero di Dio nella sua vita. Il cuore dell'uomo, creato da Dio, tenta con tutte le sue forze di ritornare alla fonte da cui è scaturito. La profonda intuizione psico-teologica di s. Agostino riflette il fondamento di tutta la ricerca di Dio: " Ci hai creati per te e il nostro cuore è senza pace finché non riposa in te ".1

Scoprire il s. è incontrare la gioia della vita come dono dell'amore, è sentirsi una parola incarnata di Dio, pronunciata nel tempo e destinata a trasmettere un messaggio di speranza e di vita.

I. La santità di Dio. L'essenza della divinità è caratterizzata dalla santità. Il suo nome è santo (cf Am 2,7; Ez 20,39; Lv 20,30). A motivo della sua santità, Dio è al di sopra di tutte le cose, non è contaminato dalla nostra malizia; in lui non solo non c'è peccato, ma egli è impeccabile: " Perfetta è l'opera sua; tutte le sue vie sono giustizia; è un Dio verace e senza malizia; egli è giusto e retto " (Dt 32,4).

La coscienza della realtà del proprio essere peccaminosità porta l'uomo alla ricerca della perfezione e santità di Dio presente, anche se nascosta, in tutte le realtà.

Della santità di Dio, della sua presenza è piena tutta la terra (cf Nm 14,20). La santità di Dio è fonte di tutte le sue opere, della creazione in tutte le sue manifestazioni, delle cose visibili e invisibili. La santità contemplata in se stessa e rivelata nella bontà presente in tutta la creazione permette di concludere: " Egli è tutto! Come potremmo avere la forza per lodarlo? Egli, il Grande, al di sopra di tutte le sue opere " (Sir 43,27-30).

L'homo religiosus sa cogliere davanti all'immensità dell'universo il senso del Dio creatore che con la sua onnipotenza e immensità riempie tutti i vuoti e solitudini provocate dalla non-conoscenza della trascendenza.

Avere il senso di Dio nella propria esistenza come motivo orientatore significa ritrovare nell'immensità delle cose la presenza nascosta del Creatore. La confessione umile che l'essere umano fa della sua fragilità, specialmente nella preghiera dei salmi, manifesta la sua totale dipendenza da Dio. Dipendere per esistere, per essere, per agire. Dipendere per poter vivere la pienezza della libertà e della realizzazione piena (cf Sal 8, 139).

La visione antropologico-teologica che l'uomo e la donna biblica hanno di se stessi rivela come solo in Dio si percepisca il perché della vita e la ragione della presenza umana sullo scenario del mondo, dell'uomo tessuto nel seno materno, conosciuto nell'amore, creato per amore e conservato in vita per la forza dell'amore, che fin dall'eternità l'avvolge con il suo manto (cf Is 43,1-7). La Parola di Dio in vari momenti avverte che " i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti " (1 Re 8,27). Assumere il s. significa lasciarsi amare da lui, lasciarsi colpire dalla sua luce e dalla sua azione che feconda e dà senso a tutte le manifestazioni della vita (cf Is 31,3; Sir 39,16-20).

II. Cogliere il s. nella vita. L'uomo, centro della creazione e gloria del Dio vivente, attraverso la sua apertura al mistero della trascendenza intuisce ed accoglie in se stesso il senso della vita. Dio non è chiuso in se stesso nella compiacenza dell'amore come fonte di tutto l'essere, ma comunica questo amore a tutte le creature che da lui prendono la vita. Così è possibile la presenza attuante di Dio come Padre, creatore, protettore, salvatore del suo popolo. L'amore di Dio non dipende dai meriti dell'uomo, ma è manifestazione della gratuità divina.

L'amore di Dio, presente nella storia, permette, attraverso l'amore, di contemplare la sua azione. Dopo la creazione, Dio, compiacendosi, vede la sua bontà in tutto (cf Gn 1,4.10). Crea l'uomo e la donna a sua immagine e somiglianza, li colloca nel giardino della felicità, sottomette loro tutti gli animali. Affida loro tutto l'universo, benedice l'amore, iniziando così il grande dialogo dell'amore che niente e nessuno potrà interrompere, perché è stabilito nell'alleanza eterna (cf Gn 1-9).

Ma soprattutto si coglie il s. nel nascere della vita umana, nella sua ricerca di Dio e nel dialogo che è capace di instaurare, anche se nella limitatezza, con lo stesso Dio.

La traiettoria dell'umano nella Bibbia rivela questa presenza nascosta del Dio che conduce alla certezza del suo amore.

Se è possibile cogliere il s. nella creazione e in tutte le cose inanimate, tanto più lo si può percepire nell'uomo nel quale l'amore dell'alleanza e della fedeltà di Dio si manifesta in tutta la sua pienezza.

Dall'inizio della Genesi alle ultime parole dell'Apocalisse c'è una presenza del s.

Il senso vivo della presenza di Dio fa nascere l'armonia della fede con la vita. In tutte le vicende della storia personale e collettiva del popolo di Dio si legge la parola creatrice dell'Emmanuele, il Dio con noi. Sarà senza dubbio nel mistero dell'Incarnazione che il s. assumerà un significato tutto particolare. Il Verbo si fa carne, abita in mezzo a noi, dando un nuovo senso redentore ed escatologico all'umanità in cammino.

III. Ricuperare il s. nella vita. Alcuni autori spirituali preferiscono a Dio il termine Assoluto più ampio, senza dubbio, ma anche carico di ambiguità. Il timore di assumere una posizione chiara rispetto non solo alla riflessione teologica, ma anche alla coerenza esistenziale della fede può condurre ad una indefinizione. La vita nasce da Dio e a lui ritorna. La ricerca di Dio, il desiderio angosciante di incontrarlo e fare l'esperienza del suo amore inducono a rimanere aperti all'azione dello Spirito. Una vita all'insegna del consumismo sempre più irrazionale o di un capitalismo selvaggio che cerca di saziare il vuoto esistenziale con l'abbondanza delle cose sembra ormai destinata al fallimento pieno. Nulla può dare la pace al cuore dell'uomo se non il recupero della trascendenza dei valori della vita. Occorre, invece, ripercorrere il cammino del silenzio, del deserto, della preghiera dov'è possibile scendere nel profondo del cuore e contemplare faccia a faccia il Dio della vita che, nel mistero trinitario, abita nell'uomo. Non è il discorso sociale svuotato del s. che è capace di dare all'umanità la possibilità di dare spazio creativo all'evangelizzazione dell'amore. La promozione umana è possibile quando, nello sguardo della fede, nella dinamica della speranza e nella pratica della carità si scopre l'altro come tempio di Dio stesso. L'evangelista Matteo nel discorso escatologico (c. 25) offre la lettura della vita dell'uomo nella prospettiva della presenza del Cristo nascosto nella monotonia della vita sofferente dei poveri. Il s. sta nella persona del fratello che nella quotidianità della vita è escluso ed emarginato dall'egoismo e dall'egocentrismo, perchè in fondo si è escluso Dio dalla vita.

Il s. e la sua presenza esigono un'esegesi a partire dalla vita. La riscoperta dell'uomo nella società e nella Chiesa è la nuova chiave di lettura per un'antropologia autenticamente cristiana. I documenti della Chiesa, specialmente quelli del terzo mondo, manifestano la preoccupazione di ridare dignità all'uomo che, per molti secoli, è stato considerato oggetto e non soggetto della storia. Leggere ciò che sta al di là degli avvenimenti come azione continua della presenza di Dio conduce ad un nuovo esodo, attraversando nuovi deserti per una nuova terra promessa dove la giustizia e l'amore formano il codice della convivenza umana.

IV. Mistica e s. Il s. o vestigia Trinitatis, come preferiscono dire i mistici, assume la vocazione contemplativa non come struttura, ma come atteggiamento fondamentale della vita. Il pianto della creazione, che geme e soffre nella tensione escatologica, parla del senso-presenza di Dio che fa delle cose il " sacramento " del suo amore. Da Francesco d'Assisi a Giovanni della Croce, i mistici hanno saputo vedere il senso della trascendenza e della comunicazione di Dio nelle opere dell'universo intero, il che permette di scoprire il Dio fra noi e più ancora il Dio con noi, come punto di partenza e di arrivo di ogni itinerario cristiano.

Note :1 Confessioni, I, 1.

Bibl. Aa.Vv., Educazione al senso di Dio, Alba (CN) 1964; B. Häring, s.v., in NDS, 1422-1431; G. Helewa, L'esperienza di Dio nell'Antico Testamento, in La Mistica I, 117-180; K. Rahner, Corso fondamentale sulla fede, Cinisello Balsamo (MI) 19844; A.M. Ramsey, Sacro e secolare, Torino 1969; J.A.T. Robinson, Dio non è così, Firenze 1968; C. Tresmontant, La mistica cristiana e il futuro dell'uomo, Casale Monferrato (AL) 1988.

P. Sciadini

SENTIMENTI. (inizio)

I. Il termine. I s. sono una forma di accesso diretto e immediato della persona alla realtà: preriflessi ed emozionalmente contrassegnati, configurano il rapporto della persona all'ambiente sotto il profilo dell'amabilità o della detestabilità, del piacere o del dispiacere, dell'appagamento o della irritazione per una situazione. I s. rimandano ad un'antropologia che non è pensabile come chiusa in una sua intangibile interiorità ma che, attraverso il corpo, si rivela aperta sul mondo e sulle cose. Proprio per 1a loro connotazione preconscia ed emotiva i s. sono segnati da frammentarietà e da mutevolezza: precedono l'impegno intenzionale della persona ma non lo pregiudicano. Il loro significato personalistico sta nel fatto che chiariscono la concretezza di una persona mostrandola come caratterizzata da un preciso sentire e, in forza di esso, la provocano ad una approvazione o ad un rifiuto. Nella complessità di scelte a cui danno inizio, i s. contribuiscono a qualificare il volto reale di una persona; fanno parte del cammino con cui un individuo sceglie e costruisce la propria concreta personalità, il proprio rapporto con la realtà e il proprio mondo di valori.

Diventa, perciò, importante interrogarsi sulla possibilità e sulla capacità di integrare i s. in una matura vita personale e spirituale. Diventa tanto più importante quanto più si condivide l'opinione di M. Scheler sul fatto che i s. e i valori assiologicamente più elevati hanno minore presa emotiva e minore capacità di pressione in vista della loro attuazione: in effetti, i s. dipendenti dall'istinto o a sfondo egocentrico si fanno sentire prima e con più forza di quelli spirituali e religiosi. Questa integrazione dei s. in un maturo progetto di vita non può venir trascurata: si dovrà sempre ricordare che una persona, quando prova diletto nella sua azione, vi attende con più ardore e l'esegue con maggiore diligenza.1 Se ne deve concludere che i s. non vanno confusi con la maturità della vita umana e spirituale, ma possono esserne un utile supporto.

La fatica a riconoscere il valore spirituale dei s. viene dalla tesi dell'apathéia che, legando i s. al mondo fuggevole del divenire, li vede come una forma di imperfezione. Di conseguenza, Dio è presentato come impassibile e il cammino spirituale è concentrato attorno al dominio delle passioni: l'impassibilità è il vero ideale. Le opere di Heschel smonteranno il preteso fondamento biblico di queste tesi: esaminando la teologia dei profeti, mostrerà come in Dio i s., lungi dall'essere una tempesta emotiva che impedisce di vivere responsabilmente ciò che si sceglie, sono la partecipazione vitale e appassionata con cui persegue ciò che ha deciso. I s. non sono ingenui antropomorfismi ma dicono il coinvolgimento totale di ogni aspetto della vita divina nel disegno di salvezza. Al suo seguito, Moltmann preciserà che Dio non è un Dio a-patico ma sim-patico: l'amore e la gelosia, la sofferenza e la collera sono lo sforzo per penetrare la vita personale di Dio alla luce del suo impegno nella economia salvifica. La dottrina patristica della apathéia è lontana dal pensiero biblico: è un debito pagato alla cultura greca.

II. Nell'esperienza mistica. Per il mondo biblico la comunione con Dio ha sempre una dimensione esperienziale: non si fonda sulla ricerca o sulla scoperta dei segreti e dei misteri di Dio, ma sulla esperienza intuitiva e penetrante di una Presenza. Più che una percezione intellettuale, è la rivelazione brusca e totale di qualcuno: è il contatto con l'apparire, l'irraggiare e l'espandersi di una persona. Perciò, la relazione con Dio è ricca di tonalità affettive: si tratta di " gustare e vedere quanto è buono il Signore " (Sal 34,9). L'incontro qui in gioco è una sorta di rivelazione: si tratta di una conoscenza privilegiata, è un principio di comunione che non può venir assimilato all'accoglienza della testimonianza d'altri. In questa esperienza personale i s. hanno una grande importanza; la mantengono anche là dove queste esperienze dirette, accumulandosi, hanno creato una sorta di patrimonio spirituale il cui significato non è di sostituire l'esperienza di ciascuno, ma favorirla attraverso chi è più sperimentato.

I s. più che cancellati in vista della apathéia devono venir orientati a Dio: non possono perciò mai venir assolutizzati. Quando ciò avviene siamo di fronte a degli affetti disordinati che impediscono il vero cammino spirituale. " Non ha importanza che sia sottile o grosso il filo con cui è legato un uccello - osserverà Giovanni della Croce nella Salita del Monte Carmelo 2 - perché questi rimarrà prigioniero sia nell'uno che nell'altro caso fino a quando non l'avrà spezzato ". Il primato di Dio e della ricerca della sua volontà sui s. andrà, quindi, mantenuto saldo: è questo il senso della indifferenza ignaziana che esige il distacco totale da ogni attrattiva immediata e la disponibilità completa alla volontà di Dio per giungere davvero a riconoscerla. La pace e la gioia interiore saranno, in linea di massima, i segni della presenza dello Spirito e della autenticità della nostra ricerca. Su questa base è importante mettere a tema alcuni s., decisivi nel cammino spirituale.

Il primo riguarda la paura di Dio e il suo superamento, necessario per una vera vita spirituale: indica l'uscita dallo stadio infantile e immaturo. La paura è il sentimento di chi avverte che la propria vita è esposta al pericolo, è strutturalmente sotto la minaccia di qualcuno e di qualcosa. Questo timore di perdere qualcosa di se stessi contiene, in fondo, un aspetto di verità: svelando la precarietà e il limite - l'ombra direbbe Jung - fa emergere quell'orrore che ricorda all'uomo che la sua persona è totalmente per la vita. La Bibbia conosce la paura di Dio; questa accompagna Adamo già da Gn 3,10 e gli rivela la sua nudità, il suo vuoto. La paura di Dio scatta di fronte alla sua sovrastante potenza, ma la fede insegnerà a vederla non come una minaccia incontenibile bensì come una forza di salvezza. Dio può tutto: egli è mia roccia e mio baluardo. Chiarendo il legame tra Dio e la salvezza, le Scritture mostrano come solo in Dio siamo veramente salvi da ogni timore: " Chi vorrà salvare la propria vita la perderà ma chi perderà la propria vita per causa mia la salverà " (Mt 16,25). La fede, insomma, allontana ogni paura di Dio e cambia profondamente la qualità dei nostri rapporti con lui; " Non abbiate timore: Dio è venuto per mettervi alla prova e perché il suo timore vi sia sempre presente e non pecchiate " (Es 20,20). Per questo la vita cristiana è passaggio dalla paura alla speranza, dalla minaccia alla gioia dell'amore. Ogni volta che il peccato separa la persona da Dio essa perde il suo riferimento e in lei rinasce la paura; ogni volta che la tenebra dell'incredulità si dissolve, ritrova l'amore: " Il Signore è mia luce e mia salvezza di chi avrò paura? Il Signore è difesa della mia vita, di chi avrò timore? " (Sal 27,1).

Insieme alla paura, il battezzato si trova ad affrontare il desiderio del piacere, un sentimento che rinforza la tentazione e rischia di creare in noi una errata gerarchia di valori. L'esperienza del piacere, assunta come criterio di vita, ricade sotto il tema degli affetti disordinati. Agostino offrirà un primo quadro interpretativo distinguendo tra uti e frui: il godimento è, per lui, espressione di ciò che la persona deve considerare come fine, mentre l'uso è al servizio di un progetto più ampio. Per questo ritiene che, là dove il godimento è posto nei beni inferiori, allontani da Dio, allontani dai beni più alti. Ne ricaverà un ampio discorso ascetico. Il debito platonico di questa impostazione, oltretutto intrecciata alle sue tesi sulla concupiscenza, porta alla necessità di riprendere da capo la riflessione sul significato delle passioni e sulla forza del piacere: bisognerà convenire con Giovanni della Croce che siamo di fronte a disordine dovunque " minore è la forza con cui la volontà sta in Dio e maggiore la sua dipendenza dalle creature ".3 Una reale purificazione dell'affettività umana è indispensabile perché sia veramente disponibile ai disegni di Dio.

Infine, la vita spirituale rinnova e trasforma il grande sentimento umano dell'amore. Dio, che è amore, ci introduce in esso a poco a poco, alimentando e avvalendosi di quel bisogno che ne abbiamo. Ovviamente amare ciò che è trascendente e infinito, ciò che ci supera radicalmente in quanto creature, è possibile solo se Dio stesso realizza in noi questa capacità di amare: richiamare la inaccessibilità e la inafferrabilità di Dio ha il valore di impegnarci in un continuo svuotamento di noi stessi per togliere tutto ciò che gli è di impedimento. Poiché pone una somiglianza tra colui che ama e ciò che è amato, l'amore non va compreso sulla misura di chi lo compie ma sulla dignità di ciò a cui ci configura: ne viene una radicale trasformazione della nostra vita, divinizzata. Questo amore divino presente in noi rimane ciò che è e diventa, perciò, sorgente di misericordia e di comunione, di gioia e di pace. La misericordia, in particolare, è la testimonianza di una vita modellata sull'amore di Dio; indica la capacità dell'amore di cancellare la miseria dell'altro e di accoglierlo in una prospettiva nuova per conferire al rapporto con lui speranza e pace. Ciò che la misericordia semina, la comunione e l'amicizia coltivano e portano a pienezza. Favorendo il reciproco manifestarsi, mediano l'incontro delle persone: fanno sì che i cuori si incontrino e che, insieme, camminino verso il Signore per godere la comunione con il Dio dell'amore e la divinizzazione della creatura.

Note: 1 STh I-II, q. 33, a. 4; 2 Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo I, 11,4; 3 Ibid. III, 16,3.

Bibl. F. Alquié, La conscience affective, Paris 1979; Ch.-A. Bernard, Teologia simbolica, Roma 1981; Id., Teologia affettiva, Cinisello Balsamo (MI) 1985; L. Derousseaux, La crainte de Dieu dans l'Ancien Testament, Paris 1970; A.J. Heschel, Il messaggio dei profeti, Roma 1981; R. May, L'amore e la volontà, Roma 1971; M. Nedoncelle, La réciprocité des consciences, Paris 1942; A. Nygren, Eros e Agape. La nozione cristiana dell'amore e le sue trasformazioni, Bologna 1971; W. Pannenberg, Identità e non-identità come tema della vita affettiva, in Id., Antropologia in prospettiva teologica, Brescia 1978, 278-359.

G. Colzani

SEQUELA. (inizio)

Premessa. La vita come cammino, o meglio ancora come viaggio, è da sempre una metafora suggestiva con la quale l'uomo interpreta la complessità del suo essere. Essa assurge a categoria unificante del vissuto, parabola della vita. Basterebbe evocare viaggi paradigmatici e metastorici come quelli di Gilgamesh, Ulisse, Dante, fino al volo del gabbiano Jonathan. Il pensiero contemporaneo ha ulteriormente approfondito la comprensione dell'uomo come homo viator, che si costruisce nel suo divenire storico.

Anche il cristiano di oggi ama guardare alla perfezione, alla santità, all'unione con Dio come a realtà in divenire, anziché statiche e date una volta per tutte; realtà che esigono un " cammino " in un dinamismo progressivo e continuo. Il concetto di s. viene incontro a questa visione dinamica della vita spirituale, colta nel suo aspetto di crescita.

I. Nella Scrittura. L'AT aveva già descritto il modo di vivere di Israele, la sua condotta morale, la vita di fede, in termini di via, cammino, strada. Un popolo nomade e concreto esprimeva facilmente il proprio rapporto con Dio impiegando immagini di itineranza: seguire Dio, camminare umilmente con lui (cf Dt 10,12-13; Mic 6,8). Dio stesso gli fa compiere un'esperienza di fede attraverso itinerari a dimensioni geografico-spaziali: partenze, peregrinazioni, esodi, ritorni...

Nell'antica alleanza Dio camminava con il suo popolo - all'inizio della categoria di s. vi è l'esperienza dell'esodo - e lo guidava attraverso la mediazione dell'arca, dei suoi rappresentanti e della legge. Nella pienezza dei tempi viene lui stesso, nella persona del Figlio, a stare e camminare con gli uomini. L'esistenza terrena di Gesù è interpretata dagli apostoli come un " passaggio ", che coinvolge altre persone nella sua itineranza, al punto che la vita cristiana può essere definita come " via " (cf At 9,2; 18,25ss.; 19,9.23; 24,4.14.22).

La parola che Cristo rivolge ai suoi discepoli: " Seguimi ", diventa un imperativo assoluto e incondizionato che, continuando a risuonare lungo tutta la storia della Chiesa, è all'origine di ogni vita mistica. Egli provoca nel discepolo un esodo completo da se stesso e da ciò a cui è legato, per condurlo dietro a sé in un'adesione piena alla sua persona, al suo messaggio, al suo destino. Le esigenze radicali della s. di Gesù (cf Lc 9,57-62) indicano che in lui irrompe il regno di Dio. Quanti lo seguono sono espropriati del loro mondo e fatti eredi di un mondo nuovo definito dalla persona stessa di Gesù. L'andare dietro al Cristo genera una comunanza di vita che si traduce in una relazione stabile, permanente, esclusiva con lui, fino alla condivisione del suo destino di morte e di risurrezione: " Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua " (Mt 16,24).

La s. fisica fa intravedere un più profondo atteggiamento interiore che lega il Maestro e i suoi discepoli, su cui ha fatto leva la rilettura della s. nel periodo postpasquale. Infatti dopo la Pasqua non sarà più possibile " seguire " Gesù. Per questo, continuando le prime indicazioni già offerte dai sinottici, Paolo e Giovanni elaborano una visione mistica della s. Per Giovanni essa si esprime in una conoscenza mutua e in una comunione vitale tra il Signore e il suo discepolo, che introduce nel rapporto di intimità ineffabile che unisce il Figlio al Padre. Seguire non è più un'azione fisica. La s. ora equivale a credere (cf Gv 8,12) e consiste nel reciproco " essere ", " dimorare ", " rimanere " tra il Signore e i discepoli. Nonostante l'impiego di questi verbi che sembrano statici, essa resta una realtà dinamica: un vero cammino nella fede e nell'amore, nel quale Cristo stesso si fa " via " e insieme " pastore " (Gv 14,4-6; 10,4); un cammino spiritualizzato che fa uscire dalle tenebre ed introduce nella luce; un esodo interiore dal mondo per entrare - mediante la condivisione del destino di morte e risurrezione del Signore - nella casa del Padre e possedere la vita eterna.

Per Paolo il rapporto con Cristo si esprime nell'identificazione con lui: essere in lui, lasciare che sia lui a vivere in noi (cf Gal 2,20). Nondimeno, anche per Paolo rimane l'esigenza di camminare, anzi di correre dietro a Cristo per afferrarlo, così come lui ci ha afferrati (cf Fil 3,13-14).

Nonostante la spiritualizzazione e l'attualizzazione avvenuta dopo la Pasqua e fatta propria dall'esperienza mistica, la s. prepasquale, così come è stata vissuta dai discepoli sulle vie della Galilea e della Giudea custodisce le origini più profonde della vita cristiana e rimane il prototipo a cui guarda ogni generazione di cristiani. Essa traduce, evocando un'immagine che rimarrà indelebile nella memoria cristiana, il desiderio di rifare la medesima esperienza dei discepoli del Vangelo: camminare con Gesù, stare con lui nella quotidianità della vita, vivere con lui in un rapporto dinamico sempre nuovo di comunione, di amicizia, di amore. Questo desiderio ha dato vita alle molteplici forme di vita religiosa, che trovano nel seguire Cristo la loro " norma fondamentale " (PC 2a). Ma questo stesso desiderio apre la strada anche ad ogni esperienza di autentica ricerca di condivisione del mistero di Cristo e nutre la vita mistica, fino alla piena trasfigurazione in lui.

La tradizione ha spesso esitato ad impiegare la terminologia della s., o l'ha usata con parsimonia, perché la riteneva strettamente legata all'esperienza prepasquale. Ha preferito impiegare il registro dell'imitazione, avvalendosi della interpretazione già operata all'interno degli scritti neotestamentari. Il Concilio ha messo nuovamente in luce il concetto di s. ridandole il ruolo di chiave interpretativa dell'esistenza cristiana (cf LG 41a; GS 41a; CD 11c; AA, 4fbis).

II. S. e mistica. Il concetto di s. in definitiva, pone in evidenza alcuni aspetti fondamentali della vita mistica: l'assoluta libertà e gratuità della scelta da parte di Dio (" Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi ": Gv 15,16); il valore centrale della persona di Gesù (si segue lui: " Seguimi ", " seguitemi "...); la relativizzazione di ogni realtà umana davanti all'apparire del Signore; la chiamata alla piena condivisione del mistero del regno; l'introduzione nell'intimità trinitaria, meta della s.; il concetto di " itinerario spirituale "; l'abbandono fiducioso alla conduzione di Cristo " Pastore buono ", interiorizzata dallo Spirito che " guida " verso la pienezza della verità (cf Gv 16,13).

La mistica ha saputo reinterpretare questo rapporto amoroso con Cristo alla luce del Cantico dei Cantici. E lo Sposo che per primo viene incontro e chiama: " Alzati amica mia, mia bella, e vieni! " (Ct 2,10). E la sposa risponde al desiderio dell'amato: " Attirami dietro a te, corriamo " (1,3). E l'inizio di un cammino drammatico nel quale amato e amata si cercano costantemente in una progressiva crescita d'amore, fino all'unione piena e definitiva.

Un aspetto che l'esperienza mistica non ha ancora sufficientemente posto in rilievo è la dimensione comunitaria della s., con tutto quanto essa comporta. Eppure l'esperienza dei primi discepoli fu quella di una comune itineranza dietro a Cristo. Egli spesso chiama a due a due e quando si rivolge ai suoi discepoli lo fa come ad un gruppo unito. La sensibilità odierna, le indicazioni offerte dall'ecclesiologia conciliare, le esperienze comunitarie in atto segneranno sicuramente una nuova stagione anche nella vita mistica, in una condivisione del cammino di s.

Bibl. Aa.Vv., Imitation du Christ, in DSAM VII2, 1536-1601; Aa.Vv., Sequela Christi e imitazione, in DIP VIII, 1287-1314; Aa.Vv., Apostolo-Discepolo-Missione, in Aa.Vv., Dizionario di spiritualità biblico-pastristico, IV, Roma 1993; Aa.Vv., Seguimi!, in Parola Spirito e Vita, 2 (1980), tutto il numero; D. Bonhoeffer, Sequela, Brescia 1971; L. Di Pinto, " Seguire Gesù " secondo i Vangeli sinottici. Studio di teologia biblica, in Aa.Vv., Fondamenti biblici della teologia morale, Brescia 1973, 234-235; M. Mazzeo, La sequela di Cristo nel libro dell'Apocalisse, Milano 1997.

F. Ciardi

SERVIZIO. (inizio)

I. Il fondamento è nella celebre frase del Signore: " Il Figlio dell'Uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti " (Mt 20,28). Il termine " servire " sta a significare che esso è il fine dell'Incarnazione, e l'espressione, ancora più densa, " dare la vita ", porta nel cuore del dramma redentivo.

Perciò il s. del cristiano si modella sull'atteggiamento del Cristo, servo umiliato e sofferente, che prende su di sé il peccato e la missione dell'uomo (cf Is 53,3ss.) e si china con affetto su ogni bisogno concreto (cf Lc 10,31-34). Gesù si è fatto " servo ", anzi " schiavo " per salvare dal di dentro, uomo tra gli uomini, la situazione dell'umanità.

Gesù ha concretizzato questo atteggiamento radicale in un gesto. Nell'Ultima Cena, come racconta l'evangelista Giovanni (cf Gv 13), Gesù " si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita " (v.4). Il gesto che compie è quello consueto dello schiavo verso l'ospite, in una famiglia benestante. A compierlo è il Signore: " Mi chiamate Signore e fate bene perché lo sono " (v.12). E soggiunge: " Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve " (Lc 22,27). Così devono fare tutti i discepoli. " Il Figlio dell'uomo, infatti, non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti " (Mc 10,45).

C'è una misura per questo atteggiamento. Essendo l'espressione più tipica dell'amore, vale del s. quanto dicevano gli antichi: " La misura di amare è di amare senza misura ". Se un limite interviene è solo quello delle forze umane limitate. Ma si tende a " servire e dare la vita ": ciò che si è - ciò che si ha - ciò che si pensa - ciò che si fa. Può esigere talora un pizzico di eroismo. Ma questa è una componente tipica del Vangelo. S. Paolo sottolinea di essersi fatto tutto a tutti. Tutto è molto di più, perché è " tutto ". Include forze, doti, capacità, tempo.

II. In quali atteggiamenti concreti s'incarna questo s.? Questi i principali: a. alla base c'è l'opzione fondamentale di " vivere per gli altri ". La persona, infatti, non si realizza se non nel rapporto oblativo. b. Il vero padrone del s. è il bisogno. Esso è essenzialmente in funzione delle necessità degli altri. La formula aurea è qui quella di Giobbe: " Io ero gli occhi per il cieco, ero i piedi per lo zoppo " (29,15). c. Il s. cristiano non si realizza dando qualcosa all'altro, rimanendo estranei al suo dramma. Si realizza piuttosto in direzione opposta: superando l'alterità per arrivare alla condivisione: " Gioire con chi gioisce e piangere con chi piange " (cf Rm 12,15). Questo stile è tradotto nel concreto dalla parabola del buon Samaritano (cf Lc 10,25-37), che si china sulla persona umana, in qualunque modo ferita, e fa suo il dramma del malcapitato. d. Offrire il Vangelo è la prima ed essenziale forma di s. Tutte le altre seguiranno come naturale conseguenza. e. Per questa strada possono collaborare tutti ad offrire al mondo l'immagine di " una Chiesa tutta ministeriale ".

II. Nell'esperienza mistica. Poiché, come diceva Paolo VI, " il mondo di oggi ha bisogno di testimoni più che di maestri ", è bene evocare qualche incarnazione luminosa di questo s. evangelico.

L'apostolo Paolo anzitutto. Egli chiama se stesso, negli indirizzi delle sue lettere, " servo di Gesù Cristo " e " prigioniero del Signore ". Ha messo a disposizione delle Chiese la sua vita. Pur di annunciare il Vangelo, ha affrontato ogni sorta di difficoltà: fame, sete, nudità, prigionia. Come uno schiavo, non chiede ricompensa per il suo lavoro. Si sente debitore verso tutti, come uno che non si appartiene più. S. Benedetto, che pone nelle mani dell'abate ogni autorità per la guida del monastero, gli ricorda poi che suo compito è multorum servire moribus, mettersi cioè a s. dell'indole di ciascuno. Sulla sua scia, Gregorio Magno lascia ai suoi successori sulla cattedra di Pietro una formula che ne qualifica la missione su una linea ministeriale: servus servorum Dei. E stato chiamato " parroco della cristianità " e sappiamo dal suo epistolario che inviò una coperta di lana a un sacerdote di Sicilia malato di tosse. Del resto, si sa anche che serviva personalmente ogni giorno a mensa dodici poveri.

La storia della Chiesa è costellata di figure splendide che nel s. ai fratelli hanno raggiunto la vetta della perfezione.

E in questa prospettiva che si può parlare di una mistica del s., ossia di una consapevolezza di unione con Dio, accolta e " gustata ", che assume le connotazioni di un' offerta di sé in linea con l'offerta sacrificale di Cristo al Padre.

La liturgia primitiva concludeva le sue orazioni con la formula: Per servum tuum Jesum Christum, là ove oggi si dice: " Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio... ". Certo egli è il Signore, ma proprio perchè si è fatto " servo di JHWH ". Come lui, i cristiani ricevono dallo Spirito il carisma del s., che diviene un'esigenza per l'edificazione di una Chiesa tesa alla comunione con Dio e con i fratelli.

Bibl. H. Doohan, s.v., in Aa.Vv., The New Dictionary of Catholic Spirituality, Collegeville 1993, 875-877; T. Federici, s.v., in Aa.Vv. Dizionario del Concilio Ecumenico Vaticano II, Roma 1969, 1827-1830; L. Magenes, La vita come servizio, Varese 1987; T. O'Meara, Theology of Ministry, New York 1983; K.H. Rengstorf, Doúlos, in GLNT II, 1418-1466; C. Sorsoli, s.v., in DES III, 2304-2306.

M.A. Magrassi

SESSUALITÀ. (inizio)

Premessa. E un dato di recente acquisizione la considerazione dei dinamismi biologici e psicologici che sottostanno alla differenziazione dei sessi. Anche se si ritrova nel mondo animale, la s. è soltanto umana. Per s. s'intende, pertanto, la reciproca attrazione tra uomo e donna ai vari livelli. La genitalità è l'unione degli organi maschili e femminili predisposti per l'esercizio dell'amplesso delle due corporeità. Attraverso questo esercizio si pongono in essere i dinamismi idonei alla generazione. Non sempre questo esercizio è voluto consapevolmente, ma può essere posto in essere anche incoscientemente (in stato di ubriachezza). Ciò nonostante raggiunge la sua finalità, cioè il concepimento.

I. La s. propriamente detta è " il mondo " dei rapporti interpersonali, tra persone di sesso diverso, che hanno una serie articolata di espressioni sentimentali e corporee: sguardi, pensieri, ricordi, profumi, colori, carezze, baci, abbracci, effusioni di tenerezza. Tutto ciò significa " calore umano " che ha un suo punto di riferimento nell'amore. La " figura " più universale di amore umano è la madre con un bambino al seno. Da questo punto di vista tutto il " mondo " è " sessuale " perché le strutture elementari dell'esistenza cioè " il coniugale " (rapporto uomo-donna) e il " parentale " (rapporto genitori-figlio) sono interdipendenti e dinamiche.

E stato merito della psicanalisi l'aver portato a livello cosciente quei meccanismi inconsci distruttivi che si accomunano ai dinamismi della generazione: il padre genera il figlio, il figlio uccide il padre. Ciò è servito a porre in luce che il rapporto inter-umano è profondamente conflittuale e che questa conflittualità è presente perfino nei comportamenti sessuali (J.P. Sartre). Pertanto, se è vero che le pulsioni di vita e di morte sono alla pari, è anche vero che esiste un dinamismo di autotrascendimento che può essere spiegato soltanto in forza di una intenzionalità. Siamo, pertanto, al terzo livello, quello intenzionale che investe tutta la sfera della s. L'intenzionalità rende il gesto sessuale di una qualificazione tale che esso non può essere paragonato a nessun altro gesto. La sua potenza creativa è di tale intensità che coincide con l'esistenza e con le forme più elevate di essa: è l'ispirazione in poesia, musica, pittura, scultura, danza.

II. Nell'esperienza religiosa. In questo contesto si comprende come anche l'esperienza religiosa, nelle sue forme superiori, sia un'esistenza relazionale " caricata " di altissime intenzioni e creatività. Dante parlando di Maria dice: " Nel ventre tuo si raccese l'amore per lo cui caldo nell'eterna pace così è germinato questo fiore ".1 Tale relazionalità esprime un uscire da sé che, pertanto, introduce in una situazione estatica erotica che può spiegare perché la stessa estasi mistica, talvolta, sia descritta in termini di voluttà in cui lo smarrimento dell'io può diventare un confondersi dell'io con il tu. Il mistico trova, spesso, che l'unione erotica estatica esprime bene, simbolicamente, il suo immergersi e smarrirsi nell'oceanico amore divino. Hadewych d'Anversa, ad esempio, in Minne, così descrive il suo amore mistico verso il Cristo: " Venne lui stesso a me e mi prese tutta fra le sue braccia e mi strinse contro di sé e tutte le mie membra sentivano il contatto delle sue, così completamente quanto, seguendo il mio cuore, la mia persona l'aveva desiderato. Così esteriormente fui soddisfatta e saziata (...) Una sensazione esterna come quella dell'amante con l'amata, che si danno l'una all'altra nel pieno compiacimento di guardare, di sentire e di mescolarsi ".

Questa esperienza è superiore al sesso ed è esaltata in pagine stupende e intense del Cantico dei Cantici, per esempio i cc. 4,5 e 7, e si conclude con le parole della sposa: " Il mio amato è mio e io sono sua " (2,16; 6,3).

La mistica, pertanto, può diventare lo sbocco ultimo della s. coinvolgendo in sé tutte le tensioni positive e negative dell'animo, del corpo e dello spirito umano: questa triade viene unificata nell'intenzione superiore che non appartiene più all'uomo, ma è dono di Dio. Di questo dono è costituito il sacramento del matrimonio che è il luogo sessuale interno (madre-figlio; padre-madre; figlia-padre) che rispecchia il mistero trinitario e avvalora la sintesi teologica: " Deus charitas est " (1 Gv 4,8). Questo Dio-carità rende l'uomo capace di qualcosa di più alto: l'amore che va oltre sesso ed eros raggiungendo il vertice della donazione: " Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici " (cf Gv 15,13).

Vanno ricordate, purtroppo, molte degenerazioni (perversioni sessuali) che costituiscono l'ambito delle tensioni irrisolte e delle aspirazioni irrealizzate. Sono le " forme fissative " dei dinamismi psicologici traumatizzati che creano una molteplicità di istanze oscure e morbose, delle quali il soggetto, più vittima che protagonista, non riesce a integrarsi se non con l'aiuto della psicoterapia e con una intensa vita di grazia. Resta tuttavia questa spina nella carne (cf 2 Cor 12,7) che, nella crocifiggente esperienza del limite, può costituire anche un luogo salvifico in cui, recuperando la sua originale radice, l'uomo si protende a Dio per immergersi in lui e attraverso il riordino e la purificazione delle pulsioni, in un contesto di amore mistico, riesce ad esprimere la sua esperienza caritativa nello spirito del Cristo.

Note: 1 Paradiso XXXIII.

Bibl. Aa.Vv., Mystique et continence, Bruges 1952; Ch.-A. Bernard, Conoscenza e amore nella vita mistica, in La Mistica II, 253-294; A. Chapelle, Sexualité et sainteté, Bruxelles 1977; A. Cuvelier, Sensualità, sessualità e vita spirituale, Roma 1978; Frère Daniel-Ange, Il tuo corpo creato per l'amore. Sessualità e fede cristiana, Roma 1996; Giovanni Paolo II, Uomo e donna lo creò. Catechesi sull'amore umano, Città del Vaticano 1985; F. Giunchedi, Eros e norma. Saggi di sessualità e bioetica, Roma 1994; T. Goffi, s.v., in NDS, 1443-1462; Id., s.v., in DES III, 2306-2308; B. Häring, Liberi e fedeli in Cristo, II, Roma 1980, 587-679; A. Nygren, Eros e Agape. La nozione cristiana dell'amore e sue trasformazioni, Bologna 1971; M. Pochet, Sessualità in positivo, Roma 1990; J. Robinson, Il corpo. Studio sulla teologia di s. Paolo, Torino 1967.

B. Marra

SETTE CRISTIANE. (inizio)

I. Definizioni. Un'analisi dei rapporti fra " sette cristiane " e " fatto mistico " presuppone anzitutto il tentativo di definizione di questi due concetti, ciascuno non poco controverso. L'espressione " setta " - un tempo largamente utilizzata per indicare tutti i movimenti religiosi percepiti come devianti rispetto alle tradizioni maggioritarie - ha assunto in diverse lingue una connotazione prevalentemente polemica e, benché ancora molto usata nel linguaggio giornalistico e nella parlata quotidiana, viene sempre più sostituita, negli ambienti accademici, da espressioni meno immediatamente cariche di una connotazione negativa, soprattutto " nuovi movimenti religiosi ".

Anche il magistero cattolico - particolarmente in occasione del Concistoro straordinario del 1991 - ha espresso una preferenza per l'espressione " nuovi movimenti religiosi " (Arinze, 1991). La relazione generale del Concistoro distingue peraltro fra diverse sotto-categorie di nuovi movimenti religiosi, fra i quali i " nuovi movimenti religiosi di origine protestante " e i " nuovi movimenti religiosi di origine cristiana ". I primi - i nuovi movimenti religiosi di origine protestante - rimangono ancora protestanti nelle linee teologiche di fondo, ma escono dalla tradizione protestante maggioritaria per quanto riguarda l'ecclesiologia, il proselitismo o la vita spirituale. In questa categoria rientrano le comunità fondamentaliste indipendenti e i movimenti pentecostali (anche se - per quanto riguarda le comunità pentecostali di maggiori dimensioni e sviluppo internazionale - ci si può chiedere se la transizione verso il centro del mondo protestante non sia ormai, dopo una lenta evoluzione, completa). La seconda categoria - i nuovi movimenti religiosi di origine cristiana - comprende invece quei gruppi che, pur conservando un riferimento alla tradizione cristiana, si allontanano dal protestantesimo classico non solo nella prassi, ma anche nella teologia. Tra i movimenti nati nel secolo scorso la Scienza Cristiana, i Mormoni e i Testimoni di Geova appartengono senz'altro a questa categoria; ma molti altri gruppi sono nati nel nostro secolo. La ricerca storica più recente non ritiene che i nuovi movimenti religiosi di origine protestante e di origine cristiana costituiscano uno sviluppo " eretico " del protestantesimo classico dei grandi riformatori; ritiene - piuttosto - che fin dall'inizio dalla Riforma " classica " vada distinta la Riforma " radicale " (la cui ala più nota è il movimento anabattista); ed è dalla seconda, non dalla prima che, attraverso una complessa genealogia, si arriva alle due categorie di nuovi movimenti religiosi cui si è fatto cenno. Naturalmente la Riforma " radicale " ha influenzato anche gruppi che non possono essere considerati nuovi movimenti religiosi, ma che fanno parte, a pieno titolo, del protestantesimo maggioritario come i Battisti; anche se è opportuno segnalare che la tesi secondo cui la variegata corrente battista abbia origine dalla Riforma radicale viene ormai seguita solo da una parte minoritaria degli storici (la maggioranza ritiene che le origini dei Battisti si situino piuttosto all'interno del dissenso calvinista britannico). In ogni caso - e cercando di sottrarre al termine ogni connotazione valutativa - si può anche conservare l'espressione s. (in quanto più vicina al linguaggio comune) per identificare una species - quella, appunto, dei nuovi movimenti religiosi di origine protestante e di origine cristiana - all'interno del genus più vasto dei nuovi movimenti religiosi (che comprendono anche gruppi di origine orientale, magico-esoterica e così via).

Proprio l'origine dalla Riforma radicale è alla base di una certa ambiguità nell'atteggiamento delle s. di fronte all'espressione " mistica ". Non sempre questa espressione gode di buona stampa, e per molti gruppi - dalle comunità fondamentaliste indipendenti ai Testimoni di Geova - " mistica " è piuttosto un'espressione negativa che designa un atteggiamento irrazionalistico in cui le emozioni degli uomini offuscano la chiarezza della Parola di Dio. Questi gruppi ammettono che nella " mistica " l'uomo possa entrare in contatto con forze che trascendono le sue capacità naturali, ma ritengono che queste forze siano di origine diabolica. Da questo punto di vista nel mondo fondamentalista (e anche fra i Testimoni di Geova e presso altri gruppi ancorati a un letteralismo biblico) " mistica " è un'espressione negativa con cui viene facilmente squalificata la religiosità orientale (induista o buddista); oggi si accusano di essere " mistici " anche il moderno occultismo e il New Age, e non è raro vedere sospettata di un " misticismo " ambiguo anche la Chiesa cattolica. Benché queste sette cristiane si considerino per molti versi anti-moderne, non è difficile scorgere nel loro atteggiamento - che ha fiducia nella capacità di ogni uomo di leggere la Bibbia sicut litterae sonant, senza lasciarsi confondere da " misticismi " fumosi - l'eredità di una filosofia moderna immensamente popolare in un certo mondo protestante angloamericano, il realismo scozzese del senso comune. Per altri versi, tuttavia, la Riforma radicale, fin dalle sue origini, presentava al suo interno, accanto a una corrente letteralista e razionalista, una corrente spiritualista che non rifiutava né il concetto né l'espressione " mistica ". Il frutto più maturo della corrente spiritualista della Riforma radicale è costituito dal movimento quacchero. E un quacchero moderno influente come Rufus Jones definiva il misticismo " il tipo di religione che pone la sua enfasi sull'immediata consapevolezza di una relazione con Dio, sulla diretta e immediata coscienza della Divina presenza ", rilevando come si tratti della religione " nel suo stadio più acuto, intenso e vivo " (Jones, 1909, p. XV). Questa " immediata consapevolezza di una relazione con Dio " si ritrova largamente nel mondo delle s., dagli Shakers ai pentecostali fino a gruppi contemporanei come The Family, la Chiesa dell'Unificazione o Vita Universale. In altri gruppi - come i Mormoni, gli Avventisti, la Scienza Cristiana - l'ambiguità della Riforma radicale è ancora ben presente, nel senso che fenomeni ed esperienze di tipo estatico (oggi legati nel mondo mormone anche a un dissenso femminista) coesistono con reazioni contro il misticismo e con una grande riservatezza quanto all'uso del termine " mistica " influenzata dalle connotazioni negative che ha assunto in altri ambienti.

II. Gli Shakers. I nuovi movimenti religiosi di origine protestante o di origine cristiana sono diverse migliaia. Ci limiteremo a due esempi particolarmente rilevanti per i rapporti con la mistica, uno per la sua importanza storica, l'altro per il suo rilievo contemporaneo. Qualunque discussione sul misticismo delle sette cristiane sarebbe incompleta senza un riferimento agli Shakers, una comunità fondata in Inghilterra da Ann Lee ( 1784) e trasferitasi negli Stati Uniti nel 1774. Le radici degli Shakers (" tremolanti ") si collocano nell'ambito della corrente spiritualista della Riforma radicale, per cui è evidente un'influenza quacchera. Nei loro anni formativi i seguaci di Ann Lee - membri di una " Società Unita dei Credenti nella Seconda Venuta di Gesù Cristo " - venivano chiamati spregiativamente " shaking Quakers " (" quaccheri tremolanti ") o - appunto - Shakers, un nome che, nonostante le sue origini non lusinghiere (come " Mormoni " e altri), più tardi i seguaci di questa tradizione religiosa avrebbero accettato volentieri. Caratteristiche principali degli Shakers - e ragione non ultima delle persecuzioni a cui furono a lungo sottoposti - erano un notevole entusiasmo religioso e una serie di fenomeni mistici che raggiunsero il loro culmine negli anni immediatamente precedenti la morte della fondatrice: esperienze estatiche, svenimenti, contorsioni convulsive del corpo, dono delle lingue, visioni, profezie. Giacché gli Shakers - esempio unico di monachesimo nato in un ambiente protestante - adottavano il celibato più rigoroso in monasteri doppi composti di uomini e di donne, una interpretazione psicoanalitica (Kern, 1981) ha visto senza difficoltà nelle loro esperienze mistiche una sublimazione degli impulsi sessuali repressi. Non c'è dubbio che, particolarmente nel sec. XIX, il controllo della sessualità avesse un ruolo nell'esperienza degli Shakers come in quella di altri gruppi religiosi minoritari (Foster, 1981). Tuttavia, il celibato è rimasto un dato costante nella storia degli Shakers, mentre i fenomeni mistici hanno avuto piuttosto un andamento ciclico, con alti e bassi a seconda delle diverse comunità, dei diversi leader, delle diverse modalità con cui il ruolo della fondatrice Ann Lee (talora considerata la seconda venuta di Gesù Cristo, o l'incarnazione femminile di Dio, altre volte vista con maggiore moderazione) si andavano precisando nel corso dei decenni e dei secoli. La psicanalisi non basta a spiegare quella che a molti osservatori è apparsa un'esperienza religiosa straordinariamente intensa, spesso con forti connotazioni estatiche (Stein, 1992).

Occorre aggiungere che le esperienze mistiche degli Shakers non hanno avuto luogo - come talora si crede - in totale isolamento dall'ambiente circostante, ma sono spesso state influenzate da correnti religiose anche lontane dal mondo della fondatrice. Così, negli anni in cui lo spiritismo (anche prima della sua data di origine " ufficiale " del 1848) si andava diffondendo in Europa e negli Stati Uniti, gli Shakers conobbero l'" epoca delle manifestazioni " (1837-1850), in cui estesi fenomeni di medianità con la manifestazione e i messaggi di numerosi spiriti (fra cui alcuni ebrei dei tempi biblici, altri indiani, cinesi e così via) determinarono un prolungato revival nelle loro comunità. Da allora, i contatti con gli ambienti spiritisti sono stati frequenti e negli anni 1950-1960 la comunità Shaker di Canterbury (New Hampshire) si manifestava " interessata alle religioni orientali, all'occulto, alla ricerca psichica e ad Edgar Cayce " (quest'ultimo un famoso veggente americano che ha influenzato il New Age: Stein, 1992, p. 389). Questi interessi non sono stati condivisi da tutti gli Shakers, e del resto negli ultimi anni - mentre il movimento era ormai ridotto a una decina di seguaci - si è determinato un contrasto fra gli Shakers " ecumenici " di Canterbury, che hanno accettato l'estinzione decidendo di non ammettere nuovi membri nella Società, e il villaggio più " tradizionalista " di Sabbathday Lake (Maine) dove la prospettiva dell'estinzione è stata rifiutata. Determinando, così, uno scisma con Canterbury, nuovi membri giovani sono stati recentemente accolti. Questi episodi dimostrano, tuttavia, come gli Shakers - che affascinano la cultura americana soprattutto per la loro arte e il loro artigianato - si siano posti consapevolmente come punto di incontro fra varie tendenze " mistiche " che hanno saputo vivere e interpretare con caratteristiche uniche.

III. Dal pentecostalismo alle " Chiese dei segni ". L'albero genealogico della complessa galassia pentecostale ha alla sua radice il metodismo e la dottrina della santificazione di John Wesley ( 1791). L'antecedente immediato è costituito dal movimento holiness (" santità "), sorto in gran parte all'interno del mondo metodista (ma con una parallela corrente nelle comunità riformate di origine calvinista) che attribuiva alla seconda esperienza cruciale della vita cristiana dopo la conversione, la santificazione, il potere di confermare il fedele nella santità " sradicando " la tendenza al peccato. L'espressione " battesimo dello Spirito Santo " - come terza esperienza successiva alla santificazione, ovvero come nome specifico della stessa esperienza di santificazione - era comune nel movimento holiness (che negli ultimi decenni dell'Ottocento ruppe i legami con le origini metodiste dando vita a una serie di denominazioni indipendenti), e la glossolalia o " dono delle lingue " era stata sperimentata in numerosi gruppi religiosi, dai Camisards francesi ai primi Mormoni. E, tuttavia, agli inizi del nostro secolo - nella scuola missionaria di Charles Parham a Topeka (Kansas) e successivamente nel celebre revival della chiesa di Azusa Street a Los Angeles animato da un allievo afro-americano di Parham, William Seymour - che si cominciò a parlare del " dono delle lingue " come prova necessaria e sufficiente per ogni fedele del " battesimo dello Spirito Santo ".

Da questi episodi nasce il movimento pentecostale. Nei decenni successivi le denominazioni holiness si divisero fra quelle che rifiutavano il pentecostalismo (come la Chiesa del Nazareno) e quelle che lo accettavano entusiasticamente (come la Chiesa di Dio con sede a Cleveland, Tennessee). Il mondo pentecostale si divise a sua volta a proposito soprattutto di due controversie: una sulle esperienze fondamentali del cristiano (tre - conversione, santificazione e " battesimo dello Spirito " - per l'ala più legata alle origini metodiste; due soltanto - conversione e " battesimo dello Spirito " - secondo altri) e l'altra sul battesimo, da conferire soltanto nel nome di Gesù Cristo - anziché del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo - secondo una corrente detta " oneness ", " unità ", senza che si possa parlare di " unitariani " in senso classico perché gli unitariani negano la divinità di Gesù Cristo mentre i pentecostali oneness l'affermano vigorosamente, rifiutando però la distinzione personale dal Padre e da Gesù Cristo.

Negli ultimi anni la crescita delle grandi denominazioni pentecostali rappresenta uno degli aspetti piu impressionanti del panorama religioso mondiale: le Assemblee di Dio, con i loro ventitré milioni di aderenti nel 1997, si avviano secondo molte previsioni - e, naturalmente, secondo chi considera i pentecostali protestanti - a diventare la singola denominazione protestante con il maggior numero di fedeli praticanti nel mondo. Tuttavia - paradossalmente - a questo successo (confermato dalla diffusione dell'interesse per la spiritualità pentecostale anche all'interno delle comunità cristiane storiche) sembra essersi accompagnata una certa riduzione dell'enfasi originaria sulle esperienze propriamente mistiche: in molte chiese delle Assemblee di Dio il " parlare in lingue " sembra ormai un evento raro, che non è più al centro dell'esperienza quotidiana dei fedeli (Blumhofer, 1991; Poloma, 1989). Tuttavia, non si deve ridurre il mondo pentecostale alle grandi denominazioni come le Assemblee di Dio. Al contrario, la sua straordinaria vitalità deriva piuttosto da migliaia di piccole comunità indipendenti che hanno avuto uno straordinario sviluppo non soltanto negli Stati Uniti, ma anche in alcuni paesi europei, in Corea e in America Latina (Martin, 1990).

A prescindere da ogni valutazione teologica e spirituale sulle caratteristiche specifiche di queste esperienze, il visitatore di una comunità pentecostale latino-americana rimane colpito dalla proliferazione di fenomeni mistici: non soltanto " dono delle lingue " ma anche guarigioni, profezie, stati simili alla trance, veglie di preghiera che si protraggono per lunghe ore. Talora il " misticismo " pentecostale presenta fenomeni ancora più sorprendenti. Nel Sud degli Stati Uniti si sono diffuse, fin dai primi decenni del nostro secolo, le " Chiese dei segni " - alle cui origini si trova George Hensley - che, interpretando letteralmente il Vangelo di Marco 16, 17-18, ritengono di dover dimostrare la loro fede tenendo in mano serpenti velenosi o carboni ardenti, ovvero bevendo coppe di veleno (in genere stricnina). Questi gruppi godono di una certa notorietà giornalistica e sono apparsi in alcuni documentari televisivi, spesso etichettati come " culti dei serpenti " (espressione che dal canto loro rifiutano, preferendo " Chiese dei segni "). Si comprende come i serpenti - tenuti in apposite scatole di legno decorate con invocazioni e preghiere - e le coppe di stricnina possano colpire facilmente l'attenzione, soprattutto quando - come è capitato spesso - qualcuno dei fedeli o dei leader muore durante le cerimonie (vietate in alcuni Stati degli Stati Uniti, ma tuttora popolari nonostante i divieti).

Occorre, tuttavia, ricordare che il movimento " dei segni " è nato all'interno di una delle maggiori denominazioni pentecostali, la Chiesa di Dio di Cleveland (Tennessee). Originariamente è stato accolto con favore da questa comunità (che oggi lo condanna). Occorre, altresì, ricordare che le analisi antropologico-sociologiche più sofisticate hanno mostrato che - al di là dei cliché giornalistici - i fedeli di questi gruppi appartengono a pieno titolo alla subcultura fondamentalista, in una variante pentecostale che ha una lunga tradizione. La loro idea dell'esperienza religiosa - e la teologia che la sostiene - sono indistinguibili da quelle di altri gruppi pentecostali (Burton, 1993). Nonostante tutto, le pratiche da " virtuoso " spirituale - i serpenti, il fuoco, il veleno - non sembrano prevalere su un senso acuto dell'incontro con Dio: le " Chiese dei segni " insistono sul fatto che queste esperienze estreme possono essere tentate soltanto nel momento in cui ci si sente in the anointing (" nell'unzione ") e che l'incauto che tentasse di accedere ai " segni " senza trovarsi in un'intima ed estatica unione con Dio non potrebbe che fallire, con conseguenze tragiche (e spesso fatali).

Il paradosso delle " Chiese dei segni " - che abbiamo scelto fra molti esempi possibili proprio per il suo carattere estremo e a suo modo istruttivo - mostra tutta l'ambiguità del rapporto che collega una parte del mondo delle s. e la mistica, tra ricerca genuina di un'esperienza di Dio (che si avrebbe torto a mettere in ridicolo o a disprezzare) e il rischio che questa esperienza, in mancanza di un solido quadro teologico di sostegno, venga perseguita in forme deviate o aberranti.

Bibl. Aa.Vv., Sette e nuovi movimenti religiosi. Testi della Chiesa cattolica 1986-1994, Roma 1997; F. Arinze, La sfida delle sette o nuovi movimenti religiosi: un approccio pastorale, Relazione generale al Concistoro Straordinario del 1991, Pontificio Consiglio per il Dialogo Inter-religioso, Città del Vaticano 1991; E. Blumhofer, Restoring the Faith: The Assemblies of God, Pentecostalism, and American Culture, Urbana-Chicago 1993; T. Burton, Serpent-Handling Believers, Knoxville 1993; L. Foster, Religion and Sexuality: Three American Communal Experiments of the Nineteenth Century, New York 1981; M. Introvigne, Le nuove religioni, Milano 1989; Id., I Mormoni, Città del Vaticano 1993; R. Jones, Studies in Mystical Religion, London 1909; L.J. Kern, An Ordered Love: Sex Roles and Sexuality in Victorian Utopias - The Shakers, the Mormons, and the Oneida Community, Chapel Hill 1981; D. Martin, Tongues of Fire: The Explosion of Protestantism in Latin America, Oxford 1990; E. Pace, Le sette, Bologna 1997; S. Pollina - A. Ceveta, Movimenti religiosi alternativi. Effetti dell'adesione e motivi dell'abbandono, Città del Vaticano 1998; M. Poloma, The Assemblies of God at the Crossroads: Charisma and lnstitutional Dilemmas, Knoxville 1989; H. Stamm, Le sette, Cinisello Balsamo (MI) 1997; S.J. Stein, The Shaker Experience in America: A History of the United Society of Believers, New Haven-London 1992.

M. Introvigne

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