ECKHART MEISTER - EZQUERRA PABLO - DIZIONARIO DI MISTICA

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ECKHART MEISTER - EZQUERRA PABLO

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ECKHART MEISTER. (inizio)

I. Vita e opere. E. di Hochheim, detto " Maestro ", rappresenta il prototipo del mistico. Nasce nel 1260 ca. a Tambach, presso Gotha, ed entra ben presto a far parte dell'Ordine domenicano di Erfurt. Studia a Colonia e a Parigi; divenuto priore di Erfurt e vicario della Turingia, compone i Trattenimenti spirituali. Nel 1302 è per due volte lettore di teologia a Parigi. Nel 1323 va a Colonia. Nel 1326, l'arcivescovo di questa città inizia contro di lui un processo inquisitorio. E. si difende con uno scritto di giustificazione, un testo di grande importanza conservato nella Rechtfertigungsschrigt. Per appellarsi al Papa, si reca ad Avignone. Il 27 marzo 1329 appare la Bulla in agro dominico, contenente ventisei tesi in parte ritenute eretiche, in parte pericolose, di E. che nel frattempo è morto.

Pure se di riflesso, egli continua ad esercitare un ruolo importante con le sue prediche in tedesco e i trattati, gran parte dei quali sono pubblicati con uno pseudonimo. All'inizio del sec. XIX, con la riscoperta delle prediche tedesche, egli viene considerato il rappresentante di un cristianesimo germanico estraneo alla tradizione romana.

Le opere in latino, curate da J. Koch - K. Weiss - H. Fischer (Stuttgart 1936-1978), comprendono i seguenti titoli: Quaestiones parisienses, Opus tripartitum, che avrebbe dovuto comprendere tre parti distinte, Collatio in Libros sententiarum.

Le opere in tedesco, curate da J. Quint in 5 volumi (Stuttgart 1958ss.) sono raccolte in Die Deutschen Werke.

II. Dottrina. Ciò che nella " mistica intellettuale " E. affermò " dal punto di vista dell' eternità " fu interpretato dai suoi oppositori come " secondo il tempo ". Ciò che Taulero, suo discepolo, vuol dire commentando il Maestro, diventa chiaro alla luce della tradizione scolastica di Alberto Magno, della quale E. fu il rappresentante più significativo. Questa tradizione domenicana raccoglie assai più di quella tomistica il pensiero neoplatonico: tutto ciò che esiste nello spazio e nel tempo, tutto quello che l'uomo è ed esperimenta esiste dall'eternità in tutta la sua verità in Dio unito alla sua eterna sapienza e volontà. Ma in Dio uno non c'è alcuna molteplicità e, per questo, il suo volere e la sua sapienza costituiscono un'unità inscindibile. L'uomo ritrova, dunque, tutto il suo essere e il senso del suo agire nella eterna unità di Dio. Visto così, " dall'eternità ", egli diviene una cosa sola con Dio. Questo è un insegnamento che pervade tutta la tradizione cristiana. E. lo coglie traendone le straordinarie conseguenze e completandolo con quello dei Padri della Chiesa greci, gli conferisce il segno distintivo della fede cristiana: l' uomo è una cosa sola con Dio, ma soltanto grazie a un dono, a una grazia, alla volontà creatrice di Dio, che è Dio nel suo essere più profondo. Vita ed esperienza cristiana significano vivere e sperimentare completamente questo dono divino e vivere perciò nell'essere eterno di Dio. L'uomo, dunque, è " uno " con Dio grazie a un dono, non per un possesso personale. Per merito della grazia egli è anche una cosa sola con la più intima manifestazione di Dio, con la " nascita della Parola dal Padre " attraverso la quale anche l'unità di Dio risulta non eliminata, bensì accresciuta. In ciò consiste per E. il cristianesimo vissuto e sperimentato: questo è propriamente il significato della mistica cristiana.

E interessante vedere come da questo accostamento di pensiero ed esperienza risultino nei confronti della vita un atteggiamento oltremodo attivo ed un apprezzamento del mondo creato, il quale sempre per merito della grazia, non del suo essere, è una sola cosa con Dio. La seconda predica sulla visita di Gesù a Betania inverte l'interpretazione del testo: l'operosità di Marta è quella che realizza la parte migliore, mentre Maria è ancora a metà strada.

E. sottolinea la " razionalità " della mistica cristiana; mostra anche come le pretese del panteismo siano da integrare in senso teistico e costruisce, quindi, una base per il dialogo interreligioso con l'Oriente.

Bibl. Opere: E. Bonaiuti, Prediche e trattati, Bologna 1927; G. Faggin, Meister Eckhart: la nascita eterna, Firenze 1953, Vicenza 1996; Id., Meister Eckhart: Il natale dell'anima, Vicenza 1976; Id., Meister Eckhart: Trattati e prediche, Milano 1982; A. Hermet, Meister Eckhart: Sermoni, Lanciano (CH) 1930; M. Vannini (cura di), Meister Eckhart: Opere tedesche, Firenze 1982; Id., I sermoni latini, Roma 1989; Id., Antologia, Firenze 1992; Id., Meister Eckhart: la nobilità dello Spirito, Casale Monferrato (AL) 1996; Id., Eckhart, L'uomo e l'infinito, a cura di R. Bellinzaghi, Milano 1997. Studi: D. Abbrescia - Giovanna della Croce, s.v., in DES II, 858-862; J. Ancelet-Hustache, Maestro Eckhart e la mistica renana, Milano 1992; G. Della Volpe, Eckhart o della filosofia mistica, Roma 1952; H.D. Egan, Meister Eckhart, in Id., I mistici e la mistica, Città del Vaticano 1995, 327-338; G. Faggin, Meister Eckhart e la mistica tedesca preprotestante, Milano 1946; M. Frösche, s.v., in WMy, 124-129; A.M. Haas, Meister Eckhart, in G. Ruhbach - J. Sudbrack, Grandi mistici, I, Bologna 1987, 221-238; A. Klein, Meister Eckhart: La dottrina mistica della giustificazione, Milano 1978; R.L. Oechslin, s.v., in DSAM IV1, 93-116; K. Ruh, Meister Eckhart, Brescia 1989; C. Smith, La via del paradosso. La vita spirituale secondo Maestro Eckhart, Cinisello Balsamo (MI) 1992.

J. Sudbrack

ECUMENISMO. (inizio)

I. La nozione. Il termine e. è oggi usato in maniera molto varia e talvolta in un'accezione molto lontana dal suo vero contenuto. Secondo il Concilio Vaticano II e il Consiglio Ecumenico delle Chiese di Ginevra, l'e. è unicamente ed esclusivamente lo sforzo perseguito dalle Chiese e dalle comunità ecclesiali per ritrovare e sviluppare l'unità visibile dei cristiani nella confessione della fede, nella comunione sacramentale e nella condivisione fraterna. E uno sforzo di preghiera, di dialogo e di ricerca. Il rapporto con le religioni non-cristiane non è e. ma " dialogo ".

L'unità visibile delle diverse Chiese e comunità ecclesiali distribuite nel mondo, certamente secondo confessioni di fede diverse e apparentemente divergenti, ma anche a causa delle vicissitudini storiche, potrà realizzarsi solo nella chiarezza originata dalla testimonianza alla verità fondata sulla Parola di Dio. Le espressioni comuni, approssimative o superficiali di questa verità, possono condurre solo ad un'unione confusa e fragile, che si sfalderà alla prima occasione o che farà perdurare malintesi inefficaci sulla vita spirituale profonda. Il Concilio Vaticano II ha messo molto giustamente in rilievo la conversione del cuore e dello spirito per una vera riscoperta dell'unità visibile dei cristiani: " Non c'è vero e. senza una conversione interiore. Infatti, il desiderio dell'unità nasce e matura dal rinnovamento dello spirito, dall' abnegazione di se stesso e dalla libera effusione della carità. Perciò dobbiamo implorare dallo Spirito Santo la grazia di una sincera abnegazione, dell' umiltà e mansuetudine nel servire e della fraterna generosità di animo verso gli altri (cf Ef 4,1-3) (...). Questa esortazione riguarda soprattutto coloro che sono stati innalzati all'ordine sacro per continuare la missione di Cristo, il quale "non è venuto tra noi per essere servito, ma per servire" (Mt 20,28) " (UR 7a).

II. Il cammino dell'e. Dopo un grande slancio del movimento ecumenico, dagli anni Venti agli anni Settanta, si assiste ad un ristagno, dovuto probabilmente alla delusione del popolo cristiano che aspettava l'unità come un frutto rapidamente maturo del Concilio Vaticano II. Certo, si è operato un grande ravvicinamento, si è sviluppata una migliore comprensione reciproca, si è potuta stabilire una reale fraternità, ma l'unità visibile, in una confessione comune della fede, una celebrazione comune dell' Eucaristia, un ministero comune del sacerdozio del Cristo, richiederà, secondo una prospettiva umana, ancora molto tempo.

Questa unità visibile dei cristiani nell'unica Chiesa voluta dal Cristo non consiste in una uniformità che ne livellerebbe le differenze legittime, dovute alla diversità dei carismi dello Spirito Santo. Si tratta dell'unità nella pluriformità delle tradizioni legittime, che traduce il riconoscimento di ciò che è fondamentale, purché esista una comunione reale delle Chiese particolari nella Chiesa universale. Gli incontri ecumenici, che hanno elaborato testi convergenti in questi ultimi anni, hanno ricercato quella stessa unità visibile nel nucleo necessario fondamentale o, in altri termini, in ciò che è richiesto e basta perché sia ristabilita la comunione cattolica della Chiesa universale voluta dal Cristo.1

Sulla base di questi testi convergenti, soprattutto il Documento di Lima (BEM) e le risposte che hanno dato a questo testo circa centocinquanta Chiese,2 si è in grado di indicare i punti di convergenza e di accordo, nonché i punti sui quali sussiste una importante divergenza. Proprio qui si dovrà operare uno sforzo di conversione delle mentalità se si vuole pervenire all'unità fondamentale e visibile, all'unità necessaria e sufficiente per una vera comunione delle Chiese particolari nella Chiesa universale.

E certo che esiste già tra i cristiani, nelle Chiese e comunioni ecclesiali, un'unità fondamentale che tende, in virtù dello Spirito Santo che l'anima, a diventare l'unità necessaria alla ricostruzione della comunione visibile.

Questa unità fondamentale consiste nella ricerca della Parola di Dio in seno all'unica Scrittura dell'antica e della nuova alleanza. Certo, gli approcci sono talvolta diversi, ma è già molto importante che tutti ricerchino la verità alla stessa sorgente.

Questa suscita in ciascuno una fede comune in Dio Trinità, Padre e Creatore dell'universo, in Gesù Cristo vero Dio e vero uomo, nello Spirito Santo che dà e anima la vita spirituale nella Chiesa. Questa fede fondamentale è la radice dello sviluppo della nostra comunione visibile.

Sempre più le Chiese riconoscono che un solo battesimo unisce tutti i cristiani nel Corpo del Cristo. Questa unità del battesimo è stata fortemente sottolineata al Concilio Vaticano II; essa è diventata uno degli elementi della nostra comunione visibile attuale. Tutti i cristiani hanno in comune una preghiera identica che li raduna in una stessa intenzione: è la preghiera che Cristo ha trasmesso ai suoi discepoli, il Padre Nostro. Questa preghiera sarà pienamente esaudita quando la volontà d'unità espressa dal Cristo (cf Gv 17) sarà visibilmente realizzata.

Infine, è una stessa missione che spinge tutti i cristiani a proclamare il Vangelo mediante la testimonianza della parola e l'amore fraterno generoso. Uniti già da questo compito di evangelizzazione del mondo, i cristiani desiderano ricercare una stessa espressione della loro fede nell'unità visibile della Chiesa.

Sulla base di questa unità nella Parola di Dio, nella fede trinitaria e cristologica, nel battesimo, nella preghiera e nella missione, le diverse comunioni cristiane possono già confessare insieme la fede nella Chiesa una, santa, cattolica e apostolica.

In questa ricerca ecumenica, le note della Chiesa o le sue caratteristiche assumono un senso, nello stesso tempo, nuovo ed antico. La Chiesa è la santa Chiesa che è unica e che è cattolica e apostolica. Ma come l'unità universale può essere conservata e anche garantita nella Chiesa, che consiste nella comunione di Chiese particolari, così diverse per la loro storia e la loro cultura? Ogni Chiesa particolare è cattolica, in particolare nella celebrazione dell'Eucaristia che la mette in comunione con le altre Chiese particolari. Occorre a questa comunione di Chiese nella Chiesa universale un servizio che la protegga.

La Chiesa cattolica afferma che questo ministero è svolto dal vescovo di Roma. Il dialogo ecumenico non può sfuggire a questa sfida lanciata dalla Chiesa cattolica. E chiaro che l'unità delle Chiese particolari, ognuna cattolica, non può farsi e mantenersi che sotto la vigilanza di un ministero universale: ma siamo ancora lontani da un'accettazione reciproca di questa realtà. Ci sono vari aspetti che devono probabilmente essere purificati, aspetti storici, aspetti culturali, perché veramente sorga quel ministero in tutta la sua essenzialità, in tutto il suo carattere fondamentale; si può dire che gli ultimi papi abbiano fatto un grande sforzo per purificare questo ministero da tutto ciò che non gli appartiene. Giovanni Paolo II è oggi un esempio di ciò che può essere il pastore dei pastori, il servo dei servi di Dio, il ministro dell'unità.

La dottrina cattolica afferma, insieme, il carattere universale visibile della Chiesa e il suo carattere locale o particolare. La cattolicità è vissuta dalla Chiesa particolare nella misura in cui questa è in comunione con tutte le altre Chiese particolari nel seno della Chiesa universale, grazie alla collegialità dei vescovi assicurata dal ministero dell'unità del vescovo di Roma, il papa, successore di Pietro. La Chiesa particolare vive, dunque, nella pienezza cattolica e nella continuità apostolica grazie al servizio di unità del suo vescovo che le assicura i diversi ministeri della Parola e dei sacramenti mediante l'ordinazione sacramentale (sacerdoti e diaconi). La Chiesa universale, come quella particolare, ha un carattere visibile e istituzionale grazie al servizio d'unità del papa, vescovo di Roma e successore di Pietro, che presiede alla collegialità dei vescovi, grazie ai Concili e ai Sinodi che egli può convocare, grazie alla cura di tutte le Chiese che è il suo compito specifico.

Si è constatato che esiste tra le Chiese e comunità ecclesiali una certa unità di fede fondamentale che si è espressa nei diversi documenti redatti nei numerosi incontri ecumenici. Questi testi hanno affrontato la dottrina del battesimo, dell'Eucaristia, del ministero e dell'autorità; essi suppongono una ecclesiologia ecumenica fondamentale, ma non ancora realizzata nei fatti. Da questa unità fondamentale, ma parziale, occorre ora passare all'unità visibile necessaria e sufficiente che si inscriva nella realtà concreta, affinché le Chiese realizzino veramente il segno della loro comunione plenaria nell'unica santa Chiesa cattolica e apostolica.

III. Un nuovo slancio per l'e. Sin dalla pubblicazione tanto attesa ed auspicata della Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint, del 25 maggio 1995, l'e. conosce un vero slancio nuovo. Riassumendo tutta la problematica, Giovanni Paolo II passa in modo molto spirituale e pastorale in rassegna il cammino ecumenico percorso per indicare ora le priorità per il futuro del dialogo ecumenico.

Questo cammino, a partire dall'unità fondamentale, ma parziale, verso l'unità visibile necessaria e sufficiente, nella comunione dell'unica Chiesa voluta dal Cristo, esige ancora un paziente e coraggioso lavoro che deve stimolare il movimento ecumenico futuro. Importanti questioni si pongono ora, che dovranno portare a decisioni che impegnano la fede, la struttura e la vita delle Chiese, toccando ciò che esse considerano spesso come l'espressione della loro identità, che richiedono da parte loro il sacrificio di alcuni elementi delle loro tradizioni, come pure possono essere un arricchimento per raggiungere lo scopo tanto atteso della loro comunione plenaria nell'unità vera e visibile.

Secondo la lettera Enciclica Ut unum sint si possono discernere fin d'ora i campi della dottrina cristiana che dovranno essere approfonditi in vista di un avvicinamento che possa sfociare, un giorno, in un vero accordo della fede.

1. Le relazioni tra Sacra Scrittura, suprema autorità in materia di fede e la sacra tradizione, indispensabile interpretazione della Parola di Dio;

2. L'Eucaristia, sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo, offerta di lode al Padre, memoriale sacrificale e presenza reale di Cristo, effusione santificatrice dello Spirito Santo;

3. L'ordinazione, come sacramento, al triplice ministero dell'episcopato, del presbiterato e del diaconato;

4. Il magistero della Chiesa, affidato al Papa e ai vescovi in comunione con lui, inteso come responsabilità e autorità a nome di Cristo per l'insegnamento e la salvaguardia della fede;

5. La Vergine Maria, Madre di Dio e icona della Chiesa, Madre spirituale che intercede per i discepoli di Cristo e tutta l'umanità (cf UUS 79).

Quando l'idea cristiana dell'unità della Chiesa si approfondisce per un movimento interiore dello spirito, l'unità da problema e dialogo di concetti si fa " mistero vissuto ", che si radica con forza nell'intimo e diventa desiderio di andare fino in fondo al significato della preghiera sacerdotale di Gesù. Tale desiderio sfocia per alcune anime sorrette da particolari doni di grazia in un atteggiamento che si può chiamare " mistica dell'unità ". Diventa ragione e offerta di vita, come per esempio in sr. Maria Gabriella Sagheddu, e nella ven. Madre Elisabetta Hesselblad, ambedue apostole dell'e.

Note: 1 Cf il lavoro di Fede e Costituzione (Consiglio Ecumenico delle Chiese) nel Documento di Lima (BEM), i testi cattolico-anglicani (ARCIC), quello del dialogo cattolico-ortodosso, quello del Gruppo dei Dombes...; 2 Cf Churches Responds to BEM, 6 vol.; 3 Lettera enciclica " Ut unum sint ".

Bibl. P. Beltrame Quattrocchi, Gabriella dell'Unità, Vitorchiano (VT) 1981; C. Bove - M.C. Guidi, Biografia documentata Mariæ Elisabetta Hesselblad. Positio super vita, Romae 1996; Commissione Fede e Costituzione, Battesimo, Eucaristia e Ministero, Torino 1983; Y Congar, Saggi ecumenici. Il movimento, gli uomini, i problemi, Roma 1986; E. Foullioux, Les catholiques et l'unité chrétienne du XIX au XX siècle, Paris 1982; Groupe des Dombes, Pour la communion des Eglises, rapporti dal 1937 al 1987, Paris 1988; S.C. Neill, Storia del movimento ecumenico dal 1517 al 1948, 2 voll., Bologna 1973; G. Pattaro, Corso di teologia dell'ecumenismo, commento al Direttorio ecumenico, Brescia 1984; S. Spinsanti, Ecumenismo spirituale, in NDS, 460-478; M. Thurian, Churches Responds to BEM, 6 voll., Fede e Costituzione, COE, Ginevra 1986-1988; Id., Commenti sull'" Ut unum sint ". L'ecumenismo dell'apertura e della chiarezza, L'esigenza della verità, L'ecclesiologia necessaria al dialogo ecumenico, La preghiera per l'unità visibile dei cristiani, Mater Unitatis: Maria intercede per l'unità, Città del Vaticano (in preparazione); Enchiridion Oecumenicum, 3 voll., Bologna 1986; M. Tuader, La donna più straordinaria di Roma, Città del Vaticano 1977; M. Villain, Ecumenismo spirituale. Gli scritti di P. Couturier, Alba (CN) 1965.

M. Thurian

EFREM IL SIRO (santo). (inizio)

I. Vita e opere. Gran parte di ciò che si racconta di E. proviene da racconti leggendari o da materiale autobiografico dubbioso. Nato nel 306 ca. da padre pagano e da madre cristiana, secondo le fonti siriache, ma da genitori cristiani, secondo lo stesso E., nella regione di Nisibi (Mesopotamia), oggi Nusaybin nella Turchia sud-orientale, egli è invitato dal vescovo locale s. Giacobbe ( 338) ad insegnare l'esegesi nella nuova scuola teologica di Nisibi. Un altro vescovo del luogo, Vologese ( 361), ha influito decisamente sul suo ideale ascetico. Città di frontiera, Nisibi è esposta agli attacchi dei Persiani, specie sotto l'energico Shapur II ( 379); nei Carmi di Nisibi E. racconta tre invasioni di Nisibi (338, 346 e 350). Da Nisibi E. deve fuggire dopo che i Romani, in seguito alla sconfitta di Giuliano l'Apostata ( 363), abbandonano la città ai Persiani. Stabilitosi ad Edessa, oggi nota come Urfa, in Turchia sud-orientale, E. diviene la gloria della scuola, chiamata " dei Persiani, " alla cui fondazione ha contribuito. L'importanza che egli dà alla verginità ha fatto pensare che fosse monaco; ma è più esatto dire che è asceta e celibe, nello stile dei " figli del patto " (bnäy qyama). Diacono dai tempi di Nisibi, un anno prima della morte (il 9 giugno 373) organizza i soccorsi durante una carestia.

E. è esegeta, predicatore, teologo, poeta. Ha lasciato discorsi in cui polemizza contro Bardesane ( 222 ca.), contro Mani ( 273 ca.), contro Marcione ( 250 ca) (Inni contro gli eretici) e specialmente contro gli Ariani (Prediche sulla fede), oltre a lettere (sono certamente autentiche quelle a Publio e a Ipazio). Come autore siriaco più fecondo le cui opere lui vivo sono tradotte in greco e in armeno, presenta alcuni problemi. Le edizioni ottocentesche dei dotti maroniti J.S. e S.E. Assemani (6 voll., Roma 1732-1746) di B. Mubarak (Benedetti) e altre edizioni sono carenti; con E. Beck possediamo un'edizione critica degli scritti autentici siriaci (1955-1975), ma il lavoro non è concluso. Oltre ai commenti esegetici alla Genesi e all'Esodo, agli Atti degli Apostoli, alla concordanza dei quattro Vangeli o Diatesseron, e un breve commento alle lettere paoline conservato solo in armeno, abbiamo frammenti di numerosi altri commenti biblici. Le opere poetiche si dividono in madrase, poemi in strofe con responsorio, come i Carmi di Nisibi, e memre, prediche metriche senza né strofe né responsorio. Secondo E. Beck, gli scritti autentici che riguardano la spiritualità sono: 1. Inni sulla fede; 2. Inni contro gli eretici; 3. Carmina Nisibena; 4. Inni sulla Nascita del Signore; 5. Inni sulla Verginità; 6. Inni sulla Chiesa; 7. Inni sul paradiso; 8. Inni sugli azzimi; 9. Inni sulla crocifissione; 10. Inni sul digiuno; 11. Prediche sulla fede; 12. Predica su Nostro Signore; 13. Commentario sulla Genesi. Alla lista di Beck si possono aggiungere i cosiddetti Inni armeni (o trasmessi in armeno).

II. Dottrina mistica. Ad E. non solo ripugna ogni razionalismo, ma egli si discosta dal metodo della teologia filosofica greca che adopera definizioni. Invece, si diletta del paradosso e della immagine. Ma un poeta vive in comunione immediata con la realtà e le poesie di E. sono di un innamorato di Dio che si esprime attraverso le creature che lo rispecchiano. Lungi dall'essere arbitrari, i simboli a cui E. ricorre per spiegare creazione e storia della salvezza si focalizzano in Cristo in modo triadico: il simbolo dell'agnello proviene dall'Egitto, ma l'esperienza corrispondente vive tuttora nella Chiesa, anche se il suggello di questa realtà spirituale si avrà nel regno dei cieli. Siccome la parola chiave efremiana razâ (mistero) significa simbolo religioso, tipo veterotestamentario, sacramento e, al plurale, Eucaristia, gli inni di E. si rivelano una miniera mistica. Immagine centrale è la verginità che anticipa il paradiso, il che presuppone un lungo tirocinio ascetico. La preghiera di unione con Dio è come una vergine nella sua stanza, protetta dagli eunuchi del silenzio e della pace interiore. Per pregare bene non basta il digiuno dal cibo, ma occorrono uno spogliamento totale e l'amore del prossimo; in questo senso, la verginità stessa può essere considerata come digiuno e astinenza dalla natura. E. è uno dei primi autori cristiani che formula l'idea spirituale del fidanzamento dell'anima con Cristo. Anche l'idea di penthos (compunzione) viene messa in rilievo, per esempio nella necessità della penitenza e delle lacrime. Una devozione a Maria in quanto Vergine non poteva mancare. Considerando l'Eucaristia come prolungamento dell' Incarnazione che prende inizio da lei, E. mette sulle sue labbra uno dei più delicati inni eucaristici (Inni sulla nascita del Signore, 16).

Se la mistica traccia il cammino dell'anima a Dio, è chiara l'importanza di E. per la spiritualità in genere, e per quella dell'unione in particolare. Egli è il più grande maestro della cristianità siriaca, il più importante poeta tra i Padri, i cui inni si usano tuttora nelle varie liturgie siriache; inoltre ha influenzato le kontakie o inni bizantini e lo stesso Romano il Melode ( sec. VI). La sua descrizione delle realtà escatologiche, specie del giudizio universale, ispirò Dante ( 1321) che forse è l'unico poeta-teologo che può essere paragonato ad E. (R. Murray). Con la sua mistica del fianco squarciato di Cristo (cf Gv 19,34) E. getta un ponte con la devozione occidentale del S. Cuore. Benedetto XV lo ha proclamato Dottore della Chiesa universale. Siccome E. è vissuto prima della separazione tra siriaci che si opera con i Concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451), egli continua ad essere loro padre comune, venerato da loro come " l'arpa dello Spirito Santo ". In Oriente, (nelle Chiese bizantina e siriache) la sua festa si celebra il 28 gennaio e nella Chiesa latina il 18 giugno; la Chiesa copta la celebra il 9 luglio.

Bibl. Opere: CSCO 154, 169, 174, 186, 198, 212, 218, 223, 240, 246, 248 (= Scriptores Syri, 73, 76, 78, 82, 84, 88, 92, 94, 102, 106, 108). Studi: E. Beck, s.v., in DSAM IV1 788-800; S. Brock, The Luminous Eye: The Spiritual World Vision of St Ephrem, Rome 1985; I. Hausherr, Penthos, Rome 1944; R. Lavenant - F. Graffin, Éphrem de Nisibis. Hymnes sur le paradis, Paris 1968; L. Leloir, s.v., in DHGE XV, 590-597; J. Martikainen, s.v., in Aa.Vv., Klassiker der Theologie I, München 1981, 62-75; R. Murray, Symbols of Church and Kingdom, London 1975; G. Nedungatt, The Covenanters of the Early Syriac-Speaking Church, in OCP 39 (1973), 191-215 e 419-444; C. Sorsoli - L. Dattrino, s.v., in DES II, 985-1007; P. Yousif, L'Eucharistie chez saint Éphrem de Nisibe, Roma 1984; Id., Il sangue del costato del Salvatore in Sant'Efrem di Nisibi, in Aa.Vv., Sangue e Antropologia. Riti e culto, Roma 1987, 985-1007.

E.G. Farrugia

EGOISMO. (inizio)

I. Il termine e. è abbastanza recente (secc. XVIIXVIII); deriva dal pronome latino " ego " ed indica caratteristiche personali opposte a quelle espresse dal termine " altruismo ", a sua volta derivante dal latino " alter ".

Dal punto di vista psicologico, la parola può indicare " l'amore di sé " e " l'istinto di conservazione e di sviluppo del proprio io ": tale accezione mitiga di molto il senso comune e più diffuso che esprime piuttosto un amore eccessivo di sé, un bisogno sproporzionato di conservazione e di valorizzazione di se stesso anche a danno degli altri, quasi un cristallizzarsi dell'individuo nella propria realtà e nella propria storia per cui tutto è riferito a se stesso, quasi che il proprio io sia il centro dell'universo.

In effetti, l'egoista riflette uno squilibrio nella relazione con gli altri; manifesta una distorsione della intersoggettività dovuta spesso a disturbi di maturazione dell'affettività e della giusta percezione della realtà individuale e sociale, blocchi di varia origine nel trovare, e poi nell'occupare con serenità, il proprio posto nel contesto della società di appartenenza.

II. Dal punto di vista etico-spirituale, e. sta ad indicare l'atteggiamento morale, acquisito e sviluppato con atti liberamente scelti ed attuati, di chi cerca esclusivamente la soddisfazione dei propri interessi personali e, in questa ottica, regola ogni sua azione: di fronte al proprio io, gli altri, e in definitiva, " l'Altro assoluto " che è Dio, perdono ogni valore autonomo per divenire meri strumenti in funzione eo a servizio di se stessi.

L'e. è, dunque, un modo di essere e di porsi in relazione agli altri e a Dio, una modalità in cui l'io è il metro di misura e di giudizio, un metro stabilito e proteso alla " dovizia dell'avere per sé " a danno della " pienezza dell'essere sé ".

In realtà, l'e. è il cammino di autodistruzione di se stessi e del tessuto sociale. L'egoista pensa di amarsi, invece fa del male a se stesso perché, chiudendosi nel " per sé ", si priva di tutto ciò che lo rende uomo, cioè soggetto e oggetto di amore oblativo.

L'uomo " perfetto ", invece, sa " uscire da sé " per andare " verso la terra promessa " della comunione e della pace; tutto ciò che di bello e di buono è e possiede diventa dono per gli altri in quella feconda creatività dello Spirito che fa l'uomo davvero " nuovo ", cioè gloria e trasparenza di Dio, " luogo " di incontro con Dio per i fratelli.

III. Per Tommaso d'Aquino,1 vi è male morale quando l'uomo ama se stesso in modo disordinato. Poiché all'uomo è stato comandato di amare il prossimo come se stesso (cf Mt l9,19), volere a se stesso il bene conveniente non solo è naturale, ma addirittura doveroso. Tommaso distingue un amore disordinato da un amore ordinato. Il giusto amore per se stesso spinge verso il bene: " L'uomo tende naturalmente al proprio bene e alla propria perfezione, e questo significa amare se stesso ".2 Un tale amore ordinato per sé è amore che " la volontà non può non volere " 3 perché l'uomo non può non cercare quella perfezione che all'atto della creazione è stata inscritta nel suo cuore come compito da attuare lungo il corso della sua esistenza.

L'uomo è, dunque, aperto a ciò che davvero è bene, alla perfezione (cf Mt 5,48). Il vero amore per sé, poi, è insieme dono divino e compito umano di integrazione e di maturazione di sé per un'autentica oblatività nell'amore.

L'e. è agli antipodi di un tale amore, perché l'egoista è, in definitiva, quell'individuo che ama meno se stesso perché " chi vorrà salvare la propria vita, la perderà " (Mt 16,25).

Nella logica divina, e. equivale a chiusura al " vero bene " (cf GS 13) così come massimamente si offre nella sequela evangelica (cf Mt 19,21-22), rifiuto della " luce vera, quella che illumina ogni uomo " (Gv 1,9) e lo spinge a farsi dono per gli altri, come Gesù che " ci dona di vivere come lui ha vissuto, ossia nel più grande amore a Dio e ai fratelli " (VS 88).

III. Nell'esperienza mistica. Da quanto detto si evince che l'e. è la tomba della vita, il soffocamento della vera preghiera, lo spegnersi della verità dell'uomo nella prigione del proprio io.

Allora l'altro, e a livello estremo l'Altro che è Dio, dà fastidio non solo per quello che dice eo per quello che chiede, ma solo perché c'è: " Da che cosa derivano le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere e uccidete... " (Gc 4,1-3).

Una tale situazione chiede salvezza perché il cuore possa dilatarsi, ..." sorridere " allo Spirito di Dio, agli altri, a se stesso ed aprirsi a quella libertà che rende possibile il dono di sé nell'amore. " Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi " (Gal 5,1) per vivere nella comunione trinitaria, fondamento di ogni esperienza mistica.

Note: 1 Cf. STh I-II, q. 77,4; 2 Ibid., I, q. 60,3; 3 Ibid., I-II, q. 10,2.

Bibl. C. Gennaro, s.v., in DES II, 874-875; M. Ossowska, La notion d'égoïsme dans ses rapports avec divers types de relations sociales, in Revue philosophique de la France et de l'étranger, 140 (1950), 267-279; J. Tonneau, s.v., in DSAM IVl, 480-501; Tommaso d'Aquino, STh I-II, q. 77,4.

G. Giuliano

ELIA. (inizio)

Premessa. Originario di Tisbe, esercita il suo ministero profetico sotto il regno di Acab (874-853 a.C.) e Acazia (853-852 a.C.). Vive momenti difficili della storia del popolo eletto, durante i quali il culto del Baal, il dio dei fenici, minaccia l'esistenza del culto di JHWH.

Nell'AT il ciclo di E. (in ebr. Eliyahu) si trova in 1 Re 17-19; 21 e 2 Re 1-2. Il suo nome, che significa " JHWH è il mio Dio ", si addice veramente a tutta la sua attività come il profeta del Signore che lotta contro il baalismo. Sembra che il ciclo di E. abbia per filo conduttore la polemica costante tra il Dio d'Israele e Baal, o più propriamente la polemica tra vita e morte. Seguire il Signore significa vita, mentre seguire Baal significa morte. Questa conclusione viene suggerita da questi dati letterari: a. l'uso abbondante della formula di giuramento " Per la vita del Signore... " (1 Re 17,1.12; 18,10.15; 2 Re 2,2.4.6). Negli scritti deuteronomistici, di cui fa parte anche il ciclo di E., questa espressione si adopera quasi esclusivamente quando si tratta della vita o della morte di qualcuno; b. la frequente ricorrenza dei verbi e dei nomi che denotano le attività e gli elementi che sono necessari per la preservazione della vita umana: mangiare e provvedere il nutrimento (cf 1 Re 17, 4.9.12; 18,13; 19,5.6.7.8); bere (cf 1 Re 17, 4.6.10; 19, 6); pioggia (cf 1 Re 17,1.7.14; 18,1.41.44.45), acqua (cf 17,10; 18, 4.13), olio (cf 17,12.14.16), panefocaccia (cf 1Re 17,6.11.12.13; 18,4.13; 19,6), e carne (cf 1 Re 17,6); c. l'uso frequente dei diversi verbi che significano l'atto di uccisione (cf 1 Re 17,18.20; 18,4.12.13.14.40).

I. L'uomo dell'assoluto di Dio. I racconti eliani ci rivelano che solo il Signore, non Baal, è vivo, quindi ha potere di controllare la vita umana. Da una parte, egli conserva la vita dei suoi devoti o amici: di E. (cf 1 Re 17,2-6; 7-l9, 1-8), della vedova di Zarepta e del suo figlio (cf 1 Re 17,7-24), di Abdia e dei cento profeti da lui salvati (cf 1 Re 18,6-16), e del buon comandante con i suoi cinquanta uomini (2 Re 1,8-15). Dall'altra parte, il Signore causa la morte di molti devoti di Baal sia in Israele che nella regione di Baal. Prima infligge loro una lunga siccità, il che causa la morte degli animali e degli uomini; poi, sempre attraverso E., uccide i quattrocentocinquanta profeti di Baal sul Monte Carmelo (cf 1 Re 18,40), annunzia la morte terribile di Gezabele, la devota più ardente di Baal che cerca di uccidere E. (cf 1 Re 21,23; 2 Re 9), preannuncia la fine tragica di Acab e della sua famiglia (cf 1 Re 21,24; 1 Re 22; 2 Re 10), uccide i due comandanti e i suoi uomini mandati da Acazia per catturare E. (cf 2 Re 1).

Da come viene descritto E. nei libri dei Re, si può dedurre che egli si fa campione di Dio vivente che dona e controlla la vita umana. Il profeta di Tisbe sperimenta, in modo molto reale e personale, quella verità e combatte il falso culto dei Baal propagandato da Gezabele in Israele.

Sembra che nella luce di questa polemica tra vita (=il Signore) e morte (=Baal) si possa comprendere meglio la fine misteriosa sperimentata da E., ossia il suo rapimento al cielo senza morire. Essendo l'eroe del Dio vivente e datore della vita, E. non muore come Baal e i suoi devoti, ma vive ancora presso il Signore della vita. Come Enoch (cf Gn 5,24), così anche E. viene portato in cielo dal Signore (cf 2 Re 2,11); in questi due versetti viene adoperato lo stesso verbo ebraico laqah.

E molto probabile che il rapimento di E. costituisca la base di una credenza, secondo la quale anche dopo la sua vita terrena il profeta sia stato in grado di inviare una lettera di condanna a Ioram (cf 2 Cr 21,12-15). Tale rapimento diventa anche la base dell'attesa del suo ritorno. Secondo Ml 3,23-24, E. deve ritornare prima del giorno terribile del Signore per preparare il popolo eletto, convertendo il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri. Oltre a riconciliare gli Israeliti, secondo Sir 48,10-11, il ruolo di E. al suo ritorno sarà quello di ristabilire le tribù di Giacobbe (egli avrà cioè una funzione messianica).

II. L'uomo della Parola di Dio. Occorre aggiungere che il ciclo di E. presenta il profeta come l'uomo della Parola. Nel ciclo di E., infatti, quasi tutti i suoi atti sono mossi dalla parola del Signore. Persino la sfida sul Monte Carmelo (cf 1 Re 18), che a prima vista non sembra mossa dal Signore, è compiuta per ordine del Signore (cf 1 Re 18,36). Forse l'unico suo atto non ispirato dal Signore è la sua fuga da Gezabele (cf 1 Re 19,1-3). Inoltre, nei libri dei Re, il profeta appare come un uomo del silenzio e della solitudine; egli si abitua a vivere nei luoghi deserti: presso il torrente Cherit (cf 1 Re 17,2-6), nel deserto (cf 1 Re 19,1-18) e sulla cima di una montagna (cf 2 Re 1,9) e nei luoghi di culto (cf 2 Re 2,15). Non c'è da meravigliarsi, perciò, che sia molto difficile trovarlo (cf 1 Re 18,10). E. appare soprattutto l'uomo della contemplazione e della mistica, perché continuamente e dappertutto egli contempla e sperimenta la presenza e la forza vivificante del Dio d'Israele. Egli stesso, infatti, testimonia di essere sempre alla presenza del Signore, di ardere di zelo per la gloria del suo Dio (cf 1 Re 17,1.15).

Negli scritti giudaici extra-biblici risalenti ai primi due secoli prima e dopo Cristo, E. appare più popolare di Abramo o di Mosè. Vengono evidenziati quattro aspetti della vita del profeta: il suo rapimento al cielo, i miracoli della sua vita " terrena ", l'efficacia della sua preghiera, e la sua funzione di maestro, i cui discepoli sono Eliseo e Abdia.

IV. Nel NT il nome E. ricorre trentatré volte. La maggior parte delle volte E. viene menzionato a proposito dell'identità di Gesù o di Giovanni Battista. Secondo Mt 11,14 e 17,11-13 Gesù stesso guarda il Battista come l'E. che deve venire, il che è un'allusione a Ml 3,23-24. Luca e Giovanni, però, descrivono Gesù come il nuovo E. Negli scritti di Luca e nel quarto Vangelo si ritrovano diversi paralleli tra le storie di Gesù e quelle di E., in modo particolare nella versione greca dei Settanta. Si tratta sia di paralleli verbali e grammaticali che di paralleli situazionali (cioè situazioni simili, reazioni simili e così via): Lc 7,11-17 (il figlio della vedova di Naim) e 1 Re 17,17-24 (il figlio della vedova di Zarepta); Lc 24,49-53 e At 1,1-12 (l'ascensione di Gesù) e 2 Re 2,1-14 (il rapimento di E.); Gv 1,43 (la chiamata di Filippo) e 1 Re 19,19-21 (la chiamata di Eliseo); Gv 4,1-26 (la donna [senza marito] samaritana) e 1 Re 17,7-24 (la vedova di Zarepta); Gv 14,13 (" Quanto chiederete nel mio nome lo farò ") e 2 Re 2,9 (" Chiedi ciò che vuoi che faccia per te "); Gv 13,33 e 2 Re 2,15-18; ecc. Per quanto riguarda la tipologia Elia-Gesù nel quarto Vangelo, sembra che il tema della vita costituisca il legame tra le due figure bibliche: ambedue i profeti sono testimoni del Dio vivente che dà la vita agli uomini.

Secondo Gc 5,16-18, E. è il modello dell'uomo giusto, la cui preghiera è potente nell'azione. Poi, quando Gesù sulla croce grida a suo Padre, " Eli, Eli lemà sabactàni? ", alcuni dei presenti dicono: " Egli chiama E. " (Mt 27,46-47). Ad ogni modo, questa derisione rispecchia la credenza popolare che, di solito, E. presta aiuto a chi ne ha bisogno. Forse Rm 11,2-4 è l'unico versetto del NT che presenta un po' negativamente E.; ivi il profeta esagera quando considera se stesso l'unico profeta del Signore ancora vivo.

Nella tradizione spirituale della Chiesa, e in modo speciale nella tradizione dei Padri del deserto, E. diventa il modello e l'ispiratore degli eremiti e dei monaci. Il ciclo di E. fa così di lui il modello di un eremita, di un mistico, cioè di un uomo di preghiera che vive dell'assoluto di Dio, da Cristo stesso presentato come l'antesignano della salvezza degli uomini (cf Mt 17,10-13; Mc 9,11-13).

Infine, è molto interessante notare come E. sia una figura molto cara ai giudei, ai cristiani e ai musulmani ancora oggi. Sembra che l'aspetto del profeta E. che affascina sia il mistero che avvolge la sua vita terrena e il modo straordinario in cui egli ha concluso la sua missione profetica.

Bibl. Aa.Vv., s.v., in NDTB, 458-464; Aa.Vv., Elie le prophète, in ÉtCarm 41 (1956), tutto il numero; T.L. Brodie, Luke the Literary Interpreter. Luke-Acts as a Systematic Rewriting and Updating of the Elijah-Elisha Narrative in 1 and 2 Kings, Roma 1987; L. Bronner, The Stories of Elijah and Elisha as Polemics against Baal Worship, Leiden 1986; G. Fohrer, Elia, Zürich l953; R.I. Gregory, Elijah's Story under Scrutiny: A Literary-critical Analysis of 1 Kings 17-19, Michigan, 1983; K. Healy, Profeta di fuoco, Roma 1993; J. Jeremias, s.v., in GLNT IV, 930-943; C.M. Martini, Il Dio vivente. Riflessioni sul profeta Elia, Casale Monferrato (AL)-Milano 1991; M. Masson, Elia l'appello al silenzio, Bologna 1993; E. Menichelli, L'uomo di fuoco. In ritiro con Elia, Bologna 1996; R.E. Murphy - C. Peters, s.v., in DSAM IV1, 564-572; N. Pavoncello, Il profeta Elia nella liturgia ebraica, in RivBib 29 (1981), 393-404; H. Pidyarto Gunawan, Jesus the New Elijah according to the Fourth Gospel. A Logical Consequence of John 1: 21, Roma 1990; E. Pòirot, Elie, archétype du moine, Abbaye de Bellefontaine 1995; F. Spadafora, s.v., in EC V, 232-233; A. Wiener, The Prophet Elijah in the Development of Judaism. A Depth-Psychological Study, London-Boston 1978.

H. Pidyarto

ELISABETTA DELLA TRINITA. (inizio)

I. Vita e opere. E. Catez - che nel monastero carmelitano di Dijon sarà chiamata " della Trinità " - nasce a Camp d'Avor (Bourges) nel 1880. A sette anni perde il padre e scopre la misericordia di Dio nel sacramento della confessione. Di carattere fiero e impetuoso, perfino collerico, la bambina subisce un cambiamento radicale quando riceve per la prima volta la SS.ma Eucaristia. Nella stessa occasione compie una visita rituale al Carmelo dove la Priora interpreta affettuosamente il suo nome, spiegandogliene così il senso: Elisabetta cioè " casa di Dio ", spiegazione che si radica indelebilmente nell'anima della piccola. Riceve la sua educazione in famiglia da alcune istitutrici private e frequenta il Conservatorio musicale di Dijon conseguendovi il diploma con voti lusinghieri. A diciassette anni si sente chiamata al Carmelo, ma la madre le nega il consenso e le proibisce qualsiasi rapporto con il monastero. A diciannove anni la proibizione viene tolta, ma il consenso è rimandato fino al compimento dei ventun anni (la maggiore età, a quel tempo). Entra, così, in monastero nel 1901 e vi muore, dopo dolorosissima malattia, nel novembre del 1906.

In questo breve arco di vita (ventisei anni, di cui solo cinque al Carmelo) E. non presenta carismi eccezionali né manifestazioni mistiche particolari. Non possediamo di lei scritti particolarmente impegnativi (solo alcune note di diario, alcune poesie e alcune lettere), se non due Ritiri composti al termine della vita (nel luglio e nell'agosto del 1906). Il suo testo più celebre è senza dubbio la Elevazione alla SS.ma Trinità, una preghiera scritta di getto, nel novembre 1904, con la quale ella tocca, d'un balzo, i più alti vertici della letteratura mistica.

Molti aspetti della sua esperienza e della sua dottrina risaltano dall'epistolario.

II. Esperienza mistica. Decisivo nella vita di E. è l'incontro - avvenuto nel febbraio del 1900 - con il P. Vallée, domenicano, che le parla del " troppo grande amore di Dio ", aiutandola a percepire il legame tra questo vortice d'amore - che ella già sperimenta nella sua anima - e il mistero trinitario: " Sì, figlia mia, tutta la Trinità è lì nella sua anima ", le spiega il padre, approfondendo a lungo tutta la dottrina cattolica della " inabitazione ". E. si trova come sommersa in un oceano, personalmente coinvolta nelle relazioni d'amore che legano il Padre, il Figlio e lo Spirito, ormai interamente dedita al suo compito di " adorazione ". " Ho trovato il mio cielo sulla terra, perché il cielo è Dio e Dio è nella mia anima ", questa verità diviene la sua certezza, il suo programma di vita e la dottrina costantemente insegnata a chiunque entri in rapporto con lei. " Io sono Elisabetta della Trinità, cioè Elisabetta che scompare, che si perde, che si lascia invadere dai "Tre" ". Così vive con una crescente intensità che s'irradia perfino dalla compostezza e dalla dignità dei suoi atteggiamenti esteriori. Scrive: " Sento tanto amore attorno alla mia anima! E come un oceano in cui mi getto e mi perdo... Egli è in me e io in lui. Non ho che da amarlo e da lasciarmi amare, ad ogni istante, in ogni cosa: svegliarmi nell'amore, muovermi nell'amore, addormentarmi nell'amore, con l'anima nella sua anima, il cuore nel suo cuore, gli occhi nei suoi occhi... Se sapesse come sono piena di lui! ".1 La sua dedizione alla Trinità è tale che ella cerca di stabilire sulla terra legami sul modello trinitario, soprattutto nel rapporto di assoluta devozione e amorosa obbedienza che intrattiene costantemente con la sua priora. A partire dal 1904, E. scopre nella Scrittura il suo " nome nuovo ", meditando la lettera di s. Paolo agli Efesini, secondo cui " siamo stati predestinati ad essere "lode della sua gloria" ". " Laudem gloriae ", così E. comincia a firmare le sue lettere, mentre cerca di dare a tutta la sua esistenza questa particolare " musicalità ", come se l'artista dovesse identificarsi con la sua arte: l'arte di lodare Dio con ogni fibra del proprio essere.

Nel 1905, viene colpita da un morbo devastante, e allora incurabile, che la pone " su un altare di dolore ", una sofferenza così atroce da farle perfino subire la tentazione del suicidio. Si spalanca per lei, già tutta avvolta d'amore di Dio e per Dio, un nuovo abisso di possibile tenerezza. Continua a ripetersi e a meditare queste parole di Angela da Foligno: " Dove abitava Gesù se non nel dolore? ". Comprende, così, e sperimenta che nessuna " unione con Dio " è veramente assicurata su questa terra, se il nodo nuziale non viene stretto indissolubilmente sulla croce.

Nel novembre del 1906, E. muore, con questo " programma ultraterreno ": " Mi sembra che in cielo la mia missione sarà quella di attrarre le anime, aiutandole a uscire da se stesse per aderire a Dio, con un movimento del tutto semplice e pieno di amore e di custodirle in quel grande silenzio interiore che permette a Dio di imprimersi in loro e di trasformarle in lui stesso! ".2 Il posto di E. nella storia della spiritualità e della mistica è stato molto ben delineato da H.U. von Balthasar: " E. appartiene a quella categoria di apostoli che militano sulla frontiera tra il visibile e l'invisibile; nell'invisibile della contemplazione verso cui deve condurre l'azione visibile; nell'invisibile della vita, verso cui deve indirizzare una certa visibilità del pensiero, che ha funzioni di sorgente, di aiuto e di scopo; nell'invisibile di tutto il mondo soprannaturale e divino, verso cui deve avviare gli sguardi, la via che, pur in procinto di scomparire, è ancora visibile, la via dell'esistenza che va lentamente affondando nell'oscurità. E benché ogni vita contemplativa sia, in senso generale, una testimonianza resa all'invisibile, vi sono persone chiamate a parlarne espressamente e a darne una formulazione precisa. E. è una di queste ".3

L'" interiorità " come dimensione sommamente realistica dell'esistenza cristiana; la " comunione " con l'Ineffabile e l'inesorabile " comunicazione " che occorre darne alla Chiesa e al mondo; l'" immersione " nei misteri dell' Incarnazione fino a raggiungere il cuore della Trinità e il cuore del mondo, nel proprio stesso cuore; l'" arditezza teologale " che le fa risolvere di getto i più gravi problemi posti al nostro fragile pensiero teologico (ad esempio, il duro problema della " predestinazione ") sono i doni e il messaggio che E. della Trinità ci ha lasciato.

Note: 1 Lettera dell'agosto 1903 al canonico Angles; 2 Lettera del 28 ottobre 1906; 3 Sorelle nello spirito, Milano 1991, 288.

Bibl. Opere: Elisabetta della Trinità, Opere, a cura di L. Borriello, Cinisello Balsamo (MI) 1993. Studi: Aa.Vv., Elisabetta della Trinità. Esperienza e dottrina, Roma 1980; H.U. von Balthasar, Sorelle nello spirito, Milano 1991; A. Batlogg, s.v., in WMy, 134; L. Borriello (cura di), L'esperienza mistica di Elisabetta della Trinità, Napoli 1987; H.D. Egan, Elisabetta della Trinità, in Id., I mistici e la mistica, Città del Vaticano 1995, 594-603; M.M. Philipon, s.v., in DSAM IV, 590-594; Id., La doctrine spirituelle de Soeur Elisabeth de la Trinité, Paris 1938; A.M. Sicari, Elisabetta della Trinità. Un'esistenza teologica, Roma 1984.

A.M. Sicari

ELISABETTA DI SCHONAU. (inizio)

I. Vita e opere. Nasce nel 112829 e a dodici anni viene affidata al monastero benedettino di Schönau (Goarshausen), fondato nel 1126 per uomini e nel 1136 per donne. Nel 1147, fa la professione monastica e nel 1157 è nominata maestra. Le sue visioni estatiche iniziano nel 1152. Vengono raccolte, durante i primi tre anni, dalle consorelle e, in seguito, dal fratello Ekbert che, terminati gli studi a Parigi, nel 1155 si fa monaco a Schönau. Egli diventa quasi suo segretario, " destinatus est tibi, ut scribat " le visioni, come E. le riceve. Dopo numerose malattie e tormenti interiori (vessazioni demoniache), fino alla tentazione di suicidio, E. muore il 18 giugno del 1164 o 1165, a trentasei anni. Per la sua vita monastica esemplare, ma non come visionaria, è inserita nel Martyriologium Romanum del 1584, senza alcun processo di canonizzazione.

II. Esperienza mistica. Le sue novantaquattro visioni degli anni 1152-55 (Liber visionum I) formano un diario spirituale, mentre nelle trenta visioni del secondo periodo (Liber visionum II-III) prevale l'elemento didattico, espresso nelle lunghe spiegazioni che completano il testo della visione. Esse non sono frutto di riflessioni, ma nascono come squarci di intuizioni, come illuminazioni e vengono ricevute come audizioni, come risposte a domande (non sempre esplicitamente formulate). Indubbiamente, si manifesta l'influsso di Ekbert, che riconosce nella sorella una particolare missione profetica " per l'edificazione dei fedeli ". Nelle questioni teologiche del tempo Ekbert intende appoggiarsi sempre alla garanzia della penetrazione visionaria: " Per mezzo di te il cielo fu aperto sulla terra e i segreti di Dio, nascosti da secoli, fluiscono verso di noi dalla tua bocca... La tua testimonianza è più preziosa dell'oro, più dolce del miele " (Lib.vis. 310,17).

In questa luce appare con polemiche forti il Liber viarum Dei (LVD), cioè Decem exhortationes ad varios hominum status (3.6.1156ca. - 22.8.1157) che riflette la convinzione di E. di essere strumento nelle mani di Dio per condurre religiosi e laici verso la salvezza. L'impegno a combattere l'eresia dei catari (che negavano il culto dei santi) si nota soprattutto nelle sue rivelazioni sulla leggenda di s. Orsola: Liber revelationum de sacro exercito virginum Coloniensium (5.9.1156 - post 21.9.1157) e nelle sei rivelazioni sull'assunzione di Maria: De resurrectione B.V. Mariae (22.8.1156 - 25.3.1159 ca.), alle quali si diede particolare attenzione nei secc. XIII-XIV. Gli scritti minori sono in parte estratti dai tre libri delle visioni e dal LVD. Inoltre, ventidue Lettere autentiche (alcune di esse sono indirizzate a Ildegarda di Bingen) e altre spurie.

Le visioni di E. riflettono le grandi trasformazioni antropologiche del sec. XII, vissute dalla veggente in una prospettiva escatologica e mariana. Significativa è la presenza dell' angelo come guida nel mondo dell'aldilà (al cielo, alla Gerusalemme nuova), come compagno che trasmette i messaggi divini alla veggente: " Ex parte quidem ab angelo ductore meo partim a precursore domini instructa sum de interpretatione omnium, que videram ". Ampio spazio è dato a dettagliate descrizioni simboliche, per le quali E. s'ispira anche alle rappresentazioni sacre (affreschi, vetrate, pittura, ecc.), alla stessa catechesi dell'epoca. Nelle visioni mariane ritornano i temi tipici del tempo: Maria, Regina e Dominatrice del mondo (vista dinanzi al globo di luce, simbolo del macrocosmo), l'assunzione corporea di Maria.

Alcune visioni possono essere rivalutate in favore della teologia femminista: l'umanità di Gesù vista come una vergine che si trova dentro il sole-Cristo, la parità dei due sessi, l'importanza dell'Ordo virginum, la superiorità della donna nubile.

E. riceve le sue visioni e rivelazioni passivamente, " cum essem in exstasi ". Talvolta, si tratta in lei anche di conoscenze mistiche, in cui contemporaneamente è contemplata la realtà terrena (per esempio, l'altare) e sopra di essa la realtà soprannaturale (angeli e santi avvolti di luce). In E. ha inizio la tipica devozione medievale alla passione di Cristo, però senza suscitare in lei desideri ascetici di esplicita imitazione. Alcune visioni furono sottoposte a critica dai contemporanei (lo stesso abate del suo monastero le rifiutò) e le parole profetiche della veggente vennero considerate prodotto di fantasia femminile: muliebria figmenta.

Bibl. Opere: J. Landsberg - A. Ballardini (cura di), Libro delle revelationi... b. Mettilde vergini, Venezia 1589, 1906 bibl. completa: G. Jaron Lewis, Bibliographie zur deutschen Frauenmystik des Mittelalters, Berlin 1989, 146-158. Studi: A.L. Clark, Elisabeth of Schönau. A Twelfth-Century Visionary, Philadelphia 1992 (studio fondamentale con bibl. aggiornata); N. Del Re, s.v., in BS XI, 730-732; P. Dinzelbacher, s.v., in WMy, 134-135; E. Ennen, Le donne nel Medioevo, Roma-Bari 1986, 164; Giovanna della Croce, s.v., in DES II, 878-880; G. Jaron Lewis, Christus als Frau. Eine Vision Elisabeths von Schönau, in Jahrbuch für internat. Germanistik, 15 (1983), 70-80; K. Köster, s.v., in DSAM IV, 585-588; Id., Elisabeth von Schönau. Werk und Wirkung im Spiegel der m.a. handschriftlichen Überlieferung, Speyer a.Rh. 1951, 243-315; G. Lunardi, s.v., in DIP III, 1110-1111.

Giovanna della Croce

EMATIDROSI. (inizio)

I. E il fenomeno per cui il sangue esce come sudore attraverso i pori della pelle, come accadde a Cristo durante la sua agonia sul monte degli Ulivi (cf Lc 22,44) e come pare sia accaduto a s. Lutgarda ( 1246) e a diverse altre persone in concetto di santità.

Nella storia si sono verificati casi di e. che non hanno alcun nesso con il fenomeno mistico. Alcuni autorevoli medici, infatti, asseriscono che la trasudazione del sangue può essere il risultato di cause naturali. I teologi, dal canto loro, affermano che il fenomeno può essere anche di natura diabolica.

II. Spiegazione del fenomeno. Nella ricerca delle cause di questo fenomeno quasi sempre si parte dal pressuposto che la sua origine vada spiegata con una causa naturale e scientifica, come, ad esempio, la reazione psicosomatica di una persona che sente un intenso fervore religioso, oppure una vivida immaginazione, o una straordinaria predisposizione ad immedesimarsi nella passione di Cristo. In quest'ultimo caso, il fenomeno, di natura soprannaturale, è una gratia gratis data.

Bibl. J. Aumann, Teologia spirituale, Roma 1991, 510; R. Omez, Occultismo e scienza, Roma 1966; I. Rodríguez, s.v., in DES II, 882; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 1101-1103; L. Wiesinger, I fenomeni occulti, Roma 1956.

J. Aumann

EMMERICK ANNA CATERINA. (inizio)

I. Vita e opere. Anna Caterina nasce l'8 settembre 1774 a Flamske, nella diocesi di Münster in Westfalia. I genitori sono contadini poveri, ma molto pii. Fin da piccola, gode di frequenti visioni di Nostro Signore, della Vergine e dei santi e parla con loro con grande familiarità. In seguito, manifesta una particolare devozione per la passione di Cristo. Vede tutto attraverso il sangue di Gesù e per assomigliare maggiormente al Salvatore flagellato, simile a " un pannolino intriso di sangue ", prende l'abitudine di indossare una camicia rossa.

Nel 1802, E. entra nel convento delle agostiniane di Agnetenberg. I doni singolari di cui è favorita e che sono evidenti, suo malgrado, rendono gelose le consorelle che non mancano di manifestarle la loro antipatia. Talvolta, in cappella, è sollevata fino all'altezza di un cornicione e ne discende illesa.

A ventiquattro anni, pregando in una chiesa di Coesfeld, chiede la grazia di partecipare alle sofferenze della coronazione di spine ed è immediatamente esaudita.

Una caduta la rende invalida per tutta la vita. Ciò diventa per lei fonte di sofferenze molto amate, ottenendone persino l'aggravio, per sollevare o liberare altri malati. Nel 1811 il suo convento è soppresso dal governo francese ed ella viene trasferita presso una vedova devota di Dülmen.

Nel 1812, E. riceve le stimmate che vengono verificate da delegati del vescovo, semplici curiosi, medici credenti e increduli. Oltre all'agonia delle stimmate e alle sofferenze morali causatele dalla visione della passione di Gesù, soffre di vedersi accusata d'impostura. La sua debolezza fisica è tale che per molto tempo non può ritenere altro cibo che la sacra ostia e l'acqua pura.

Nel 1818 riceve la visita di Clemente Brentano che rimane così impressionato dal suo stato da decidere di diventare suo "segretario". E lui a registrare le sue visioni. Brentano, però, è per la E. occasione di grandi sofferenze, poiché, nonostante l'esaurimento totale nel quale ella si trova così spesso, egli continua a chiederle di raccontargli le sue visioni. E. muore tra atroci dolori, il 9 febbraio 1824.

La sua esperienza, descritta nei tre libri che a lei risalgono: L'acerba passione del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo (1833); Vita della Santa Vergine Maria (1852), Vita di nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo (3 voll., 1858-60) influenzano la pietà del popolo cristiano, anche fuori della Germania, specialmente per quanto riguarda la devozione alla passione di Gesù.

II. Esperienza mistica. Gli studiosi sono scettici sull'autenticità dei fenomeni soprannaturali della E. anche se concordano sulla sincerità esemplare della sua vita spirituale, fondata sulla mortificazione e sulla sofferenza sostenuta con spirito autenticamente cristiano.

La sua vita fu sempre segnata da un legame originale e doloroso con la sorte degli uomini del suo tempo. Amava ripetere: " Tutti portiamo anche i dolori degli altri ".

Tra i doni mistici di cui fu dotata ricordiamo il discernimento delle reliquie dei santi, il digiuno totale, l'unione con il cuore dei sofferenti.

C. non ebbe mai la pretesa di attribuire alle sue visioni un carattere di verità storica, ma esse hanno aiutato molte anime a vivere le scene della passione del Signore con intensità e amore.

Bibl. Opere: C. Brentano, Historische Kritische Ausg., voll. 23-26, Stuttgart 1980ss.; Anne Catherine Emmerick racontée par elle-même et par ses contemporains, textes présentés par M.T. Loutrel, Paris 1980; A.C. Emmerick, Visioni sugli Angeli, la Chiesa, le anime del purgatorio e la comunione dei Santi, Siena 1995; Id., Vita della Madonna, Conegliano (TV) 1997; Id., Il fiore azzurro della fede, Udine 1997. Studi: A.K. Emmerich - D. Pilla, Le rivelazioni, Siena 1990; W. Hümpfner, s.v., in DSAM IV1, 622-627; E. Silmann, s.v., in WMy, 136-137; Id., Gnade und Leid, in Geist und Leben, 57 (1984), 322-336; T. Wegener, A.K. Emmerick, Dülmen 1918.

V. Noja

ENTUSIASMO. (inizio)

I. Il termine. La parola enthusiasmós, termine tecnico delle antiche religioni dionisiache, indica lo stato psichico-somatico di una persona umana inabitata dalla divinità; vale a dire, designa un'esperienza estatica straordinaria di possessione da parte della divinità (en-theos) che si esprime, spesso a livello inconscio, nei modi più disparati: delirio, smania, ebbrezza, contorsioni, furore, frenesia, salti, danza, balbettìo, parlare insolito (glossolalia), discorsi profetici e poetici, ecc.

II. Nella mistica cristiana l'esperienza dell'e. presenta certamente tratti similari e degenerazioni di tipo fanatico o esoterico: messaliani, montanisti, Fratelli del Libero Spirito, ecc. Tuttavia, va riconosciuta la prevalenza di forme più " equilibrate " e ortodosse, ovvero di espressioni inebrianti dell'amore di Dio comunicate in uno stato di contemplazione mistica, di raccoglimento o di estasi: Angela da Foligno, Caterina da Siena, Caterina da Genova; a volte tali espressioni si caratterizzano come risonanze simbolico-personalizzate di un aspetto del Mistero contemplato nella liturgia: Maria Maddalena de' Pazzi, Gemma Galgani, ecc.

II. Spiegazione del fenomeno. Del fenomeno dell'e. sono state elaborate alcune interpretazioni teologiche. La prima ama descrivere il fenomeno come evento di illuminazione divina che eccita la sfera dei sentimenti. Ecco quanto scrive G. Gersone: " Il nostro intelletto quando viene illuminato dalla contemplazione rasserenante delle realtà celesti, talvolta rimane privo di calore, freddo; tal'altra, invece, nasce in lui un amore così ardente, grazie alla concentrazione dei raggi celesti, che si solleva nel sentimento e non riesce più a stare in se stesso e a contenersi, ma piuttosto esulta di giubilo ".1

La seconda, proposta da K. Rahner, pone il fenomeno - quando è riconosciuto genuinamente tale - tra le mediazioni umane dell'autocomunicazione di Dio alla libera coscienza del soggetto; mediazioni che manifestano " l'autentica esperienza della grazia in maniera più pura e radicale di quanto non avvenga nella vita quotidiana prigioniera della categorialità religiosa ".2

La terza, assumendo la posizione di K. Jaspers, interpreta l'e. come dinamismo di azione finalizzato alla realizzazione di una verità, di un ideale o di un evento, la cui valenza assiologica ha esercitato un fascino irresistibile sul soggetto. Questa prospettiva ermeneutica, rispetto alle altre, può orientare a discernere il fenomeno dell'e. anche nella sua " normalità ", a decifrarlo cioè nel contesto della testimonianza cristiana vissuta come irradiazione sobriamente gioiosa del messaggio evangelico.3

Note: 1 G. Gersone, De mystica theologia, Tractatus Primus, XXIX: M. Vannini (ed.), Cinisello Balsamo (MI) 1992, 154; 2 K. Rahner, L'esperienza dell'entusiasmo e l'esperienza della grazia, in Id., Teologia dell'esperienza dello Spirito, Roma 1978, 82; 3 Cf B. Forte, L'eternità nel tempo. Saggio di antropologia ed etica sacramentale, Cinisello Balsamo (MI) 1993, 315-318.

Bibl. P. Dinzelbacher, Enthusiasmus und Besessenheit, in WMy, 143-144; K. Holl, Enthusiasmus und Bussgewalt im gr. Mönchtum, Hildesheim 1969; W.J. Hollenweger, Enthusiastisches Christentum, Wuppertal-Zürich 1969; R.A. Knox, Enthusiasm. A Chapter in the History of Religion, Oxford 19625; G.G. Pesenti, s.v., in DES I, 677-678; K. Rahner, L'esperienza dell'entusiasmo e l'esperienza della grazia, in Id., Teologia dell'esperienza dello Spirito, Roma 1978, 65-90.

E. Palumbo

EPIFANIA. (inizio)

Premessa. Per chi cammina nella fede del Dio Trinità il tempo è la categoria entro cui si attua l'incontro salvifico tra la persona credente e il mistero trinitario che si è fatto storia. L'eternità è entrata nel tempo attraverso il mistero dell' Incarnazione; per questo " in Gesù Cristo, Verbo incarnato, il tempo diventa una dimensione di Dio ", tanto che " ogni giorno ed ogni momento vengono abbracciati dalla sua Incarnazione e risurrezione, per ritrovarsi in questo modo nella "pienezza del tempo" " (TMA 10).

L' anno liturgico, con la diversità dei suoi ritmi, diventa pertanto locus di incontro, quindi di esperienza del Mysterion che, rivelato nella pienezza del tempo, continua - nel tempo - ad essere annunciato e celebrato perché la vita del credente realizzi la propria conformazione ad esso. In questa ottica, il tempo racchiuso nello scorrere dei 365 giorni costituisce un segmento cronologico entro cui l'esperienza viva e vivificante dell'incontro del fedele con Cristo nei suoi misteri si attua secondo connotazioni sempre nuove, quali sono quelle offerte dalla liturgia. E tali connotazioni sono pagine vissute di vita mistica, in quanto l'azione liturgica è quella che permette il più alto grado di incontro tra la vita del fedele e la pienezza del Mistero.

I. L'E. culmine del " tempus nativitatis ". Il tempo natalizio è ciò che di più caro ha la Chiesa dopo la celebrazione del tempo pasquale, in quanto ricorda e celebra l'attesa della rivelazione del Mysterion nel tempo, la sua nascita dalla beata Vergine Maria, la sua manifestazione alle genti e l'inizio della sua missione con il battesimo al Giordano. E il " tempo " in cui Dio si è manifestato perché l'uomo tornasse ad essere " come Dio " (Gn 3,5).

Essenziale è la comprensione teologico-spirituale di tale celebrazione in ordine ad una progressiva pienezza di vita in Cristo. Una comprensione che può essere acquisita attraverso quegli " strumenti " che hanno la capacità di mediare in qualche modo il mistero nell'ambito della celebrazione: il Lezionario, il Messale e la Liturgia delle Ore.

Il Lezionario festivo presenta per questa solennità solo un ciclo di letture. Ogni anno, la celebrazione della manifestazione del Signore a " tutti i popoli della terra " (Salmo resp.) trova nel racconto evangelico di Mt 2,1-12 la descrizione del fatto incentrata su quanto indicato dallo stesso titolo della lettura: " Siamo venuti dall'Oriente per adorare il re ".

Il testo di Is 60,1-6 incentrato sull'annuncio che " la gloria del Signore brilla " sopra Gerusalemme (titolo), preannuncia sia l'avvenimento evangelico, sia l'avvenimento escatologico della e. ultima del Mysterion alla fine dei tempi. Gerusalemme, punto di attesa e di incontro di tutti i popoli, resta il luogo simbolico dell'esperienza totalizzante del mistero nella parousía, quando tutti " verranno... proclamando le glorie del Signore " (Is 60,6).

Il brano di Ef 3,2-3a.5-6 diventa, a questo punto, il testo ermeneutico di quanto annunciato. Nel porre in evidenza che " tutti i popoli sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità " (titolo), la lettura si concentra sui destinatari della rivelazione del Mysterion: tutti " sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi della promessa per mezzo del Vangelo " (Ef 3,6). La precisazione di Paolo non è senza risvolti impegnativi per chiunque si apre alla fede nel Dio Uno e Trino.

L'annuncio della Parola di verità e di vita dà, pertanto, i termini di riferimento essenziali del mistero annunciato e celebrato: il mistero di Dio Trinità è aperto a tutti ed è per tutti; la sua accettazione implica adorazione, cioè trasformazione in scelte di vita; accogliere il Mysterion nella sua pienezza è già vivere una vita mistica in quanto permeata di mistero e come risposta al mistero.

Il Messale evidenzia il modo con cui la comunità celebrante vive il mistero stesso, riesprimendo ciò che celebra secondo le categorie proprie del linguaggio eucologico.

Nel momento in cui la Parola celebra l'annuncio della prima e. del Cristo, l'assemblea rende grazie al Padre, nello Spirito, perché " oggi in Cristo luce del mondo [egli ha] rivelato ai popoli il mistero della salvezza, e in lui, apparso nella... carne mortale, [ha] rinnovati [tutti i credenti] con la gloria dell'immortalità divina " (Prefazio). E l'inizio di quell' esperienza mistica che il fedele, nell'assemblea, porta a compimento mentre nello scorrere del tempo si celebra il memoriale del mistero del Cristo.

Il raggiungimento di questo traguardo non è facile. Per questo l'assemblea celebra il sacrificio offrendo " non oro, incenso e mirra, ma colui che in questi santi doni è significato, immolato e ricevuto: Gesù Cristo " (Sulle offerte). Domanda, inoltre, di essere condotta " con la guida della stella " ad adorare il Cristo nella sua seconda e., mirabilmente anticipata nei santi segni della celebrazione: " ... Conduci benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria " (Colletta). E una richiesta cui fa eco quella dell'Orazione dopo la Comunione attraverso cui i fedeli chiedono di contemplare " con purezza di fede " e gustare " con fervente amore il mistero di cui [sono stati] fatti partecipi ".

Quanto espresso, dunque, dal linguaggio eucologico non è altro che una modalità di lettura del valore salvifico del mistero mediante l'attualizzazione sacramentale. Tutto orienta a quel mistero che, nell'" oggi " della vita del fedele, diventa esperienza essenziale di vita perché ogni scelta sia espressione e prolungamento del mistero celebrato.

La Liturgia delle ore, infine, completa quella trilogia attraverso cui il fedele di ogni tempo e luogo celebra i santi misteri. L'insieme dei testi, di vario genere e spessore tematico, va osservato e pregato come una pagina strettamente complementare al Lezionario e al Messale, per una comprensione più piena del mistero annunciato e celebrato perché sia vissuto.

Qui non è possibile percorrere il senso mistico dei vari testi che strutturano le singole Ore. Tutti, comunque, sono finalizzati a completare l'annuncio del mistero (cf le letture bibliche), a interiorizzarlo (cf i responsori, le antifone e la lettura patristica), a cantarlo (cf gli inni, le antifone, i salmi), a metterlo in rapporto con la vita (cf le intercessioni e le invocazioni), a pregarlo (cf l'orazione conclusiva alle singole Ore).

Una qualunque esperienza del mistero cristiano - all'interno dell'anno liturgico - che voglia dirsi completa, cioè che costituisca un ulteriore passo per una vita mistica, non può prescindere dal supporto offerto anche dalla Liturgia delle Ore, per la singolarità delle ricchezze mistiche che essa racchiude.

II. Per una vita epifanica. La divinizzazione del fedele, iniziata con la prima immersione nel mistero trinitario attraverso il battesimo, si prolunga nello svolgersi della vita cronologica e si realizza progressivamente nella misura in cui l'esperienza del mistero diventa espressione di vita che dal mistero celebrato trae tutta la sua ragion d'essere e ad esso riconduce ogni scelta.

Nel corso dell'anno liturgico ogni celebrazione può essere considerata un'autentica e., cioè una manifestazione del mistero: una manifestazione che permea le varie opzioni tanto da trasformare il quotidiano in una mistica perenne e progressiva.

La solennità dell'E. realizza, a suo modo, una sottolineatura particolare di questo rivelarsi di Dio nella storia. Ma la celebrazione " puntuale " di tale mistero diventa, a sua volta, passaggio verso una manifestazione ancora più globale di tale mistero nell'arco, appunto, dell'intero anno liturgico. Ecco perché dopo la lettura del Vangelo la Chiesa proclama l'annuncio del giorno della Pasqua annuale, " centro di tutto l'anno liturgico ", prefigurata in ogni domenica, " Pasqua della settimana ", e cantata in ogni solennità, festa e memoria. Così, mentre " nei ritmi e nelle vicende del tempo ricordiamo e viviamo i misteri della salvezza ", il fedele è progressivamente guidato e sorretto a fare della propria vita un'autentica e. del mistero celebrato dalla liturgia nel tempo della Chiesa.

Bibl. M. Augé et Al., Anàmnesis 6: L'anno liturgico: storia, teologia e celebrazione, Genova 1988; A. Bergamini, NataleEpifania, in NDL, 919-922; D. Borobio (ed.), La celebrazione nella Chiesa. 3.: Ritmi e tempi della celebrazione, Leumann (TO) 1994; E. Flicoteaux, Fêtes de glorie: Avent, Noël, Épiphanie, Paris 1951; C. Jean-Nesmy, La spiritualità di Natale, Brescia 1964; J. Lemarié, s.v., in DSAM IV1, 863-879; Id., La manifestazione del Signore, Cinisello Balsamo (MI) 1969; B. Neunheuser, La venuta del Signore: teologia del tempo di Natale e epifania, in RL 59 (1972), 599-613; A. Nocent, Celebrare Gesù Cristo. L'anno liturgico 2: Natale, Epifania, Assisi (PG) 1978; M. Sodi - G. Morante, Anno liturgico: itinerario di fede e di vita, Leumann (TO) 1988.

M. Sodi

EREMITISMO. (inizio)

I. Il termine. Idea e movimento ascetici animati da tensione alla solitudine e organizzati in forma di solitudine individuale o comunitaria.

Il vocabolo proviene dalla lingua greca e il concetto dalla cultura classica. Essi abbondano di significati primitivi e secondari. Il sostantivo eremo (erémos o éremos e il femminile eréme) indica un luogo o una situazione: deserto, solitudine, isolamento (specialmente eremía eremosúne). Come aggettivo equivale a solitario, abbandonato, sprovvisto, selvaggio, desertico.

I verbi (eremázo ed eremóo) evocano azioni del rendere desertico e desolare, dello spopolare e devastare, dell'abbandonare e lasciar vuoto, del privare e spogliare; e altresì del liberare e vivere in solitudine.

Il vocabolario registra termini composti, allusivi di situazioni psicologiche non estranee all' ascesi e nemmeno alla mistica: amico della solitudine, abitante del deserto, frequentatore di deserti, itinerante nel deserto.

L'odierna letteratura spirituale specialistica preferisce vocaboli antichi, ma non passati nell'uso comune, come anacoresi e anacoreta; nonché esichia, esicasta, esicastico. Quelli - insieme al verbo omologo anacoréo - focalizzano il ritiro e il rifugio, l'allontanamento e il ritorno. Questi prospettano la calma e la pacificazione, il silenzio e la solitudine, il ritiro e il deserto; identificano l'eremita e il monaco, aggettivano l'ascetico e quanto acquieta lo spirito.

Anacoresi ed esichia sono passi nell'ascesi la quale è esercizio e scelta di vita impegnata. L'asceta è atleta impratichito, colui che si va esercitando a piegare il corpo allo spirito (il verbo aschéo: lavorare, forgiare, esercitare; anche adornare, abbellire); asceta è sinonimo di monaco, e l'asceterio (aschetérion) è il monastero e la cella dell'asceta.

Siffatta pluralità lessicale adombra una versatilità di concetti, un'articolata profondità di ispirazione. Quei vocaboli sono talvolta sinonimi; talvolta aprono via via scenari contigui in una unicità di prospettiva entro la quale la persona umana si muove e si realizza in tutta la propria identità e in tutte le umane sue componenti. E. è un sentiero, scandito dall'ascesi, nel fluente itinerario dell'anacoresi verso l'esichia. L'eremita è come il principiante nell'abbandono del mondano alla ricerca di Dio. L'e. è funzionale alla mistica esperienza di Dio quale assoluto. E cammino, non approdo; una mediazione, non finalità; provvisorio, non definitivo.

Questa mescolanza di valori e limiti connota l'e. come forma, concretata in modalità suggerite da una molteplicità di ragioni culturali (individuali, sociali, filosofiche, religiose) e situata nel mosaico delle varietà storiche. In senso metastorico o psicologico-antropologico e religioso-spirituale, e. può significare opzione qualificante, stile di vita, tensione a essenzialità e radicalità.

II. La storia universale esibisce copiosità di forme d'e., accomunate quasi per la genialità di un archetipo nella finalità di liberare la persona umana dai vincoli che la immobilizzano nella tensione verso la realizzazione del sé autentico, che è la dimensione della personalità rispondente alla propria identità genuina presente come dono e progressivamente scoperta come progettualità condivisibile in consapevolezza e operosità. La fede qualifica il senso dell'e.; la religiosità riveste di significati e simboli le forme di e.

Nella storia e nella dinamica della spiritualità l'e. è uno stato, uno spazio, una metafora. L'eremo ne è il segno forte; segno sommamente forte è il deserto. L'eremita è incarnazione dei valori e dei simboli.

Siffatta dimensione d'esperienza di valori si riscontra in varie culture e religiosità. Il Concilio Vaticano II invita all'attenzione verso le tradizioni ascetiche e contemplative delle antiche culture, seminagione di germi divini (cf AG 18). Esemplificando, riconosce che l' induismo cerca la liberazione dalle angosce della condizione umana attraverso forme di vita ascetica, la meditazione profonda, il rifugio amoroso e confidente in Dio; riconosce che il buddismo insegna una via di liberazione perfetta o di illuminazione suprema (l'iniziatore Siddharta Gautama sei secoli prima di Cristo sperimentò un esasperato deserto, poi abbandonato a favore d'una ascesi per " via mediana "); riconosce che le religioni si sforzano di superare l'inquietudine del cuore umano proponendo vie, dottrine, precetti di vita, riti sacri (cf NAE 2).

Oltre alle filosofie soteriologiche che affidano allo sforzo personale (ascesi) la propria salvezza, soprattutto le religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo, islamismo) propongono l'e. come via ascetica verso la mistica, cioè itinerario per l'approdo all'esperienza personale di Dio. Il filosofo esorta al secum morari (Seneca); il teologo invita a redire ad cor (s. Agostino); il monaco stimola a quaerere Deum.

L'e. cristiano s'identifica con il deserto, che è pure uno stato, uno spazio, una metafora. Il deserto è un locus veterotestamentario, itinerario nella storia della salvezza (esodo: e. collettivo di tutto un popolo in cammino), avanzamento nell'esperienza di Dio (profeti: Elia). Il NT rinverdisce il deserto come luogo dell'ascesi e della mistica (il Battista vede lo Spirito, riconosce l'Agnello di Dio); come metafora della verifica e della vittoria (le tentazioni di Gesù, dallo Spirito condotto nel deserto). Il deserto cristiano si popola di asceti (a cominciare dai secc. III-IV), fuggitivi dal mondo per la lotta contro il maligno e per la contemplazione di Dio. Il monachesimo orientale e occidentale nasce e cresce nel deserto, dunque consolida l'e. individuale (anacoretismo) e quello comunitario (cenobitismo: solitudine collettiva). Benedetto da Norcia ammira gli anacoreti, monaci già forgiati e addentrati nell'ascesi, " sicché dalla lotta sostenuta insieme con i fratelli sono bene esercitati per il combattimento singolare della solitudine e valgono ormai con l'aiuto di Dio a lottare sicuri, senza il soccorso di altri e soltanto con il vigore delle mani e delle braccia proprie, contro i vizi della carne e dei pensieri ".1 Il rinnovamento monastico dei secc. XI-XIII non rinuncia all'e., a quello individuale né a quello comunitario (certosini, cistercensi e trappisti, camaldolesi).

Gli Ordini mendicanti (soprattutto del sec. XIII) si avviano con tendenza e forme eremitico-cenobitiche. Francesco d'Assisi - assiduo di romitori - consente " a chi lo desidera " di poter vivere religiosamente negli eremi, esortando a ispirarsi chi a Marta chi a Maria. All'interno di quella tipologia l'e. cresce e rifiorisce nell'epoca delle osservanze (secc. XV-XVI: servi di Maria di Monte Senario, cappuccini, agostiniani, carmelitani scalzi...). Dal sec. XVI in poi le istituzioni dei religiosi rafforzano la diaconia, preferendo come propria finalità la presenza o l'inserimento al posto del ritiro, la compagnia al posto della solitudine.

L'e. femminile attraversa la storia con un percorso in parte analogo (Maria Egiziaca, Sincletica, " madri " del deserto, donne travestite in eremi maschili), in parte diversificato (monasteri a e. cenobitico e claustrale per ragioni di garanzia vocazionale e per difesa). Oltre ogni casistica e problematica, risalta il messaggio della capacità di vivere i valori dell'e. anche da parte della donna.

Sebbene nei tempi moderni manchino forme classiche e diffuse di e., istituzioni eremitiche permangono prevalentemente nella tipologia monastica (la Trappa in Occidente; l'Athos in Oriente), e sono fiorite esperienze nuove e forti di e. Esemplare è la scelta di Charles de Foucauld, il quale preferiva il deserto per incontrare il Cristo fratello prediletto, che seguiva oltre che nello spirito del nascondimento a Nazaret, come asceta nel deserto.

L'e. contiene venature di ambiguità, di eccessi, di irrazionalità. Nemmeno il deserto come tale, e separato da autenticità motivazionali e gestionali, è valore tout court: il deserto per il deserto non è positivo; la fuga per paura o come isolamento non è positiva. Padri e monaci erano consapevoli dell'ambivalenza e dei rischi; taluni furono decisamente avversari della vita solitaria. Il monaco e vescovo Basilio segnala che " il primo e più grande (pericolo) è quello dell'autocompiacimento ".2

Niceta, discepolo di Simeone il Nuovo Teologo, scrive: " Ho udito alcuni dire che non si può pervenire all'abito della virtù senza ritirarsi lontano e fuggire nel deserto, e mi sono meravigliato che ad essi sembri circoscrivibile in un luogo ciò che è "incircoscrivibile" ".3

III. Attualità dell'e. Per l'uomo e la donna, incamminati lungo l'ascesi verso la mistica o, in altre parole, intenti a progredire nella fedeltà alla vocazione evangelica, conviene rimarcare i valori e l'utilità dell'e. Veramente, il vocabolo e. non è eloquente, veicola lontananze e inattualità, evoca forme di vita strane e impraticabili. A tutti è necessario scoprire e additare i valori celati nella metafora dell'e. e del deserto, distillare i messaggi, enucleare le possibilità a loro adeguate: Liminarietà. L'eremita si emargina, sta in disparte: è sul liminare. La liminarietà è il valore della marginalità, del ritirarsi al margine; è l'evitare protagonismi e presenzialismi che tradiscono il complesso del messia: nulla è possibile né buono se non intervengo io! Ma non è nemmeno complesso di inferiorità. Il valore della liminarietà è il senso delle proporzioni, la consapevolezza della piccolezza evangelica, il realismo della minoranza.

Spogliazione. L'eremita si spoglia di sicurezze e di proprietà: è povero sino alla denudazione. La povertà come opzione di libertà da cupidigie, accumuli ed egoismi significata da essenzialità e frugalità è un vertice dell'e. Quanto minore è la quantità di possesso, tanto maggiore si staglia l'autenticità della personale identità. Il distacco favorisce la scoperta e l'apprezzamento dell'essenziale e agevola la condivisione.

Silenzio. L'eremita è taciturno: diventa amico della parola coltivando il silenzio. Tra frase e frase c'è bisogno di stacchi silenziosi. Nella colluvie di messaggi c'è bisogno di ritiro nella riflessione. I pensieri hanno bisogno di linfa che salga dalla radice della meditazione. Il silenzio eremitico non è mutismo, incomunicabilità, rifiuto di dialogo. Invece è riappropriazione dell'autonomia nel concepire idee; è spazio ecologico del riposo operoso; è sapienziale selezione di impulsi; è ascolto delle voci che sussurrano nella calma interiorità o nelle abissali altezze della contemplazione. Questo silenzio è veicolo di comunicazione.

Purificazione. L'eremita è l'asceta che si misura con il limite per estirpare le porzioni saprofitiche del negativo in sé, per resistere indenne alle pressioni dei negativi esteriori che lo circuiscono: entra nel deserto per affrontare il maligno. Il combattimento eremitico non è la scompostezza di un impaurito né del fanatico ossessionato dal fatto che tutto, dovunque e sempre, è peccaminoso. Il cimento è la ricerca di purificazione, cioè la purezza di cuore che consente di vedere Dio. La via della purificazione sale tra rinunce e scelte, penitenza e mortificazioni, equilibrio, realismo ed essenzialità. La purificazione eremitica è custodia del cuore.

Pacificazione. L'eremita è un pacificato: ascesi e anacoresi sono guide alla pacificazione e contemporaneamente sono dono della pacificazione. Questa attitudine non è indifferenza, abulica apatia, sistemazione nel quieto vivere, appena assenza di conflittualità. Incomincia con l'autocontrollo, prosegue con la compassione, approda alla disponibilità per le opere di pace. Serenità e gioia, calma e pazienza, verità e tolleranza, robustezza e tenerezza, fraternità ed ecologia sono segni della pacificazione. Sono segni dell'esperienza di Cristo che ha donato la sua pace; l'esperienza del Signore Gesù " che è la nostra pace ".

Consapevolezza. In ogni situazione esistenziale la consapevolezza è condizione della verità e del valore. Tutto quanto configura stile e metafora dell'e. porta alla consapevolezza; ma altresì comporta consapevolezza. La consapevolezza è conoscenza, convinzione, coscienza. E visione sapienziale e accettazione diaconale dei valori. Sulla linea della spiritualità, la consapevolezza è convinzione che i valori - compresi quelli germinati nell'e. storico e quelli disponibili lungo gli itinerari delle metafore dell'e. attuale - sono dono dello Spirito e frutto della disponibilità operosa del discepolo del Signore.

Note: 1 Regola, I; 2 Regola maggiore, 7; 3 Centurie, I.

Bibl. Aa.Vv., Eremita, in DIP III, 1153-1155; Aa.Vv., s.v., in Ibid., 1224-1258; J. Alvarez Gomez, Historia de la vida religiosa. I. Desde los origines hasta la reforma cluniacense, Madrid 1987; E. Bianchi, Il deserto come tema spirituale, in Ser 5 (1971), 588-602; G. Bruni, Monachesimo e " fuga del mondo ", in Ibid. 6 (1972), 815821; Id., La paura del deserto, in Ibid. 14 (1980), 584-590; J. Gribomont, Eremo, in Ibid., 1260-1264; Id. Anacoreta, in DIP I, 539-540; A. Guillaumont, Aux origines du monachisme chrétien. Pour une phénomenologie du monachisme, Bellefontaine 1979; J. Leclercq, L'érémitisme en Occident jusque en l'an mil, in Aa.Vv., Le millénaire du Mont Athos: 963-1963. Études et mélanges (2 voll.), Chevetogne 1963-1964; C. Lialine - P. Doyère, s.v., in DSAM II, 936-982; V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, Bologna 1986; J. Meuchlin, Aux origines monastiques de le Gaule du nord. Ermites et reclus, Lille 1988; I. Peña, La straordinaria vita dei monaci siri, secoli IV-VI, Cinisello Balsamo (MI) 1990; G. Penco, Storia del monachesimo in Italia, Milano 1983; D.M. Turoldo, Alle radici della solitudine, in Ser 16 (1982), 34-45; G.M. Vannucci, L'uomo del deserto, in Ibid. 5 (1971), 585-587; Id. La via del deserto, in Ibid., 603-605; Id., L'eremita, in Ibid. 12 (l978), 179-182.

L. De Candido

ESCATOLOGISMO. (inizio)

I. Il termine. Con e. non si vuole indicare qui come si fa spesso l'interpretazione della vita ed opera di Gesù proposta da A. Schweitzer, secondo la quale il cristianesimo (e anche la Chiesa) sarebbe nato come conseguenza del ritardo della parusia (Gesù sarebbe stato un mero predicatore apocalittico ed escatologico, convinto della prossimità imminente della parusia), bensì nel senso di uno dei due movimenti teologici, ciascuno dei quali con notevoli ripercussioni anche sulla spiritualità, che si contrapposero soprattutto nella Francia del primo dopoguerra: incarnazionismo ed e. A proposito del primo di essi scrive G. Frosini: " Percorrendo a ritroso la storia di questo movimento, è facile accorgersi come ai temi specificamente teologici si intrecciassero discussioni intorno alle forme di vita sia individuale sia ecclesiale, più consone all'epoca moderna e più proficue sul piano dell'apostolato (si pensi, per es., alla spiritualità dell'engagement e al superamento del concetto di cristianità) ".1 Ciascuno dei due movimenti si caratterizza per il modo di capire la relazione fra storia profana ed escatologia in ordine alla preparazione della parusia.

II. Nella Chiesa primitiva la parusia si percepiva come oggetto di speranza, perciò si pregava perché arrivasse quanto prima. Nel NT troviamo tracce di questo modo di pregare. S. Paolo scrive ai Corinti: " Se qualcuno non ama il Signor Gesù, sia anatema " (1 Cor 16,22). E subito aggiunge una parola aramaica, tanto più inattesa in quanto sta scrivendo in greco a lettori che parlano greco: Marana tha (= Signor nostro, vieni). La formula dev'essere stata precedentemente conosciuta dai cristiani di Corinto, probabilmente procedeva dalla liturgia della Chiesa Madre di Gerusalemme; in caso contrario sarebbe stato necessario che Paolo la traducesse. Inoltre, la formula è rimasta in altri documenti della pietà cristiana primitiva come la Didaché: " Venga la grazia e passi questo mondo... Marana tha. Amen ".2 Parole simili servono da conclusione all' Apocalisse (Ap 22,17 e 20). La stessa preghiera dominicale, il " Pater noster ", contiene nella formula " Venga il tuo regno " la petizione dell'arrivo della parusia.

Due motivi differenti contribuirono al passaggio dalla speranza al timore a riguardo della parusia. Da una parte un'esegesi troppo letterale dei passi in cui Gesù parlava della fine del mondo, i quali cominciarono ad essere guardati non come profezia del trionfo di Cristo, ma come preconizzazione di catastrofi cosmiche. D'altra parte, un'evoluzione della spiritualità che lasciò in secondo piano l'idea di Gesù mediatore, per guardarlo prevalentemente come giudice terribile.

In ogni caso, in tempi moderni, si è riproposto l'interesse per la parusia, insieme con la volontà di considerarla in modo positivo. Guardandola di nuovo come desiderabile, nacque la questione di come si potesse contribuire a prepararla. Ogni teologo cattolico deve affermare che esiste relazione fra storia profana e venuta del regno. Inoltre, deve ritenere che il cristiano con il suo operato temporale può e deve sviluppare le virtù specificamente cristiane. Così, almeno attraverso il concetto di " merito ", la storia profana viene collegata con la preparazione del regno. Sia il merito che la preghiera sono valori che chiedono il ritorno del Signore. Negare ogni connessione fra storia profana e venuta del regno è una tesi protestante, molto fortemente sottolineata in tempi recenti da K. Barth.

II. E. come preparazione del regno. Salvo questo punto essenziale per ogni teologo cattolico, l'e. si caratterizza per la sua insistenza sull'indole interiore ed invisibile del processo di preparazione del regno. Il cristiano lavorerà per costruire un mondo migliore una " civiltà dell'amore " (Paolo VI). I meriti di questo sforzo, invisibili agli occhi degli uomini, contribuiscono infatti all'avvento del regno. Ma questo contributo non è esternamente percepibile. Spesso l'unico aspetto visibile - e qui appare l'importanza della " theologia crucis ", molto cara ai teologi escatologisti - sarà l'insuccesso esterno del cristiano. La tesi contraria degli incarnazionisti accentua la corrispondenza fra il visibile e l'invisibile, in modo che la preparazione invisibile del regno avrebbe sempre una necessaria ripercussione nello sviluppo crescente dell'umanità.

III. La discussione recente sulle due tendenze. I testi biblici che generalmente portano gli incarnazionisti a favore della loro teoria, non sono convincenti, se si leggono tenendo conto del loro genere letterario. Così 2 Pt 3,18, e Ap 21,1, parlano di " nuovi cieli e nuova terra " (l'espressione deriva da un passo apocalittico di Is 65), non insegnano una continuità fra questa terra e la futura. Essi offrono immagini per significare una situazione paradisiaca. Rm 8,19-22 altro non è che una vivace espressione delle ansie dell'umanità che aspira alla venuta del regno, significate con l'immagine ben nota dei dolori del parto.

Da parte sua, il Concilio Vaticano II ebbe la volontà chiara di permanere neutrale di fronte a tutte e due le teorie. Il passo più importante sull'argomento è GS 39, ma nella sua ultima redazione si evitò di favorire una delle due teologie. Fu decisivo per questo atteggiamento l'intervento del card. J. Frings (27.10.1964).

In ogni caso, il fatto di aver di nuovo risvegliato il tema della speranza della parusia e aver incoraggiato il desiderio di essa, è una felice conseguenza della controversia.

Note: 1 G. Frosini, Teologia delle realtà terrestri, Torino 1971, 19; 2 Didaché 10,6: SC 248, 180 e 182.

Bibl. T. Alvarez, s.v., in DES II, 908-909; H.U. von Balthasar, Zuerst Gottes Reich, Einsiedeln 1966; B. Besret, Incarnation ou eschatologie. Contribution à l'histoire du vocabulaire religieux contemporain: 1935-1955, Paris 1964; G. Colombo, Escatologismo ed incarnazionismo, in ScuCat 87 (1959), 344-376, 401-424; G. Frosini, Teologia delle realtà terrestri, Torino 1971; L. Malevez, Deux théologies catholiques de l'histoire, in Bijdragen, 10 (1949), 225-240; C. Pozo, Teologia dell'aldilà, Cinisello Balsamo (MI) 19905, 124-165; Id., In preparazione della parusia, in A. Marranzini (ed.), Correnti teologiche postconciliari, Roma 1974, 389-412; Id., Maranatha! Señor nuestro, ven, in Sem 33 (l981), 812-828; A. Vögtle, Das Neue Testament und die Zukunft des Kosmos, Düsseldorf 1970.

C. Pozo

ESICASMO. (inizio)

I. Il termine e. trae la sua origine dal vocabolo greco hesychìa che significa quiete, pace interiore; il suo equivalente latino, potrebbe essere reso con tranquillitas animae, indicando la condizione vissuta dal cristiano perfetto quando si trova immerso nella luce increata da cui riceve l'illuminazione (photismòs) divina.

Tra i grandi esicasti del primo millennio sono da ricordare: Diadoco di Foticea, Massimo il Confessore, Esichio il Presbitero (sec. VII) e Isacco di Ninive (sec. VII). Alle soglie del secondo millennio emerge gigantesca la figura di Simeone il Nuovo Teologo, al quale oltre il merito rilevante d'aver fatto da tramite tra la spiritualità sinaitica e quella più propriamente bizantina, viene attribuita, dal XIV secolo in poi, la composizione di un opuscolo in cui l'autore anonimo espone, in modo alquanto dettagliato, la pratica dell'invocazione del Nome unendola ad un minuzioso esercizio di respirazione. Il testo dello Pseudo-Simeone è intitolato Metodo della preghiera e dell'attenzione.

Nel corso del XIII secolo, in piena rinascita dell'e., tale scritto venne ripreso dal monaco athonita Niceforo ( 1300 ca.), di origine italica, il quale nella sua opera intitolata La custodia del cuore ripropone, in forma più particolareggiata, la pratica psicofisica della preghiera di Gesù, sottolineando che la formula dev'essere recitata in due momenti distinti. In un primo momento la parte iniziale della formula (Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio) doveva essere recitata con un ritmo di inalazione, mentre nel secondo (abbi pietà di me peccatore!) con un ritmo di espirazione. Proprio nel corso del XIV secolo, mentre la pratica della preghiera di Gesù si diffondeva largamente nei più diversi ambienti laici, scoppiò la cosiddetta controversia " esicasta " o " palamita ". Essa sorse dalle contestazioni e dalle accuse di messalianesimo lanciate dal monaco calabrese Barlaam ( 1350) contro i monaci esicasti, i quali, a loro volta, incaricarono Gregorio Palamas, monaco del Monte Athos, di difendere la loro ortodossia. Palamas durante la polemica confermò con fermezza che se la luce taborica contemplata dagli apostoli fosse stata creata, come sosteneva il suo avversario, sarebbero stati posti in discussione i segni tradizionali della luce divina, cioè della santità. Seguendo gli insegnamenti patristici, egli ribadiva che l'uomo deificato partecipa sensibilmente alla vita trinitaria attraverso le energie increate che lo compenetrano, pur rimanendo totalmente trascendente l'essenza (ousìa) che le rivela, cioè Dio. Essa, infatti, rimane inconoscibile e impartecipabile. La controversia venne risolta nel Concilio del 1341 con la condanna di Barlaam e fu definitivamente chiusa nel 1351, quando il Concilio celebrato a Costantinopoli definì l'elaborazione teologica palamita dottrina ufficiale della Chiesa ortodossa. Nel corso del XIV secolo, accanto alla figura di Palamas, incontriamo altri grandi esicasti quali gli Xanthopouli, Filoteo Kokkines ( 1376), Isidoro ( 1350), Nicola Cabasilas ( 1371) e Gregorio il Sinaita. Quest'ultimo, trasferitosi in seguito a Paroria in Bulgaria, creò una scuola spirituale che diffuse l'e. prima tra gli slavi del sud e poi in Russia dove operò Nilo di Sora ( 1508), praticando ed insegnando ai suoi discepoli la tradizione ascetica dei Padri del deserto. Dopo un periodo di decadenza spirituale nel corso del XVIII secolo, l'e. rifiorì nuovamente nei paesi ortodossi, per merito di Macario di Corinto ( 1805) e di Nicodemo l'Aghiorita ( 1809) i quali diffusero i loro insegnamenti con la pubblicazione della Filocalia, raccolta di scritti patristici o medievali sulla preghiera di Gesù e sull'e. Tale opera venne tradotta in slavo da Paisij Velickovskij ( 1794) e pubblicata a Mosca nel 1793, avviando così quel movimento spirituale che fiorì per tutto il sec. XIX sino agli inizi della rivoluzione del 1917 e che vide tra le sue fila s. Serafino di Sarov ( 1833), gli Startzy di Optina, il Pellegrino Russo e altri. La pratica esicastica oggi è largamente praticata nei monasteri ortodossi, in particolare in quelli del Monte Athos, ma anche tra i laici; la sua diffusione in Occidente è frutto della diaspora russa che fece seguito alla rivoluzione bolscevica.

II. E. e mistica. Il cuore vivificante dell'e. è la Preghiera di Gesù o Invocazione del Nome la cui formula più comune suona così: Kyrie Jesou Christè, Yiè tou Theou elèison me tón amartolón! (Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore). Tale pratica mistica affonda le sue radici nella spiritualità del deserto egiziano: Evagrio Pontico, Macario il Grande, Cassiano e altri, e di quello sinaitico in seguito. Di quest'ultimo, la figura più rilevante è quella dell'Abate del monastero di Santa Caterina, Giovanni Climaco il quale, nel suo scritto La scala del paradiso rielabora ed armonizza la tradizione precedente alla luce della sua personale esperienza ascetica. In tale opera l'autore consiglia ai suoi discepoli di unire al proprio respiro la memoria di Gesù (27,7) per scrutare in se stessi luminosamente, dopo aver aperto le porte del cuore, il divino sole dell' intelletto. L'asceta per acquisire la contemplazione (theoria) e l'illuminazione divina, una volta debellate le passioni carnali, manifestate dalla fuorviante immaginazione prodotta dal pensiero girovago, deve tralasciare nell'orazione ogni elemento discorsivo (loghismoì), ossia razionale, e pervenire al completo silenzio della mente attraverso la preghiera monologica (monologhìa). Infatti, per l'esicasta dotato di conoscenza, tale orazione diviene parte integrante e sensibile della sua interiorità, anzi lo possiede " perché illuminato sui suoi atti da ciò che vogliono dire le parole " (27,3).

Colui che ha raggiunto ed acquisito l'hesychia vive nella condizione deificata (theosis), ossia nello splendore della propria immagine divina (cf Gn 1,26) restituita alla primitiva bellezza dalla luce della risurrezione di Cristo e circoscrive l'incorporeo in una dimora corporale (27,7). Così, l'anacoreta che trascorre i suoi giorni vivendo immerso nell'hesychia, è trasformato in tempio dello Spirito, in quanto egli stesso partecipa della vita divina, e testimonia l'armonia interiore raggiunta nella contemplazione e nella pacificazione psicofisica.

Bibl. Aa.Vv. I padri esicasti. L'amore della quiete, Magnano (BI) 1993; P. Adnès, s.v., in DSAM VII, 381-399; Id., Jésus (priere à), in Ibid., 1126-1150; E. Behr-Sigel, Il luogo del cuore, Cinisello Balsamo (MI) 1993. R. D'Antiga, Gregorio Palamas e l'esicasmo, Cinisello Balsamo (MI) 1992; Id., L'esicasmo russo, Cinisello Balsamo (MI) 1996; I. Hausherr, Solitudine e vita contemplativa secondo l'esicasmo, Brescia 1978; Y. Meyendorff, Introduction à l'étude de Grégoire Palamas, Paris 1959; A. Rigo, Monaci esicasti e monaci bogomili, Firenze 1989; T. Spidlík, s.v., in DES II, 918-920; Id., La preghiera esicastica, in Aa.Vv., La preghiera. Bibbia, teologia, esperienze storiche, I, Roma 1988, 261-275; Un monaco della Chiesa d'Oriente, La preghiera di Gesù, Brescia 1964; C. Wagenaar, s.v., in WMy, 228-229.

R. D'Antiga

ESORCISMO. (inizio)

I. Il termine e. deriva dal verbo greco exorchizo che, nella Sacra Scrittura, viene usato in tre accezioni: far giurare (cf Gn 24,3), scongiurare, chiedere con insistenza (cf 1 Re 22,16; Mt 24,3), liberare dallo spirito del male (At 19,13). Quest'ultimo è il significato comune del sostantivo derivato exorchismos che indica un ordine dato al demonio in nome di Dio perché non eserciti il suo potere malefico su luoghi, cose o persone.

II. Varie forme di e. Ci sono diversi e. Quello solenne, ufficiale. Lo può fare solo il vescovo o un sacerdote suo delegato. L'e. è, allora, una vera ingiunzione fatta a satana, nel nome di Cristo e con l'autorità della Chiesa, perché riconosca l'onnipotenza di Dio, quindi lasci la sua preda. Si tratta di un vero comando, accompagnato da riti e preghiere.

L'e. è un sacramentale che si accompagna a segni particolari come l'imposizione delle mani, il soffio, l'unzione, il segno della croce, l'acqua santa. C'è poi l'e. privato, praticato sia da un sacerdote, sia da un laico, a titolo personale. Qui non ci sono solenni ingiunzioni fatte a satana, ma semplicemente preghiere e suppliche rivolte a Dio, perché liberi la persona tormentata da satana. La Chiesa si mostra molto prudente nel ricorrere all'e. solenne perché facilmente si può cadere in errori ed abusi. Essa raccomanda ai vescovi di scegliere sacerdoti stimati per " la loro pietà, scienza, prudenza e integrità ". Un problema complesso è costituito dal riconoscere la presenza di satana in una persona che presenta le apparenze della possessione. Spesso, infatti, è difficile discernere ciò che viene dal diavolo e ciò che può avere una causa naturale, come per esempio una malattia psichica.

Sulla scorta di una lunga tradizione, la Chiesa indica i seguenti segni: parlare una lingua sconosciuta, o capire chi la parla; vedere cose o fatti molto distanti o nascosti; dimostrare forze superiori all'età o alla condizione della persona ed altri fenomeni simili che, se ancora più numerosi, costituiscono maggiori indizi. Perché un e. sia davvero efficace, occorre la fede, la fede dell'esorcista e la fede della persona indemoniata. Si tratta di credere nell'esistenza e nella potenza malefica di satana. Si tratta, ben più ancora, di credere nella presenza e nell'onnipotenza di Dio che può liberare l'uomo dal maligno e da tutte le sue tentazioni. L'e. richiede, altresì, sia da parte dell'esorcista, sia da parte dell'indemoniato, la preghiera, la penitenza e il digiuno. " Questa razza di demoni non si scaccia se non con la preghiera e il digiuno " (Mt 17,21), insegna il Vangelo. " La venuta del regno di Dio ", afferma il CCC (n. 550), è la sconfitta del regno di satana: " Se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio " (Mt 12,28). Gli esorcismi di Gesù liberarono alcuni uomini dal tormento dei demoni (cf Lc 8,26-39) e anticiparono la grande vittoria di Cristo Signore sul " principe di questo mondo " (Gv 12,31). Una vita cristiana trasparente non è forse il più efficace " e. ", alla portata di tutti i credenti in Cristo? Le tenebre, ove regna ed agisce il maligno, fuggono quando irrompono i raggi di luce della potenza del Risorto, come testimonia, molto spesso, la vita dei santi anche al di là di esperienze legate, in maniera evidente, a fenomeni mistici più o meno costanti.

Bibl. G. Arendt, De sacramentalibus, Roma 1900; C. Balducci, La possessione diabolica, Roma 1988; Id., Il diavolo, Casale Monferrato (AL) 19895, 281-308; J. Burch, Exorcismos de la Iglesia, in Reseña eclesiástica, 22 (1930), 203-208; J. Forget, s.v., in DTC V, 1762-1780; J. Nicola, Diabolical Possession and Exorcism, Rochford (Illinois) 1974.

G. Huber

ESPERIENZA MISTICA. (inizio)

I. Cenni storici sul termine " mistica ".1 L'aggettivo mystikós proviene dal verbo muo, che vuol dire tacere, chiudere gli occhi; da qui deriva, in primo luogo, mysterion, mistero, nel senso ellenistico del termine, cioè il rito segreto d'iniziazione che mette in contatto l'uomo con la divinità. In secondo luogo, deriva mysteriasmós, che vuol dire iniziazione al mistero del mystés, dell'iniziato. Il termine mystikós, invece, è adoperato, in modo generale, relativamente ai misteri, cioè ai riti iniziatici delle religioni chiamate per questo " misteriche ". Stando, dunque, al significato comune del termine mysterion, il campo mistico implica sempre l'esistenza di una realtà segreta, nascosta alla conoscenza ordinaria e che, quindi, si rivela attraverso una iniziazione quasi sempre di tipo religioso. Nell'area greco-ellenistica, il termine mystikos era usato molto raramente e sottindendeva già un'idea di mistero, ma in un senso molto limitato e difficile da precisare.2

In seguito, lo stesso termine, ma in ambito cristiano, significò prima un'esegesi spirituale, quindi allegorica, dei testi scritturistici e liturgici, orientata su Cristo e sulla Chiesa. In seguito, venne a significare lo sforzo dell' anima che scopre la presenza di Cristo nella Bibbia e nella liturgia e, quasi nello stesso tempo, l'esperienza interiore del possesso di Dio. Molto presto, da un significato oggettivo ed esegetico del termine, si pervenne ad un significato soggettivo e sperimentale.

Difatti, mistico-mistero, cioè la realtà divina, sempre nascosta, passò a indicare l'oggetto della fede comune a tutti i cristiani. In Paolo, il Mistero della salvezza diventa oggetto di esperienza, in seguito alla visione del Cristo (cf Gal 1,15-16) sulla strada di Damasco. L'attenzione viene posta non sull'esperienza dell'uomo, bensì sulla rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Sicché, il termine " mistico ", nel senso originario, viene a significare la scoperta dell'amore di Dio.

Per i Padri greci, il Mistero o i misteri indicano in particolare i vari sacramenti: dietro i simboli sensibili è presente una realtà divina. Come nel battesimo opera la potenza invisibile del Cristo morto e risorto, così nell' Eucaristia i segni del pane e del vino nascondono la presenza del Cristo glorioso. Inoltre, erano intesi come " mistici " sia il senso nascosto dei sacramenti, cioè la presenza della potenza divina sotto forma visibile, sia l'esperienza di Dio nascosto, presente nell'opacità del vissuto.

Proseguendo in questa direzione, " mistico " viene a indicare, più esplicitamente e innanzitutto, lo stesso Gesù come manifestazione visibile e, allo stesso tempo, mistero dell'opera salvifica di Dio. Egli concentra in sé il senso di entrambi i Testamenti e continua ad operare attraverso i gesti salvifici e la Parola nella sua Chiesa. In questa, il mistero di Gesù, rivive nella Scrittura e nel sacramento: il battesimo è una " rinascita mistica " nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ma soprattutto l'Eucaristia è un " cibo mistico ", un " banchetto mistico ". Solo passando per questo significato originario, il termine " mistico " diventa attributo della contemplazione dei divini misteri; sicché contemplazione viene a significare " visione " dei misteri di Dio. Tale visione può includere tutto perché al suo centro sta la sacramentale " mistica " unione del creato con Dio nel Dio-Uomo Gesù Cristo: " E il Verbo si fece carne " (Gv 1,14), il divino si fece cosmico.

Quanto ai Padri latini, essi usano soprattutto il termine mysterion, tradotto spesso con " sacramentum ", nel senso paolino o in un senso più ampio, però sempre dipendente da quello paolino. In breve, nell'ambito cristiano, si parla di una realtà segreta e nascosta, cioè Dio stesso, che trascende ogni cosa; nascosti e segreti rimangono, altresì, i vari aspetti del Mistero salvifico, conosciuti per fede, ma solo in modo imperfetto.

Con Marcello d'Ancira ( 374 ca.) compare un'espressione che, raccolta da Dionigi Areopagita, conoscerà una grande fortuna: teologia mistica. Con questo termine, Marcello intendeva indicare una conoscenza di Dio " ineffabile e mistica ", distinta dalla conoscenza comune. Dionigi Areopagita nella sua Teologia mistica aggiunge una precisazione determinante, cioè che questa conoscenza misteriosa di Dio costituisce l'apice dell'esperienza religiosa.3

Anche se il primo uso del termine " mistica " applicato a un certo modo di conoscere Dio direttamente e in modo quasi sperimentale sembra trovarsi in Origene, è, dunque, soprattutto Dionigi Areopagita a parlare di mistica in senso di esperienza. Nel suo trattato sui Nomi divini, parlando di Ieroteo, suo presunto maestro, e dell'interpretazione delle Scritture, dichiara che " tutto rapito fuori di sé in Dio, egli partecipava dal di dentro e interamente dell'oggetto stesso che celebrava ". Poi passa a un altro soggetto richiamando un termine di cui ha appena finito di parlare, cioè l'esegesi di Ieroteo e la sua esperienza spirituale, tà exeì misticà. E su questo sfondo saturo di esperienza che va inquadrato il libretto intitolato Teologia mistica, con il quale l'Areopagita divenne il teologo normativo della mistica. L'accento decisivo che egli dà alla sua vasta opera è questo: l'essere di Dio rimane un mistero che non si può raggiungere né con il sapere né con l'esperienza; si può soltanto, come Mosè sul Monte Sinai, entrare nell'oscura nube del mistero. Il precedente, ricco mondo d'esperienza delle molteplici percezioni si apre verso Dio solo se il permanente mistero divino non viene dissolto (teologia negativa): Dionigi " canta " così, servendosi del simbolo di Mosè, l'ascesa dell'uomo verso la mistica unione con Dio.

Questa dottrina dell'esperienza di Dio nascosto nella tenebra attraverserà tutto il Medioevo. Nel Cinquecento e nel Seicento, epoca in cui prevale la considerazione psicologica, invece, l'attenzione si sposta sulle condizioni soggettive dell'esperienza e, in particolare, sulle modalità della contemplazione mistica e sui fenomeni parapsicologici che in essa si possono verificare.

L'uso del termine al sostantivo, cioè " mistico ", nel sec. XVII segna una distinzione tra il fatto di poter sperimentare il mistero e il mistero in sé. L'attenzione al soggetto, lo studio psicologico dell'esperienza (come fenomeno di coscienza), il confronto superficiale dei concetti cristiani occidentali con quelli dell'estremo Oriente, in seguito anche alcune esperienze " parossistiche " (peak-experience= esperienza culmine o limite) o alcuni stati inebrianti provocati dalla droga, riducono la mistica a una fusione con il divino, oppure a un sentimento sublime senza contenuto o senza oggetto. La mistica viene, così, intesa come un " concetto-limite ed essenziale " (J. Seyppel) che riassume quanto detto sopra.

Nella teologia posteriore al 1900 si è imposta in maniera forte la questione se la mistica costituisca un prolungamento o un'intensificazione dell'esperienza della fede (R. Garrigou-Lagrange) o un dono di Dio straordinario e qualitativamente nuovo (Foulain). Strettamente legata a tale questione se ne è posta un'altra altrettanto importante, cioè se ridurre l'essenza stessa della mistica alla mistica dei fenomeni straordinari. Tale questione si può ridurre al seguente interrogativo: la mistica dipende da un metodo o è un dono gratuito? Pare che la risposta più elevata sia questa: pur consapevole dell'utilità dei metodi, la mistica cristiana insiste, però, soprattutto sul carattere dei doni gratuiti dello Spirito (J. Maritain). L'esperienza mistica, intesa come pienezza di vita cristiana, si riferisce sempre alla gratuità di Dio, con il quale si entra in intima unione d'amore, sul piano esperienziale.

L'altro termine con cui si è designato la mistica nel corso della storia è misticismo, termine che in varie lingue europee assume un significato piuttosto negativo, di pseudo-mistica, mentre in inglese e in italiano ha generalmente un senso positivo ed è sinonimo di mistica. E anche vero, però, che con questo termine si indicano la tendenza, l'aspirazione, l'espressione di un bisogno, la ricerca, in breve, un certo dinamismo vitale.4 Alcune volte, gli autori cattolici lo contrappongono a mistica per indicare ogni deviazione che assuma le apparenze di mistica, come ad esempio la teosofia, lo spiritismo, il quietismo, ecc.

Comunque, è evidente che " mistica " sottintende sempre l'idea di un'esperienza interiore del divino.5

II. Esperienza religiosa ed esperienza cristiana. Occorre precisare il concetto di " esperienza ", concetto, in verità, ricco di significati diversi. Esso indica, in primo luogo, la concreta esperienza intesa come sperimentazione scientifica, la somma delle acquisizioni realizzate da un individuo o da un gruppo, oppure l'esperienza comune dei sensi, o infine, l'esperienza psicologica, che può essere filosofica, teoretica, estetica, sentimentale, religiosa. Dal verbo latino ex-perior, il termine assume il significato di attraversare, passare attraverso. E proprio attraverso questo passaggio si arriva a conoscere una situazione vitale, qualcosa fino allora sconosciuto e nascosto nelle sue molteplici possibilità.6 Secondo J.-P. Jossua, vi sono alcune caratteristiche che contrassegnano l'esperienza propriamente detta: la percezione della propria relazione con il mondo, con gli uomini, con se stessi e con Dio; la partecipazione in prima persona a tale evento; la presa di coscienza soggettiva, come distanza oggettiva che permette la comunione, quindi, la conversione, cioè il cambiamento di atteggiamento vitale nel soggetto che fa l'esperienza; tale presa di coscienza si accompagna sempre a una interpretazione, cioè a una decifrazione intelligente di quanto si è percepito e appreso riflessivamente; infine, tale esperienza include in un insieme la percezione cosciente e unificata dall'interpretazione di un determinato settore dell'esistenza (intellettuale, estetica, affettiva, ecc.) o della storia.7

L'esperienza religiosa, è, invece, " un'esperienza affettiva, che scaturisce da un desiderio "naturale" di Dio. E un miscuglio di religiosità, emozioni, sentimenti confusi ",8 attraverso cui Dio viene percepito come un bisogno.

Se, poi, la religione viene concepita in un senso lato, come legame con il sacro, allora l'esperienza religiosa è percezione dell'assoluto interpretato come sacro. Questa percezione è attuazione del senso religioso. L'assolutezza nell'esperienza religiosa si esprime come ineffabilità, illimitatezza, incondizionalità, come essere-uno, totalmente, con Dio nell'amore, nella pienezza del proprio essere creaturale.

L'esperienza cristiana, al contrario, è esperienza di conoscenza offerta dallo Spirito attraverso Cristo Gesù. Si tratta di conoscenza sperimentale delle realtà divine, che va al di là della conoscenza speculativa della verità divina.9 E esperienza dello Spirito, perciò esperienza di fede.10

Tutti i cristiani, indistintamente, sono chiamati a fare tale esperienza che tende alla pienezza della vita cristiana come anticipazione della vita futura. Per questo motivo, al termine " esperienza " spesso viene associato l'altro termine " pienezza ": la perfezione del cristiano consiste nell'esperienza di piena comunione con Dio. In tale pienezza di vita, l'uomo si realizza nella sua totalità, compiendo il progetto salvifico di Dio su di lui.

La prima Lettera di Giovanni offre un criterio essenziale per discernere una vera da una falsa esperienza cristiana: " Ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio " (4,2-3). Giovanni concorda con Paolo quando questi scrive ai Corinti: " Nessuno può dire: Gesù è Signore se non sotto l'azione dello Spirito Santo " (1 Cor 12,3), ragion per cui tale esperienza cristiana risulta essere, per sua natura, compimento, per la forza dello Spirito, del mistero del Cristo nel credente, al quale si richiede l'esercizio delle virtù teologali, all'interno della mediazione ecclesiale.

Più che parlare di " esperienza mistica ", allora, è meglio parlare di esperienza del Mistero cristiano,11 perché l'oggetto dell'esperienza cristiana, che si basa sulla fede, è Dio percepito non già come oggetto qualsiasi e neppure come un altro uomo.12

La rivelazione cristiana rimanda, dunque, a una conoscenza del Mistero fino a quel momento nascosto. Lo Spirito di Dio ha manifestato alla sua Chiesa ciò che prima era nascosto in Dio, cioè le sue recondite profondità (cf 1 Cor 2,10).

In questo Mistero, Paolo vede prima di tutto la manifestazione chiara della sapienza di Dio (cf 1 Cor 2,7; Rm 16,27; Col 2,3) e, in secondo luogo, il pleroma (= la pienezza) (cf Col 1,19 e 2,9). In Efesini 1,10-13; 3,19, 4,13 sia il Mistero che il pleroma si trovano associati al concetto di " ricapitolazione " di tutte le cose in Cristo e a quello della Chiesa, Corpo di cui Cristo è Capo e Sposo (cf Ef 5,32). Il piano salvifico di Dio, comunque lo si consideri, sia come sapienza sia come pleroma, conduce ad un'unica conclusione: il mistero del Padre si compie in Cristo per mezzo dello Spirito nella Chiesa.

Ma, tale Mistero è Cristo stesso. Egli, infatti, nella sua morte e nella sua risurrezione " è " la sapienza di Dio (cf 1 Cor 1,24). Nello stesso tempo, è lui stesso il pleroma, perché in lui " abita corporalmente tutta la pienezza della divinità " (Col 2,9) e perché in lui saranno ricapitolate tutte le cose (cf Ef 1,10). Di conseguenza, poiché il mistero di Dio è lo stesso Cristo Gesù, manifestazione e compimento della sua sapienza eterna, nonché pienezza della sua comunicazione agli uomini, l'unico modo per accedere al Padre è il Cristo, via, verità e vita (cf Gv 14,6).13

La via della conoscenza mistica che permette la realizzazione piena del progetto salvifico-comunionale di Dio è il Cristo della croce. Di qui nasce la dimensione, ineludibile, pasquale propria dell'esistenza cristiana. Si può, allora, addirittura affermare che la mistica cristiana è essenzialmente celebrazione e consumazione nell'intimo del credente del mistero di Cristo morto e risorto, quindi, partecipazione della pienezza della divinità, in Cristo, per mezzo dello Spirito. L'espressione paolina " in Cristo " riassume questo evento salvifico-comunionale nel suo duplice movimento: di Dio che si rivela all'uomo e dell'uomo che va incontro a Dio, attraverso la mediazione del Cristo. Nella sua complementarietà e diversificazione questo duplice movimento costituisce, relativamente alla vita cristiana, il centro propulsore dell'unico mistero che è il Cristo Gesù.14

III. BL'esperienza religioso-mistica, ovvero l'epifania di Dio nella Scrittura. L'esperienza religiosa, nella Bibbia, non è tanto un'esperienza del popolo su Dio ma soprattutto di Dio. Difatti, agli inizi, c'è un'esperienza creatrice di Dio che precede ogni ricerca ed esperienza dell'uomo. L'autorivelazione di Dio: " Io sono il Signore, tuo Dio " (Es 20,2) e l'altra espressione di Giovanni: " Prima che Abramo fosse, Io sono " (8,58) sono alla base dell'esperienza religiosa biblica. E Dio che, nella sua materna misericordia, si prende cura dell'uomo (cf Is 49,14-16). Prima ancora che l'uomo lo cerchi, Dio è già alla porta del suo cuore per potervi entrare: " Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me " (Ap 3,20). Anche l'esperienza di Paolo, " conquistato " (Fil 3,12) dal Cristo, quando era lontano da lui, conferma questa verità. L'intervento di Dio nella storia feriale dell'uomo, nasce, dunque, dalla libera epifania di Dio, o per meglio dire, dal suo amore di Padre che irrompe nella vita del credente.

L'esperienza religiosa, riportata dalla Bibbia, mette sempre in rilievo il predominio dell'autorivelazione di Dio sulla ricerca umana, della grazia sugli eventuali meriti umani, del regno, paragonato al seme, che muore e cresce nella terra, sia che il contadino dorma, sia che vegli (cf Mc 4,26-29). In breve, tale esperienza religiosa è l'annuncio del Dio di Gesù Cristo che salva prima ancora che l'uomo chieda di essere salvato, quindi che interviene nella storia degli uomini indipendentemente dalla loro ricerca.

La prima epifania di Dio, che si rivela unico protagonista dell'intera creazione, avviene come un'irruzione all'interno della storia, per segnarla con un suo gesto divino. Di qui, il primo credo d'Israele sarà la confessione dell'onnipotente JHWH, che ha liberato il suo popolo dalla schiavitù d'Egitto (cf Es 20,2). Così, la professione di fede da parte d'Israele si articolerà su tre atti salvifici di JHWH: la vocazione dei patriarchi, la liberazione esodica e il dono della terra promessa (cf Dt 26, 5-9; Gs 24,1-13).15 Tale credo, cantato nel grande Hallel (cf Sal 136), metterà in rilievo questa struttura fondamentale della religione biblica, che ruota e si organizza attorno a Dio artefice della storia umana.

Per questo motivo, il kerigma cristiano non farà che proclamare l'epifania di Dio nella storia attraverso il Cristo. Difatti, l'annuncio marciano si apre con un atto divino che " compie " il tempo portandolo a pienezza (cf Mc 1,15), mentre, secondo Luca (11,20), il regno di Dio è vicino, presente, già nel cuore dell'umanità. Anche il contenuto del " Credo antiocheno " (cf 1 Cor 15,3-5) mette insieme l'evento storico della morte del Cristo e quello escatologico della sua risurrezione. L'apostolo Pietro, a sua volta, nel kerigma rivolto ai pagani ribadisce la medesima struttura della fede cristiana: l'intervento del Cristo nella storia. Salvatore dell'umanità, ovunque passava faceva del bene e guariva da ogni sorta di male; messo in croce, dopo il terzo giorno fu da Dio risuscitato (cf At 10,38-41).

L'esperienza religioso-biblica ha, dunque, inizio con l'epifania di Dio nella storia umana, perché questa venga strappata alla pura temporalità e diventi storia di salvezza. Tale ingresso di Dio nella storia umana evidenzia, ancora una volta, l'azione salvifica della gloria di Dio prima ancora che l'uomo si disponga ad essere tempio del Dio vivente.

Ma il Dio della storia si rivela all'uomo nei fatti ordinari della sua vita quotidiana soprattutto nella Parola. Questa si manifesta, innanzitutto, come Parola cosmica che chiama all'essere le cose che non sono (cf Gn 1ss.; Sal 32,6-9). Si presenta, poi, come Parola profetica che si rivela nella storia indicando il progetto divino su di essa (cf Ger 20,7-9). Si propone, altresì, come Parola etica che induce l'uomo a vivere nella verità e nella giustizia (cf Es 20 e Mt 5-7). Si presenta, infine, come Parola che si rivolge, improvvisamente, all'uomo sconvolgendone l'esistenza (cf Gn 12,1; Am 7,15; At 9,3-4, ecc.). L'esperienza religiosa per la Bibbia si presenta, quindi, come esperienza di Dio che si mette per primo sulle strade dell'uomo, entrando nella sua esistenza storica. Si fa chiamare " Emmanuele ", cioè Dio-con-noi (cf Is 7,14; 8,10), per instaurare con ogni uomo un rapporto d' alleanza, da vivere nei solchi della storia quotidiana.

Proprio perché la rivelazione di Dio avviene nella puntualità storica dell'evento Cristo, la ricerca dell'uomo, che è fides quaerens Deum, si traduce in ricerca-incontro, cioè in conoscenza biblica del Dio di Gesù Cristo. In altri termini, Dio, rispondendo alla ricerca dell'uomo, si lascia incontrare nel Figlio fatto carne, ove risiede la pienezza del suo amore. Da questo momento in avanti, la ricerca dell'uomo non può essere che risposta d'amore a quest'amore che è " primo ".16 Nasce, così, quel rapporto di conoscenza di Dio, ove la fede e l'amore dell'uomo giocano un ruolo importante. La meta ultima di tale conoscenza è la comunione intradivina, mistica, orante ed esistenziale, ove va a concludersi la ricerca umana. Si tratta di un'intimità piena e personale per cui l'uomo prende coscienza di essere realmente figlio del grande amore del Padre (cf 1 Gv 3,1). Per questo motivo, osa chiamarlo, senza soggezione, " Abbà, Padre! " (Rm 8,15). L'esperienza religiosa nella Bibbia è, dunque, un itinerario verso il silenzio pieno solo di quella ineffabile comunione divina, in cui non si rivolge più a Dio, ma lo ama; non lo cerca più, ma lo contempla.

Di conseguenza, quando la Scrittura parla di esperienza religiosa indica una conoscenza vissuta, cioè una conoscenza concreta unita alla vita, una conoscenza d'amore che è il substrato della vita mistica.17 Questa, pur essendo innata nell'uomo, è una conoscenza naturale di Dio trascendente, che supera ogni ordine pensabile.18 E per questo motivo che Paolo parlerà di una conoscenza per amore, cioè di quell'" amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio " (Ef 3,19).19

L'esperienza religioso-cristiana si colloca, dunque, sin dall'origine, sul piano del conoscere per amore e, in quanto tale, è sperimentazione, pur tra il già e non ancora, del mistero di Dio rivelato in Gesù Cristo (cf Gv 1,18). Per questo motivo, non bisogna confondere l'esperienza religiosa, in senso ampio, con l'e. nel senso stretto e cristiano del termine. E importante distinguere bene questa da quella per non correre il rischio di cadere nell'intimismo o nell'affettività, rinunciando così al contenuto espresso dal termine " esperienza "; inoltre, è necessario evidenziare i tratti fondamentali che permettono di definire cristiana tale esperienza e di comprendere, altresì, come si collochi l'esperienza " mistica " in rapporto alla spiritualità.

IV. E. e spiritualità. Prima di descrivere la natura e i tratti fondamentali della mistica cristiana, è opportuno chiarire la distinzione tra spiritualità ed e. Lo studio della spiritualità, o per meglio dire, della teologia spirituale, considera l'evoluzione esistenziale della vita secondo lo Spirito, sperimentata dall'uomo in cammino verso la pienezza della comunione con Dio. Più precisamente, intende riflettere su tale cammino spirituale nel suo continuo divenire, secondo il particolare disegno di Dio, con il quale il cristiano è entrato in un rapporto personale d'amore. Il suo metodo, pertanto, non può prescindere dall'esperienza generale da cui si possono dedurre certe regole dell'azione divina nell'anima, né dall'esperienza di coloro che hanno già raggiunto la pienezza della vita in Dio, né tantomeno dalla storia concreta di coloro che tendono ad essa.20 Pur essendo quasi impossibile, o quanto meno difficile, cogliere il dinamismo di questa vita tutta interiore, la teologia spirituale tenta di fissare alcuni punti fermi: l'origine, la crescita, i mezzi di maturazione di tale vita, il suo fine ultimo, ricorrendo, in primo luogo, alla Scrittura, alla tradizione e all'esperienza, ratificata dal Magistero, di mistici accreditati.21 In questo compito di ricognizione della vita interiore, la teologia spirituale va al di là delle categorie umane (di tempo e di spazio, di prima e di poi, di maggiore o minore, ecc.) per porsi in una prospettiva metastorica, su quel piano di fede adottato da Dio che si è pur sempre rivelato nella carne, quindi nella storia, per farsi conoscere dagli uomini.

Tutti i cristiani, in virtù del battesimo, sono chiamati a vivere questa vita nello Spirito, secondo il proprio stato e la propria condizione di vita, imboccando la via da Dio stesso tracciata per arrivare allo stato di uomo perfetto (cf Ef 4,11-13), in un perenne divenire senza conseguire una perfezione definitiva fino a quando si è nella condizione umana. Criteri fondamentali per rilevare lo stato spirituale raggiunto dal cristiano sono la modalità sempre più pneumatizzata del proprio essere agito dallo Spirito, l' abbandono filiale a Dio Padre nello Spirito di Cristo, la vita di carità vissuta sul modello del Cristo. Certo, sono criteri sempre relativi che danno indicazioni poco verificabili, giacché si prende in considerazione la vita stessa di Dio partecipata nel Cristo dallo Spirito.

Dall'altra parte, la mistica è sostanzialmente la presa di coscienza22 di tale esperienza dello Spirito vissuta nell'intimo del credente. Si tratta, più propriamente di un processo d'interiorizzazione del Mistero cristiano, cioè della rivelazione del Figlio di Dio incarnato nell'ambito della Chiesa, le cui condizioni normali di crescita sono la vita di fede e quella sacramentale. Ragion per cui, l'e. è frutto della fede.23 Si può parlare allora di una mistica sperimentale.24 Il padre V. Bainvel nell'introduzione alla riedizione del libro del Poulain riproponeva la sua concezione di vita mistica, definendola: " Vita di grazia fatta cosciente, conosciuta sperimentalmente ". E, spiegando il suo pensiero, continuava: " Con questo intendo che Dio concede all'anima mistica qualcosa come un senso nuovo, la coscienza della sua vita in Dio e della vita di Dio in essa. Tale coscienza si va sviluppando poco a poco, seguendo l'evoluzione della vita mistica, dal sentimento della presenza o di un tocco amoroso di Dio nell'anima sino al concorso divino a tutti i nostri atti soprannaturali e all'unione (accidentale, ma immediata) tra Dio e noi, tra la sua sostanza e la nostra, inglobando la vita di Dio e le sue operazioni in noi, la nostra vita e le nostre operazioni in lui. Ciò costituisce, allo stesso tempo, conoscenza e amore, predominando a volte la conoscenza, altre volte l'amore ".25

Vi sono due modi per tendere a tale esperienza: uno mediato e l'altro immediato, pur essendo tutti e due dono gratuito di Dio. Il primo è il cammino di perfezione, percorso a tappe o per gradi dai cristiani, divisi, secondo una tradizionale classificazione, in incipienti, proficienti e perfetti, attraverso tre stadi fondamentali: purificativo, illuminativo e unitivo. Il secondo modo, immediato, è accordato direttamente da Dio a chi vuole e quando vuole, al di là di ogni schema logico e cronologico. Nell'una e nell'altra modalità di e. è sempre necessaria la collaborazione dell'uomo, che a questo punto della sua vita spirituale si fa strumento nelle mani di Dio. Si tratta, in termini concreti, di un lavoro di scavo che l'uomo deve operare tra le stratificazioni del suo essere fino ad arrivare alla sostanza dell'essere stesso, cioè alla forma informante ogni cosa: Dio Trinità d'amore, sorgività prima, da cui procedono uomini e cose. E importante, soprattutto in questo caso, notare come alla somma attività o collaborazione dell'uomo all'azione di Dio, debba corrispondere una somma passività, che consiste nel lasciarsi fare da Dio.26

In breve, si può, dunque, affermare che la spiritualità si pone sul piano del vivere secondo lo Spirito, mentre la mistica su quella dell'essere, o per dirla in termini più appropriati, del " lasciarsi fare " da Dio. Entrambe sono la strada che ogni battezzato deve percorrere nel tendere alla perfezione, per conseguire la mistica comunione con Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo, già possibile in questa vita, ma pienamente godibile nell'aldilà. La costante azione dello Spirito santificatore, conduce, dunque, all' inabitazione delle tre divine Persone nell'intimo del cristiano, essendo ormai la promessa divenuta realtà: " Noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui " (Gv 14,23). Questa divina presenza non è semplicemente un dato oggettivo, ma personale esperienza dell'inabitazione trinitaria.27

Con questo non si nega che lo Spirito, anche se sovranamente libero, armonizzi il suo dono carismatico mistico sul carattere e sulla mentalità del soggetto in questione. Proprio perché questa inabitazione divina è, nel mistico, dono e non già ricompensa, essa lo fa pienamente uomo, provocando nel sì della sua nuova personalità di uomo nuovo la risposta alla sua vocazione ontica all'unione con Dio. Questa pura e nuda struttura della risposta umana è il frutto di una profonda fede, di una speranza che è tensione verso la piena maturità e di una carità che radica sempre più in Dio, come nella sua vera origine. Tanto è vero che, per mezzo dello Spirito, nell'e. si verifica un volere umano talmente immedesimato a quello divino da dare origine per questo ad una vita nuova, cioè ad una vita di carità. Ciò vuol dire che lo Spirito rispetta nella sua azione trasformante e divinizzante l'uomo. Anzi di più. La divinizzazione dell'uomo comporta la sua piena umanizzazione, in un'armonica unificazione di tutto il suo essere; in altri termini, partecipando alla comunione di vita delle Persone divine, egli diviene pienamente uomo e Dio, per partecipazione, nel senso che raggiunge una perfetta maturità umana e spirituale. Superando i propri limiti umani per prestare un'attenzione d'amore solo al Dio di Gesù Cristo, viene introdotto nelle tenebre luminose del mistero intratrinitario, ove non distingue più tra il conoscere per fede e l'amare per carità.

E ormai giunto alla conoscenza per amore di cui parla Bonaventura, quando definisce la mistica cognitio Dei sperimentalis, cioè una conoscenza di Dio fondata sull'esperienza.28 Nell'acme di tale esperienza, il mistico viene unito alle divine Persone in un profondo scambio divino di conoscenza e d'amore. In questo modo egli pregusta, già qui ed ora, la vita eterna, la gloria dei beati in cielo.29

Tale conoscenza nell'amore è contemplazione mistica, che Tommaso d'Aquino definisce " uno sguardo semplice sulla verità... che termina nell'amore ".30 Giovanni della Croce, invece, la definisce in questo modo: " La contemplazione è scienza d'amore, la quale è conoscenza pregna d'amore, da Dio infusa, che simultaneamente illumina e innamora l'anima fino a farla salire di grado in grado a Dio suo Creatore, perché solo l'amore è quello che unisce e congiunge l'anima a Dio ".31 Entrambi i dottori parlano di conoscenza e di amore uniti in un atto semplice. Giovanni della Croce aggiunge che la contemplazione mistica è infusa direttamente da Dio, quindi non è un'attività dell'uomo.

Ciò porta a considerare alcune caratteristiche dell'esperienza mistico-contemplativa. E vero che la vita spirituale richiede uno sforzo ascetico volontario, ma è altrettanto vero che, dall'altra parte, essa assume, in certi casi, un carattere passivo 32 in quanto la conoscenza mistica è sempre un'iniziativa di Dio che rivela il proprio mistero d'amore, pur nell'oscurità di una conoscenza inadeguata al suo essere trascendente, nella ricezione passiva del credente.33

Ma, passività nell'e. autentica non significa affatto inattività; al contrario, proprio perché la persona si sente agita dallo Spirito, è più che mai impegnata nell'azione; o, se si tratta di contemplazione, che è conoscenza intima del mistero divino, tale passività si trasforma in azione redentrice.34

Da quanto detto, si può desumere il carattere di gratuità dell'e., nel senso che si è perfettamente coscienti dell'incapacità di procurarsela con le sole forze umane. Dio rimane sovranamente libero nel dono di sé: egli si manifesta a chi vuole, quando e come vuole. Non rimane allora, all'uomo disposto all'azione dello Spirito, che affidarsi completamente alla sua libera iniziativa: per mezzo di luci e mozioni interiori, egli permetterà di penetrare nell'amore di Dio e del suo mistero salvifico-comunionale.

Altra caratteristica dell'e. autentica è che essa si svolge sempre nell'ortodossia: poiché è frutto della grazia santificante, delle grazie abituali e delle virtù infuse, non può verificarsi in un peccatore. Inoltre, poiché tali grazie avvengono sempre nell'ambito ecclesiale, esse fanno esplicito riferimento alla Chiesa, quindi non possono condurre ad azioni ad essa contrarie. Così pure, chi fa e. non trattiene per sé questo dono d'amore, ma lo partecipa agli altri per fare chiesa con loro.

Lo sviluppo individuale dell'e. è, altresì, legato alle peculiarità del soggetto e dell'epoca in cui è vissuta. Di qui la stretta interdipendenza tra l'e., oggettiva in sé, e i condizionamenti personali, sociali e culturali. Tale interdipendenza obbedisce al principio normante dell' Incarnazione di Dio che si è fatto uomo in un preciso contesto storico e culturale. Per questo motivo, occorre, prendere in considerazione anche la dimensione psicologica dell'e.,35 empiricamente controllabile, come fa la ricerca storica che prende in esame realtà tipiche della mistica come le stimmate, le guarigioni, le estasi, le visioni; oppure l'analisi clinica delle dipendenze ed influenze in un soggetto " mistico "; la critica delle fonti e il problema del linguaggio in una testimonianza di un mistico o della stessa e.36

V. L'e. come sapienza divina. Stando ai mistici cristiani e alle tradizionali riletture in chiave più o meno dionisiana che dell'e. è andata proponendo una lunga serie di interpreti, la teologia della mistica ha ristretto il proprio campo d'indagine attorno a due nuclei principali: l'e. cristiana è un " sapere ", anche se " non-sapendo "; l'e. cristiana è un " sapere " " subendo " l'iniziativa o la divina presenza operante nella passività mistica dell'anima.37

La teologia odierna tende a identificare questo " sapere-non-sapendo " con il " sapere " proprio della vita spirituale, in quanto vita di fede operante nella carità. In altri termini, la fede è il " sapere " tipico del cristiano, cioè una conoscenza relativa rispetto alle verità rivelate, che egli crede ciecamente e liberamente, perché le riconosce come manifestazioni dell'unica Verità rivelatrice. Per questo motivo, anche nell'e. si riesce a cogliere solo qualche particella della Verità assoluta, che come un prisma presenta innumerevoli sfaccettature che solo Dio ha presente in sé, nell'immediatezza, nella profondità e nella totalità. Appena si varca la soglia della conoscenza umana e teologica, si scorgono come in lontananza orizzonti sconfinati, ove regna la tenebra più assoluta. A questo punto ci si convince che " Dio è più grande del nostro cuore " (1 Gv 3,20), ossia che la Verità è talmente immensa da richiedere una ricerca che mai si esaurirà. A questo proposito il Qoelet afferma: " Molta sapienza molto affanno, chi accresce il sapere, aumenta il dolore " (1,18). Scrutare le profondità di Dio (cf 1 Cor 2,10), dunque, vuol dire, per chi fa l'e., scoprire il proprio limite creaturale, passare attraverso il deserto, il silenzio, le tenebre, ove Dio si " mostra " come il Deus absconditus deutero-isaiano (cf Is 15,45).

In breve, l'e., che è conoscenza al di qua della visione beatifica, quindi della situazione escatologica definitiva dell'uomo, si deve muovere non sul piano dell'intelligenza, ma su quello dell'amore. Del resto, il Dio rivelato in Gesù Cristo può essere conosciuto, nel senso biblico del termine, solo mediante l'esercizio della carità. In questa ricerca-incontro, si è favoriti dal fatto che lo spirito umano è strutturalmente aperto a Dio 38 fino a " conoscerlo " misticamente. L'esperienza mistico-conoscitiva si pone, dunque, sul piano della " sapienza del Mistero " (1 Cor 2,7), essendo oggetto di tale conoscenza " le cose di lassù ", ossia quelle pasquali e trascendenti (cf Col 3,1). Di qui l'invocazione di Paolo, a nome di tutti coloro che sono alla ricerca della Sapienza eterna: " Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui " (Ef 1,17).

La perfetta conoscenza mistica, vero e proprio pellegrinare in avanti oltre le frontiere dei limiti umani verso l'infinito di Dio, sbocca sull'eterno, ove si verifica una penetrazione vitale nel mistero salvifico in tutta la sua estensione. Non si tratta qui di una conoscenza mediata, fondata sulle proposizioni della fede, ma di una intuitiva percezione 39 del mistero del Dio vivente, che si manifesta tra ombre e luci. La struttura cognitivo-religiosa si rivela, pertanto, completamente inadeguata, perché l'e. si pone tra l'umano e il divino, l'esistenziale e il metastorico, cioè in quella intersezione con il limite creaturale, al di là del quale regna il mistero divino. E la terra del silenzio di Dio, che sconvolge più dell'abbandono o dell'assenza. Questo divino silenzio è la Parola più loquace che Dio possa pronunciare, perché è un evento salvifico-comunionale, attraverso il quale la Trinità partecipa all'uomo il suo progetto d'amore, di fronte al quale il mistico riconosce il proprio destino creaturale, aperto a cogliere, seppure in parte, il volto di Dio trascendente e immanente al tempo stesso.

L'esperienza del divino è, dunque, protesa a questa conoscenza sapienziale del Padre, sorgività d'amore, del Figlio soggetto dell'amore del Padre e dello Spirito vincolo d'amore tra il Padre e il Figlio. Tutto ciò conferma, una volta di più, che la comunione mistica con le divine Persone è essenzialmente trinitaria. Riprendendo il pensiero paolino del cristiano tempio dello Spirito (cf 1 Cor 3,16) e quello giovanneo sulla dimora del Padre e del Figlio presso il credente (cf Gv 14,23), la tradizione cristiana ha sottolineato questa misteriosa presenza di Dio nell'uomo, e ha ribadito il valore della conseguente divinizzazione, che è il nucleo centrale dell'e.

Dio dalla sua diafana trascendenza si comunica e rivela nello spazio immanente dell'uomo. Nasce così una unità con Dio che tiene insieme la più abissale differenza, mai ignorata, da Dio e la più profonda comunione con lui; l'immediatezza della presenza di Dio diventa, così, inabitazione del suo mistero d'amore, realtà tanto più profonda quanto più l'unione con lui diventa reale. Nella comunione offerta dallo Spirito divino, il mistero irraggiungibile di Dio viene sperimentato come fedeltà e prossimità. In tale vicinanza-comunione con Dio, il mistico raggiunge, nella fede, quella sapienza che alimenta la carità e la gioia di stare in Dio, coltivando al tempo stesso la speranza di vederlo faccia a faccia, in un'estasi d'amore senza fine.

VI. L'e. come vita teologale. L'esistenza cristiana del mistico è aperta all'accoglienza del Dio di Gesù Cristo per la forza dello Spirito: nella sua storia feriale, egli viene a narrare la trama della sua alleanza con le divine Persone, cioè la sua comunione di vita con la Trinità beata, come vita teologale.

Il Dio trinitario, comunicando la sua divinità ed unità al mistico, gli imprime anche qualcosa del movimento eterno della sua vita, restaurando nel suo intimo l'immagine e somiglianza delle origini (cf Gn 1,26). In breve, il mistico riflette nella sostanza del suo essere il Dio uno e trino, in quanto riflette l'unità comunionale ed essenziale del dinamismo della vita intradivina. Tutto ciò costituisce le " vestigia " della Trinità, che la riflessione postpasquale ha saputo scoprire nello spirito di ogni uomo. Tale riflessione non ha inteso con questo spiegare il mistero trinitario, ma ha voluto piuttosto cercare di comprendere l'uomo partendo dalla rivelazione trinitaria, per meglio inquadrarlo nel mistero di cui ogni creatura umana è immagine.40

La vita nuova ricevuta nel battesimo e dinamicamente ora comunicata al mistico mediante l'identificazione al Cristo pasquale, nella grazia dello Spirito Santo è, dunque, vita che riflette l'unità trinitaria nell'incorporazione al Corpo ecclesiale di Cristo (cf Ef 4,4ss.) e nell'anticipazione della visione futura e definitiva del volto di Dio. L'esistenza del mistico viene, così, sempre più radicata nella vita intradivina e si esplica in un dinamismo, quotidianamente vissuto come vita teologale.41 Il mistico, insomma, vive nella Trinità e in rapporto alla storia feriale come uomo di fede, di speranza e di carità.42

Proprio perché, mediante il battesimo, il mistico è entrato a far parte della famiglia di Dio Padre, come figlio adottivo e immagine restaurata di lui (cf Col 3,10; Rm 8,29; ecc.), egli riflette in sé la sorgività dell'amore eterno, cioè l'essere amore amante proprio del Padre. Tale riflesso in lui e nella sua esistenza storica è la carità: 43 dono che rapporta il mistico all'origine e al principio di ogni cosa e di ogni amore. Esercitando la carità, il mistico può amare con la sorgività, la gratuità, la creatività, la forza stessa di Dio, appunto perché gli vengono comunicate dall'eterno Padre.

Incorporato con il battesimo al Verbo incarnato, nella sua esistenza pasquale, il mistico riflette in sé, altresì, la ricettività dell'amore, propria del Figlio, cioè l'essere amore amato. Tale riflesso che è fede, si esprime nell'e. come accoglienza del dono di Dio, come obbedienza nell'amore e, infine, come ascolto fedele della Parola. Nella e per la fede, il mistico partecipa, in un certo senso, al movimento eterno dell'amore, per mezzo del quale il Figlio accetta senza misura l'amore del Padre. Per questo motivo, nell'e. il cristiano si lascia amare, incondizionatamente, come il Figlio, da Dio Padre, nel senso che si lascia gestire dallo Spirito, senza chiedere garanzie o fare calcoli umani; accoglie la volontà salvifica del Padre, si fida ciecamente di essa, e ad essa obbedisce senza riserve.

Infine, riempito dal dono dello Spirito Santo, il mistico riflette nella propria vita teologale quel vincolo di unità e quell'apertura nella libertà dell'amore, propri dello Spirito Santo. Questo riflesso nell'esistenza pasquale del mistico costituisce la speranza. Questa virtù nella sua tensione teleologica unisce la presente realtà del mistico alla pienezza di Dio, aprendogli continuamente il cuore alla sua imprevibile volontà. Lungi dal risolversi, quindi, in passiva attesa, la speranza teologale è anticipo della beatitudine eterna promessa. La speranza, insomma, dona audacia all'amore e pazienza all'obbedienza della fede (cf Rm 5,1-5), per camminare senza stancarsi, come su ali d'aquila (cf Is 40,31), verso la comunione trinitaria.

La carità, la fede e la speranza, imprimono, dunque, un carattere tutto particolare all'esistenza redenta del mistico, intesa come esistenza trinitaria. Queste tre virtù non sussistono perciò separatamente, ma si rapportano mutuamente, in un dinamismo vitale, che riflette il dinamismo intradivino proprio della vita della Trinità. Lo spazio di quest'accoglienza sempre più profonda della Trinità nell'esperienza vitale del mistico alimenta un rapporto vitale, filiale, che comunemente viene definito preghiera.44

VII. Tipologie dell'e. cristiana. Nel vissuto cristiano sono state individuate varie forme di esperienze mistiche. E pressocché impossibile classificarle tutte in una mappa completa ed esaustiva, perché lo Spirito di Dio si comunica all'anima in modi singolari, diversi, e quasi sempre nascosti. Non ci è permesso conoscere le forme più elevate di e., perché troppo ineffabili per poter esser comprese dall'intelligenza umana.45 Ciò nonostante si possono individuare alcune tipologie registrate nella storia della mistica riproposte qui in maniera sintetica.

Innanzitutto, la mistica dell'essenza e la mistica sponsale. La prima è rappresentata dai mistici renano-fiamminghi nei secc. XIII-XIV, che si esprimeranno secondo il modello di " mistica dell'essenza " (Wesenmystik) distinto dal modello " sponsale " (Brautmystik).

In questa l'unione con Dio avviene secondo l'analogia del fidanzamento prima e del matrimonio poi, secondo il modello proposto dal Cantico dei Cantici, quindi muove da un retroterra più tipicamente biblico. E il retroterra dell'alleanza e della simbologia nuziale che la esprime. La comunione dell'uomo con Dio è vista come la comunione dell'anima (sposa) con lo Sposo (Dio). Il simbolo nuziale, insomma, esprime l'esperienza dell'essere-unito a Dio, cioè della comunione della sposa-creatura nella trasformazione dello Sposo-Creatore.

Nella mistica dell'essenza, invece, l'unione con Dio viene concepita come esperienza dell'unità dell'essere creato nell'Essere increato, di cui il primo è certamente partecipazione, sul modello del mistero di Dio, che è mistero di unità nella Trinità. La partecipazione-unità ontologica con il Divino essenziale avviene nel punto radicale dello spirito umano (fondo, scintilla, apice, centro, sostanza dell'anima). Tale esperienza mistica consiste, da parte dell'uomo, nel ritrovarsi o stabilirsi in permanenza in codesto " luogo ", dove ritrova il fondo della sua umana esistenza e quello di Dio, nel loro reciproco fluire e rifluire.

La mistica dell'assenza: è l'esperienza dell'assenza di Dio, dell' aridità, del deserto o molto più semplicemente della purificazione o notte dei sensi e dello spirito. Per Giovanni della Croce, è la fase di passaggio per arrivare alla comunione-trasformazione in Dio, non ancora definitiva.

La mistica della luce consiste nella illuminazione dell'oscurità della non-conoscenza attraverso la luce divina che si mostra e lascia sperimentare a squarci di luce. Nella Scrittura, soprattutto nell'AT, Dio viene rappresentato come luce e le sue epifanie avvengono sotto forma di illuminazioni, visioni, folgorazioni. Ma è soprattutto nella Chiesa ortodossa che si insiste sulla mistica della luce, attraverso cui è possibile ricevere la visione della Luce increata (per es. nell'esicasmo), fine ultimo della vita spirituale.

La mistica contemplativa, infine, è un vissuto spirituale che si propone al termine dell'esperienza spirituale di preghiera. Difatti, la preghiera inizia in un modo discorsivo e, nella fase contemplativa, si riduce ad un atto semplice, a conclusione di quel processo di pneumatizzazione da parte dello Spirito. In questo modo, il mistico, che è in tutto " rinnovato e mosso da Dio " 46 e in lui solo totalmente raccolto, è come travolto ed assorbito entro il vortice della vita trinitaria.

VIII. Pellegrino dell'Assoluto sulle strade del mondo. L'e., fin qui descritta, non è una realtà avulsa dalla storia, ma si pone attraverso il soggetto mistico nel cuore stesso della storia come testimonianza concreta del Dio di Gesù Cristo. Il mistico, pertanto, non è uno spirito sazio di sé, chiuso in se stesso per fuggire dal consesso umano e rimanere in una sterile solitudine. Al contrario, egli è aperto agli altri nella comunicazione dell'amore; anzi, egli vive per le strade in solidarietà con gli altri uomini: condivide le loro aspirazioni, le loro gioie, le loro pene per edificare con loro la città celeste e narrare, qui ed ora, le meraviglie che Dio va compiendo in lui (cf 1 Gv 1,1-3) e nella storia degli uomini. Sulle strade del mondo, il mistico, come il Risorto a Emmaus, si fa compagno di viaggio degli uomini per fare della sua vita mistica un umile servizio di corredenzione e di mediazione tra il Salvatore e l'umanità.

Il mistico, proprio perché non è uno spirito disincarnato è, dunque, tutto impegnato nella collaborazione e nel completamento dell'opera creatrice dei primi giorni e nel rendere nuove tutte le cose, secondo l'azione salvifica del Cristo (cf Ef 1,10; Rm 8,22). La sua e. è, in conclusione, un frammento dell'eternità di Dio nella storia vissuta di ogni uomo, per cantare con la sua vita la Canzone " Tu " del rabbino hassidico di Berditschev nel '700 mitteleuropeo: " Dovunque io vada, Tu, dovunque io sosti Tu. Solo Tu, ancora Tu, sempre Tu. Cielo Tu, Tu terra, Tu. Dovunque mi giro, dovunque guardo, Tu, Tu, Tu! ".47

Note: 1 Cf L. Bouyer, " Mystique ". Essai sur l'histoire d'un mot, in VSpS 3 (1943), 3-23; 2 Cf a tale riguardo U. Rahner, Mysterion. Il mistero cristiano e i misteri pagani, Brescia 1952; 3 Cf Dionigi Areopagita, in Id., Teologia mistica, Tutte le opere, Milano 1981, 406-407; 4 Cf R. Moretti, Mistica e misticismo, oggi, in Aa.Vv., Mistica e misticismo oggi, Roma 1979, 28-41; 5 All'inizio della sua opera intitolata Teologia della mistica, tradotta in italiano con il titolo La scala del paradiso. Teologia della mistica, Brescia 1979, A. Stolz, ad esempio, fa notare come tutti, attualmente, siano concordi nel riconoscere che questo termine sottende un'esperienza del divino. Vedasi a tale proposito B. Calati, Teologia della mistica, in Id., Sapienza monastica, Roma 1994, 141-172; cf anche A. Bertuletti, Il concetto di " esperienza " nel dibattito fondamentale della teologia contemporanea, in Teologia, 5 (1980), 283-341; G. Moioli, Dimensione esperienziale della spiritualità, in Aa.Vv., Spiritualità: fisionomia e compiti, Roma 1981, 45-62; 6 Cf L. Duch, La experiencia religiosa en el contexto de la cultura contemporánea, Barcelona 1979, 39; vedasi soprattutto A. Godin, Psicologia delle esperienze religiose. Il desiderio e la realtà, Brescia 1983; 7 Expérience chrétienne et communication de la foi, in Con 9 (1973), 74-75; 8 J.-R. Armogathe, Esperienza dello spirito e tradizione cristiana, in Com 30 (1977), 18; 9 Così scrive s. Bonaventura a tale riguardo: " La conoscenza sperimentale della dolcezza divina aumenta la conoscenza speculativa della verità divina, perché Dio rivela i suoi segreti ai suoi amici e ai suoi intimi ", (in IV Sent., I.III, dist. 34, a. 2, q. 2, 2m); 10 " E opportuno insistere sul fatto che l'esperienza dello Spirito non è un'esperienza della grazia, cioè di ordine mistico: ciò riporterebbe a concepire l'esperienza cristiana come un'esperienza mistica a un livello inferiore. E la tentazione quietista (o pietista) di non ammettere l'esperienza che come sola teologia - quindi di riservare ad alcuni l'esperienza cristiana... L'uomo religioso fa un'esperienza attiva, ma il teologo che si umilia, gusta anche l'esperienza della conoscenza ", J.-R. Armogathe, Esperienza..., a.c., 22-23; 11 Cf a questo proposito H. de Lubac, Mistica e mistero cristiano, Milano 1979, soprattutto a p. 7 ove il noto teologo afferma: " Se bisogna intendere per "mistica" una certa perfezione raggiunta nella vita spirituale, una certa unione effettiva alla Divinità, allora, per un cristiano, non può trattarsi d'altro che dell'unione col Dio Tri-personale della rivelazione cristiana, unione realizzata in Gesù Cristo e per mezzo della sua grazia; dono "infuso" di contemplazione "passiva" "; 12 " Dio non è un ente tra gli altri, come quelli che s'incontrano nel mondo e sono esperibili con i sensi umani e con i criteri spirituali con una esperienza [Esperimentare significa letteralmente: "accertare viaggiando, recandosi sul posto". E "viaggiare" stesso deriva dalla stessa radice "per" (immergersi in qualcosa, penetrare qualche cosa, viaggiare attraverso), come il latino per = attraverso, ex-per-ientia = esperienza guadagnata facendo tentativi; in greco: peira = esperienza, peiro = penetrare, periao = tentare, provare, conoscere] che si arricchisce nel corso di una vita. Perciò, c'è da attendersi a priori che non si può sperimentare Dio come un oggetto mondano, neppure come un altro uomo. Dio è essenzialmente il nostro principio dal quale proveniamo non con una crescita naturale, come un ramo germoglia dal tronco, ma in sovrana libertà che ci apre la strada alla nostra indipendenza e libertà creaturale. Naturalmente non per abbandonarci in un'isola deserta, ma perché in libera ricerca ci apriamo al nostro principio "se mai arriviamo a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi" (At 17,27). Questo "sperimentare" si verifica quando vediamo Dio e l'uomo solamente in questo confronto di Creatore e creatura, paragonabile al procedere a tentoni di un cieco che al di là dello spazio colmo di oggetti finiti tasta nell'infinito per vedere se la sua mano spirituale si imbatta in qualche cosa ", (H. U. von Balthasar, Nuovi punti fermi, Milano 1980, 20); 13 Cf B. Jiménez Duque, Cristo y la mística cristiana, in Teologia espiritual, 19 (1975), 155-185; 14 Cf J. Mouroux, L'expérience chrétienne, Paris 1952, soprattutto il cap. VIII; 15 Cf L. Borriello, Indicazioni per una lettura spirituale del Deuteronomio, in Asprenas, 32 (1984), 479-495; 16 " Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi... egli ci ha amati per primo ", 1 Gv 4,10.19; 17 Cf D. De Pablo, Amor y conoscimiento en la vida mistica, Madrid 1979; 18 Cf G. Colombo, Conoscenza di Dio e antropologia, Milano 1988; 19 Questo " principio è stato ripreso molte volte nelle varie formulazioni dagli autori spirituali dell'Oriente ed è divenuto uno dei cardini del monachesimo. Citerò un testo recente che è assai suggestivo. L'autore è un teologo russo, B. Vyseslavcev: E profetica per ogni intellettualismo recente, quest'espressione di Leonardo da Vinci: Un grande amore è figlio di una grande conoscenza. Noi cristiani d'Oriente possiamo dire il contrario. Una grande conoscenza è figlia di un grande amore. Il principio, come notiamo, si dichiara universalmente valido per tutti i cristiani. Eppure vi è chiaramente sottolineato l'elemento mistico. La conoscenza di Dio è al di là delle nozioni intellettuali. Suppone l'esperienza vitale con Dio nella carità " (T. Spidlík, La mistica, in Aa.Vv., Mistica e scienze umane, Napoli 1983, 21); 20 Cf Ch.-A. Bernard, Teologia spirituale, Cinisello Balsamo (MI) 19893, soprattutto il cap. III; 21 Cf a tale riguardo L. Bouyer, Mysterion. Dal mistero alla mistica, Città del Vaticano 1998; 22 " Nella riflessione teologica la mistica si presenta come il farsi cosciente da parte dell'esperienza della grazia increata, in quanto rivelazione e autocomunicazione del Dio trinitario ", H. Fischer, Mistica, in K. Rahner (cura di), Sacramentum mundi, V, Brescia 1976, 409; 23 Cf H. de Lubac, Mistica..., o.c., 19ss.; 24 Così afferma Fr. Claudio de J. Crucificado, in un articolo denso e interessante, ove tenta una definizione della mistica: Hacia una definición clara y precisa de la teología de la mística, in Revista española de teología, 1 (1940), 573-601; 25 Des grâces d'oraison, Paris 1922, Introduzione, III, 12; 26 A conferma di tale atteggiamento è opportuno riportare le parole di Gesù a Pietro: " Quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi " (Gv 21,18); 27 Cf A. Hamman, La Trinità nella liturgia e nella vita cristiana, in Mysterium salutis, a cura di J. Feiner e M. Löhrer, III, Brescia 1969, 180-184; 28 III Sent. d. 35, q. 2, corp. Si pensi anche a un'altra definizione, offerta da Tommaso d'Aquino, quando, rispondendo alla seguente questione: " Duplex est cognitio divinae bonitatis vel voluntatis, una quidem speculativa... ", afferma: " ... alia autem est cognitio divinae bonitatis seu voluntatis affectiva seu experimentalis, dum quis experitur in seipso gustum divinae dulcedinis et complacentiam divinae voluntatis " (STh, II-II, q. 97, a. 2 ad 2; un'altra definizione di mistica viene proposta da J. Maritain in Vita di preghiera, liturgia e contemplazione (Roma 1979, 60-77). Secondo tale autore, la vita mistica è caratterizzata dall'influsso abituale dei doni dello Spirito Santo. Si può, dunque, affermare che la vita mistica si svolge sotto l'influsso particolare e abituale dello Spirito Santo. Ora, quando questo influsso si manifesta soprattutto nel predominio della conoscenza e durante l'orazione, si avrà uno stato di contemplazione mistica; quando, invece, tale influsso sarà più forte nelle attività del cristiano posto di fronte alle difficoltà della vita, si avrà un'orazione, più semplice e penetrante, o per dirla con il Maritain, di una contemplazione impropriamente detta o mascherata (Ibid., 66-67) che permea la stessa attività dell'orante; 29 Direbbe l'apostolo Giovanni: " Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato Gesù Cristo " (17,3); 30 STh, II-II, q. 180, 3, 1m e 3m.; 31 Notte oscura, II, 18,5; 32 Cf Ch.-A. Bernard, Structure et passivité dans l'expérience religeuse, in NRTh 110 (1978), 643-678; 33 Di qui la tentazione di privilegiare tale conoscenza "passiva" a scapito della vita spirituale più comune. Si preferisce la passività in cui Dio stesso opera, all'attività umana, perché incapace di far conoscere Dio e di unire a lui. Tale è la posizione di coloro che propendono per il quietismo, rinunciando alla cooperazione dell'uomo per disciplinare, quindi, conformare la propria volontà a quella di Dio. Questo è il motivo per cui, a partire dal Seicento, entrò nell'uso comune contrapporre le due espressioni "teologia ascetica" e "teologia mistica". Ed è anche per questo motivo che si è giunti a distinguere sempre più l'ascetica, volontaria, attiva, ordinaria nella vita dello Spirito e di preghiera, dalla mistica, che è essenzialmente contemplativa, passiva e straordinaria; 34 H.U. von Balthasar, Au-de-là de l'action et de la contemplation, in Vie consacrée, 45 (1973), 65-74; 35 Cf a tale proposito L. Ancona, Interpretazione clinica del comportamento religioso, in Archivio di psicologia, neurologia e psichiatria, gen-feb. 1961, 7-28; M. Bellet, Psychologie et spiritualité, in Christus, 16 (1969), 495-509; Fr. Gabriele di S.M. Maddalena, Indole psicologica della teologia spirituale, in Rivista di Filosofia neoscolastica, 32 (1940), 31-42; 36 In realtà, specialmente oggi, non si possono ignorare gli interrogativi posti dalla psicologia del profondo circa la natura dell'esperienza mistica. Questa può essere il risultato di forze naturali o di un processo inconscio, come pure le sue manifestazioni, straordinarie o normali che siano, possono essere il frutto di condizionamenti psicosomatici o di isteria; 37 Tommaso d'Aquino direbbe: " Il grado supremo della conoscenza umana di Dio è sapere di non sapere che cosa è Dio, in quanto appunto ci si rende conto che "ciò che Dio è" supera tutto ciò che comprendiamo di lui ", (De potentia, q. 7 a. 5 ad 14); 38 Cf C. Tresmontant, La mistica cristiana e il futuro dell'uomo, Casale Monferrato (AL) 1988; 39 " L'esperienza mistica è, dunque, il percepire "ad una profondità" e "da una profondità". E come sentire che vi è un "centro", un "fondo", oppure, secondo un'altra immagine, un "vertice". "Fondo" e "vertice" sono le due immagini antitetiche che i mistici usano. Questa percezione "ad una profondità" o "da una profondità, oppure "ad un vertice" o "da un vertice", postula che il soggetto sia totalmente implicato, al di là di ogni esercizio distinto del pensare, del volere, della fantasia e della memoria " (G. Moioli, L'esperienza spirituale, Milano 1992, 77); 40 Cf K. Rahner, Il Dio trino come fondamento originario e trascendente della storia della salvezza, in Mysterium salutis, a cura di I. Feiner e M. Löhrer, III, Brescia 1969, 401ss.; 41 Cf H. de Lubac, Mistica..., o.c., 21-23, passim; 42 Cf E. Jüngel, Dio, mistero del mondo, Brescia 1982, 505ss.; 43 Cf I. Hausherr, Carità e vita cristiana, Roma 1970; 44 Cf Teresa d'Avila, Vita 8,5; 45 Si pensi, ad esempio, alle esperienze mistiche di Gesù, della Vergine Maria, di Abramo, del profeta Isaia, di Paolo, dell'apostolo Giovanni, ecc.; 46 Giovanni della Croce, Fiamma viva d'amore 4;47 Cf M. Buber, I racconti dei Chassidim, Milano 1979, 257.

Bibl. Aa.Vv., Mystique, in DSAM X, 1889-1984; Aa.Vv., Vita cristiana ed esperienza mistica, Roma 1982; J. Beaude, La mistica, Cinisello Balsamo (MI) 1992; A.M. Enebral Casares, Fundamentos antropológicos de la mística, Madrid 1991; H. Fischer, s.v., in K. Rahner (cura di), Sacramentum mundi, V, Brescia 1976, 409-424; S. Guerra, s.v., in Aa.Vv., Diccionario teológico: El Dios cristiano, Salamanca 1992, 897-916; B. Jimenez Duque, Teología de la mística, Madrid 1963; W. Johnston, L'occhio interiore. Inedita meditazione sul senso della vita mistica, Roma 1987; A. Léonard, Expérience spirituelle, in DSAM IV2, 2004-2026; G. Moioli, Mistica cristiana, in NDS, 985-1001; J. Sudbrack, Mystik, in WMy, 367-370; Id., Mistica, Casale Monferrato (AL) 1992; C. Tresmontant, La mistica cristiana e il futuro dell'uomo, Casale Monferrato (AL) 1988; R. Woods (ed.), Understanding Mysticism, New York 1980; R.C. Zaehner, Mysticism Sacred and Profane, Oxford 1980.

L. Borriello

ESPIAZIONE. (inizio)

I. Il concetto. Nella soteriologia cristiana e. indica la componente onerosa e dolente della missione di Gesù Cristo per la redenzione dell'umanità; nella spiritualità cristiana l'esigenza che il credente porti con amore il peso delle conseguenze del peccato suo e del prossimo con il quale è solidale, affinché l'opera redentrice di Cristo si radichi e cresca in lui e negli altri membri del Corpo mistico. S'impone una verifica biblica e teologica perché questo concetto non veicoli un'immagine di Dio, di Cristo e dell'uomo lontana dalla " Buona Novella ".

II. Prospettiva biblica. 1. Nell'AT l'e. era fondamentalmente l'azione con la quale Dio nel sacrificio espiatorio per mezzo del sommo sacerdote purificava (kaphar, deriv. kapporet, kippurim) il popolo dal peccato e dalle impurità cultuali e lo ricollocava in un rapporto positivo con sé (cf Lv 16; anche Sir 45,16). Nei Cantici deuteroisaiani del Servo questi riceve da Dio la missione di espiare (=portare per togliere) il peccato del popolo con la sua sofferenza e la sua morte volontarie (cf Is 53,4-6.11). Nel messaggio dei profeti Israele, da parte sua, porta il peso del suo peccato con la condanna dell'esilio, pur se nella prospettiva della futura redenzione (cf Is 40,1-2ss.).

2. Dai Vangeli si ricava che Gesù, almeno implicitamente, caratterizzò la sua missione, specialmente la sua morte, sullo sfondo di quella del Servo di JHWH (cf Mc 10,45 par; i testi dell'istituzione dell'Eucaristia). L'annuncio postpasquale della Chiesa presenta Gesù Cristo crocifissorisorto come l'espiatorio (cf Rm 3,25; Eb 2,17) o l'e. (cf 1 Gv 2,2; 4,10) posta da Dio in un mondo di peccato per la purificazione degli uomini che a lui (Cristo) si aprono con fede. Anche qui l'e. è azione di Dio che purifica i peccati e rimette gli uomini in rapporto di vita con sé, ma in e per Gesù Cristo solidale con il peccato del mondo e obbediente al Padre sino alla morte.

III. Nel corso della storia la prospettiva biblica ha sperimentato un notevole spostamento: l'e. è stata intesa principalmente come esperienza penale dolente richiesta dalla giustizia divina nei riguardi di Cristo solidale con il peccato del mondo e del credente incamminato in un iter di conversione. In questi ultimi tempi è stata rivalutata la prospettiva biblica, che focalizza l'iniziativa divina purificatrice.

Il Magistero della Chiesa è intervenuto alcune volte sul tema: la morte di Gesù è stata espiatoria (piacularis) e propiziatoria (cf DS 1743; 1753; 3891); con il suo sacrificio Cristo ha espiato in misura più che abbondante il peccato dell'umanità (cf MR 16); i cristiani possono contribuire al compimento dell'e. del peccato nel corpo della Chiesa con proprie lodi e soddisfazioni (cf Ibid. 16).

III. Per un'attualizzazione. La teologia e la spiritualità cristiane devono fondare biblicamente il senso e il contenuto dell'e.: essa non è lo sconto ineludibile della pena inflitta dal Dio " giusto " e santo al mondo dominato dal peccato nonché al Cristo resosi solidale con esso, ma la purificazione dolorosa del peccato e delle sue conseguenze nella vita dell'uomo ad opera di Dio. Chi, in Cristo e con Cristo redentore, sposa nella propria vita la causa del regno di Dio in un mondo pervaso dalla logica del peccato, è chiamato ad assumersi il peso del contrasto, del rifiuto e della sofferenza quale risvolto inevitabile del riorientamento a Dio della propria vita e della storia degli uomini in cui è profondamente inserito. E quanto attualizzano i mistici sperimentando l'e. come atto o vita penitenziale. In questo senso, l'idea di e. è legata a quella di riparazione attraverso cui i mistici s'impegnano ad offrire la propria vita a immagine del Servo sofferente per la salvezza del mondo.

Bibl. G. Manzoni, Riparazione: mistero di espiazione e di riconciliazione, Bologna 1978; L. Moraldi, s.v., in DSAM IV2, 2026-2045; Id., Per una corretta lettura della soteriologia biblica, in ScuCat 108 (1980), 313-343; Id., Espiazione sacrificale e riti espiatori nell'ambiente biblico e nell'Antico Testamento, Roma 1956; A. Tessarolo, s.v., in DES II, 945-946.

G. Iammarrone

ESTASI. (inizio)

I. Nell'ambito storico-religioso. Etimologicamente la parola indica l'" uscire fuori da sé " e l'" essere fuori da sé ". Oggi la " e-stasi " mistica viene messa a confronto con la " en-stasi ", cioè con l'" essere in sé ". Ma il campo concettuale ancora aperto dell'e. è occupato dai fenomeni più diversi.

Dal punto di vista storico-religioso, bisogna considerare soprattutto lo sciamanesimo come fenomeno delle religioni primitive. Tanto per semplificare al massimo i fenomeni complessi e molteplici: attraverso tecniche ascetiche e meditative, coadiuvato dalla propria predisposizione ma anche da farmaci vegetali e spesso con l'aiuto (ipnotico) del suo maestro, un iniziato giunge a provare sensazioni che oltrepassano la dimensione corporea. Il " viaggio dell'anima " può condurre a questo stato attraverso esperienze terribili come la morte mistica. Ed è qui che si sperimenta l'iniziazione dello sciamano (prete, mago, saggio, guaritore, ecc.) cui viene conferito il dono della visione che schiude il passato mitologico, l'interiorità dell'uomo, il futuro individuale o della società, oltre ai poteri magici e alla facoltà di procurare salute o danno sia alla natura che all'uomo. Altrove, questa " iniziazione " è descritta piuttosto come un venire " posseduti " dallo spirito di Dio e della natura.

L'interpretazione spesso sostenuta in passato di queste estasi come malattie dello spirito oggi è quasi del tutto abbandonata. In questi processi si esprimono, infatti, quelle forze naturali che nel corso della civilizzazione sono andate perdute, ma che riemergono nei fenomeni parapsicologici. Si possono ricondurre allo sciamanesimo alcuni aspetti che si ricollegano ai guru dell' induismo (cf Ramakrishna) ai taumaturghi indiani, ai saggi del sufismo. A dire il vero, molti elementi relativi a queste tradizioni (cf i libri di Castaneda) sono solo favolistici, o addirittura fraudolenti. Nella sua realtà storicamente comprovata, riferita da fonti come le Upanishad, lo sciamanesimo inteso come un " uscire fuori " (e-stasi) dalla normale esistenza rappresenta un elemento arcaico della vita religiosa. Si ritrova, ad esempio, anche in ambito germanico-celtico (i Druidi) o nella grecità arcaica (la sacerdotessa Pizia).

Anche certi fatti biblici come i gruppi di profeti danzanti (cf 1 Sam 19,18-24) o il rapimento estatico di Paolo al terzo cielo, in 2 Cor 12,1-4, vanno interpretati da questo punto di vista. Altri resoconti di e. come le visioni profetiche o l' Apocalisse (1-10ss.), sono almeno in parte forme letterarie che intendono conferire autorità ad un messaggio. A tutt'oggi manca ancora un'accurata indagine critica che chiarisca fino a che punto le esperienze estatiche connesse con i doni dello Spirito della personalità carismatica debbano essere valutate come " soprannaturali " stricto sensu, cioè causate da Dio o non piuttosto come una reviviscenza di poteri degli sciamani o di altra origine.

Paolo verifica la legittimità del procedimento estatico con due criteri: la sequela di Gesù e l'edificazione della comunità (cf 1 Cor 12,3; 14,5).

Sulla Bibbia si basano non soltanto il rifiuto di false dottrine carismatiche ed estatiche, come il montanismo e il messalianismo, ma anche la riflessione sul NT come strumento che lascia campo, pure se in secondo piano, all'e. psichica e fisica. Dionigi Areopagita fa propri alcuni incitamenti sia platonici che biblici quando descrive l'e. come evento spirituale-personale (perciò in ultima analisi non corporeo): " L'amore divino rapisce in e. e fa sì che chi ama non appartenga più a se stesso, ma solo all'amato ".

Nel realismo tipico del Medioevo le esperienze estatiche empiricamente presentabili diventano sempre più frequenti e importanti. Non a caso con Francesco d'Assisi si ha nel 1224 la prima stigmatizzazione fisica; le stimmate sono ferite corrispondenti alle piaghe di Gesù. Precedentemente esse avevano valore, secondo quanto si afferma in Gal 6,17, " soltanto " come riferimenti spirituali alle sofferenze della passione. Anche altri fenomeni " estatici " divengono sempre più frequenti: levitazioni, deliquio fisico e spirituale, trance, visioni, ampliamento della conoscenza e trasmigrazione dell'anima, facoltà di operare miracoli, ecc.

Gran parte di quanto detto riceve valore anche da un'interpretazione simbolica, ma la tendenza al realistico si manifesta anche nella concretezza di simili esperienze. Eckhart, ad esempio polemizza espressamente con una spiritualità troppo realistica ed esteriore presente nei conventi femminili dove il deliquio fisico e l'assenza di coscienza vengono intesi come doni mistici. Nel campo che si definisce " e. " appare anche la differenza fra una sua interpretazione spirituale (Dionigi Areopagita) cui è incline anche Tommaso d'Aquino (essa trasporta l'amante al di fuori del proprio sé) e gli stati empirici di assenza mentale o di eventi miracolosi.

II. Nell'ambito della mistica cristiana ha valore, senza alcun dubbio, come criterio di valutazione l'e. intesa in senso spirituale nella quale l'uomo trasferisce in Dio, in Gesù Cristo, tutte le sue facoltà intellettive, sensitive e volitive. Tale fenomeno può anche, a seconda del retroscena culturale e personale essere sperimentato e definito come " en-stasi ": attraverso lo spirito di Gesù, Dio può prendere l'uomo al punto da fargli dire " non più io, ma Cristo vive in me " (Gal 2,20). La fenomenologia di questa e. può avere esiti diversi, come la totale dimenticanza e quasi l'annientamento dell'" io ".

Ma la dinamica dall'io al tu divino, irraggiungibile o completamente trascendente rimane determinante, anche se l'e. d'amore fa dimenticare ogni differenziazione.

Quando questa primitiva esperienza mistica dell'amore, che deve intendersi come e., diventa consapevolmente riflessa possono subentrare degli errori. Martin Buber mostra in Ich und Du che la dimenticanza di se stessi nel divino può essere interpretata come fusione panteistica e non come esperienza d'amore estatico.

L'ondata che si verifica nella propria psiche provocata dall'esperienza mistica vivacizza l'intima visione del mondo collocata nell'anima o indotta dalla cultura. E così questa esperienza prende corpo o, meglio, si " fa psichica " in rappresentazioni di vario genere come, ad esempio, il viaggio celeste dell'anima attraverso l'inferno narrato da Dante ( 1321), oppure in ampliamenti della coscienza come riportato dalla moderna ricerca sulla meditazione; in sogni nostalgici dell'infanzia; nell'oblio di sé, ecc.

In uomini di notevole sensibilità fisica tale esperienza può anche concretizzarsi in particolari fenomeni fisici: una specie di deliquio che si verifica per l'e. interiore in colui che riposa in Dio e non più nel proprio sé; oppure la levitazione secondo il racconto di Teresa d'Avila, persona particolarmente sensibile da un punto di vista psicosomatico. Scrive Rahner in Visioni e profezie (nuova ed. 1989) che è irrilevante per la determinazione dell'elemento soprannaturale di certi fenomeni se essi siano, per così dire, causati direttamente da Dio o se nascano dall'azione congiunta del contatto interiore con Dio e della successiva reazione psicosomatica.

I fenomeni estatici della mistica cristiana, come quelli di Caterina Emmerick, attestano un'esperienza di Dio totale che investe sia il corpo che l'anima, ma la loro straordinarietà non può comunque essere indizio di una loro immediata causalità divina. Per gli studiosi si tratta di " fenomeni straordinari che si accompagnano all'evento mistico ", i quali spesso si possono ricondurre a cause psicosomatiche o socio-culturali. La Chiesa mostra nei processi di canonizzazione un atteggiamento cauto e spesso pieno di riserve nei confronti di questi fenomeni.

In molte pratiche delle religioni si trova anche l'itinerario opposto che consiste nel voler raggiungere uno stato di e. dell'anima tramite particolari esercizi del corpo. Ne fanno parte anche certe pratiche ascetiche tipiche del cristianesimo. Occorre tener presente la totalità dell'uomo anche nella sua esperienza mistica, perciò rimane legittimo il principio secondo cui la mistica, nella sua essenza, è frutto di un libero dono divino, non di particolari capacità umane. Tale dono deve presentarsi anche nella pratica meditativa dell'e. come un'esperienza d'amore che fa dimenticare se stesso nell'altro.

Bibl. Aa.Vv., s.v., in DSAM IV2, 2046-2189; T. Alvarez, s.v., in DES II, 946-950; I.P. Culianu, Expérience de l'extase. Exstase, ascension et récit visionnaire de l'hellénisme au Moyen Age, pref. di M. Eliade, Paris 1984; N.G. Holm (ed.), Religious Ecstasy, Stockholm 1981; G. Kilcourse, s.v., in Aa.Vv. The New Dictionary of Catholic Spirituality, Collegeville, (Minnesota) 1993, 333-334; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 881-897; V. Satura, s.v., in WMy, 132-134.

J. Sudbrack

ESTETICA. (inizio)

I. Nozione. Il termine " estetica ", nel suo significato moderno, risale ad Alessandro Baumgarten ( 1762), che lo pone come titolo alla sua opera (Aesthetica, Traiesti cis Viandrum 1750, II, 1758) e lo definisce come " la perfezione della cognizione sensitiva " (in greco aisthesis) il cui oggetto è il bello. L'autore è consapevole di ritornare alle antiche considerazioni di Platone. Per lui le realtà sensibili e le idee appartengono a due mondi diversi, difficilmente conciliabili. Eppure il bello è la sola idea che ebbe in sorte il privilegio di rendersi visibile ai mortali, afferrabile coi sensi, perché traluce nella corporeità (Fedro 251a). Conoscere il bello è, quindi, un sapere eccezionale, un raptus passionale, simile a quello delle sacerdotesse ispirate e degli indovini (passim nel Fedro e nello Ione).

II. E. e mistica. Nel termine " mistica ", come viene adoperato nell'ambiente cristiano, si possono notare aspetti simili. Si tratta di apprensione delle realtà nascoste per mezzo di una intuizione resa possibile dalla speciale illuminazione divina. Questa visione, poiché si effettua per mezzo del Cristo incarnato, traluce nelle realtà corporee, nei sacramenti, nella liturgia, nelle immagini sacre e, infine, in tutto il mondo che deve divenire " trasparente ", " trasfigurato ", illuminato dalla " luce taborica " (secondo la terminologia degli esicasti).

Notiamo, però, dall'inizio una essenziale differenza fra la concezione platonica e quella cristiana. La prima riflette la visione greca dicotomica, la distinzione fra il visibile e l'intellettuale. La mistica cristiana, fondata sulla teologia dei Padri greci, suppone la tricotomia: il sensibile, l'intellettuale e il divino. L' estasi cristiana deve, quindi, superare due abissi: fra il sensibile e l'intellettuale e, in più, fra l'intellettuale e il divino. Se il primo ponte potrebbe essere costruito dall'uomo stesso, che è materiale e immateriale, il secondo viene superato solo dal Dio uomo. La vera mistica non può, quindi, essere se non cristologica, come dimostrò per es. Massimo il Confessore.1 Per mezzo del Cristo sono create tutte le cose visibili, quindi il loro vero senso è mistico. " Per coloro che sono dediti alla contemplazione, le cose visibili vengono approfondite attraverso quelle invisibili, poiché contemplare simbolicamente le cose intelligibili attraverso le cose sensibili non è altro che comprendere il pensiero spirituale delle cose visibili attraverso le cose invisibili ".2 Come si vede, il linguaggio platonico è ripreso dai Padri, anche se il senso è più profondo.

Un paragone espresso fra la percezione estetica e la contemplazione cristiana si legge in s. Basilio. Dio stesso, dice, apprezzò la sua opera come bella (cf Gn 1,4.8.10). " Il bello è ciò che secondo le regole dell'arte è perfetto e conduce perfettamente alla realizzazione del suo fine ".3 Dio lo stabilì e la contemplazione cristiana, secondo la dottrina comune dei Padri, lo scopre. Gli uomini spirituali " vedono ciò a cui mirano le cose " (logos theoteles). Allora, dice Basilio, " la bellezza delle cose visibili ci darà un'idea su Colui che è al di sopra di ogni bellezza ".4 I testi dei Padri in questo senso sono numerosi. Così, per Agostino, il bello è proprietà universale dell'essere: omnia pulchra sunt conditori et artifici suo.5

Ma notiamo anche un'altra coincidenza fra la mistica e le teorie estetiche sia antiche che recenti. Esse parlano largamente del " senso estetico " che deve svilupparsi, e i mistici, da parte loro, già dal tempo di Origene, parlavano dei " sensi spirituali " che devono svegliarsi per vedere, sentire, gustare le realtà divine. L'autore spirituale russo, Teofane il Recluso " conoscitore dell'insegnamento dei Padri ", non esita ad affermare che la conoscenza spirituale del mondo è frutto dei " sentimenti estetici ". Quando si contempla un quadro artistico, non è sufficiente osservarne i colori e le forme, bisogna scoprire l'" idea " che l'artista esprime. La più bella idea è espressa dall'Artista divino nella creazione. Allora i soli spirituali scoprono la vera bellezza nel mondo.6

V. Soloviev resta su questa linea quando attribuisce al " bello " il ruolo più importante nella odierna cultura europea. Essa ha sviluppato, durante la sua storia, tre distinte conoscenze: a. sensibile, empirica; b. razionale (" aristotelica " per i Padri, " kantiana " per Soloviev); c. spirituale, intuitiva, mistica. Purtroppo esse non comunicano fra di loro, rimangono chiuse ognuna nella propria sfera. Come elaborare una sintesi fra di loro? Nel progetto solovieviano l'e. ha la parte principale. Essa ci insegna a vedere non uno accanto all'altro, ma l'uno nell'altro la divina bellezza che risplende sia nei concetti intellettuali che nelle cose visibili. Allora " la bellezza salverà il mondo " (F. Dostoevskij) e può essere definita come " trasformazione della materia per mezzo dell' Incarnazione, in essa, di un altro principio, sopramateriale ".7

Soloviev chiama questo principio superiore ancora " idea ", ma i suoi seguaci sono più espliciti nel senso cristiano. S.L. Frank fa un'analisi della nascita di un'opera d'arte con grande finezza, ma non parla più della " idea ", piuttosto dell'incarnazione dello Spirito divino a cui l'artista presta tutte le sue capacità umane.8

Lo stesso pensiero si legge in V. Ivanov, per il quale l'arte autentica riprende e continua l' Incarnazione di Cristo nella realtà del mondo e da questa riceve il suo pieno significato. Di conseguenza, l'artista deve essere contemplativo nel vero senso della parola, deve procedere a realibus ad realiora, dalla conoscenza con gli occhi carnali alla visione spirituale del mondo.9

Infine, notiamo ancora una terza essenziale coincidenza fra l'e. e la mistica: ambedue hanno una forte ripercussione nella sfera psicologica, costituiscono una esperienza viva. Gli scolastici dicevano che il bello è id quod visu placet. Più tardi N. Poussin parlerà di " diletto ", H. Delacroix di una " festa per l'occhio ". La gioia nel vedere il mondo trasfigurato è comparata dai mistici esicastici alla visione degli apostoli sul monte Tabor, felici di trovarsi là (cf Mt 17,4). Ma P. Florenskij non si accontenta di affermazioni così generali. Egli descrive anche gli stadi tenebrosi e dolorosi che precedono il momento felice. All'inizio è una visione spirituale accompagnata dalla sofferenza che niente in questo mondo possa riprodurre ciò che si è visto nello spirito. L' arte nasce solo dopo questi momenti tenebrosi, per mezzo di una nuova illuminazione. Questa fa scoprire il valore simbolico di certe privilegiate forme terrestri, la loro capacità di evocare la visione spirituale che precedeva. Solo in questo momento le forme materiali appaiono belle.10 Analoghe tenebre e sofferenze, seguite da illuminazioni splendenti, sono ben conosciute dalla letteratura mistica.

III. L' e. contrapposta alla mistica? Alcuni vedono una contrapposizione tra e. e mistica quando affermano che l'arte introduce a gustare le bellezze del mondo, mentre certi mistici predicano l' ascetismo e la rinuncia radicale ai sensi. Un libro dedicato a questi problemi, Nos sens et Dieu, fornisce la sintesi finale con le seguenti parole: " Ciò che ha condotto a certe interpretazioni erronee nell'opera di s. Giovanni della Croce, è il fatto che si è troppo insistito su una specie d'esclusivismo sulla parte ascetica o negativa..., mentre egli non ci chiede di mutilare niente di ciò che Dio ha creato per noi; se ci chiede di rinunciare al gusto di qualche cosa lo fa per arrivare a gustare tutto ".11 E se gli autori delle icone praticavano il " digiuno degli occhi ", cioè una moderazione nell'uso delle forme sensibili, lo facevano perché in ogni forma visibile si potesse vedere il mistero invisibile e divino, la luce che viene nel mondo (cf Gv 3,19).

Note: 1 Cf L. Thunberg, Microcosm and Mediator. The Theological Anthropology of Maximus the Confessor, Lund 1965; 2 Mistagogia 2: PG 91,639; 3 Hom. in Heaxaemeron 3,10: PG 29, 76c; 4 Ibid., 1,11, col. 28a; 5 De genesi contra Manichaeum 16,25-26: PL 34,185; 6 Cf T. Spidlík, La doctrine spirituelle de Théophane le Reclus. Le Coeur et l'Esprit, Roma 1965, 22ss.; 7 V. Soloviev, La Bellezza della natura, in Id., Opere, vol. IV, Bruxelles 1966, 41; M. Tenace, La beauté unité spirituelle dans les écrits esthétiques de Vladimir Soloviev, Troyes 1993; 8 Cf S.L. Frank, La realtà dell'uomo, in Aa.Vv., Il pensiero russo da Tolstoj a V. Losskij, Milano 1977, 269ss.; 9 Cf T. Spidlík, Un facteur d'union: la poésie, Viacheslaf Ivanoff, in OCP 33 (1976), 130-138; 10 P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull'icona, Milano 1977, 32ss.; 11 EtCarm 43 (1954), 207.

Bibl. Aa.Vv., s.v., in Aa.Vv., Enciclopedia universale dell'arte, V, Venezia-Roma 1958, 67-110; Aa.Vv., s.v., in Aa.Vv., Encicl. Ital. della Pedagogia e della Scuola, II, Bergamo 1968, 285-287; H.U. von Balthasar, Gloria. Un'estetica teologica, 7 voll., Milano 1976-1980; G. Chimerri, Estetica e morale, Bologna 1988; Fr. Daniele dell'Immacolata, Mística y estetica, Burgos 1956; G. Galeazzi (cura di), L'estetica oggi in Italia, Città del Vaticano 1997; P. Sciadini, s.v., in DES II, 950-951; L. Stefanini, s.v., in EC V, 631-642; V. Truhlar, Lessico di spiritualità, Brescia 1973, 37-38.

T. Spidlík

ETERNITA. (inizio)

I. Il concetto d'e. si è formato lentamente nella storia della rivelazione biblica e della riflessione posteriore della Chiesa. La Scrittura non l'adopera in modo astratto. Ne parla a proposito di Dio e attraverso un lento processo di una sempre maggiore esattezza. In realtà è come conseguenza della rivelazione di Dio a Israele che quest'ultimo si fece un'idea dell'e. Così Israele ha certo la consapevolezza che Iddio esisteva prima della creazione del mondo (cf Sal 90,9; 102,25-26; Gb 38,4; Gn 1,1) e che la sua esistenza non avrà mai fine (cf Sal 109, 27-28). Dio è, così, il primo e l'ultimo in quanto abbraccia tutta la storia (cf Is 41,4; 48,12). Questa superiorità nei confronti del tempo permette di dire che per lui mille anni sono come un giorno (cf Sal 90,4). Iddio viene chiamato 'El 'olam (cf Gn 21,33), cioè, Dio eterno o magari Dio antichissimo. Alla fine del periodo profetico si arriva a formulare che Dio è eterno sia riguardo al preterito che riguardo al futuro (cf Is 40,28; 41,4; 44,6).

L'e. di Dio è il fondamento della sua fedeltà (cf Sal 100,5; 146,6). Questa trova la sua espressione suprema nel fatto che anche la sua alleanza è eterna (" alleanza eterna " come termine tecnico: cf Gn 9,16; 17,7.13; Is 24, 5; Sal 105,8). Eterni sono il Nome di Dio (cf Es 3,15; Sal 102,13), il suo consiglio (cf Sal 33,11; Prv 19,21), la sua Parola (cf Is 40,8; Sal 19,10), il suo amore (cf Ger 31,3), la sua grazia (cf Sal 103,17; 106,1), la sua giustizia (cf Is 51,6.8); la sua regalità (cf Ger 10,10, Sal 10,16). Specialmente misteriosa è la Sapienza divina: di essa si dice che è stata creata dall'e. (cf Prv 8,22-31) e che resta eternamente con Dio (cf Sir 1,1; 24,9). Nella e. di Dio Israele vede la superiorità di YHWH a riguardo degli dei pagani.

II. E. partecipata: AT. A queste affermazioni su Dio, l'AT contrappone la non e. dell'uomo. L'uomo non vivrà eternamente (cf Gn 3,22; 6,3); i suoi giorni sulla terra sono limitati (cf Sal 90,10). Non di meno, nei cosiddetti Salmi mistici, Israele incomincia a credere in una immortalità accanto a Dio per i giusti: Iddio prenderà con sé il giusto (lo spirito, nefesh del giusto) dopo la morte (cf Sal; 16,49; 73). Questa fede si prolunga nel libro della Sapienza con una terminologia che può sembrare ellenistica (psyché = anima), ma che è omogenea con le concezioni dei salmi citati (cf Sap 3,1-12; 5,15). La rivelazione di una risurrezione escatologica futura, benché con una certa sovrapposizione fra tempi messianici e tempi finali della storia (cf Dn 12,1-3 cf Is 26,9), porta con sé la promessa di una immortalità anche per il corpo che morì.

Nel NT il concetto di e. applicato a Dio prende un rilievo maggiore. L'e. è una proprietà essenziale di Dio (cf Rm 1,20; 16,26; Fil 4,20; 1 Tm 1,17 ecc.). Questa proprietà viene pure attribuita al Figlio (cf Eb 1,8-12; 13,8), tema che è da collegarsi con quello dell'e. del Logos (cf Gv 1,1). E caratteristico che l'aggettivo " eterno " incominci ad applicarsi al mondo della salvezza, ai beni escatologici e anche alla possibile condanna escatologica (cf Mt 25,46).

Quest'uso non deve oscurare le differenze fondamentali con la e. che è propria di Dio. Quando si applica il concetto all'uomo, il contesto è sempre o quello di un dono gratuito di Dio o, nel caso della condanna, quello di un'affermazione della vittoria eterna di Dio sul peccato. Inoltre, non va dimenticato che l'uomo ha avuto un inizio che, in ultimo termine, si rifà all'azione creatrice di Dio, mentre l'e. come proprietà essenziale di Dio non ha né inizio né fine. In ogni caso, l'e. promessa all'uomo è una vita senza fine.

III. Nel pensiero cristiano. Il pensiero cristiano ha approfondito il concetto di e. Come in tanti altri casi, è stato Boezio ( 524) ad offrire la nozione che è prevalsa nel pensiero teologico occidentale. Secondo lui, l'e. è: Interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio (il possesso simultaneo e perfetto di una vita interminabile).1 " Vita interminabile " è per Boezio vita senza inizio e senza fine. Inoltre, è importante che tale vita sia posseduta in un modo perfetto e totalmente simultaneo. Gli esseri creati hanno una perfezione limitata e non possono perciò possedere la loro natura se non per atti successivi. Soltanto un essere di perfezione infinita può avere la possessione totale della sua vita senza nessuna successione. La necessità di distinguere l'e. partecipata da quella propria della natura divina portò a creare un termine per la vita senza fine (ma non senza inizio) e posseduta dalla persona per atti successivi: il termine aevum che si riferisce all'e. partecipata.

Questa problematica invita ad essere prudenti riguardo a certe spiegazioni teologiche, nate fra alcuni autori protestanti (K. Barth, E. Brunner), secondo le quali l'uomo nella morte diventerebbe fuori del tempo (atemporalismo). Orbene, dove non c'è tempo non possono esistere distanze temporali. Così la risurrezione finale non sarebbe distante dal momento della morte. Anche se da parte della storia umana le morti degli uomini fossero successive, nell'aldilà la risurrezione di tutti gli uomini sarebbe simultanea; anzi essa coinciderebbe con la risurrezione di Gesù e con la parusia del Signore. Bisogna affermare che anche dopo la morte c'è un tempo, anche se non può essere considerato univoco col tempo terrestre. Infatti, il tempo mondano si misura per il movimento corporale (in ultimo termine per il movimento degli astri), mentre il tempo dell'aldilà si regola per la successione di atti psicologici. E per questo motivo che alcuni teologi parlano di " tempo antropologico ", " tempo umano " o " tempo-memoria " (J. Ratzinger);2 si potrebbe chiamare semplicemente " tempo psicologico ". Le caratteristiche di questo tempo, così diverso dal tempo terrestre, rendono impossibile attribuirgli una percezione di durata come quella che abbiamo in questa vita, o anche immaginare quale sarà nell'aldilà una tale percezione.

Per l'idea di e. partecipata nella gloria è fondamentale il tema della visione di Dio. La visione fissa l'anima (o anche l'uomo gloriosamente risorto) nella contemplazione e nell' amore di Dio. In questo modo diventa impossibile il distacco da lui e la santità del beato si fa inamovibile e partecipatamente eterna.

La speranza dell'e. beata è stata sempre per il cristiano motivo solido per la lotta ascetica durante questa vita transitoria (cf 2 Cor 4,17).

Note: 1 S. Boezio, De consolatione philosophiae 5, prosa 6,4: CCSL 94,101; 2 J. Ratzinger, Eschatologie, Regensburg 1990, 152.

Bibl. M. Bordoni, s.v., in DES II, 953-955; C.J. Peter, Participated Eternity in the Vision of God. A Study of the Opinion of Thomas Aquinas and His Commentators on the Duration of the Acts of Glory, Roma 1964; C. Pozo, La venida del Señor en la gloria, México-Santo Domingo-Valencia 1993; H. Sasse, aión, aiónios, in GLNT I, 197-209; F.I. Schierse - J. Ratzinger, s.v., in LThK III, 1267-1270; J. Schmidt, Der Ewigkeitsbegriff im Alten Testament, Münster i.W. 1940.

C. Pozo

EUCARISTIA. (inizio)

I. E. memoria sacramentale. Gesù, durante l'Ultima Cena, ci ha lasciato la memoria della redenzione perché la Chiesa di tutti i tempi vivesse in modo incessante il dono della sua Pasqua. Rivivendo il racconto liturgico dell'ultima cena veniamo introdotti nel cuore di Cristo quando ci ha consegnato il memoriale della sua Pasqua. " Quando fu l'ora, Gesù prese posto a tavola e gli apostoli con lui... E preso un calice, rese grazie e disse: Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio. Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese il calice dicendo: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che viene versato per voi " (Lc 22,14-20). Questa scarna ed essenziale narrazione è il cuore di ogni messa.

La celebrazione eucaristica costituisce la memoria sacramentale nella quale la Chiesa accoglie e rivive, mediante il segno, la morte del suo Signore in obbedienza al suo volere. In tale atteggiamento essa diviene contemporanea con il gesto di Gesù e assume tutti i suoi significati per essere in lui e con lui e a lui ricongiunta nella luminosità del regno. Questa fecondità celebrativa scaturisce dal fatto che il cristiano nel battesimo ha ricevuto il dono della contemporaneità con il Maestro e nel coinvolgimento celebrativo vive insieme ai fratelli l'essere nella morte di Gesù per crescere nell'esperienza della risurrezione, in attesa del mirabile evento della parusia. Gesù, lasciando il segno della sua continua presenza nell'atteggiamento di offerta al Padre per l'umanità, ci ha comunicato un dono così grande che nel corso della storia il mistero eucaristico è stato sì oggetto di una molteplicità di letture e di interpretazioni, ma ha costruito la vita mistica di ogni discepolo di Gesù. La Chiesa, lasciandosi coinvolgere nella dinamica sacramentale della celebrazione, viene resa partecipe dell'esperienza pasquale del suo Signore e gode d'attenderlo alla fine della storia per essere definitivamente associata al suo mistero di gloria.

II. L'insegnamento della Scrittura. La comunità cristiana si accosta al libro sacro per comprendere la volontà di Gesù al momento in cui egli ci offre il sacramento eucaristico. E nell'obbedienza a lui e nella sua obbedienza che possiamo continuare l'ineffabile esperienza delle prime assemblee liturgiche. La fede eucaristica, che ha costantemente animato i fedeli, vive della rivelazione biblica, della predicazione e della esperienza delle diverse e molteplici comunità. L'evolversi della tradizione ci permette di accostarci al Maestro in modo sempre più nuovo per dissetarci in letizia a tale sorgente di salvezza.

La celebrazione pasquale di Gesù nell'Ultima Cena è il luogo sacramentale del dono totale che Gesù fa di sé al Padre e agli uomini, è la sua sete del volere del Padre mantenuta ardente fino alla fine per donare agli uomini la vita e donargliela in modo sempre più abbondante.

La potenza dell'E. è costituita dalla presenza orante e personale nello Spirito del Cristo glorioso come agente principale dell'azione sacramentale, mentre rende i discepoli partecipi della dinamica sacramentale della sua morte in croce. La grandezza dell'E. si coglie in tutta la sua fecondità poiché pone l'assemblea liturgica nel mistero della croce mediante i segni dell'Ultima Cena, godendo del grande mistero della redenzione.

La cena è il testamento sacrificale di Gesù al fine di riconciliare il mondo con il Padre. Gesù stesso è il contenuto, con la sua persona e con la sua opera, e l'autore permanente di tale Mistero. In lui, nella sua oblazione sacrificale, la Chiesa può dire: " Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora, lascio di nuovo il mondo e vado al Padre " (Gv 16,28). Questa concentrazione cristologica emerge in modo molto chiaro nella volontà di Gesù: " Fate questo in memoria di me ". La partecipazione dei discepoli alla ritualità compiuta da Gesù è racchiusa nei gesti e negli imperativi di Gesù. La comunità che celebra è consapevole d'essere chiamata a vivere come è vissuto Gesù, a celebrare la sua presenza, a condividere la sua carità. La risurrezione, a sua volta, traspare nella fede della comunità che celebra. Essa non è un evento da porre accanto alla croce, ma dentro la croce, ne è il significato poiché dimostra definitivamente che il dono di sé da parte di Gesù sulla croce è dono di Dio. Il rendimento di grazie che qualifica l'E. pone in luce la libera accondiscendenza di Dio nella fede orante della comunità e ci fa intuire che è nella signoria divina che i fedeli vengono a contatto con la morte di Gesù, partecipando alla fedeltà del Padre nella risurrezione.

L'E. è questa memoria della Pasqua che pone al centro la persona di Gesù nella sua offerta al Padre che l'accoglie nella risurrezione.

Gesù nel dare l'ordine ai discepoli di celebrare la memoria della sua morte li educa a vivere l'unico evento determinante la storia poiché essi, attraverso il rito, saranno in quella croce come egli, il Signore, nel porre i gesti dell'Ultima Cena è profeticamente su quella croce nel dare il suo corpo e il suo sangue per l'umanità. Mediante l'esperienza sensibile della celebrazione eucaristica che " imita " i gesti di Gesù, la Chiesa di tutti i tempi viene assunta nell'atto sacrificale di Cristo il quale, solidale nel suo sacrificio con tutto il genere umano, raggiunge in concreto ogni credente. La comunità si sperimenta in atto nella morte di Gesù ed è tutta protesa verso la pienezza dell'incontro finale nella risurrezione escatologica.

III. E. come banchetto. Questa ricchezza si incarna e passa nella comunità dei credenti nel linguaggio della convivialità. L'E. è un banchetto in senso dinamico come attualizzazione globale dei gesti di Gesù che danno senso al mangiarebere. Tale gestualità, infatti, significa condivisione del mistero della persona pasquale di Gesù. La totalità del nutrimento: panevino, corposangue, dice la persona del Maestro che si è donata interamente all'umanità. Nell'atto della convivialità la comunità condivide le idealità di Gesù, è all'unisono con il significato che egli dà alla sua vita, entra in modo personalizzato nella sua oblazione, sentendosi una nell'offerta di Gesù. In questo senso possiamo parlare di banchetto sacrificale poiché quel gesto del mangiarebere è segno dell'inserimento totale e totalizzante della comunità nell'atteggiamento di Gesù per essere in lui sacrificio gradito al Padre.

Questa vitalità assume, tuttavia, un chiaro orientamento escatologico.

Il banchetto eucaristico si colloca nell'orizzonte dell'avvenimento messianico intravisto dai profeti e di cui Gesù annuncia l'imminente manifestazione (cf Mt 26,29). La commensalità sacra, in particolare quella inerente il vino, è partecipazione al rinnovamento universale che qualifica l'era escatologica. Il banchetto eucaristico e l'annuncio-attesa degli ultimi tempi si richiamano continuamente. Cristo diviene commensale con i suoi discepoli introducendoli nella comunione delle divine Persone, mentre presiede la celebrazione stessa. Tale è l'anima della liturgia del banchetto eucaristico che esprime per eccellenza la comunione di vita tra il Cristo e i fedeli, e la speranza escatologica.

Gesù nell'Ultima Cena annuncia la realizzazione effettiva del regno ove si gusterà il vino messianico della nuova alleanza poiché nel suo sangue c'è la pienezza dell'alleanza tra Dio e il popolo. Attraverso la formulazione delle parole escatologiche Gesù dichiara compiuto il tempo dei segni anticipatori del regno, caratteristici del suo ministero pubblico e invita i suoi discepoli ad orientarsi con lui verso il compimento definitivo della promessa.

Questo banchetto escatologico vive dell'effusione dello Spirito Santo che è il dono dei tempi nuovi e che è scaturito dal compimento delle promesse messianiche. Nell'E. noi ci accostiamo a un cibo spirituale e ad una bevanda spirituale (cf 1 Cor 10,3-4). E lo Spirito Santo che è presente nei doni e che ci disseta con i suoi " fiumi divini " all'atto dell'accoglienza dei doni eucaristici.

La presenza dello Spirito nell'oblazione pasquale di Gesù fa sì che nel medesimo Spirito si celebri il memoriale e che la potenza dello Spirito faccia condividere l'evento della morte di Gesù, orientando decisamente verso la pienezza del regno.

In tal modo, l'E. è il sacramento della persona di Gesù che nello Spirito vive la sua offerta al Padre per la redenzione dell'umanità e ci rende partecipi di tale mistero in una incessante condivisione della sua assunzione nella volontà salvifica dell'umanità.

IV. Vita eucaristica, vita mistica. Il dato che la rivelazione scritturistica ci offre costituisce il centro della vita della comunità cristiana che, nella fede, sa come l'E. sia la fonte e il culmine della sua vita (cf PO 5).

La vita eucaristica non è semplicemente un fatto rituale che potrebbe apparire un fatto molto esterno, ereditato dalla tradizione cultuale della Chiesa.

L'assemblea, nel rito e mediante il rito, vive il suo quotidiano come un'incessante sete del Padre, della sua volontà, entrando nella oblazione di Gesù. Il cristiano è la memoria vivente del Maestro poiché è stato inserito nelle sue idealità e questa sua dignità è viva e feconda nella celebrazione eucaristica mentre rende viva, in tale direzione, tutta la sua esistenza quotidiana. Egli si lascia attrarre da Gesù, guidare dallo Spirito e con i fratelli condivide l'unico senso della vita, quello che Gesù ha portato avanti in tutto l'arco della sua storia e ha vissuto in pienezza sull'albero della croce. L'E., nel linguaggio del banchetto, pone chiaramente in luce questa sintonia: il cristiano vede il mondo come lo vede il Cristo; opera nella storia con lo spirito di Cristo; ama gli uomini con lo stesso cuore di Gesù. Tale è la fecondità che anima i commensali riuniti nell'assemblea attorno alla mensa del corpo e del sangue del Signore.

Essere un corpo solo e uno spirito solo ai piedi della croce e nell'offerta di Gesù è la vitalità quotidiana dell'E. e la meta alla quale aspira ogni credente. Questa ricchezza è possibile poiché il clima orante di lode, di rendimento di grazie e di supplica che anima l'assemblea dice l'esultanza dei credenti che vivono in atto l'espandersi della libertà di Dio. Tale libertà veleggia sulla comunità che, guidata dallo Spirito e nella coscienza della propria povertà, supplica incessantemente. La dinamica all'interno della preghiera eucaristica è il cuore dei celebranti che vengono orientati a crescere nella libertà divina verso l'ebbrezza della lode, pregustazione della pienezza del canto nuovo nella Gerusalemme celeste.

Questa comunione mistico-sacramentale dell'assemblea orante nella Pasqua orienta la comunità ad essere per sempre con il Signore. L'assemblea liturgica avverte, infatti, la provvisorietà del linguaggio celebrativo e sente la potenza dello Spirito che la guida ad entrare nella morte del Maestro per ascendere con lui nella glorificazione della risurrezione-assunzione, onde godere alla fine della comunione mistica d'amore con le divine Persone (cf Ap 3,20). Una comunità eucaristica è, perciò, in atteggiamento di costante vigilanza nello Spirito per andare incontro al Signore ed essere definitivamente con lui al banchetto nella pienezza dei tempi.

Il mistero eucaristico vive nella e attraverso la celebrazione eucaristica e costituisce la sedimentazione rituale della vocazione propria della comunità cristiana ad essere memoria del suo Signore.

L'E. risulta, perciò, come la celebrazione del senso della vita di Gesù, con Gesù, in Gesù e per Gesù nella comunione, mistica ma non meno reale, creata dallo Spirito. Ciò che Gesù ha celebrato in occasione dell'Ultima Cena, sempre attuale nel cammino della comunità cristiana, è il suo corpo dato per noi e il suo sangue versato per noi.

Il Cristo è il centro cercato, amato, contemplato e testimoniato nella celebrazione eucaristica. La Chiesa, perciò, si riconosce nell'E. come luogo centrale dell'esperienza mistica e punto di riferimento per la costruzione di un'esistenza che sia in Cristo in conformità al volere del Padre e nella perfetta docilità allo Spirito.

La celebrazione eucaristica è un canto sacramentale nell'obbedienza condivisa di Cristo per la salvezza e per la comunione dell'umanità intera in un clima di radicale oblazione nelle mani del Padre, a lode della sua gloria.

Bibl. Aa.Vv., L'Eucaristia: aspetti e problemi dopo il Vaticano II, Assisi (PG) 1968; A. Amato, s.v., in NDM, 527-541; J. Auer, Il mistero eucaristico, Assisi (PG) 1972; J. Betz, L'Eucarestia come mistero centrale, in Mysterium salutis, a cura di J. Feiner e M. Löhrer, VIII, Brescia 1975, 229-384; Id., s.v., in K. Rahner (cura di), Sacramentum mundi, VIII, Brescia 1975, 669-692; J. Castellano, s.v., in DES I, 956-974; A. Donghi, Dio è con noi, Milano 1991; X.L. Dufour, Condividere il pane eucaristico secondo il Nuovo Testamento, Leumann (TO) 1983; F.X. Durrwell, L'Eucaristia. Sacramento del mistero pasquale, Roma 1982; E. Galbiati, L'Eucaristia nella Bibbia, Milano 1968; C. Giraudo, Eucaristia per la Chiesa, Roma-Brescia 1989; J.M. Nouwen, La forza della sua presenza, Brescia 1997; M. Thurian, L'Eucaristia, memoriale del Signore, sacrificio di azione di grazie e di intercessione, Roma 1968; P. Visentin, s.v., in NDL, 482-508.

A. Donghi

EUDES GIOVANNI (santo). (inizio)

I. Vita e opere. Meno geniale di Bérulle, meno lirico di J.J. Olier, E. è, senza dubbio, il più accessibile dei berulliani. Predicatore instancabile di missioni (più di cento) e di ritiri, direttore spirituale molto ascoltato, ha lasciato numerosi scritti. Il pensiero della scuola francese riaffiora in ogni sua pagina, anche nei libri più pastorali come Il buon confessore, Il predicatore apostolico e Il memoriale ecclesiastico apparsi dopo la sua morte.

L' unione con Dio attraverso " la vita di Gesù in noi " ci riporta nella grazia del battesimo di cui egli non cessa di parlare. I suoi libri principali sono: La vita e il regno di Gesù nelle anime cristiane, più volte ristampato a partire dal 1637, Il contratto dell'anima con Dio mediante il santo battesimo (1654) e Il cuore ammirabile della santissima Madre di Dio (1680).

Normanno, nato nel 1601, vive a Parigi alcuni anni; entra all'Oratorio nel 1623 ed è ordinato sacerdote nel 1625; lascia l'Oratorio nel 1643 per fondare il seminario di Caen e la Congregazione di Gesù e di Maria (Eudisti). Precedentemente, aveva fondato la Congregazione Nostra-Signora della Carità (nel 1641) per la riabilitazione delle prostitute.

Dopo aver posto le fondamenta della devozione al Cuore di Maria (1648) e al Cuore di Gesù (1672), muore nel 1680. E considerato il padre di molte Congregazioni religiose e " il padre ", il dottore e l'apostolo del culto liturgico ai Sacri-Cuori di Gesù e di Maria (Pio XI).

Oltre al seminario di Caen, egli fonderà dei seminari e dei collegi a Coutances (1650), Lisieux, Rouen (1653), Evreux (1667) e Rennes (1670).

II. La sua dottrina spirituale corrispondente alla sua esperienza personale è molto coerente e tipicamente berulliana. Per lui, " la vita cristiana è la continuazione e il compimento della vita di Gesù Cristo ". " Quando un cristiano prega, continua e compie l'orazione che Gesù Cristo ha fatto sulla terra; quando lavora, continua e compie la vita laboriosa di Gesù Cristo... ". "Noi dobbiamo continuare e compiere in noi gli stati e i misteri di Gesù e pregarlo spesso che egli li consumi e li compia in noi e in tutta la sua Chiesa, perché i misteri di Gesù non sono ancora nella loro piena perfezione e compimento. Benché essi siano perfetti e compiuti nella persona di Gesù, non sono tuttavia ancora compiuti e perfetti in noi che siamo sue membra, né nella sua Chiesa che è il suo Corpo mistico. Infatti, il Figlio di Dio vuole renderci partecipi, estendere e continuare in noi e in tutta la sua Chiesa i suoi misteri, mediante le grazie che vuole comunicarci e gli effetti che vuole operare in noi con i suoi misteri. E con questo mezzo egli vuole compierli in noi...

Così il Figlio di Dio desidera consumare e compiere in noi tutti i suoi stati e misteri. Egli vuole consumare in noi il mistero della sua Incarnazione, della sua nascita, della sua vita nascosta, formandosi in noi e nascendo nelle nostre anime, mediante i santi sacramenti del battesimo e della divina Eucaristia e facendoci vivere una vita spirituale e interiore nascosta con lui in Dio".

Lungo tutta la sua vita, E., secondo la sua espressione, " fa professione di Gesù Cristo ". Il suo cristocentrismo mistico e apostolico si esprime in meravigliose preghiere al " Cuore di Gesù e di Maria " (Ave Cor) e in " preghiere prima di mezzogiorno ", tutte centrate su Gesù, che si adora in questo o quell'atteggiamento, che si ringrazia, a cui si chiede perdono e a cui, infine, ci si dà interamente perché egli viva in noi. Molto attento alla pedagogia, un po' come Francesco di Sales prima di lui, e come Montfort dopo di lui, egli non dimentica che " la pratica delle pratiche... la devozione delle devozioni... è non essere legati ad alcuna pratica... ma darsi al Santo Spirito di Gesù ". Per lui, l'opera delle opere è la formazione di Gesù in noi (cf Gal 4,19).

Bibl. Scritti: Oeuvres complètes du vénérable Jean Eudes, a cura di Ch. Lebrun - J. Danphin, 12 voll., Vannes 1905-1911; Lectionnaire propre à la Congrégation de Jésus et Marie, Paris 1977; C. Guillon, En tout la volonté de Dieu. Saint Jean Eudes à travers ses lettres, Paris 1981; Jean Eudes. Le Baptême (Textes choisis et presentés par P. Milcent), Paris 1991; P. Milcent, Saint Jean Eudes. Introduction et choix de textes, Paris 1964; R. de Pas, Marie, icône de Jésus. Textes de saint Jean Eudes, Paris 1980. Studi: F. Antolín Rodríguez, s.v., in DES II, 974-976; Ch. Berthelot du Chesnay, s.v., in BS VI, 994-996; G. Brockhusen, s.v., in WMy 152-153; R. Deville, La scuola francese di spiritualità, Cinisello Balsamo (MI) 1990, 90-111; M. Fournier et Al. Itinéraire spirituel pour aujourd'hui avec saint Jean Eudes, Paris 1993; J. Hamon, s.v., in DIP IV, 1271-1273; P. Milcent, s.v., in DSAM VIII, 488-501; Id., Saint Jean Eudes: une conception de la vie en Jésus-Christ, numero speciale di Vie eudiste, Paris 1973; Id., Saint Jean Eudes, un artisan du renouveau chrétien au XVIIe siècle, Paris 1985. Questo lavoro di 589 pagine resterà a lungo come volume di riferimento; R. de Pas, Ma vie, c'est le Christ. Saint Jean Eudes et son message, Paris 1993.

R. Deville

EVAGRIO PONTICO. (inizio)

I. Vita e opere. Nasce nel Ponto verso il 346 ed ha contatti con i Cappadoci: Basilio, infatti, lo nomina lettore e il Nazianzeno lo ordina diacono. Eletto arcidiacono a Costantinopoli dal patriarca Nettario ( 397), diventa un grande predicatore. Ottiene grandi successi grazie alla sua eloquenza. In seguito ad un viaggio presso i monaci egiziani, si " converte " alla vita eremitica, ritirandosi nel deserto della Nitria. Vive grazie al lavoro di copista. Muore nel 399 nella solitudine di Celle, in Egitto, dopo aver rinunciato all'episcopato offertogli da Teofilo d'Alessandria ( 412).

E. scrive quasi sempre in forma di aforismi e sentenze che riunisce in gruppi di cento (Centurie). Fra quelle rimasteci abbiamo l'Antirretikòs - contro i vizi capitali -; Il monaco, che si divide in Praktikòs - per il monaco incolto - e Gnostikòs - per quello impegnato intellettualmente -; Sentenze metriche per i monaci e le vergini e le sei centurie di Problemi gnostici, che si collocano al centro della sua dottrina teologica e mistica. Ci sono rimaste, poi, una sessantina di lettere.

II. Dottina mistica. " Noi abbiamo distinto da una parte l'insegnamento pratico... e dall'altra parte l'insegnamento gnostico " (Praktikòs, proemio). La vita spirituale è, così, divisa in due fasi: la via " pratica " e quella " gnostica ". Per E. la pratica è " il metodo spirituale che purifica la parte dell'anima che si volge verso le passioni " (Praktikòs, 50). " La fede sta al punto di partenza. Su di essa si consolida il timor di Dio, dal quale procede l'enkráteia, virtù ascetica fondamentale di cui la continenza non è che una forma particolare e che consiste nella resistenza a tutti gli impulsi passionali. Su questa base si innesterà la pazienza, che non soltanto ci fa resistere all'attrattiva del piacere, ma sopportare tutto quello che è faticoso; da questa, infine, nascerà la speranza, l'attesa dei beni reali, proprio quelli verso i quali ci orienta la fede " (L. Bouyer). Al termine della lotta con le passioni ci sarà l'apátheia, cioè il dominio delle passioni che in noi si oppongono alla carità. A questo punto inizia la via gnostica: " La carità è la meta più sublime dell'anima razionale che, giunta in questo stato, non può amare alcuna cosa corruttibile più della gnosi di Dio " (Centuria I, 86). La gnosi, a sua volta, si divide in due gradi: physichè, o contemplazione naturale, e theologikè, ovvero scienza di Dio. " Vi sono cinque gnosi fondamentali che comprendono tutte le altre: la prima è, si dice, la gnosi dell'adorabile Trinità; la seconda e la terza sono la gnosi degli esseri incorporei e quella degli esseri corporei; la quarta e la quinta, la gnosi del giudizio e quella della provvidenza " (Centuria I, 27). Questa gnosi dell'adorabile Trinità è, contemporaneamente, scoperta di se stessi, del proprio io creato a immagine di Dio: come in uno specchio l'immagine si potrà riflettere solo se effettivamente è presente l'archetipo. Nel cammino verso la gnosi di Dio E. sottolinea sia l'aiuto offerto dagli angeli, che " per mezzo della conoscenza e dell'osservanza dei divini comandamenti ci liberano dalla nostra cattiveria e ci rendono impassibili; ci liberano dalla nostra ignoranza... e ci rendono sapienti e spirituali " (Centuria 6, 35), sia l'influsso del Cristo: " la carne del quale sono le virtù: chi ne mangia è reso impassibile; il sangue di Cristo è la considerazione delle sue opere: chi ne beve è illuminato; il petto del Signore è la scienza di Dio: chi vi appoggia il capo è trasformato in predicatore delle realtà divine " (Ai monaci, 118).

Per l'uomo d'oggi la mistica di E. ha qualcosa di consolante perché rende capaci di " vedere " nei vari e difficili momenti della nostra età la presenza di Dio nel mondo, quasi una pedagogia soprannaturale che gradatamente restaura il rapporto dell'uomo in Dio. E., poi, presenta una spiritualità fortemente aperta alla dinamica della solidarietà perché, come dice egli stesso nel trattato Sulla preghiera (c. 39): " È giusto che preghi non solo per la tua purificazione, ma anche per tutti i tuoi simili, al fine di imitare la condotta degli angeli ".

Bibl. Opere: Traité pratique ou le moine, a cura di A. e C. Guillaumont, SC 170-171, tr. it. a cura di L. Dattrino, Trattato pratico sulla vita monastica, Roma 1992; Le Gnostique, a cura di A. e C. Guillaumont, SC 356; J. Muyldermans, Evagriana Syriaca. Textes inédits du British Museum et de la Vaticane édités et traduits, Louvain 1952; Les six centuries del " Képhalaia Gnostica " d'Evagre le Pontique, a cura di A. Guillaumont (Patrologia Orientalis, 281), Paris 1958; Les leçons d'un contemplatif: Le Traité de l'Oraison d'Evagre le Pontique, a cura di I. Hausherr, Paris 1960, con prezioso commento a ogni centuria; tr. it.: La preghiera, a cura di V. Messana, Roma 1994. Il trattato, con l'attribuzione a San Nilo del Sinai, si trova anche nel primo volume della Filocalia, a cura di M.B. Articoli e M.F. Lovato, Torino 1982, 272-289. Qui sono tradotti anche il Sommario della vita monastica e Il discernimento delle passioni e dei pensieri (pp. 99-124); nuova versione con testo greco a fronte di F. Moscatelli, Gli otto spiriti della malvagità. Sui diversi pensieri della malvagità, Cinisello Balsamo (MI) 1996; Scholies aux Proverbes, a cura di P. Géhin, SC 340, Paris 1987; Scholies aux Proverbes, a cura di P. Géhin, SC 397, Paris 1993; Studi: L. Bouyer, La Spiritualità dei Padri (III-VI secolo). Monachesimo antico e Padri, 38, Bologna 1986; G. Bunge, Evagrio Pontico maestro spirituale, Scritti monastici, Praglia (PD) 1992; Id., La dottrina di Evagrio Pontico sull'accidia. Scritti monastici, Praglia (PD) 1993; H.D. Egan, Evagrio Pontico, in Id., I mistici e la mistica, Città del Vaticano 1995, 64-76; J. Gribomont, s.v., in DPAC I, 1313-1314; A. e C. Guillaumont, s.v., in DSAM IV2, 1731-1744; Id., s.v., in DIP III, 1349-1350; F.P. Rizzo, Il " De Oratione " di Evagrio Pontico, in CivCat 146 (1995), 34-81, 56-59; M. Simonetti, Letteratura cristiana antica greca e latina, Firenze-Milano 1969; C. Sorsoli - L. Dattrino, s.v., in DES II, 978-979; T. Spidlík - I. Gargano, La spiritualità dei Padri greci e orientali, 3A, Roma 1983; T. Spidlík, La spiritualità dell'Oriente cristiano, Cinisello Balsamo (MI) 1995.

R.M. Russo

EVANGELISMO. (inizio)

I. Il termine e il fenomeno. E un termine molto ampio che bisogna cercare di delimitare. In inglese il termine Evangelical si riferisce a quel settore del mondo protestante che, pur avendo tratti esteriori comuni e motivazioni diverse, si organizza come minoranza con precise caratteristiche all'interno di un più ampio settore cristiano. Si parla degli aderenti come di " sette " non certo in senso negativo, ma in riferimento alla loro tendenza a distinguersi e ad isolarsi. Si tratta di un fenomeno trasversale che si ritrova un po' ovunque e che, al suo inizio, ha tutte le sembianze di un movimento carismatico all'interno di un'area ecclesiastica o di una " ecclesiola " di impegnati e seri cristiani. Ernst Tröltsch parla di tre forme di cristianesimo: le chiese, generalmente inclusive, le " sette ", generalmente esclusive, e la mistica interamente dedicata alla vita interiore.1

L'e. può, quindi, ritrovare le sue radici nel XVI secolo richiamandosi a quei movimenti che assunsero atteggiamenti radicali sul prolungamento della Riforma o in contrapposizione (gli anabattisti) ad essa. Ricordiamo, tra gli altri, uomini molto diversi tra di loro: Andrea Carlostadio, Tommaso Müntzer, Sebastiano Frank. Fin d'allora si possono individuare due tronconi: quelli che si erano impegnati a cambiare la società, a stabilire con urgenza il regno di Dio su questa terra e quelli che tendevano ad isolarsi con la fuga dal mondo. Passata la violenza della contrapposizione armata e avviato il processo di tolleranza religiosa, ritroviamo in Inghilterra l'e. impegnato nell'affermarsi dei metodisti, dei battisti e dei puritani. Sono correnti che troveranno presto il loro sbocco e il loro successo organizzativo ed espansionistico nell'America del Nord. L'e., che viene così formandosi e rafforzandosi, può meglio essere descritto se lo si confronta non con le chiese tradizionali che si richiamano al XVI secolo, ma piuttosto con lo spiritualismo e la mistica.

II. Lo spiritualismo mistico fa riferimento ad uno Spirito di Dio autonomo di cui si fa l'esperienza immediata, l'e., invece, allo Spirito di Dio, mediato e coincidente con la Sacra Scrittura: 2 i primi sono indifferenti o addirittura ignorano i sacramenti, i secondi li considerano segni esterni di ordinamento e di unione; i primi tendono a dissolvere il mondo ecclesiastico e ignorano la Chiesa visibile a favore di una Chiesa invisibile, mentre i secondi puntano sul sacerdozio universale dei credenti; i primi hanno come criterio la parola " interna " (la lettera senza lo Spirito è morta), i secondi la parola esterna (la Bibbia); i primi guardano al " ritorno di Cristo " come ad una questione interiore mentre i secondi lo considerano un evento che si verificherà nella storia; il Gesù storico è per i primi un simbolo dell'esperienza interiore, mentre per i secondi è la fonte e la norma del pensiero e dell'azione. L'individualismo dei primi è, quindi, ben diverso da quello dei secondi. Lo spiritualismo non ha bisogno di dottrine; anche i credenti non cristiani possono conoscere la rivelazione perché ogni religiosità è identica a quella cristiana. Si punta verso una filosofia universale della religione perché si può riconoscere il Cristo in noi anche nelle religioni non cristiane e la redenzione, in quanto opera dello Spirito mediante la conoscenza, è presente in ogni religione. Ogni relativo è presente nell'assoluto, ma il ripudio della lettera e dell'interpretazione esterna non potrà evitare di stimolare il razionalismo e di offrire il fianco all' ateismo. L'e., invece, insiste sul rapporto tra Dio e l'uomo così come si è espresso in Cristo. Lo spiritualismo mistico resta nella Chiesa di maggioranza in attesa di tempi migliori, mentre l'e. tende sempre più a separarsene per affermare la propria identità nei confronti della indifferenza delle masse.3 Evidentemente, le contrapposizioni che abbiamo segnalato non indicano un rigido confine, ma piuttosto una panoramica di tendenze generali.

III. Ascesi laica. L'e. non mancò d'incidere fortemente sul campo sociale e politico a motivo dell' ascesi laica che si era sviluppata e affermata richiamandosi alla tradizione calvinista. Il luteranesimo aveva insegnato che il mestiere è una vocazione divina, ma il calvinismo ne aveva fatto un'occasione per trasformare la società. La professione continua così ad essere intesa come una rigorosa riprova della elezione divina. Lo stato dev'essere apolitico e responsabile verso il popolo. Vi è un riferimento costante al regno di Dio, immanente e trascendente, che determina il modo di intendere non solo la Chiesa, ma anche l'operosità, la tolleranza, i diritti umani e la democrazia. Questo tipo di ascesi laica avrà un'incidenza notevole nell'affermarsi non solo del capitalismo, ma anche dell'organizzazione dei sindacati, dell'Evangelo sociale e in generale della costituzione della società moderna.

Nonostante le divergenze rilevate, l'e. e lo spiritualismo mistico condividono alcuni punti comuni. Insieme si trovano a reagire contro l'oggettivismo di un cristianesimo ortodosso e ufficiale; insieme fanno leva sull'individuo, sull'esperienza del credente, sulla luce interiore che illumina ogni uomo e lo orienta verso Dio.

Note: 1 E. Tröltsch, Sociologia delle sette e della mistica protestante, Roma 1931, 160; 2 P. Tillich, Storia del pensiero cristiano, Roma 1969, 263; 3 E. Tröltsch, Sociologia... o.c., 88-103.

Bibl. U. Gastaldi, Storia dell'anabattismo, 2 voll., Torino 1972 e 1981; C.H. Hopkins: The Rise of the Social Gospel in American Protestantism, New Heaven l940; E. Mcgrath, Giovanni Calvino. Il Riformatore e la sua influenza sulla cultura occidentale, Torino 1991; P. Tillich, Storia del pensiero cristiano, Roma 1969; Id., Umanesimo cristiano, Roma l969; E. Tröltsch, Sociologia delle sette e della mistica protestante, Roma 1931; M. Weber, L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, Roma 1945.

R. Bertalot

EVANGELIZZAZIONE. (inizio)

Premessa. E. e mistica sembrano termini assai distanti; forse, a prima vista, inconciliabili. Tra i due termini più che una congiunzione (eet) tesa a colmare la distanza, parrebbe più ovvia l'avversativa (oaut) che sancisce la separazione. In verità, il linguaggio comune utilizza i due termini per significare due mondi diversi: quello della parola che rivela (e.) e quello del silenzio che nasconde (mistica).

Si impone, dunque, al di là delle accezioni diversificate e parziali, una esplorazione dei termini per coglierne il significato proprio ed evidenziarne le reciproche connessioni. Ciò ha indubbia rilevanza non solo da un punto di vista strettamente teologico, ma anche in ordine alla vita spirituale e all'azione pastorale dei singoli e delle comunità. Su questi fronti, infatti, rifluiscono e si attestano non poche antinomie ed aporie (vere o presunte) della cultura contemporanea e della stessa prassi ecclesiale: primato di Dioprotagonismo dell'uomo; spazio della comunicazione (areopago)viaggio nell'interiorità (deserto); cultura dell'apparirecultura dell'essere; investimento sull'organizzazione (efficientismo)nudità radicale della testimonianza; azionecontemplazione.

Nel binomio e. - mistica sembrano riassumersi queste ed altre questioni fortemente attuali che rappresentano interpellanze non eludibili. Del resto, è questa la tensione che hanno sperimentato figure grandi nel cammino della Chiesa: l'anelito alla solitudine per una ricerca assorbente di Dio e il dovere della solidarietà e della missione. Basti citare i nomi di Agostino, Giovanni Crisostomo, Gregorio Magno, il Curato d'Ars ( 1859). Questa tensione, che spesso diventa dissidio interiore, è ben espressa in alcune domande che sono già una risposta di H.U. Von Balthasar: " Che cosa devo porgere agli affamati che mi circondano, se non pane? Ma dove lo prendo, se non mi viene porto? Come può la Chiesa uscire all'esterno se non ha più nessuna interiorità da porgere? Oppure si deve dire che essa scaccia da sé l'incertezza della propria identità perché non ha più nessuna esperienza di ciò che è il suo intimo? ".1

I. Evangelizzazione. " Nessuna definizione parziale e frammentaria può dare ragione della realtà complessa e dinamica quale è quella della e. " (EN 17).

Molteplici sono gli elementi essenziali che la qualificano e che hanno suscitato una corale riflessione teologico-pastorale nel Concilio e nel post-Concilio. " L'e. propriamente detta è il primo annuncio della salvezza a chi, per ragioni varie, non ne è a conoscenza o ancora non crede ", affermava nel 1971 il Rinnovamento della Catechesi (n. 25) della Chiesa italiana (ECEI 1, n. 2442).

" L'e. è l'atto con il quale la Chiesa, sotto l'impulso dello Spirito Santo, annuncia e attua la salvezza che il Padre, nel suo infinito amore, offre a tutti gli uomini in Cristo e per mezzo di Cristo, morto e risorto ".2 Ma, è nella Evangeli Nuntiandi di Paolo VI che l'e. ha la sua " magna charta ", assunta da Giovanni Paolo II come compito primario della Chiesa e portata su tutte le strade del mondo. Proprio perché l'e. è " rinnovamento dell'umanità, testimonianza, annuncio esplicito, adesione del cuore, ingresso nella comunità, accoglimento dei segni, iniziative di apostolato " (EN 24).

Questa concezione " globale " della e. ha però, evidentemente, la sua nota fontale, la sua identità originale in riferimento alla Parola: " Evangelizzare, per la Chiesa, è portare la Buona Novella in tutti gli strati dell'umanità e, col suo influsso, trasformare dal di dentro, rendere nuova l'umanità stessa: Ecco io faccio nuove tutte le cose " (EN 18).

1. Evangelizzare è proclamare la Parola di Dio. La nozione biblica di " parola " è assai ricca e la " parola di Dio " sta ad indicare la nota distintiva di Dio, a confronto con gli idoli (cf Bar 6,7; Sal 115,3) e il modo del suo intervento nel mondo, dagli inizi della creazione (cf Gn 1) fino all'eschaton che sarà il " compimento della parola di Dio " (Col 1,25). La parola di Dio è un atto di Dio, perché Dio agisce con la sua parola e parla con la sua azione.

Per questo, è parola rivelatrice: si fa vicina all'uomo (cf Dt 30,11-14) e crea una relazione tra l'uomo e Dio che si traduce in " sapienza di Dio " (1 Cor 1,21-24; 2,6-7) e che lo Spirito Santo seguiterà a suggerire nel cuore dei discepoli e a ricordare in continuazione (cf Gv 14,26).

E parola creatrice perché con essa inizia la vicenda del mondo (cf Sir 42,15ss.; Prv 8,22 ss.) ed è essa che entra nella storia come energia che scuote e come potenza che vivifica, anche se scende col silenzio placido della notte o con la dolcezza della pioggia fecondatrice (cf Sap 18,14-16; Is 55,10-11).

È anche parola profetica che cammina con l'uomo (cf Dt 26,5-10); penetra nelle pieghe degli avvenimenti delle nazioni e dei regni (cf Ger 1,9-10) e fa storia, fino a manifestarsi in pienezza di grazia e di verità (cf Gv 1,14).

Ed è parola che invia e realizza la comunione tra l'uomo e Dio (cf 1 Gv 1,1-3; cf DV 2).

2. Evangelizzare è proclamare la Parola di Dio che è una buona notizia per l'uomo (cf Lc 4,18-19).

È una buona notizia di salvezza (cf At 13,26), salvezza di Dio (cf At 28,28); per gli ebrei compimento delle promesse (cf At 2,39); per i pagani è risposta ad una richiesta fatta di tentativi (cf At 17,23-27).

È una buona notizia di riconciliazione (cf 2 Cor 5,19): Dio, in Cristo risorto, dà all'uomo luce e forza per ricomporre quella fondamentale " divisione " che ciascuno soffre in se stesso (cf GS 10). Cristo ricapitola in sé tutte le cose (cf Ef 1,10).

È una buona notizia che annuncia il regno di Dio: Gesù aveva esordito con il proclamare il regno (cf Mc 1,15). La predicazione è detta " Parola del regno " (Mt 13,19) e Paolo sintetizza il suo ministero apostolico come " annuncio del regno di Dio " (At 20,25; 28,31).

3. Evangelizzare è proclamare la Parola di Dio che è una buona notizia per l'uomo e che si chiama Gesù. La proclamazione di Gesù " Signore e Cristo " (At 2,36) è il Vangelo! Gesù annuncia il regno di Dio. Gli apostoli annunciano il fatto Gesù, perché il Vangelo è lui. E questo cammino non è una teoria soteriologica: è una parola che salva.

Per queste ragioni, la parola è il grande tesoro della Chiesa, che essa ha sempre venerato e della quale si nutre (cf DV 21), perché ad essa consegnato da Gesù: " Padre...le parole che tu mi hai dato, le ho date a loro " (Gv 17,4-8).

Realizzare tutto questo significa evangelizzare. Ma allora, evangelizzare non è un fatto verbale, non è pura trasmissione concettuale: non è prevalentemente l'ufficio di maestri, quanto opera di testimoni (cf EN 41).

" Voi mi sarete testimoni " (At 1,8): ecco la consegna di Gesù ai suoi apostoli. E lo stile della testimonianza caratterizza in maniera assai forte l'annuncio secondo il NT. Gli apostoli si presentano come " testimoni ", garanti di un evento, la morte e risurrezione di Gesù, di cui hanno fatto l'esperienza nella consuetudine di vita con lui (cf At 1,21) e mediante il dono dello Spirito (cf At 5,32).

" Quel che era fin dal principio, quel che abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato a riguardo della Parola della vita... lo annunciamo anche a noi " (1 Gv 1,1-3).

Annunciare è impegnare la propria vita con ciò che viene annunciato. Ed è annuncio autentico quando coinvolge tutta la vita del testimone, nasce da un'esperienza del mistero così che la voce dell'araldo è la traduzione fedele della parola di Dio.

II. Un orizzonte nuovo. Queste rapide considerazioni aprono, pertanto, un orizzonte nuovo che è proprio quello della mistica. K. Rahner amava affermare: " L'uomo religioso dal futuro dovrà essere un mistico, uno che ha fatto esperienza, oppure non sarà religioso ". Ma ciò vale soprattutto per il cristiano (o è mistico o non è cristiano) e per l'e., come modo di essere e compito essenziale della comunità cristiana.

Mistica, infatti, nell'uso linguistico cristiano indica " l'amorosa e misteriosa comunione del cristiano perfetto con Dio " (E. Ancilli); è l'esperienza della presenza di Dio: presenza personale in una unione amorosa. Essa, fondamentalmente, è connotata dal senso di Dio nella sua infinita trascendenza, dalla percezione quasi sperimentale della sua presenza, dalla ineffabile comunione che coinvolge e trasforma l'anima con l'azione misteriosa dello Spirito Santo.

Questa esperienza non è un'affermazione della soggettività-interiorità dell'uomo; è, nel cristiano, penetrazione-appropriazione dell'oggettività del mistero, che si dona e viene colto (accolto) nella trasparenza della mediazione che in Cristo ha la pienezza della sua realtà (come svelamento e velamento!).

Non è proprio questo che afferma Giovanni allorché prima dell'" annunciare " colloca l'udire, il vedere, il contemplare, il toccare (cf 1 Gv 1,1-3)?

III. È a questa profondità che si scoprono le connessioni tra parole e silenzio, tra contemplazione e azione, tra mistica ed e.

" Il prima della parola " - ma il " prima " e il " poi " sono qui categorie inadeguate - è la cifra che ci consente di " udire la Parola "; e lo spazio del " silenzio " è il terreno fecondo della " comunicazione ".

Scrive s. Ignazio ( 107 ca.) martire che il " Verbo procede dal silenzio " 3 e leggiamo nella Bibbia: " Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente venne da cielo, dal tuo trono regale " (cf Sap 18,14). " Il Padre - commenta s. Giovanni della Croce - pronunciò una Parola, che fu suo Figlio, e sempre la ripete in un eterno silenzio; perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall'anima ".4

Solo una coerente assunzione e un esigente vissuto di questa dialettica (silenzio-parola; parola-silenzio) sarà in grado di disegnare il volto luminoso di un cristiano e di una Chiesa totalmente evangelizzatrice e totalmente mistica, anzi evangelizzatrice perché mistica, serva della Parola perché posseduta dal Silenzio.

Scrive suggestivamente B. Forte: " Accoglie il Verbo incarnato chi non si ferma all'evidenza della carne, ma in essa e per essa si lascia condurre dallo Spirito verso l'abisso della prima Origine e dell'ultima Patria. Perciò per la tradizione spirituale cristiana è doveroso non ripetere mai la Parola, senza prima aver lungamente camminato nei sentieri del Silenzio... Ogni parola di lui, ogni parola su lui, sta fra l'Origine e la Patria, fra il Silenzio fontale e l'ultimo Silenzio. Pensare Dio in obbedienza alla struttura trinitaria della ’revelatio' esige l'ascolto del Silenzio ".5

La Parola, pertanto, richiede di essere trascesa non nel senso che possa essere eliminata o messa tra parentesi (non avremmo più accesso alle profondità divine) ma nel senso che essa " è verità e vita proprio in quanto è via, soglia che schiude il Mistero eterno ".

Il silenzio non è il mutismo del non-dire; è invece la non-Parola dello stare aperti alla Trascendenza, del celebrare, dell'adorare, del " Tibi silentium laus " (" Davanti a te, la lode migliore è il silenzio ").

La Bibbia, pertanto, si presenta come una grande sinfonia nella quale alla voce " di grandi acque " (Ap 1,15) si sposa il silenzio dell'attesa e del compimento (cf Ap 8,1). Ed è l'Agnello " afono " (Ap 8,32) a svelare il disegno di salvezza, aprendo il libro dai sette sigilli (cf Ap 5,1-5; 6,1-17; 8,1).

Dio è la voce: " Il Signore vi parlò del fuoco... Vi era soltanto una voce " (Dt 4,11-12). E Dio è la voce del silenzio: " Ci fu un mormorio di vento leggero. Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello " (1 Re 19,12-13).

IV. Entro questo orizzonte si collocano le sfide e le chances del modo di essere e della missione della Chiesa nel mondo contemporaneo. Il lungo processo della secolarizzazione tra i suoi esiti, come fenomeno socio-culturale, annovera certo, la privatizzazione, la relativizzazione e, in alcuni settori, la scomparsa del fatto religioso.

È la drammatica questione dell'assenza di Dio. " Dove per mille anni aveva dominato la fede, ora domina il dubbio " (B. Brecht). E su questo fronte si colloca la " nuova e. ". Ma l'assenza si colma solo con la presenza: uomini e donne che hanno " incontrato Dio ", che lo hanno " sperimentato " saranno in grado di rivelarne i tratti del volto. Sono le " esistenze teologali " (H.U. Von Balthasar); è quel " genere di vita paradossale " (Lettera a Diogneto) che prima diventa interrogativo e poi si apre all'annuncio.

Il tramonto delle ideologie, poi, ha svuotato le risposte presuntuose e totali; né le risposte nichiliste e del non-senso valgono ad eliminare la urgenza e serietà delle domande radicali dell'uomo. Per abilitare l'uomo ad essere veramente " uditore della Parola " che è svelamento di senso e dono di salvezza, bisogna far parlare il vissuto e porre i segni di esistenze trasformate e di storia già nuova: " L'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni " (EN 41).

La questione, perciò, attinge la natura stessa e la struttura essenziale dall'esperienza di fede e dall'azione ecclesiale. Paolo esprime questa intrinseca connessione con il detto: " Fare la verità nella carità " (Ef 4,5). L'episcopato italiano lo ha sintetizzato nell'espressione " Vangelo della carità ": vangelo ricorda la parola che annuncia, racconta, spiega e insegna. E carità ricorda che il centro del Vangelo, la " lieta notizia " è l'amore di Dio per l'uomo e, in risposta, l'amore dell'uomo per i fratelli.6

Solo chi ha fatto esperienza di Dio (ne è diventato " esperto "); solo chi ha provato Dio (il " patire Dio " della spiritualità dei Padri) può parlare di Dio. Solo chi è entrato nella " nube " (oscura e luminosa) del Mistero può farne narrazione sensata. Il Concilio XI di Toledo (7.11.675) afferma che la professione di fede è " sanctae Trinitatis relata narratio " (DS 528): è necessario entrare nel grembo trinitario dove palpita l'eterno dirsi e darsi l'Amore dell'Amante e dell'Amato, per ripetere in maniera udibile e credibile il racconto, capace di originare altri racconti d'amore nella vita degli uomini e delle donne e nella storia del mondo. È questo il " gridare il Vangelo con la vita " (C. de Foucauld); è questo il modo di raccontare la storia rivivendola, secondo l'affascinante insegnamento di Rabbì Baal Shem. È questa - in senso pieno - la mistica della e.

Note: 1 H.U. von Balthasar, Punti Fermi, Milano 1972, 86; 2 CEI, Documento per il IV sinodo dei Vescovi, 24.2.1974, n. 28; ECEI2, n. 1012; 3 Ad Magn. VIII, 2; 4 Opere, Roma 1967, 1095; 5 Trinità per gli atei, Milano 1996, 48; 6 CEI, Evangelizzazione e testimonianza della carità, n. 10; ECEI4, n. 2728.

Bibl. CEI, Evangelizzazione, sacramenti, promozione umana, Roma 1979; J. Comblin, Evangelizzare, Roma 1982; G. Lazzati, Esperienza mistica e promozione umana, in Aa.Vv., Mistica e misticismo oggi, Roma 1979, 173-179; P. Poupard, Il Vangelo nel cuore delle culture, Roma 1988; E. Tonini - R. Cantalamessa - B. Baroffio - G. Miranda, Sorpresi dal mistero, Casale Monferrato (AL) 1995.

L. Chiarinelli

EZQUERRA PABLO. (inizio)

I. Vita e opere. Il P. Ezquerra nasce a Saragozza il 23 gennaio del 1626 e muore nel 1696. I suoi genitori si chiamano Bartolomeo e Lorenza, sono pii e onesti. Veste l'abito carmelitano a diciotto anni, l'8 settembre del 1644, forse per devozione alla Vergine. Fa la professione il 10 settembre del 1645 nel convento della sua città natale.

Il convento saragozzano, dove studia filosofia e teologia è, a quel tempo, ricco di uomini insigni. E. vive, pertanto, in un'epoca di splendore per tutto il Carmelo spagnolo.

La maggior parte della sua vita trascorre nel convento del Carmine di Saragozza, dedita alla formazione dei novizi, a partire dall'anno 1658. Chiede varie volte di essere esonerato dal suo incarico, per la sua salute malferma, ma le sue dimissioni non sono accettate.

La sua opera principale è la Escuela de perfección, titolo abbreviato di un'opera più vasta pubblicata in edizione saragozzana nel 1675. Un'edizione abbreviata di questo libro fa parte della collezione di Espirituales españoles, edita a Barcellona nel 1965.

Anche se orientata all'educazione dei novizi, la sua dottrina sicura, illuminata dalle fonti evangeliche e dei Padri, in linea con la tradizione classica, è utile per tutti i fedeli.

II. Insegnamento spirituale. La Escuola de perfección si divide in tre trattati. Il primo è un ampio ventaglio nel quale E. illustra, con parole chiare, le virtù, i gradi delle medesime, i mezzi per esercitarle, ecc. La vita spirituale è presentata come un edificio da costruire, le cui fondamenta sono l' umiltà, i muri la presenza di Dio, le virtù teologali e la devozione ai santi. Il secondo trattato è dedicato alla preghiera e, in diciotto capitoli, introduce l'anima nel mistero della stessa. Parla di preparazione, lettura, meditazione, rendimento di grazie, offerta e domanda, di contemplazione come parti integranti della preghiera. Infine, nel terzo trattato descrive i tre stadi della vita spirituale: quello dei principianti, dei proficienti e dei perfetti, seguendo gli scritti di s. Giovanni della Croce. E. distingue cinque gradi nella contemplazione mistica: la contemplazione affermativa secondo i lumi della fede, la contemplazione abituale nella conoscenza negativa di Dio, l'entrata dell'anima in Dio, la contemplazione infusa e la trasformazione e unione con Dio. E. usa con sicurezza i termini e i concetti e offre sicure indicazioni a quanti desiderano dedicarsi alla vita interiore.

Bibl. Opere: P. Ezquerra, Escuela de perfección, Barcelona 1965. Studi: R. Lopez Melus, s.v., in DSAM IV2, 2221-2222; B. Velasco, Historia del Carmelo español, II, Roma 1992.

B. Velasco

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