LACRIME - LUSSURIA - DIZIONARIO DI MISTICA

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LACRIME - LUSSURIA

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LACRIME. (inizio)

I. Nozione. E il donum lacrymarum connesso alla beatitudine di cui parla Matteo (5,5), che si verifica quando si raggiunge un alto grado di amore tale da immedesimarsi nell'amore di Dio. A questo punto si prova quasi un dolore fisico, una profonda compunzione per le offese arrecate dagli uomini alla misericordia divina.

II. Spiegazione. E un dono concesso dallo Spirito 1 a coloro che raggiungono un'elevata partecipazione al mistero della redenzione, tanto da piangere dinanzi all'ingratitudine e alle offese degli uomini. Diversi episodi della Scrittura confermano l'esistenza di questo dono: Gesù che piange su Gerusalemme (cf Lc 19,41-44) o per la morte di Lazzaro (cf Gv 11,35), o ancora le lacrime della peccatrice (cf Lc 7,38).

Molti santi hanno avuto questo dono: Pier Damiani, Francesco d'Assisi, Caterina da Siena, Ignazio di Loyola, ecc. Quest'ultimo offre un criterio di discernimento: il principale è un progresso nella vita teologale di fede, speranza e carità. In questo progresso, l'amore effettivo del prossimo viene accresciuto. Infatti, se il dono è autentico non si ferma alla consolazione e purificazione personale, ma è dato a vantaggio di tutti.

Note: 1 Se ne parla nel De virginibus attribuito a s. Atanasio, PG 28,272.

Bibl. P. Adnès, s.v., in DSAM IX, 287-303; S. Garofalo, Il dono delle lacrime, in RivVitSp 37 (1983), 379-383; C. Gennaro, s.v., in DES II, 1379; M. Lot-Borodine, Le mystère du don des larmes dans l'orient chrétien, in O. Clément et Al., La douloureuse joie, Abbaye de Bellefontaine 1974, 133-195.

L. Borriello

LACRIME DI SANGUE. (inizio)

I. Il fenomeno si verifica quando il sangue scorre dagli occhi allo stesso modo delle lacrime. Tale fenomeno, chiamato anche oftalmorragia, è alquanto raro. Viene attribuito a Rosa Maria Adriani ( 1845) e a Teresa Neumann. Potrebbe essere il risultato di certe condizioni patologiche o di fattori ambientali, il che lascia presumere l'esistenza di un fattore naturale, ma la causa è ancora sconosciuta.

Ai nostri giorni si sono verificati anche casi in cui le l. o di acqua scendono dagli occhi delle statue o delle icone. L'autorità ecclesiastica si muove con molta prudenza e cautela nel trattare questi fenomeni singolari e nell'attribuire loro una causa soprannaturale o diabolica.

II. Spiegazione. Se non esistono messaggi o spiegazioni connessi con il fenomeno, l'avvenimento viene considerato inspiegabile sul piano umano, pertanto si può supporre una causa preternaturale, divina, o sul piano mistico può essere considerato effetto della gratia gratis data.

Bibl. I. Rodríguez, s.v., in DES II, 1379-1380; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 1101-1103; H. Thurston, Fenomeni fisici del misticismo, Roma 1956.

J. Aumann

LAICO. (inizio)

Premessa. I dizionari danno un'interpretazione sostanzialmente univoca del termine l. come di persona che non appartiene al clero. Ciò trova riscontro nel linguaggio comune in cui il termine designa il non appartenente a istituzioni che abbiano una loro " sacralità " civile o militare o il non credente e anche l'ateo. In definitiva, si identifica il l. per negazione anziché per affermazione. Tale interpretazione del termine, così consolidata e diffusa, ha le sue radici in convinzioni antiche mantenute fino ad oggi.

I. Cenni storici. 1. Il Medioevo. Per restare nell'ambito del religioso che gli è proprio, troviamo sancita già nel Decretum di Graziano (1140 ca.) una divisione tra coloro che sono considerati cristiani. Di essi, infatti, si parla come di duo genera: chi è chierico e chi non lo è; chi ha tutto il potere e chi è oggetto del potere clericale.

E pur vero che, a poca distanza di tempo dal Decretum e per alcuni secoli, si ha un emergere del l. nella Chiesa con il manifestarsi di movimenti spirituali di grande vivacità contemporaneamente a un profondo evolversi della vita politica, economica e sociale. Si ha così una crescita del ruolo dei laici nella Chiesa - anche se sembra eccessivo parlare di una loro " presa del potere " 1 - soprattutto " in relazione a una riabilitazione della vita attiva nel contesto della spiritualità cristiana ", ossia nella stagione in cui " quanto si riferiva all'azione concreta nel mondo al fine di renderlo più conforme all'ideale evangelico fu valorizzato tra i secc. XII e XIII nella prospettiva di un cristianesimo centrato sul tema dell'Incarnazione, teso a esaltare l'umanità di Dio ".2

Si ha nei secoli d'inizio millennio un vero e profondo risveglio evangelico che vede protagonisti i monaci e, in particolare, i laici. Questi ultimi divengono protagonisti di una vita apostolica che si richiama alle prime generazioni cristiane e che dà luogo alla creazione di una nuova cristianità.3 Un risveglio non privo d'ambiguità, di anarchismo e portatore anche di eresie che ha nelle confraternite un punto di riferimento rilevante.

2. Il Concilio tridentino porrà fine a questo stato di cose in particolare riconducendo a un ordine gerarchico la confraternita laicale.4 Così che uno dei massimi teologi della Controriforma, Roberto Bellarmino, sulla base del Tridentino, può affermare: " Chi ignora che laos, in greco, vale popolo? Che essi chiamano kleros ciò che noi diciamo porzione o eredità? Da qui sono denominati i laici: come dire i plebei e gli appartenenti al popolo, ai quali non è stata affidata alcuna parte della funzione ecclesiastica. Clero, per contro, si usa per indicarlo come appannaggio ed eredità del Signore; chierici poi, dalla parola clero (...), si dicono quelli che, consacrati al culto divino, si sono addossati, per ordine di Dio stesso, la responsabilità e la preoccupazione di amministrare la religione e le realtà sacre ".5

Per secoli questo insegnamento è stato costante e, salvo eccezioni, largamente generalizzato dando luogo e fondandosi su una teologia della Chiesa che, come ha denunciato Y. Congar, lungi dall'essere un'ecclesiologia, si è configurata come gerarcologia. In tal modo, si è consolidata la convinzione che la definizione di l. potesse aver luogo unicamente per negazione.

3. In questo secolo tale convinzione è stata confermata in modo autorevole. E sufficiente ricordare quanto afferma Pio X nell'Enciclica Vehementer (1906) e cioè che " solo nel corpo pastorale risiedono il diritto e l'autorità necessari per promuovere e dirigere tutti i membri verso il fine della società. Quanto alla moltitudine, ossia i laici, essa non ha altro diritto che quello di lasciarsi guidare e, come docile gregge, seguire i suoi pastori ". Il l., quindi, in tale concezione, non è altro che elemento passivo di una dinamica che gli è estranea. Egli è soggetto esclusivamente di doveri, non di diritti. Il solo diritto del l. è quello sancito dal Codice di Diritto Canonico del 1917 là dove, al can. 682, afferma: " I laici hanno diritto di ricevere dal clero i beni spirituali e specialmente gli aiuti necessari alla salvezza ".

Quella del l. definito per negazione è una condizione in cui è messa in dubbio la possibilità di raggiungere la perfezione cristiana, poiché esso non appartiene a nessuno degli stati di vita detti di perfezione. Se al l. è data qualche possibilità di raggiungere la perfezione cristiana ciò avviene per la sua sottomissione al clero. Solo così al l. è resa possibile l'unione con Dio. E del tutto evidente che nel contesto di una teologia della Chiesa che è gerarcologia più che ecclesiologia, per cui la maggior parte dei membri della Chiesa è definita, di fatto e in teoria, solo per negazione, non è possibile parlare né di una teologia né, di conseguenza, di una spiritualità del l. Il l. è e resta un battezzato che può solo sperare di salvarsi l'anima nonostante si occupi nella sua vita di cose terrene.

Nel secolo scorso, però, si manifestarono diversi esempi di un nascente movimento laicale che poi trovò un'espressione qualificata in forme di Azione Cattolica. E ciò in connessione con il mutato quadro politico e sociale seguito alla Rivoluzione francese e, in Italia, con la realizzazione di uno Stato nazionale che eliminava lo Stato pontificio. Si aprì così ai laici una certa nozione di apostolato sia pure condizionata e limitata. Una nozione che, via via soprattutto nel nostro secolo, si è affermata anche di fronte ai problemi posti dalla rivoluzione industriale e dalla nascita di un mondo, quello operaio, fuori dalla Chiesa. Tale nozione di apostolato è duplice: vi è quello di tutti i membri della Chiesa che sono costituiti come autorità gerarchica e quello di coloro che, da laici, sono chiamati dalla gerarchia a una collaborazione con essa che si verrà configurando come speciale e diretta. Il l. di Azione Cattolica, in questo contesto, appare come colui che, per mandato gerarchico, è inviato nel mondo dal suo esterno. Egli entra là dove al sacerdote non è possibile essere presente. Si ha così una presenza del l. nel mondo per mandato gerarchico e per supplenza. La presenza del l. nel mondo è congiunturale e tattica.

Negli anni '30, durante il pontificato di Pio XI, si ha uno sviluppo significativo dell'esperienza di Azione Cattolica soprattutto in Italia e in Francia, anche se si tratta di due esperienze con caratteristiche distinte. A tale sviluppo corrisponde un approfondimento della riflessione teologica e si intravedono i presupposti di una spiritualità del laicato. Tale riflessione si viene precisando e assume maturità con gli anni '50; una decade ricca di ricerche circa una teologia del laicato fondata su una rinnovata ecclesiologia che tende a dare del l. una definizione in positivo. Va sottolineato che tale interesse per il l. - che assume un carattere di grande vivacità soprattutto in Francia - così come per la laicità o secolarità corrisponde al manifestarsi di una nuova coscienza religiosa e a una rinnovata riflessione sull'Incarnazione di fronte alle sfide poste dalla società moderna e dalla secolarizzazione.

Tra i pionieri di una teologia del laicato in Italia va ricordato anzitutto e principalmente R. Spiazzi, la cui opera principale e fondamentale è pubblicata agli inizi degli anni '50.6 In particolare, R. Spiazzi è attento a sottolineare e a valorizzare l'apostolato del l. che ha la sua origine nel battesimo e nell'appartenenza del l. stesso alla Chiesa. Pertanto, sostiene l'Autore, l'apostolato del l. di Azione Cattolica è un modo di attuare l'apostolato laicale, ma certamente non lo esaurisce.

E indubbio, peraltro, che l'opera a cui ordinariamente si fa riferimento per la teologia del laicato è quella pubblicata in Francia l'anno successivo da Y. Congar.7 Ed è in particolare a questo autore che si deve lo sforzo di una definizione teologica positiva del termine l. Egli, infatti, in prima approssimazione afferma: " I laici in quanto membri del popolo di Dio sono ordinati, come i chierici e i monaci per stato e in maniera diretta, alle realtà celesti. (...) Tuttavia non vi sono ordinati nello stesso modo (...); i laici sono ordinati, per stato e in maniera diretta, sebbene non in esclusiva, alle realtà terrene ". E, in seconda approssimazione, " il l. sarà dunque colui per il quale, nell'opera stessa che Dio gli ha affidato, la sostanza delle cose in se stesse esiste ed è interessante ", mentre " il chierico, e più ancora il monaco, è un uomo per il quale le cose non sono veramente interessanti in se stesse, ma in relazione ad altro, cioè nel rapporto che le lega a Dio ".8 E, infine, Y. Congar afferma: " Al di là della definizione, canonica tutta negativa, del l. come colui che non è religioso, colui che non ha né potere d'ordine né di giurisdizione, l'accordo è praticamente raggiunto su una definizione positiva: il l. è il cristiano il cui contributo all'opera della salvezza ed al progresso del regno di Dio, quindi al duplice compito della Chiesa, si attua nel e col suo impegno nelle strutture del mondo e nell'opera temporale ".9

Gli anni '50, dunque, si caratterizzano per un forte risveglio d'interesse per la figura, il carattere e il compito del l. che va di pari passo con una nuova coscienza ecclesiale da parte dei fedeli in cui essi da oggetto di apostolato ne divengono soggetto. La ricerca - che è segnata da due Congressi mondiali dell'apostolato dei laici (Roma, 7-14 ottobre 1951 e 8-13 ottobre 1957) - conduce a definizioni di l. di carattere ecclesiologico che lo configurano non più per negazione, ma per affermazione.

In particolare, alla fine degli anni '50 e all'inizio della decade successiva, si sviluppa una riflessione particolare a partire da un'espressione di Pio XII contenuta nel suo discorso al II Congresso mondiale dell'apostolato dei laici: la consecratio mundi è essenzialmente opera dei laici. Il testo più significativo in tal senso è di G. Lazzati, il quale non solo approfondisce il significato dell'espressione pontificia, ma chiarisce il senso per cui la consecratio mundi è essenzialmente opera dei laici e individua le condizioni per una piena realizzazione di tale compito non senza mettere in luce l'esigenza di delineare una coerente e corrispondente spiritualità laicale.10

Tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60, ossia alla vigilia del Vaticano II, si ha, dunque, una stagione molto ricca di studi e di dibattiti di carattere teologico ed ecclesiologico che contribuiscono a formulare una teologia e una spiritualità del l. capaci di farlo uscire dall'indistinta condizione di una definizione per negazione, collocandolo come soggetto attivo e responsabile nella Chiesa e nel mondo.11 La spinta e l'interesse suscitati dal dibattito emerso dal movimento laicale inducono molti a ritenere che il Vaticano II debba configurarsi in modo peculiare come il Concilio dei laici.

II. Il Vaticano II, in realtà, è il primo Concilio nella storia della Chiesa in cui si tratta della vocazione, del carattere, della missione del l. Il tema è presente in ogni documento conciliare ad esclusione di PC e di NAE. In qualche modo, il Concilio si configura come la conclusione e il vertice di una lunga e ricca fase di ricerca di cui fa propri i frutti più significativi. Quanto ai contenuti, presenti in modo particolarmente sviluppato in AA e in LG, essi possono essere colti in due punti di fondo: il l. è soggetto di apostolato; la dignità e il ruolo del l. hanno origine non da un mandato gerarchico, ma dal battesimo che lo fa partecipe dei tria munera di Cristo e che gli imprime un carattere peculiare: quello secolare. Ed è in forza dell'indole secolare che l'apostolato proprio e peculiare del l. si attua nelle e con le realtà " terrene ". In qualche modo, si recupera il senso che il termine l. ha avuto per le prime generazioni cristiane.12

Ma, nel testo fondamentale sul l., contenuto in LG 4, il Vaticano II non ne dà una definizione teologica ma si limita a darne una descrizione " tipologica ".13 Il testo, che resta come fondamentale punto di riferimento, afferma, anzitutto, che il " carattere " o l'" indole " " secolare è propria e peculiare ai laici " e che " per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio " (LG 31).

L'insegnamento del Vaticano II si configura, da un lato, come la sintesi del meglio della ricerca preconciliare e, dall'altro lato in qualche modo, come il suo esaurimento. Ciò nel senso che le numerose pubblicazioni uscite nell'immediato postconcilio sono limitate a commentari dei documenti conciliari, quindi, a ribadirne linee e contenuti. Nel processo di ricezione del Concilio spicca il magistero di Paolo VI, sensibilissimo al tema della laicità, della vocazione e missione del l. In particolare, papa Montini ribadisce più volte che la consecratio mundi è il compito e la missione fondamentale del l. mostrando anche come tale formula abbia assunto nel Concilio denominazioni differenti. Infatti, Paolo VI, il 15 ottobre 1967, rivolgendosi ai partecipanti al III Congresso mondiale per l'apostolato dei laici afferma: " Un altro compito vi aspetta, espresso da una parola che ha fatto fortuna in questi ultimi anni, cioè la consecratio mundi. Il mondo è il vostro campo di azione. Voi vi siete immersi per vocazione (...). Il Concilio ve l'ha detto e ridetto: i laici "consacrano a Dio il mondo" lavorano alla "santificazione del mondo" all'"animazione cristiana del mondo", al "risanamento delle istituzioni e delle condizioni di vita del mondo", sono le espressioni stesse dei documenti conciliari ". In altra occasione, il 23 aprile 1969, papa Montini offre un articolato excursus sulla storia, sul significato di consecratio mundi e sulla responsabilità autonoma che essa implica per i laici e dice: " Come si può oggi pensare a una consecratio mundi? La Chiesa accetta di riconoscere il mondo come tale, libero cioè, autonomo, sovrano, in un certo senso autosufficiente (...), la Chiesa ammette anche per i suoi fedeli del laicato cattolico, quando agiscono nel terreno della loro realtà temporale, una certa emancipazione, attribuisce loro una libertà d'azione e una loro propria responsabilità, accorda loro fiducia ".

III. Il dibattito in corso. Resta il fatto che nell'immediato postconcilio si arresta l'approfondimento sulla figura del l. in vaste aree europee (Italia, Spagna, Francia), mentre in America Latina, là dove i presupposti della teologia del laicato erano stati assunti dalla teologia dello sviluppo, a questa subentra la teologia della liberazione che prescinde dal laicato.

Con gli inizi degli anni '70, si ha una nuova fase di ricerca che parte da presupposti diversi da quella conciliare. Anche tale fase di ricerca ha come punto di riferimento Y. Congar. E lui infatti, che ritenendo ormai troppo angusti i limiti della teologia del laicato - anche di quella fatta propria dal Vaticano II - tenta un superamento con una teologia dei carismi e dei ministeri con un'opera che attira l'attenzione.14 L'esigenza di andare oltre il dualismo clero-laici viene superata dal teologo francese svolgendo la tesi di una Chiesa tutta ministeriale in cui anche i laici trovano una loro collocazione. La tesi viene largamente ripresa nel dibattito sui ministeri anche se in essa, per la verità, non trova risposta l'interrogativo di quale sia lo specifico del l. nella teologia conciliare. Si obietta, infatti, che la via di una " ecclesiologia globale ", tutta ministeriale e tutta secolare, in cui tutti i battezzati sono " cristiani e basta ", faccia correre il rischio di ricadere in un clericalismo superato dal Vaticano II.15

Comunque, si deve registrare un fatto: dopo il volume di Y. Congar - che è strutturato al modo delle Retractationes agostiniane - si formano due correnti di pensiero circa il l.: una che segue e sviluppa l'" ecclesiologia globale " che ritiene superato il Vaticano II in materia di natura, vocazione e missione del l. e che, dunque, non si debba proseguire oltre nel considerare il compito del l. distinto da quello degli altri battezzati assumendo, invece, la nozione di " cristiano comune "; l'altra che insiste nel ribadire il dettato conciliare. E da sottolineare che il magistero, nelle sue diverse espressioni, adotta la seconda linea rimanendovi costantemente fedele nel tempo.

Ciò si verifica puntualmente, per esempio, nel 1974 nel corso della III Assemblea generale del sinodo dei vescovi sull'evangelizzazione nel mondo contemporaneo che coglie il risveglio del senso missionario nella Chiesa. Il fatto è sottolineato un anno dopo da Paolo VI con la pubblicazione dell'Esortazione apostolica Evangeli Nuntiandi (8 dicembre 1975), ove Papa Montini non solo ribadisce l'insegnamento del Vaticano II circa il l., ma va oltre nella sua puntualizzazione. Egli, anzitutto, non evita di trattare dei ministeri laicali dicendo che " i laici possono anche sentirsi chiamati a collaborare con i loro pastori nel servizio della comunità ecclesiale, per la crescita e la vitalità della medesima, esercitando ministeri diversissimi, secondo la grazia e i carismi che il Signore vorrà loro dispensare " (n. 73). Ma, insiste Paolo VI, non è ciò che caratterizza in modo peculiare i laici. Essi per la loro natura e per loro vocazione peculiare sono tali per cui il loro " compito primario e immediato non è l'istituzione e lo sviluppo della comunità ecclesiale che è il ruolo specifico dei pastori, ma è la messa in atto di tutte le possibilità cristiane ed evangeliche nascoste, ma già presenti e operanti nelle realtà del mondo " (n.70).

Su una linea conciliare si muove il rettore dell'Università Cattolica italiana G. Lazzati che, preoccupato del diffondersi di nuove tesi mentre è ancora pressocché assente una recezione del magistero conciliare, sollecita il Dipartimento di scienze religiose dell'Ateneo a riprendere e a sviluppare la riflessione in materia di l. e di laicità16 e a dedicarvi l'intero corso di aggiornamento culturale del 1977 che l'Ateneo stesso organizza annualmente.17 Si tratta, però, di un risveglio intenso ma di breve durata che, peraltro, non sposta e non muta le posizioni assunte in precedenza.

Un'altra vivace riapertura del dibattito si ha con l'annuncio della VII Assemblea generale del Sinodo dei vescovi dedicata al tema: Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent'anni dal Concilio Vaticano II. Un tema fissato da Giovanni Paolo II su richiesta della maggioranza degli organismi ecclesiali consultati. Il Sinodo, rinviato dal 1986 al 1987 a causa dello svolgersi della II Assemblea generale straordinaria del Sinodo stesso, è destinato, in qualche modo, a fare un bilancio del magistero conciliare e postconciliare e ad approfondire, in particolare, il binomio vocazione-missione del l. in linea con la sensibilità del tempo. Così, è attorno alla metà degli anni '80 che si ha la pubblicazione di un numero considerevole di articoli e di volumi di interesse, ma è soprattutto in Italia che il dibattito si fa vivo per un confronto franco e diretto, nel modo della quaestio disputata, tra G. Lazzati e i teologi B. Forte e S. Dianich.

Lazzati ha appena pubblicato due volumi a larga diffusione che rappresentano una sintesi matura della sua quarantennale riflessione e ne ha in corso di pubblicazione un terzo.18 Egli si pone criticamente di fronte alle riflessioni di " alcuni teologi " che ritiene non conformi al magistero conciliare sulle pagine di una diffusa rivista d'informazione religiosa.19 E vero - dice Lazzati - che la Chiesa è nel mondo per il mondo, cioè per salvarlo. È, infatti, in questo senso che Paolo VI ha detto che la Chiesa " ha un'autentica dimensione secolare " (2 febbraio 1972). Ma, il termine " secolare ", dice Lazzati, o quello di " secolarità " applicato a tutta la Chiesa non ha precisamente lo stesso significato dell'aggettivo " secolare " applicato al l. nella definizione che ne fa LG 31. Nella Costituzione sulla Chiesa indica un " particolare rapporto con il mondo " che caratterizza l'azione del l. " sul mondo al fine di ricondurlo al disegno del Creatore ". I laici di cui parla LG 31 " vivono nel mondo ", non nel senso generico qual è quello per cui tutti i cristiani sarebbero " secolari ", ma in senso specifico, cioè in quanto " implicati in tutti e singoli i doveri e affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta ". Distinguere diversi modi di assumere la " secolarità " secondo vari carismi e ministeri, non significa separare ministeri e laici e neanche negare il " vitale rapporto " tra momenti e dimensioni - ministeriali o secolari - della missione di salvezza della Chiesa.

E per questo che Lazzati non può accettare l'affermazione che tutta la Chiesa è " laica ", come fa il teologo S. Dianich,20 né il modo di presentare il tema della laicità di B. Forte.21 Lazzati contesta anche l'uso dell'espressione " ecclesiologia totale " ripresa da Y. Congar e critica soprattutto l'affermazione di B. Forte secondo cui " la riscoperta dell'ecclesiologia totale " porta con sé " l'esigenza di superare non solo la divisione della Chiesa in due classi, ma anche la connessione specifica laici-secolarità ".22

L'essenziale della posizione di G. Lazzati può essere colta in questo passaggio: " Nel momento in cui, perdendo la specificità del significato per la quale il fedele è chiamato l., attribuisco alla Chiesa, nella sua globalità, la qualifica di "laica" non aggiungo nulla alla conoscenza della sua natura e invece perdo il valore della nota che caratterizza nella Chiesa un momento tipico della sua azione redentiva, quello cui per loro vocazione, attendono (dovrebbero attendere) i fedeli per questo chiamati laici ".

Nella sua replica, S. Dianich riconosce e accetta la preoccupazione di Lazzati " di esorcizzare il sempre risorgente mostro dell'integrismo clericale ". Ma egli insiste su un aspetto che non è negato da Lazzati: la necessità di " prendere sul serio i criteri della laicità e applicarli coerentemente a qualsiasi soggetto ecclesiale ", chierico o l., ove i " criteri riguardano il riconoscimento del valore proprio e autonomo delle realtà terrestri ".23

B. Forte, a sua volta, difende l'uso della terminologia e dei concetti ripresi da Y. Congar: " ecclesiologia totale " e " binomio comunità-carismi e ministeri " che segnano il superamento del binomio " gerarchia-laicato " e rileva che " l'affermazione della laicità come dimensione di tutta la Chiesa si offre allora come l'altro nome della corresponsabilità ". L'impressione che suscita il dibattito è che sembra necessario arrivare a una sintesi più chiara e avanzata tra il Congar dei Jalons e quello dello schema " comunità-carismi e ministeri ".24

Il VII Sinodo dei vescovi, per parte sua, accogliendo l'Instrumentum laboris,25 fa un bilancio complessivo del magistero a partire dal Vaticano II e ne ribadisce le tesi di fondo non accogliendo le tesi sviluppate da numerosi teologi circa la laicità di tutta la Chiesa e di tutti nella Chiesa. L'Esortazione apostolica post-sinodale di Giovanni Paolo II (30 dicembre 1988) segna e accoglie il pensiero dei padri sinodali fin dalle prime parole del testo che danno il titolo al documento. Infatti, il Papa non si limita a parlare di christifideles, ma specifica subito che si tratta di christifideles laici, ove il laici specifica, qualifica e distingue i fedeli di cui si tratta. Ossia, distingue tra i fedeli coloro che formano una porzione specifica del popolo di Dio avendo un'indole peculiare definita dalla secolarità e dall'essere e dal vivere nel mondo come luogo teologico peculiare. Si ha così una continuità diretta con le prime generazioni cristiane. L'indagine sui testi, infatti, fa rilevare come in nessuno di essi si considerino i " laici " come la comunità composta dai membri del popolo di Dio in opposizione ai popoli profani. Nei testi si trova un'opposizione costante: si tratta di categorie all'interno del popolo di Dio. (...) D'altronde, se il termine l. designasse veramente i membri del popolo di Dio presi nel loro complesso, non si capirebbe perché mai i sacerdoti non sarebbero anch'essi " laici, dal momento che sono cristiani. Invece, i testi oppongono costantemente questi a quelli ".26 Ma il fatto che va registrato è che, dopo il Sinodo e dopo la pubblicazione della Christifideles laici, la ricerca sul l. di nuovo segna un arresto mentre, particolarmente in area tedesca, si sviluppano ministeri laicali nuovi caratterizzati dalla supplenza del clero per servizi alle comunità cristiane. Servizi che, poiché richiedono praticamente il tempo pieno e prevedono un sostentamento economico di coloro che lo esercitano finiscono per mettere in dubbio il permanere in una piena laicità di coloro che vi sono chiamati.

IV. Il l. e l'unione con Dio. Si deve concludere che, se si segue la linea indicata insistentemente dal magistero, si verifica che per il l. l'unione con Dio avviene per vie distinte da quelle dei chierici, dei religiosi e dei monaci. Via peculiare, infatti, appare l'essere e l'agire nel mondo come luogo d'origine e di residenza, anche se resta pur sempre, secondo la Lettera a Diogneto, un essere residenti come stranieri col permesso di soggiorno.27 Mentre, infatti, per chierici, religiosi e monaci il mondo resta una realtà che ostacola il raggiungimento della propria perfezione e, dunque, l'unione con Dio, per il l. avviene il contrario. Egli, per la sua indole, per la vocazione e la missione che ha ricevuto col battesimo può raggiungere la santità e, con essa, l'intimità con Dio solo nel mondo e per mezzo del mondo, ossia operando in modo da " cercare il regno di Dio trattando le realtà temporali e ordinandole secondo Dio " (LG 31). Per il l., dunque, il mondo non è una realtà ostile per cui si giunge a santità nonostante essa, ma proprio grazie ad essa. Il mondo, in definitiva, si configura come il luogo teologico, l'ambiente divino 28 in cui avviene l'incontro con Dio e si raggiunge con lui la pienezza di unione. Ciò che caratterizza il rapporto del l. col mondo è quello di divenire un liturgo di una celebrazione cosmica per cui, come arditamente si è espresso un teologo laico, il prof. J. Lagovsky, " la carne del mondo comincia sostanzialmente e veramente a transustanziarsi, a mutarsi nella carne del nuovo cielo e della nuova terra, nella carne del regno di Cristo che viene ".29 Tra l. e mondo, dunque, avviene un rapporto dinamico, un processo attraverso il quale il l. e il mondo si santificano e si collocano al centro dell'economia della creazione e della redenzione e i laici danno così attuazione alla speranza escatologica della creazione tutta " che attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio... e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio " (Rm 8,19-21).

Note: 1 Cf E. Amman - A. Dumas, La Chiesa in balia dei laici (888-1057), in A. Fliche - V. Martin (cura di), Storia della Chiesa, VII, Torino 1973; 2 A. Vauchez, I laici nel Medioevo. Pratiche ed esperienze, Milano 1989, 13; 3 Cf M.-D. Chenu, La teologia nel XII secolo, Milano 1986; 4 Cf G.G. Meersseman - G.P. Papalini, Le confraternite laicali in Italia dal Quattrocento al Seicento, in Aa.Vv., Problemi di storia della Chiesa nei secoli XV-XVII, Napoli 1979, 109-136; 5 R. Bellarmino, De membris Ecclesiae militantis, I: De clericis, cap I, in Id., Opera Omnia, II, Napoli 1857, 149; 6 Cf R. Spiazzi, La missione dei laici, Roma 1952. È anche da ricordare Id., Il laicato nella Chiesa, in Aa.Vv., Problemi e orientamenti di teologia dogmatica, I, Milano 1957, 303-358; 7 Cf Y. Congar, Per una teologia del laicato, Brescia 1966; 8 Ibid., 37-39; 9 Id., Esquisse d'une théologie de l'Action catholique, in Les Cahiers du Clergé Rural, agosto-settembre 1958, poi ripreso in Sacerdozio e laicato di fronte ai loro compiti di evangelizzazione e civiltà, Brescia 1966, 285; 10 G. Lazzati, La " consecratio mundi " essenzialmente opera dei laici, in Studium, 55 (1959), 791-805. Cf anche G. De Rosa, Il significato teologico della " consecratio mundi ", in CivCat 114 (1963)3, 521-532; Id., La " consecratio mundi " missione specifica dei laici nella Chiesa, in CivCat 114 (1963)4, 121-131; 11 Tra le pubblicazioni in lingua italiana, oltre a quelle citate, cf almeno: L. Sartori, La teologia del laicato, Padova 1955; Id., I laici nella Chiesa, in Sacra Doctrina, 7 (1962), 207-342: numero monografico in cui sono da segnalare i contributi di J. Hamer, Il fondamento biblico e teologico dell'apostolato dei fedeli, 218-242 e di P.A. Liégé, I laici nella Chiesa, 207-217; D. Tettamanzi, Verso una teologia del laicato nella Chiesa, in Rivista del Clero Italiano, 43 (1962), 435-449; G. Belotti, Il Concilio e i laici, Milano 1963; P.C. Landucci, Fondamenti dogmatici dell'apostolato dei laici nella Chiesa, in Aa.Vv., I laici nella Chiesa, Roma 1963, 15-29; D. Pieraccioni, I laici e il Concilio, in Città di Vita, 18 (1963), 582-585. Ma, nello stesso periodo, sono importanti i contributi pubblicati in francese e in tedesco; 12 Almeno così come viene messo in luce da due importanti ricerche: I. De la Potterie, L'origine et le sens primitif du mot " laïc ", in NRTh 79 (1958), 840-853 poi, con alcune variazioni, in I. De la Potterie - S. Lyonnet, La vita secondo lo Spirito condizione del cristiano, Roma 1967, 15-34; E. Lanne, Le laïcat de l'Église ancienne, in Verbum Caro, 18 (1964), 105-126; 13 Cf E. Schillebeeckx, La definizione tipologica del laico cristiano secondo il Vaticano II, Roma 1971; 14 Cf Y. Congar, Ministeri e comunione ecclesiale, Bologna 1973; 15 Cf T. Citrini, La questione teologica dei ministeri, in Aa.Vv., I laici nella Chiesa, Leumann (TO) 1986, 57-72; 16 Frutto di tale sollecitazione è la pubblicazione del volume Laicità nella Chiesa, Milano 1977, con contributi di B. Maggioni, L. Sartori, A. Acerbi, A. Lattuada, G. Grampa, G. Ghiberti, U. Benedetti; 17 Cf Laicità. Problemi e prospettive. Atti del XLVII Corso di aggiornamento culturale dell'Università cattolica, Milano 1977. Le relazioni sono state tenute da G. Lazzati, B. Maggioni, L. Pizzolato, G. Picasso, V. Vinay, F. Traniello, P. Scoppola, N. Raponi, L. Sartori, S. Vanni Rovighi, L. Lombardi Vallauri, U. Pototschnic, G. Pastori, F. Stella, A. Ardigò, R. Ruffilli, N. Galli, L. Pazzaglia, G. Bettetini; 18 Cf G. Lazzati, La città dell'uomo. Costruire, da cristiani, la città dell'uomo a misura d'uomo, Roma 1984; Id., Laicità e impegno cristiano nelle realtà temporali, Roma 1985 (è importante la recensione di B. Sorge, Per un autentico " movimento laicale " nella Chiesa, in CivCat 136 [1985]3, 388-389); Id., Per una nuova maturità del laicato. Il fedele laico attivo e responsabile nella Chiesa e nel mondo, Roma 1986; 19 Cf Id., Secolarità e laicità. Le caratteristiche del laico nella Chiesa e per il mondo, in Il Regno Attualità, 30 (1985), 333-339; 20 Cf S. Dianich, Chiesa in missione: per una ecclesiologia dinamica, Roma 1985; 21 Lazzati si riferisce specificamente a B. Forte, La Chiesa icona della Trinità, Brescia 1984; 22 Cf B. Forte, Laicità, in NDT, 2004-2013; Id. Laicato e laicità, Casale Monferrato (AL) 1986; 23 Cf S. Dianich - B. Forte, Laicità: tesi a confronto, in Il Regno Attualità, 30 (1985), 459-461; 24 Cf D. Bonifazi, Sacerdozio-laicato nell'ecclesiologia di Y. Congar, evoluzione e prospettive, Padova 1983, 307-320; 25 Cf Sinodo dei vescovi, Vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo a vent'anni dal Concilio Vaticano II. Instrumentum laboris, Città del Vaticano 1987; 26 I. De la Potterie, Il significato primitivo del termine " laico ", o.c., 33; 27 Lettera a Diogneto, V; 28 Cf P. Teilhard de Chardin, L'ambiente divino, Milano 1968; 29 Citato da O. Rousseau, Il messaggio dell'ortodossia, in P. Evdokinov, Le età della vita spirituale, Bologna 1968, XV.

Bibl. La bibliografia sul laicato è amplissima. Si rimanda, pertanto oltre ai testi indicati in nota a: Il laicato. Rassegna bibliografica a cura di A. Scola, C. Giuliodori, G. Marengo, P.A. de Proost, G. Wagner, Città del Vaticano 1987.

A. Oberti

LALLEMANT LOUIS. (inizio)

I. Vita e opere. Nasce a Vertus, una piccola città nei pressi di Châlons-sur-Marne, nel 1588 (?) e vi muore il 5 aprile 1635. Inizia i suoi studi nel collegio gesuita di Bourges, ma non può avvalersi dell'insegnamento dei gesuiti perché essi vengono espulsi dalla città nel 1594. In seguito, passa nel collegio degli stessi a Verdún e, terminatovi il corso di retorica, entra nel noviziato della Compagnia di Gesù a Nancy, nel 1605. Ordinato sacerdote nel 1614, emette i voti solenni il 28 ottobre 1621. Successivamente insegna filosofia, matematica, teologia morale e scolastica. Dal 1622 al 1625 è maestro dei novizi e, in seguito, rettore del noviziato di Rouen. Scoppiata la peste nella città, mette in salvo i suoi novizi, ma sceglie di restare a servire gli appestati. In alcune note del 1631 si ricorda che L. suole dire: " Vi sono tre classi di morti belle: la prima è morire al servizio degli ammalati di peste, la seconda è morire nelle missioni e la terza è dando la vita per il gregge ". Dio gli concede la prima.

L. non lascia scritti di proprio pugno. Abbiamo appunti delle sue conferenze dai quali nasce l'opera Dottrina spirituale.

II. Dottrina mistica. Più che cogliere la caratteristica e la profondità della vita mistica di L., occorre addentrarsi nella sua particolare concezione della vita spirituale. L'orazione e l'unione intima con Dio, secondo L., sono primarie ed essenziali. L'unione con Dio conduce ad un servizio totale e disinteressato agli altri, fino al punto da dare, se fosse necessario, la vita per gli altri.

Per L., l'inquietudine e il vuoto dell'anima non possono essere colmati che da Dio. La beatitudine consiste nella soggezione a Dio; l'uomo deve cercare di realizzare il dono di Dio e raggiungere la nudità di spirito, esercitarsi nella fede, nella fiducia, nell'umiltà e nell'amore delle croci.

I due elementi essenziali della vita spirituale sono la purificazione del cuore e la direzione dello Spirito Santo. La purezza del cuore consiste nel non avere nulla di contrario a Dio e all'azione della grazia nel proprio cuore. Per questo motivo, si devono evitare anche i peccati veniali, i sottofondi di orgoglio e le imperfezioni attraverso un'attenta vigilanza sui movimenti dell'anima. Nell'azione apostolica è necessario il raccoglimento. L'unione con nostro Signore si attua per mezzo della conoscenza, dell'amore e dell'imitazione. L. pone come base della vita interiore la regalità di Cristo, l'imitazione del Signore nella sua povertà, castità, obbedienza. Questo solido cristocentrismo è la risposta del dotto gesuita alle discussioni sul posto che l'umanità di Cristo deve occupare nella vita spirituale. Egli dice che nostro Signore dev'essere amato nel SS.mo Sacramento. La contemplazione, a suo avviso, è un concetto di Dio e delle cose divine, semplice, libero, penetrante, sicuro. Tale contemplazione procede dall'amore e tende all'amore. La contemplazione infusa, invece, è un frutto dei doni dello Spirito Santo, il quale per attuare nelle anime pure e docili una perfetta unione con Cristo le guida verso le sublimi esperienze mistiche.

La Dottrina spirituale affronta, tra l'altro, il rapporto tra i doni dello Spirito e la mistica. Per L. i doni coltivati con fedeltà e fervore conducono l'anima alla contemplazione infusa e questa è un effetto dei doni pervenuti al loro pieno sviluppo. Se non tutti arrivano all'orazione passiva è perché i doni restano impigliati tra peccati veniali e debolezze.

Per quanto attiene alla mistica, L. ne sottolinea l'essenza che consiste in " una visione di Dio e dei misteri divini semplice... che ce li fa sentire, gustare ". Afferma che essa non deve mai essere scambiata con i fenomeni paramistici che la possono accompagnare. Inoltre, sottolinea che il mistico, giunto alle sublimi esperienze dell'unione trasformante, non è più soggetto ad alcuna perturbazione esteriore. A questo punto, il mistico sperimenta un modo nuovo di fare orazione che non si fonda sui modi ascetici lenti, discorsivi, affaticanti dell'orazione.

Per L., infine, la contemplazione deve avere sempre il primato sull'azione e deve animare, nonché dirigere, ogni attività esterna. Egli addita come modello Gesù Cristo, che " ha impiegato ben trent'anni nella vita contemplativa, consacrandone solo tre o quattro a quella che è un insieme di azione e contemplazione ". Questa sottolineatura costituisce la perenne attualità del L. e del suo insegnamento: dare all'apostolo un'anima di contemplativo perché l'azione non diventi agitazione spossante e vana, disperdendosi in troppe cose secondarie a scapito dell'unum necessarium.

Bibl. Opere: L. Lallemant, La dottrina spirituale, Casale Monferrato (AL)-Milano 1984; Id., La dottrina spirituale, Cinisello Balsamo (MI) 1985. Studi: G. Bottereau, s.v., in DSAM IX, 125-135; P. Bouvier, s.v., in DTC VIII, 2459-2464; P. Dudon, Les leçons d'oraison du P. Lallemant, ont-elles blamées par ses supériores?, in RAM 11 (1930), 396-406; G. Dumeige, s.v., in DES II, 1399-1401; J. Jiménez, En torno a la formación de la " Doctrine spirituelle " del P. Lallemant, in AHSI 32 (1963), 225-292; Id., Precisions biographiques sur le P. Louis Lallemant, in Ibid., 33 (1964), 269-305; Id., Louis Lallemant, estudios sobre su vida y su " Doctrine spirituelle ", Santiago de Chile 1988.

J. Collantes

LANSPERGIO. (inizio)

I. Vita e opere. Nato nel 148890 a Landsberg (da cui il soprannome latino Lanspergius) nell'Alta Baviera, Giovanni Gerecht nel 1509 entrò nella Certosa di Santa Barbara, a Colonia, divenendone nel 1523 vicario ed anche maestro dei novizi. Nel 1530 fu nominato priore della Certosa di Vogelsang ma, a causa del clima malsano, nel 1534 fu costretto a ritornare nella Certosa di Colonia, dove ancora giovane morì santamente l'11 agosto 1539. L'edizione più accessibile degli scritti di L. è quella curata dalla Certosa di Montreuil-sur-Mer nel 1888-1900, in cinque volumi. I primi tre contengono i sermoni, gli ultimi due volumi gli opuscoli spirituali e le lettere di direzione, cioè la parte teologicamente più rilevante della produzione lanspergiana. Tanto nello Speculum christianae perfectionis, quanto nell'Enchiridion christianae militiae, L. esorta ogni fedele (sia religioso che laico) a progredire verso la perfezione della vita cristiana. I due libri degli Alloquia Jesu Christi ad quamvis animam fidelem sono redatti come un discorso rivolto da Gesù stesso all'anima; la terza e la quarta parte del primo libro hanno avuto nei secoli una straordinaria fortuna e sono state spesso pubblicate a parte con il suggestivo titolo: Una lettera di Gesù Cristo. Va ricordata, infine, la Pharetra divini amoris, una ricca raccolta di preghiere e di aspirazioni da usare nelle diverse occasioni per facilitare la vita spirituale: " Ogni anima innamorata di Dio deve sforzarsi di trasformare tutta la sua vita e ogni sua azione in una preghiera continua e costante " (Praefatio).

II. Dottrina. Con una sensibilità teologica eccezionale per il suo tempo, nei suoi scritti L. si mostra un fermo sostenitore della chiamata di ogni uomo alla santità, intesa come intima unione d'amore con Dio. Proprio per illustrare questo principio fondamentale, il figlio di s. Bruno ( 1101), in tutti i suoi opuscoli spirituali (e non meno nelle sue numerose lettere di direzione), si sofferma in modo analitico ad indicare la maniera attraverso cui " ogni cristiano possa pervenire più facilmente alla vera pace, all'autentica purezza di cuore, alla riconciliazione e all'unione con Dio nella carità, poiché per questa unione siamo stati creati e ad essa siamo chiamati " (Speculum, t. 4, p. 249). Nella linea tipicamente certosina, già illustrata da s. Bruno, Guigo di Saint-Romain ( 1136), Guigo du Pont ( 1297), Ugo di Balma, Margherita d'Oingt, Ludolfo di Sassonia ( 1377), Domenico di Prussia ( 1460), Dionigi di Ryckel ( 1471), come pure secondo le indicazioni dei grandi mistici renani e fiamminghi, L. finalizza l'impegno ascetico ad una reale esperienza mistica: è necessario intraprendere un radicale cammino di purificazione interiore; si tratta di diventare sempre più puro spazio per Dio, nella più totale disponibilità alla infinita effusione d'amore divino, lucidamente pronti a lasciarsi avvolgere dall'abbraccio della somma Bontà. Nella prefazione della Pharetra, L. dichiara che occorre acquistare " la purezza del cuore, morire a se stessi e ad ogni amore disordinato sia verso di sé, sia verso le creature; si deve uscire da se stessi, dimenticarsi e sottomettersi con cuore indiviso a Dio e agli uomini per amore di Dio ". Più esplicitamente: " Dobbiamo cercare con ogni sforzo di acquistare la purezza del cuore con la quale siamo messi in grado di accogliere in noi l'irradiazione della grazia divina, diveniamo capaci di fissare stabilmente in Dio il nostro amore e di vivere il dono totale di sé nella perfetta abnegazione. Questa abnegazione totale (...) è la chiave con la quale sempre viene aperta all'uomo la porta per entrare in Dio e a Dio per entrare nell'uomo ". La stessa solitudine e il silenzio, così tipici della vita certosina, acquistano infatti il loro vero senso solo nella dimensione dell'intima unione d'amore con Dio. Le quaranta regole di vita spirituale presentate nella Lettera non costituiscono, dunque, che una riproposizione analitica di quella logica dell'amore ordinato (caratteristica dello spirito della Certosa) che, nel riconoscere a Dio il supremo valore, finisce al tempo stesso con l'individuare nell'umanità e nella sua drammatica storia ciò che Dio teneramente ama e ciò per cui, perfino, soffre. Ben a ragione, la logica insegnata e, prima ancora, praticata dal Cristo, nella prospettiva religiosa di L. può essere riassunta dalle tre seguenti puntualizzazioni: a. Dio solo; b. Dio, al di sopra di tutti e di tutto; c. tutti e tutto in Dio e per Dio. In realtà, si tratta di praticare quotidianamente (dentro e fuori la Certosa) una sorta di circolarità dei doni divini lasciando così a Dio stesso la libertà, ma anche la gioia di amare ogni uomo attraverso tutti gli uomini: se è vero che dopo l'Incarnazione, la passione e la morte del Cristo non si può amare Dio senza amare ogni uomo, è altrettanto vero che, nell'orizzonte di un'autentica purezza di cuore, non si può amare ogni altro uomo senza amare Dio " pienamente, fedelmente e instancabilmente ". Ogni uomo, secondo L., dovrebbe accogliere e generosamente comunicare a chiunque gli è prossimo l'ardente invito avanzato da Gesù Cristo nella Lettera: " Con un cuore perfettamente semplice e nudo, aderisci a me e offriti a me perché io ti possegga; resta con me in quell'unico istante che forma la mia eternità, dove non vi è né passato né futuro ".

Bibl. Opere: D. Joannis Justi Lanspergii Cartusiani, Opera omnia in quinque tomos distributa juxta exemplar coloniense anni 1693, editio nova et emendata, Typis Cartusiae Sanctae Mariae de Pratis, Monsterolii 1888-1890; Giovanni di Landsberg, Una lettera di Gesù Cristo, Roma 1990. Studi: Aa.Vv., Un itinerario di contemplazione. Antologia di autori certosini, Cinisello Balsamo (MI) 1986; G. Gioia, La divina filosofia. La Certosa e l'amore di Dio, Cinisello Balsamo (MI) 1994, 434-476; H. Rossmann, s.v., in DSAM IX, 230-238.

G. Gioia

LAREDO BERNARDINO DI. (inizio)

I. Cenni biografici. B. nasce a Siviglia nel 1482 da famiglia nobile. Passa la giovinezza, come paggio, al servizio del conte di Gelves, poi, spinto dal desiderio di perfezione, a ventotto anni entra tra i Frati Minori e vuole rimanere fratello laico. E già dottore in medicina ed esercita quest'ufficio con grande carità nella sua provincia francescana di Los Angeles. Diventa medico del re D. Juan III di Portogallo ( 1557) e scrive due trattati di medicina: Metaphora medicinae e Modus faciendi cum ordine medicandi. Muore a Siviglia nel 1540.

II. Opere e dottrina mistica. Il nome di B. è legato a un'opera di teologia mistica, la Subida del Monte Sión (Salita del Monte Sion), pubblicata a Siviglia nel 1535, poi, in edizione riveduta e rinnovata, nel 1538. Secondo l'autore, per Monte Sion " s'intendono diverse cose, tutte però in riferimento alla contemplazione o speculazione ", contemplazione che, secondo la dottrina di Riccardo di s. Vittore, in senso stretto si ha quando " le anime s'innalzano nell'amore del nostro Dio e Signore, puramente e assolutamente, senza alcuna confusione o annebbiamento o oscurità o specchio di qualsiasi creatura, specialmente di quelle inferiori all'anima razionale, mentre piuttosto l'anima assolutamente, puramente e momentaneamente si acquieta in Dio per puro e nudo amore " (P.3, c.1).

La Salita del Monte Sion si divide in tre parti, corrispondenti, come si dice nella seconda edizione (P.3, c.1), alle tre vie, purgativa, illuminativa, unitiva, precisando: " E così che la prima (parte) è come via purgativa e la seconda corrisponde alla via illuminativa, in modo che attraverso queste due vie diciamo che l'anima sale alla via unitiva. E poiché l'unione o comunione dell'anima con Dio deve avvenire per legame d'amore, sembrò cosa molto opportuna cambiare questo terzo libro in insegnamenti più amorosi; per questo, come le due parti precedenti sono in sintonia col titolo Salita del Monte Sion, per il fatto che si va salendo, come è stato detto, purificando l'anima e illuminando lo spirito, così questa terza parte non significa salire, ma essere saliti e stare già in alto nella quieta contemplazione, mediante la comunione d'amore che si chiama via unitiva. Perciò questa terza parte, per sé, potrebbe intitolarsi La vetta (cumbre) del Monte Sion ".

Più specificamente, la prima parte tratta del rinnegamento (aniquilación) di se stessi e di varie virtù ed esercizi ascetici. La seconda parte, invece, " tratta degli altissimi misteri dell'umanità di Cristo, nel nome di Gesù ", dall'Incarnazione alla passione, morte e risurrezione, dando largo spazio anche alla meditazione del mistero di Maria.

È naturalmente la terza parte, quella che affronta i problemi della contemplazione, della vita mistica, della perfezione. Ne riportiamo qualche brano più significativo. Sulla natura della contemplazione dice: " In questa terza parte, essa va intesa come il trovarsi già improvvisamente sulla vetta o altura del monte e lo stare tranquilli e l'acquietarsi dell'anima nel silenzio nascosto e, tacendo, vigilare e godere di quello che Cristo per sua misericordia suole dare all'anima nella sua stretta solitudine, nel segreto silenzio... E certo ben chiaro che qui si debba intendere non il silenzio di parole, ma piutosto il tacere dell'intelligenza, la serenità della memoria e la quiete della volontà, senza ammettere in quel momento né il minimo pensiero di qualsiasi cosa, né altra cosa che s'intenda possedersi, né alcuna operazione, se non la sola operazione affettiva occupata nell'amore, perché non sarebbe perfetta solitudine, se qualcosa si agitasse nell'anima " (c.8).

È molto bella la motivazione del non pensare a nulla: " Quando possiedo solo Dio, possiedo in lui tutto ciò che c'è da possedere, e quando possiedo in lui tutte le cose che ha creato, non possiedo di più di quando lo possedessi solo. Che significa questo? Certo, veramente in presenza del nostro Dio e Signore, tutto il creato è nulla. Siccome l'anima, con l'amore unitivo, nella contemplazione quieta è occupata col suo Dio, si dirà con verità che non deve pensare a nulla, perché in questo pensare a nulla, possiede quanto c'è da pensare " (c.5).

In poche parole, " la quieta contemplazione comprende col contatto (tocando) e non penetra con l'intelligenza (entendiendo) perché l'oggetto della sua santissima operazione è incomprensibile " (c.5).

La Subida del L. " è una delle chiavi indispensabili per comprendere la mistica spagnola " (S. Rodríguez) ed era uno dei libri di cui si serviva Teresa d'Avila. La sua lettura anzi la tirò fuori da una grave perplessità, come narra lei stessa: " Consultando dei libri, per vedere se con essi mi fosse dato di spiegare l'orazione che avevo, in uno intitolato La Salita del Monte Sion trovai, nel luogo dove parla dell'unione dell'anima con Dio, tutti i segni che provavo in me quando in quell'orazione non potevo pensare a nulla ".1

A B. si deve pure la Josephina, un opuscolo pubblicato in appendice alla Subida, che tratta della devozione a s. Giuseppe di cui esalta la grandezza.

Note: 1 Vita XXIII, 12.

Bibl. Opere: Subida del Monte Sion, in Misticos Franciscanos españoles, ed. a cura di G.B. Gomis, t. 2, Madrid 1948, 25-442. Studi: J. Aramendia, Las oraciones afectivas y los grandes maestros espirituales de nuestro siglo de oro. La escuela franciscana. V.ble Bernardino de Laredo, in El Monte Carmelo, 36 (1935), 387-395, 435-442; B. Foronda, Fray Bernardino de Laredo, OFM, su vida, sus escritos y su doctrina teológica ascético-mistica, in Archivio Ibero-Americano, 33 (1930), 213-350, 497-516; E. Pacho, s.v., in DES II, 1402-1403; R. Ricard, s.v., in DSAM IX, 277-281; Id., Estudios de literatura religiosa española, Madrid 1964; F. de Ros, Un inspirateur de Sainte Thérèse, le Frère Bernardin de Laredo, Paris 1948.

U. Occhialini

LAVORO. (inizio)

Premessa. Il mondo del l., segnato da una particolare complessità (sviluppo tecnico e scientifico, specializzazione e concorrenza a volte spietata, disoccupazione e insorgenza di un nuovo proletariato intellettuale...), si presenta spesso non soltanto come fonte di promozione e di sviluppo, ma come alienazione, sfruttamento, occasione di lotta e di emarginazione. In questa tessitura il tema di una mistica del l., cioè il l. come luogo e spazio per l'incontro personale dell'uomo con Dio, sembra non soltanto problematico, ma una vera utopia.

I. Nella Scrittura. La Bibbia non considera il l. in sé, ma nell'ambito più vasto della vita dell'uomo. Fin dai primi capitoli della Genesi, il l. costituisce una dimensione essenziale dell'esistenza e una benedizione di Dio (1,28); la destinazione al l. fa parte dei doni paradisiaci ed è un aspetto dell'iniziativa creatrice di Dio (2,15). Il l. si presenta come partecipazione alla stessa attività divina: il Dio creatore è un Dio che lavora e si riposa (1-2,4). Il peccato offusca il senso originario del l.; la fatica e la sterilità sono espressioni del castigo divino (3,17-19; 3,23-24). Il l. diventa occasione di affermazione dell'uomo in contrasto con Dio (11,1-9) e di lotta fra gli uomini (4,11). Questa visione negativa del l. si riscontra in ogni periodo della storia di Israele (cf Es 1,8-14; 2 Sam 12,31; Qo 2,22-23). Tuttavia, il l. è visto anche nella sua dimensione positiva originaria come prolungamento della creazione divina (cf Sal 104,14-15; Sap 9,2-3). Il l. realizzato al servizio di Dio è ammirato ed esaltato (cf Gn 6,13-16; Es 35,4-39,42; 1 Re 5,16-7,51). Dio stesso ha lavorato nella creazione (cf Prv 8,22-31). Il NT non presenta una trattazione specifica sul l. ma offre degli spunti significativi. Gesù di Nazaret non è soltanto " carpentiere " e " figlio del carpentiere " (Mc 6,3; Mt 13,55). Egli ha lavorato mediante la sua predicazione, i suoi miracoli, la sua passione e morte, tramite tutte le opere per il nostro riscatto. L'operare di Gesù è l'operare di Dio Padre (cf Gv 5,17). Inoltre, egli insegna il modo di lavorare: come figli nella casa del Padre, guidati dalla sua cura provvidente (cf Mt 6,31-32), consapevoli del giusto valore delle cose di questo mondo (cf Gv 6,27), al servizio dei fratelli (cf Mc 10,45). Per Paolo il l. è un valore da realizzare al servizio del proprio e altrui sostegno e mezzo per esercitare la carità (cf 2 Ts 3,10-12; At 20,33-35). Il cristiano non deve rendersi schiavo dei beni creati né delle opere delle sue mani; tramite il l. è chiamato ad elevare se stesso e tutte le creature, rendendole partecipi della libertà dei figli di Dio (cf Rm 8,19).

II. Nella storia. Il monachesimo ha visto nel l. uno strumento fondamentale di crescita spirituale; tuttavia, il l. non deve esaurire le forze né fisiche né spirituali e deve favorire la preghiera. Tanto in Oriente come in Occidente l'idea che il l. conduca all'ascesi e la sorregga, è chiara e diffusa.

Il Magistero della Chiesa ha rivolto, negli ultimi decenni, una particolare attenzione alla teologia e alla spiritualità del l., oltre che alla sua dimensione morale e ha difeso la dignità del l. quale espressione della persona umana. Il Concilio Vaticano II scorge nel l. umano, dal più rilevante ed impegnativo (politica, economia, professioni liberali...) fino al più semplice e umile, una partecipazione all'opera creatrice e redentrice di Cristo, inserendolo pienamente nell'orizzonte della salvezza individuale e storica (cf GS 35; 36; 67; 76).

Sulla stessa linea, Giovanni Paolo II considera il l. nella sua capacità di sviluppare tutto l'uomo e tutti gli uomini; di renderli solidali e capaci di rispondere alla chiamata trascendente di Dio. Nella misura in cui il l. instaura una società più umana, contribuisce non solo al progresso temporale, ma all'unione degli uomini con Dio e fra di loro (LE 27). Il CCC sintetizza gli stessi principi, sottolineando la sua capacità di " animazione delle realtà terrene nello Spirito di Cristo " (n. 2427).

La teologia contemporanea ha dato particolare rilievo alla dimensione umana e cristiana del l. (M.D. Chénu, Y. Congar, H. de Lubac, G. Thils) e all'esigenza d'impegno concreto per modificare le strutture che mortificano la dignità dell'uomo. Non mancano, tuttavia, correnti di pensiero che dopo il Vaticano II esprimono le loro riserve nei confronti dell'uomo come dominatore della natura, che mettono in luce l'esigenza di un rapporto gratuito con essa e che vogliono ricuperare un'immagine di Dio che invita l'uomo non soltanto a lavorare, ma a condividere il suo riposo.

Conclusione. Il l. umano si presenta al cristiano come una delle sue grandi sfide e una delle vie fondamentali per entrare in intima e misteriosa comunione con Dio. Liberato dalla schiavitù del peccato e animato dallo Spirito, l'uomo deve vivere fino in fondo la sua condizione di figlio di Dio e trasformare profondamente il mondo del l., le sue condizioni, strutture, leggi. Malgrado la fatica e l'apparente sterilità del suo l., frutto del peccato, egli deve riscoprire il creato come la casa del Padre, quindi dei figli, per coltivarlo e usufruirne in dialogo con Dio e al servizio dei fratelli. Sulla scia della spiritualità benedettina, deve " costruire la terra guardando il cielo e giungere al cielo, costruendo la terra " (L.M. Etcheverry Boneo). Assoggettando le creature per amore al Padre e ai fratelli, l'uomo è chiamato ad inserirsi, già nel tempo, nel dinamismo trinitario nel quale il Verbo dona eternamente al Padre tutta la vita da lui ricevuta. Tramite il suo l., l'uomo animato dallo Spirito deve imprimere il suo soffio, il suo ordine e la sua vita nel mondo, restituendo con Cristo al Padre la terra, se stesso, i rapporti umani, tutte le realtà terrene, trasfigurate. Così, l'uomo diventa partecipe non soltanto del mistero della creazione e della redenzione, ma della stessa vita intima delle Persone divine.

Bibl. Aa.Vv., Spiritualità del lavoro nella catechesi dei Padri del III-IV secolo. Convegno di studio e aggiornamento, Roma 15-17 marzo 1985, Roma 1986; Aa.Vv., Lavoro e riposo nella Bibbia, Napoli 1987; L.B. Archideo, Visión cristiana del mundo y educación, Buenos Aires 1972; A. Bonora, s.v., in NDTB, 776-788; M.D. Chénu, Per una teologia del lavoro, Torino 1967; J. Escrivá, Il lavoro rende santi, Cinisello Balsamo (MI) 1997; P. Lamarche - A. Quacquarelli - P. Vallin, s.v., in DSAM XV, 1186-1250; G. Thils, Teologia delle realtà terrene, Alba (CN) 1968; V. Truhlar, Il lavoro cristiano. Per una teologia del lavoro, Roma 1966.

E.C. Rava

LECTIO DIVINA. (inizio)

Premessa. La l. ripropone quel metodo di vita spirituale, che nella DV (n.1) del Concilio Vaticano II trova un forte richiamo al primato dell'ascolto della Parola di Dio. In religioso ascolto della Parola di Dio proclamandola con ferma fiducia, il sacro Concilio aderisce alle parole di s. Giovanni, il quale dice: " Vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo " (1 Gv 1,2-3).

Una seconda affermazione del Concilio (cf DV 8) esprime come la Chiesa, nel suo mistero e nella sua stessa istituzione, sia profondamente connessa alla l.: sa di trovare nell'ascolto la legge della sua crescita nella storia. " Questa tradizione, che trae origine dagli apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito Santo: infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cf Lc 2,19 e 51), sia con la profonda intelligenza che essi provano delle cose spirituali, sia con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità. La Chiesa, cioè, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio ".

Infine, la DV afferma la presenza dello Spirito nelle Scritture che ieri come oggi dovrà guidare il credente. Ma la Sacra Scrittura dev'essere letta e interpretata con lo stesso spirito con cui fu scritta (cf DV 12) per concludere con l'affermazione della condiscendenza della eterna Provvidenza (cf DV 13).

Questo insegnamento del Concilio, che ripropone urgentemente l'uscita dal secolare " esilio delle Scritture ", segna il ritorno della Scrittura nelle mani del popolo di Dio, come libro della fede, che nutre la speranza ed è generata dalla carità!

I. La tradizione dei Padri sino al sec. XIII si trova compendiata in queste affermazioni: la l. si propone come il metodo per eccellenza della spiritualità ecclesiale nell'ascolto della tradizione profetica del popolo di Dio che, soprattutto dall'esilio in poi, vi troverà la sua offerta profetica del proprio cammino di fede nella storia. Gesù innesta il suo manifesto messianico in questo contesto (cf Lc 4,16-19) di l. Ma questa non conduce l'esperienza cristiana a una religione del Libro sacro; il cristianesimo nella eredità migliore profetica del primo Testamento, si propone come fede nell'alleanza che Dio stipula con gli uomini e le donne di tutti i tempi, di ogni razza e cultura, attraverso la pedagogia profetica di Israele, in cui s'innesta Gesù con la sua offerta messianica come compimento della Parola con la sua kenosi e la sua pasqua. La Chiesa peregrinante per il regno, dove ogni uomo e donna giungessero alla visione del Padre, nel perfezionamento dell'amore a Gesù conclude, quindi, la sua missione messianica aprendo la mente dei suoi discepoli alla " intelligenza delle Scritture ". Ed è nella perseveranza di questi ammaestramenti che " il cuore dei discepoli " ardeva nel petto mentre Gesù conversava con loro in quel misterioso cammino pasquale verso Emmaus (cf Lc 24,13-35).

I Padri poterono così parlare di una l. quadripartita espressa nella l. delle Scritture e che continuava nella l. dei Padri; quindi nella l. della natura e del creato. Infine, la l. si proponeva come l. della Parola accolta nella coscienza che giunge come risposta concreta all'accoglienza della Parola. Il primo gradino, dunque, della l. si propone con la l. dell'AT e del NT. La liturgia della Chiesa è il luogo teologico per eccellenza di questo primo gradino, in cui la l. diventa celebrazione dell'evento pasquale della morte, risurrezione e del dono dello Spirito Santo ai credenti (cf At 1).

S. Gregorio Magno, vissuto al termine della grande tradizione patristica, alla fine dell'impero di Roma, nell'incontro con i nuovi popoli si presentava come testimone qualificato della tradizione precedente aperto al nuovo della storia. La sua catechesi su Giobbe, su Ezechiele, sui Vangeli era carica di espressioni spirituali che garantivano la l. " Quanto abbiamo meditato su Giobbe, crediamo che si attui in ogni membro della Chiesa. La verità di un fatto già adempiuto non dovrà farci perdere di vista ciò che rimane ancora da compiersi ".1

Gregorio poteva così parlare della Scrittura che cresce con il lettore.2 Tutta la letteratura cristiana antica giunge perciò come un commentario alle Scritture, con la legge del senso plurimo: senso letterale e spirituale, studiato in modo esauriente da H. de Lubac.3

La DV al n. 16 accoglie come sintesi teologica quanto la tradizione della Chiesa propone sulla l. dei due Testamenti. " Dio dunque è ispiratore e autore dei libri dell'uno e dell'altro Testamento. Egli ha sapientemente disposto che il NT fosse nascosto nell'Antico e l'Antico diventasse chiaro nel Nuovo. Infatti, anche se Cristo ha fondato la nuova alleanza nel sangue suo, tuttavia i libri dell'AT, integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato nel NT e a loro volta la illuminano e la spiegano ".

Alla Scrittura la tradizione aggiungeva i Padri della Chiesa. Ma sullo sviluppo dinamico della Parola, come espresso da Gregorio Magno, possiamo includere quella letteratura, eco della proposta biblica, che rende attuale la Parola delle Scritture. Agostino poteva così dire che la carità è il criterio ermeneutico permanente della l.

II. La l. oltre la Scrittura. La tradizione della l. conduceva perciò alla natura. Il mondo visibile diveniva libro aperto per salire a Dio e da Dio discendere alla storia dell'uomo! La dottrina trinitaria, l'esemplificazione divina delle cose, illumina la mente del credente a vedere dovunque l'immagine del Signore. Un papa, Giovanni XXIII, allargava il quadro della Parola di Dio alla lettura dei segni dei tempi.

Infine, il libro della coscienza o del cuore. E nella coscienza che si compie e si percepisce l'adempimento della Parola. A questo punto presentiamo la riflessione di Tommaso d'Aquino come pagina conclusiva della riflessione sulla l. La " missione ", operazione trinitaria nella storia, conviene a quel " modo nuovo " con cui la Persona divina si dice inviata alla creatura. C'è un modo comune con cui Dio è presente in tutte le cose per la sua essenza, presenza e potenza, come la causa è presente nei suoi effetti e partecipa la sua bontà in essi. Ma sopra questo modo comune, esiste un modo speciale che conviene alla creatura razionale, per cui Dio è presente come l'idea è impressa nella nostra mente, ma soprattutto come l'amato è presente nell'amante. Il latino di Tommaso è di una rara efficacia: " Super istum modum autem communem, est unus specialis, qui convenit creaturae rationali, in qua Deus dicitur esse, sicut cognitum in cognoscente et amatum in amante ". La creatura razionale con il suo operare, conoscendo e amando, raggiunge lo stesso Dio. Questo modo speciale non solo si esprime col dire che Dio è nella creatura ragionevole, ma che Dio abita in essa come nel suo tempio.

" ...Quo libere possumus uti vel frui Divina Persona ".4 Tommaso suppone l'insegnamento di Gesù: Gv 14,23: " Se uno mi ama, osserverà la mia Parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui ". A questo punto la l. si apre alla costante lectio profetica delle Scritture, che i Padri ci hanno tramandato con la legge del " senso spirituale delle Scritture " che segue l'attualità profetica della Parola " oggi "!

L'esperienza mistica, come sviluppo della fede nel mistero pasquale, apre orizzonti sconfinati alla l. sempre nuovi! Agostino poteva perciò affermare la provvisorietà delle stesse Scritture nella maturità della fede, della speranza e della carità.

Note: 1 Mor. XXXV, 20: PL 76,779D; 2 Hom. in Ez., Lib. II, 4: PL 76, 980, I; 3 Storia e Spirito, Roma 1971 e in Esegesi medievale, Roma 1962; 4 STh I, q. 43, a. 3.

Bibl. Aa.Vv., Ascolto della parola e preghiera. La " lectio divina ", Città del Vaticano 1987; B. Baroffio, La mistica della Parola, in La Mistica II, 31-46; E. Bianchi, Pregare la Parola. Introduzione alla " lectio divina ", Torino 1974; Id., Dall'ascolto della Parola alla predicazione. Traccia per la " lectio divina ", Magnano (BI) 1983; G. Giurisato, Lectio divina oggi, Bresseo di Teolo (PD) 1987; J. Leclercq, s.v., in DIP V, 562-566; M. Magrassi, s.v., in DES II, 1411-1414; M. Masini, La " Lectio divina ". Teologia, spiritualità, metodo, Cinisello Balsamo (MI) 1996; J. Rousse, s.v., in DSAM IX, 470-487.

B. Calati

LEGGE NUOVA EVANGELICA. (inizio)

I. Gesù Cristo, l. L'uomo, giacché creato a immagine e somiglianza di Dio tutto amore comunicante (cf Gv 1,26), è costitutivamente fatto di relazione-comunione con Dio e con i fratelli. Nel convivere con Dio e con gli altri sta la sua nobile grandezza. E poiché l'immagine di Dio invisibile " in noi non è altro che il volto del Cristo " (Col 1,15), è nel Signore Gesù che si trova l'autentica indicazione di come stare in relazione e comunione con Dio e con i fratelli, cioè come figli nel Figlio di Dio. " Solo nel mistero di Cristo trova risposta il mistero dell'uomo! " (Giovanni Paolo II). Cristo " è la nostra l. " (Rm 10,4). Quale il modo di vivere in comunione d'intimità con Dio e con gli altri che Gesù Cristo viene indicando? Il Signore Gesù offre il suo vissuto, che è eminentemente caritativo pasquale. " Il comandamento di Dio è questo ": guardare con fede a Dio in Gesù Cristo e amarsi " come Cristo ci ha amati " e si è sacrificato per noi (cf 1 Gv 3,23). Uniformandosi al vissuto caritativo pasquale di Gesù, il cristiano verrà generato figlio nel Figlio di Dio Padre. Gesù, principio di carità pasquale, è l. non solo per tutti gli uomini ma per l'universo intero, anche se ogni creatura si adegua a lui, l., secondo le proprie innate possibilità. Il Verbo, assumendo la carne umana e introducendola nell'esperienza caritativa pasquale, ha scolpito in essa il disegno divino che regge tutto l'universo. La carne umana, che sta in uno stato infimo fra gli esseri creati, è stata elevata nel Verbo incarnato come norma a cui tutte le creature soggiacciono (cf Fil 2,7-8), perfino gli angeli (cf Eb 1,6). " Il mistero di Dio in Cristo si compie in un mistero profondo. La natura umana è stata innalzata così al di sopra di tutte le creature che l'uomo - che era tanto in basso da non poter discendere di più - è stato elevato a sede così elevata che non potrebbe ascendere più in alto " (Giovanni Crisostomo).

II. Cristo è l. comunicata dallo Spirito Santo. In che modo ci viene comunicata la l. costituita dal vissuto caritativo pasquale di Cristo? Essa viene comunicata in dono dallo Spirito Santo (cf 1 Gv 1,57). La l. data da Dio in Cristo si distingue da tutte le altre leggi per il suo contenuto più elevato e perché " scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra ma sulle tavole di carne dei vostri cuori " (2 Cor 3,3). Essa si svela, dunque, come comunicazione dello Spirito Santo. Perché lo Spirito Santo ci comunica Cristo come l.? Lo Spirito non conosce che Cristo in Dio. La grazia che egli dona è partecipazione alla carità pasquale di Cristo, ossia il contenuto essenziale della l. Tale grazia conduce l'uomo a essere trasformato in Cristo, a rendersi uno con il Signore Gesù come questi è uno con il Padre, ad amare come Gesù ha amato fino a sacrificarsi per il Padre e per noi sulla croce. " Mediante lo Spirito siamo chiamati a diventare uomini nuovi in Cristo "; 1 a testimoniare l'esistenza nostra come dono agli altri.2 S. Giustino ( 165) nel Dialogo con Trifone 3 spiega come il Cristo sia il nostro pedagogo: " Per l. ultima e definitiva e patto fedele fu dato a noi Cristo... dalle sue opere e dalla sua potenza è concesso a tutti di scorgere che egli è la l. e il nuovo patto nonché l'attesa di quelli che fra le genti tutte aspettano i beni di Dio ". La l., donata dallo Spirito, non deve scoraggiare come se fosse irrealizzabile. Essa, per sua natura, oltre a istruire nell'intimo dei cuori, orienta ad attuare con spontaneità quanto prescrive.4 Gesù ha un solo desiderio verso l'umanità: vivere nell'intimo di ogni uomo il suo amore.

III. Cristo, legge spirituale mistica. Al dire di s. Gregorio di Nissa, l'amore generante di Dio Padre, presente in Cristo, viene comunicato dallo Spirito all'anima in forma sempre crescente fino a risvegliare un'intimità caritativa mistica.5 Giungendo a questa perfezione, la carità non si raccoglie esclusivamente nell'intimo dell'uomo (cf 1 Gv 1,1), ma permea e trasforma tutto l'essere personale, reso per questo altamente pneumatoforo; si propone come luce che schiarisce ogni verità da credere; vivifica secondo carità le molteplici azioni personali; rinnova l'intimità con Cristo nella recezione dei sacramenti. In che modo la l. introduce all'-esperienza mistica? Se la l. antica si formulava come un dettato etico imposto dall'esterno, la l. è unicamente protesa come moto interiore a far vivere entro l'amore di Cristo. Il Cristo, essendo come l. tutto amore nello Spirito, vuole ricondurre dai molti precetti all'unico comandamento dell'amore verso Dio e il prossimo (cf Mc 3,4; 10,44). Da questo comandamento " dipende tutta la legge e i profeti " (Mt 22,40; Gv 13,34; Gal 5,14); è l'unica via percorribile per unirsi in modo ineffabile al Signore; è la sorgente dell'autentica esperienza mistica.

Note: 1 S. Agostino, Com. in Jo. 65,1; 2 S. Tommaso, In 2 Cor, c. 3, lect. 1 e 2; 3 S. Giustino, Dialogo con Trifone, XI, 2 e 4; 4 STh I-II, 107, q. 1, ad 3; 5 S. Gregorio Nisseno, Cant. Hom. XIII, 1024 CD.

Bibl. Aa.Vv., Legge e Vangelo. Discussioni su una legge fondamentale della Chiesa, Brescia 1972; K. Barth, Evangelium und Gesetz, Münich 1935; Y. Congar, Variations sur le théme Loi-Grâce, in RevThom 71 (1971), 420-443; I. De la Potterie - S. Lyonnet, La vita secondo lo spirito, Roma 1967; C.H. Dodd, Evangelo e legge, Brescia 1968; W. Gutbrod, Nómos, in GLNT VII, 1274-1401; R. Schnackenburg, Il messaggio morale del Nuovo Testamento, Brescia 1992; J. Tonneau, La loi nouvelle, Paris 1981; A. Valsecchi, La " legge nuova " del cristiano secondo S. Tommaso d'Aquino, Varese 1963.

T. Goffi

LEONARDO DA PORTO MAURIZIO (santo). (inizio)

I. Vita e opere. Nasce ad Imperia (Porto Maurizio), il 20 dicembre 1676. Veste l'abito dei frati minori il 2 ottobre 1697 in S. Maria delle Grazie di Ponticelli (RI). Ordinato sacerdote il 23 settembre 1702, ben presto è colpito dalla tubercolosi. Dal 1708 alla morte predica quasi ininterrottamente in gran parte d'Italia. Muore il 25 novembre 1751. E canonizzato il 29 giugno 1867; nel 1923 Pio XI lo nomina patrono dei missionari.

La mistica di L. si propone all'osservatore tramite il filtro del suo magistero, secondo anche i criteri dell'exemplum del predicatore, ossia del racconto morale che, eredità del Medioevo, conosce un revival proprio nel Seicento e nel Settecento.

Cos'è per lui la fede? E l'ubi consistam. Il suo sistema privilegiato si svolge per interrogazione. Esempi: se al mondo non vi fosse il sole che sarebbe mai del mondo? E dove troveremo noi un'offerta degna del nostro Creatore? Questo perché, soprattutto in Francia, polo eletto dell'attenzione clericale, si teme a quel tempo una ripresa del protestantesimo. Di conseguenza, mille e mille parole egli diffonde a proposito dell'artificio, tridentino, della Missa Sponsa Christi.

L'avarizia, la questua, la crisi delle coscienze sono compendiate nell'immagine, vera e propria figura retorica, del purgatorio e del suo culto. E spesso L. fa riferimento, a proposito del culto del purgatorio, ai primi predicatori di questo tra cui s. Girolamo. Contro le suggestioni luterane, L. scrive il Metodo breve e divoto per ascoltare con frutto la santa Messa. Sul piano didascalico egli riprende la tradizione di s. Gregorio Magno del sacerdos quale consul Dei.

Tra le sue opere ricordiamo le principali, quelle pubblicate da lui stesso: Manuale sacro (Roma 1734); Discorso mistico morale (Roma 1737); tra le opere scritte per uso personale e pubblicate dopo la sua morte ricordiamo: Esercizi spirituali; Proponimenti; Lettere (circa 450).

II. Esperienza mistica. Le donne sono le custodi in senso assoluto, per antonomasia, della vita spirituale. Rivive così nei discorsi il culto delle grandi mistiche del passato: Chiara da Montefalco come Caterina da Siena. Ma ciò che conta non è la cateriniana " cella della mente " quanto l'ammissione del proprio " meschinissimo niente " dinanzi all'appello del Signore. L. raccomanda " sprofondatevi col pensiero nel vostro nulla ": affiora così una sfumatura esistenzialista che potrebbe indurre ad una lettura jaspersiana.

Il santo d'Imperia, da buon parroco, icasticizza l'isteria femminile. Lo fa a proposito della nobile fiamminga Ivetta ( 1228), che durante la Messa, immaginava impudichi affetti recitati da una gran dama.

E il predicatore? Scrive lettere e non solo prediche. Assiste più volte i moribondi e predica la gradualità delle penitenze. E, secondo l'ortodossia cattolica, sensibile così al latente revival del protestantesimo nella Francia prerivoluzionaria. Concentrato unicamente nell'idea della propria coscienza in virtù della fede di Dio, L. cammina sovente fuori di sé e, balordo, urta spesso gravemente nei sassi o si trova immerso in fanghi e in pantani. Per umiltà porta su una gamba una grossa ferita che può contenere una pagnotta di grano.

Esempio di mistica apostolica, sa coniugare la sua vita interiore con la più grande attività apostolica. Difatti in una lettera ad un suo confratello scrive: " La mia vocazione sono la missione e la solitudine; la missione stando sempre occupato per Iddio e la solitudine stando sempre occupato in Dio ". Del resto i suoi Proponimenti, il cui scopo è tenersi " sempre occupato in amare la somma bontà di Dio " (n.11), sono un vero e proprio Vademecum di sublime perfezione cristiana.

Bibl. Opere: Collezione completa delle opere del b. Leonardo da Porto Maurizio, 13 voll., Roma 1853-1854; Prediche e lettere inedite, a cura di B. Innocenti, Roma 1915; Prediche delle missioni con l'aggiunta di necrologie e documenti inediti, a cura di B. Innocenti, Arezzo 1929. Studi: Aa.Vv., Studi francescani, 1-4 (1952) numero speciale per il centenario della morte; R. Colombo, Il linguaggio missionario nel Settecento italiano. Intorno al " Diario delle missioni " di san Leonardo da Porto Maurizio, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 20 (1984), 369-428; S. Gori, s.v., in DES II, 1423-1424; Id., s.v., in BS VII, 1208-1221; F.M. Pacheco, S. Leonardi a Portu Mauritio doctrina de caritate, Roma 1963; C. Pohlmann, s.v., in DSAM IX, 646-649; R. Sbardella, s.v., in DIP V, 589-593; L. Vagaggini, Altre lettere inedite di san Leonardo da Porto Maurizio, in Divus Thomas, 82 (1979), 157-166.

M. Baldassarre

LE SAUX HENRI - ABHISHIKTANANDA. (inizio)

I. Vita e opere. Nasce a Brieux (Francia) il 30 agosto 1910. Nel 1929 entra nell'Abbazia benedettina di Kergonan, in Bretagna. Tormentato già da parecchi anni dal desiderio di una vita profondamente contemplativa, entusiasta di ciò che ha letto delle mistiche indiane e in corrispondenza con l'abate Monchanin, nel 1948 parte per l'India e raggiunge l'ashram di Saccidânanda, regione dei Tamuls. Alla morte dell'abate Monchanin, nel 1957, sceglie la vita di eremita itinerante. All'epoca della sua iniziazione monastica indù aveva preso il nome di Schwami Abhishiktânanda. Dopo aver subito un infarto, muore di cancro il 7 dicembre 1973. Malgrado i suoi numerosi scritti, undici libri e vari articoli, in uno stile talvolta difficile, egli non gode di larga fama. Tuttavia, vari articoli e libri hanno parlato di lui.1

II. Esperienza spirituale. Non si può quasi mai separare lo studio di un uomo dal suo pensiero: qui si parlerà del suo pensiero interiore e della sua esperienza mistica.

L. non solo vuole consacrarsi ad una ricerca intensa dell'incontro con Dio come di colui che è il Presente, ma è anche il profeta dell'incontro tra il cristianesimo e l'induismo. Anche se alcuni indianisti pensano che L. non abbia scrutato con abbastanza profondità i meandri del pensiero indiano,2 è nella lealtà e nella preoccupazione inquieta di incontrare l'induismo che il Padre andrà incontro a momenti oscuri in cui, talvolta, sentirà vacillare la sua fede. La pratica, forse imprudente, ma che egli considera indispensabile al dialogo, di porre tra parentesi le sue convinzioni religiose (Epoché), provoca in lui gravi crisi di cui si potrebbe contestare l'utilità: " E nella misura in cui si ha un'esperienza cristiana che non si mette tra parentesi, che si può raggiungere l'esperienza del non cristiano ".3 Soprattutto dopo il Vaticano II, egli diventa l'apostolo dell'inculturazione. Tuttavia scrive nel suo libro fondamentale Gli occhi della luce: " In India, particolarmente fino a quando il desiderio intenso e profondo nell'indù dell'esperienza della presenza e la sua realizzazione stessa non saranno stati ritrovati dalla Chiesa nelle sue profondità, tutti i tentativi di una teologia e di una liturgia nuove sono, in anticipo, votati al fallimento ".4

Questa riflessione ci porta a toccare con mano l'essenza della ricerca spirituale e della vita mistica di L. Nel suo libro Saggezza indù, mistica cristiana egli scrive: " Chi pensa? Chi vuole? Chi agisce? Chi sono? Io, l'agente al di là dell'atto, il pensante al di là del pensare, il volente al di là del volere? ".5 Si riconoscono qui il sostrato benedettino della sua formazione e il suo riferimento implicito alla regola di s. Benedetto al c. VII sull'umiltà. Secondo L. sono questioni che non bisogna mai cessare di porsi e ritornano, in realtà, in tutti i suoi libri. Il problema costante è quello di arrivare a una " non-dualità ", che è quella della relazione Io-Tu del Padre e del Figlio; il mistero finale dello Spirito è la consumazione in non-dualità di quell'Io-Tu. Ora, noi partecipiamo a questo mistero e siamo una sola cosa con Dio.6 Ciò è precisamente l'advaîta indù che solo il cristianesimo può veramente assumere e realizzare; se non potesse farlo perderebbe, proprio per questo, ogni diritto di proclamare che è la sola e unica via di salvezza.7 Questo è veramente per L. il centro della vita e dovrebbe essere, a suo parere, il centro di formazione di ogni sacerdote e di ogni religioso. Studi, discipline, ecc., perfino la lectio divina e la meditazione, non sono che l'inizio perché non sono che mezzi. Occorre portare il sacerdote, il religioso all'esperienza della presenza di Dio; iniziare al mistero dello Spirito al di dentro, stimolare all'attenzione alla sua voce e alla disponibilità al suo movimento.8 Tutto è racchiuso in ciò, ma non è materialmente trasmettibile.

I vedanisti pensano che L. abbia conosciuto l'estasi senza essere giunto allo stadio del " liberato vivente ". Egli sa che il fine ultimo della vita è l'esperienza, un contatto immediato, diretto che supera ogni simbolo e concetto.9

Note: 1 Il libro di dom André Gozier, Le Père Henri Le Saux, Paris 1989, offre una buona bibliografia. La si può completare con qualche articolo della NRTh, J. Scheuer, Henri Le Saux, moine chrétien et renonçant hindou, marzo-aprile 1994, che rinvia ad altri articoli precedenti della stessa rivista e rimanda ad altre opere; 2 A. Gozier, Le Père..., o.c., 38; 3 R. Panikkar, Le dialogue intra-religieux, Paris 1985, 99-105; 4 H. Le Saux, Les yeux de la lumière, Paris 1989, 59; 5 Id., Sagesse hindoue, mystique chrétienne, Paris 1965, 75; 6 Id., Les yeux de la lumière..., o.c, 52; 7 A. Gozier, Le Père..., o.c., 86; 8 H. Le Saux, Les yeux de la lumière..., o.c., 113; 9 A. Gozier, Le Père..., o.c., 133.

Bibl. Opere: In francese: Ermites du Saccidananda (con J. Monchanin), Paris 1956; Eveil à soi - Eveil à Dieu. Essai sur la prière, Paris 1971; Gananananda. Un maître spiritual du pays tamoul, Sisteron 1970; Initiation à la spiritualité des Upanishads, " Vers l'Autre Rive ", Sisteron 1979; Intériorité et révelation. Essais théologiques, Sisteron 1982; Une Messe aux sources du Gange, Paris 1967; Le monachisme chrétien aux Indes, in VSpS 9 (1956), 283-316; La rencontre de l'hindouisme et du christianisme, Paris 1966; Saggesse hindoue, mystique chrétienne. Du Vedanta à la Trinité, Paris 1965; Les yeux de Lumière. Écrits spirituels, a cura di A. Gozier - J. Lemarié, Paris 1979. In tr. it.: La contemplazione cristiana in India, Bologna 1984; Lettere e scritti. Esperienza indù ed esperienza cristiana, (pro manuscripto), Bologna 1976; Una messa alle sorgenti del Gange, a cura di M. Ricatti Di Ceva, Brescia 1968; Preghiera e presenza, a cura di L. Bacchiarello, Assisi (PG) 1973; Alle sorgenti del Gange. Pellegrinaggio spirituale, Milano 1994; Il Padre nostro, Sotto il Monte (BG) 1996; Risveglio di sé, risveglio di Dio, Sotto il Monte (BG) 1996. Studi: B. Bäumer, Henri Le Saux, in G. Ruhbach - J. Sudbrack (cura di), Grandi mistici II, Bologna 1987, 281-302; M.M. Davy, Henri le Saux, Swami Abhishiktananda. Le passeur entre deux rives, Paris 1981; H.D. Egan, Henri Le Saux, in Id., I mistici e la mistica, Città del Vaticano 1995, 649-663; J. Lemarié, s.v., in DSAM IX, 697-698.

A. Nocent

LESEUR PAULINE-ELISABETH. (inizio)

I. Vita e opere. Nasce a Parigi il 16 ottobre 1866 (dove muore il 3 maggio 1914), prima di cinque figli dell'avv. Antoine Arrighi, cattolico non molto praticante, ma di vita esemplare, e di Gatienne Picard, donna religiosa ma un po' formalista - cui più tardi la figlia dedicherà Appello alla vita interiore -, L. riceve in famiglia un'educazione cristiana accurata e una discreta cultura (che perfezionerà lungo il resto della vita, fino a risultare una buona scrittrice). Il 31 luglio 1889 sposa Felix Leseur, di famiglia altrettanto cattolica, educato in un collegio religioso, ma che ha perso la fede durante gli studi di medicina. Di ciò egli avverte lealmente tutti, prima del matrimonio, assicurando tuttavia di rispettare le convinzioni religiose della futura moglie. Un anno dopo è salvata in extremis da una peritonite, ma ne porterà le conseguenze per il resto della vita (infezione intestinale sempre latente, con disturbi vari). Ciò nonostante, non diserta la vita mondana di Felix che, positivista e redattore di giornali anticlericali, fa di tutto per " aprirle gli occhi " su quello ch'egli considera " l'abbaglio religioso ". E così, mentre cresce la sua ammirazione per il marito, diminuisce la sua fede in Dio: nel 1898 risulta praticamete agnostica. In quell'estate legge Le origini del cristianesimo e La vita di Gesù del Renan ( 1892), ma proprio qui è in agguato la grazia. Anziché lasciarsi prendere dalla magia dello stile, L. avverte la fragilità delle ipotesi del Renan e, senza dire niente a Felix, riprende a leggere il Vangelo e s. Tommaso d'Aquino. Riesplode così l'antica fede, che tuttavia non scatena conflitti religiosi tra i due - mai viene meno l'antico rispetto di Felix - né cambia la partecipazione di Elisabetta alla vita mondana del marito: nonostante sia di gusti semplici, lei ha il culto della posizione sociale di lui. Questi scriverà più tardi: " Io ero bibliofilo e lei lo fu con me e per me, favorendo la mia passione di collezionista. Io amavo i viaggi e lei era sempre pronta ad accompagnarmi. Io amavo il teatro musicale e lei ci veniva con piacere. Io amavo il mondo e lei mi seguiva facendomi grande onore. In breve, sempre e in tutto ella sintonizzava la sua esistenza al ritmo della mia: si dimostrava affettuosa nei giorni di prova e di tristezza, sorridente e piena di entusiamo nei momenti felici ".

Abbiamo qui il primo tratto caratteristico della spiritualità leseuriana: benché quella vita mondana non sia conforme ai propri gusti e desideri, non lascia trasparire insofferenza alcuna, ma tutto riscatta nell'ottica di fede. Infatti, ben sapendo che tutto è grazia per chi ama il Signore (cf Rm 8,28) e, addirittura, che la gioia data al prossimo è l'espressione più alta dell'amore verso Dio (cf Mt 25,31-46), ella fa suo il trinomio classico di ogni apostolato - " preghiera, azione, sacrificio " - e, paolinamente, si fa " tutto a tutti per salvarne almeno qualcuno " (1 Cor 9,22). Leggiamo nel Diario: " Mi occupo di moda e di pellicce, e ne parlo per dissimulare ogni sospetto di austerità. Il mondo è insofferente di ogni forma di mortificazione e di penitenza; devo quindi nascondere l'una e l'altra. Con l'aiuto della grazia, la mia amabilità potrà riavvicinare i cuori al Signore, la sofferenza mi aiuterà a conquistarli, la preghiera a offrirli a Dio ". Né questo modo di fare è tatticismo gesuitico bensì " la sola finzione da lodare: quella che ignora il male che ci viene fatto, la nostra sofferenza e le profondità dell'anima che appartengono solo a Dio. Tale finzione, senza nascondere ciò che realmente siamo, non ci manifesta per quel che non siamo "! In ogni caso è sempre una grazia a caro prezzo, e nelle Lettere sulla sofferenza parla del suo " isolamento spirituale ", benché attinga il necessario " supplemento d'anima " - per non diventare " forzatamente silenziosa ", come scrive nel Diario - tanto nella ritrovata pratica religiosa (e la frequenza liturgica nella vicina chiesa di sant'Agostino), quanto nello studio approfondito della religione. Così, vicino alla biblioteca del marito, piena di libri irreligiosi e anticlericali, lei se ne forma una personale, ricca di testi biblici (il Vangelo lo medita, studia e prega ogni giorno), patristici e dei grandi teologi. E, valorizzando al meglio i lunghi riposi che la malattia le impone, ne " approfitta " sia offrendo quelle pene in comunione eucaristica, sia riprendendo il programma di vita che aveva da fanciulla e che prevedeva ore di solitudine, lettura e preghiera. Da questa fonte spirituale, peraltro tipica dell'antica borghesia cattolica, non tardano a sgorgare frutti pastorali notevoli.

Infatti, l'altro tratto caratteristico di L. riguarda i due ambiti nei quali meglio esprime il suo apostolato, caratterizzato dalle " piccole virtù " tipiche del suo orizzonte borghese: l'apostolato intellettuale, con particolare riguardo ai molti " lontani " che incontra nel suo ambiente (notevoli pure i risvolti sociali, grazie all'eco della Rerum novarum), e l'apostolato sia caritivo (specialmente assistendo i vari parenti malati), sia di preparazione catechistica di amici e nipoti. Sul primo aspetto leggiamo nel Diario osservazioni finissime: " Nelle discussioni bisogna esprimersi con franchezza, mantenendo però una semplicità e un'affabilità che non irritino l'interlocutotore. Sui princìpi non bisogna scendere a compromessi, ma con le persone sono necessarie estrema mansuetudine e chiarezza di giudizio. Dopo aver individuato il punto debole, insistere nel presentare quell'aspetto dell'immutabile Verità divina che ciascuno è in grado di capire e apprezzare ". Una strategia che dà buoni frutti, ma che non la insuperbisce: " Non cerchiamo di vedere il risutato dei nostri sforzi in favore delle anime. E bene ignorarlo perché l'orgoglio del bene, che è il più sottile, potrebbe approfittare di questa consapevolezza ". Per il secondo aspetto, ricordiamo innanzitutto quanta cura prodiga nella lunga malattia della sorella Juliette alla quale trasmette il suo programma di vita (soffrire-offrire), condensato in questa massima: " Ogni anima che si eleva, eleva il mondo " e della cui vita e morte traccia un profilo esemplare in Un'anima. Ma non dimentichiamo quanto fa per Marie, una bimba di otto anni, incontrata nell'ospedale di Beaune. La bambina, sola e triste, desidera ricevere qualche lettera: da allora, ella le scrive regolarmente fino alla morte. Per la catechesi, infine, oltre a quanto emerge dalle testimonianze orali di quanti ha preparato alla santa Comunione, restano esemplari i quadernetti da lei regalati in quell'occasione sia a una nipotina (La donna cristiana), sia a un nipotino (Il cristiano). Proprio l'odierno rinnovamento della catechesi potrebbe trovare in queste pagine varie suggestioni.

II. Insegnamento spirituale. Il punto cruciale della spiritualità della L. può essere intitolato quando l'ascetica sconfina nella mistica. Ricordiamo tre momenti. 1. Durante un viaggio a Roma, nella Pasqua 1903, ella avverte una forza interna che la porta a s. Pietro, dove si confessa e, ricevuta l'Eucaristia, " in una unione intima e gioiosa con Colui che ha voluto interamente la mia anima, ho fatto consacrazione solenne della mia vita a Dio e a quell'opera di amore e di luce che d'ora in poi dev'essere la mia vita " (Diario). 2. Un giorno del giugno 1912, mentre passeggia col marito e suor Goby (che ha conosciuto nell'ospedale di Beaune, visitando la piccola Marie), dice a Felix: " Se io ti lascio, tu ti farai monaco. Siccome ti conosco, sono assolutamente sicura che il giorno in cui ritornerai a Dio non ti fermerai per strada, perché tu non fai mai le cose a metà ". 3. Dopo altre operazioni chirurgiche e radioterapie, ai primi di novembre 1913 le cose precipitano. Felix, che da sempre ammira la serenità della moglie nelle varie sofferenze, ora è costretto a un serio esame di coscienza. Anche nelle crisi peggiori, la sua dolcezza non viene meno: semplicemente prega a voce alta (e lui ascolta in silenzio), si comunica ogni settimana e rinnova ogni momento l'offerta della propria vita a Dio. Il 27 aprile 1914 tende le braccia al marito con un gesto d'estrema tenerezza: è l'ultima volta. Dopo la sua morte, Felix apre il mobile che gli ha donato in un anniversario del matrimonio, per cercare il testamento e le disposizioni per le esequie. E di nuovo la grazia è in agguato. Alla fine del testamento, la moglie gli ha rivolto un invito e una profezia. Nel 1919 Felix entra nell'Ordine domenicano: è l'incontro definitivo col Dio al quale da sempre appartiene la moglie e, insieme, l'ultima e più grande verifica del loro amore non vano. Nel 1955 si apre il processo di beatificazione, che è sospeso perché, nonostante varie grazie spirituali, vocazioni e conversioni, mancano i due miracoli di guarigione fisica, autenticati dai medici.

Bibl. Opere: presso Marietti, Torino 1920: Lettere sulla sofferenza e la vita spirituale (di quest'opera è stata curata una nuova ed. fr. nel 1922, da cui sono stati ricavati anche volumetti staccati: La donna cristiana; Il cristiano; Ritiri spirituali di ogni mese; Consigli a un'anima incredula); Diario e pensieri, 1921 (nuova edizione, con prefaz. di A. Gemelli, Roma 1946; nonché pagine scelte a cura di D.T. Donadoni, La mia sorgente è il Signore, Torino 1972); Lettere agli increduli, 1922 (nuova ed. fr. con prefaz. di R. Garrigou-Lagrange, Paris 1923). Studi: M.A. Leseur, Vita di Elisabetta Leseur, Torino 1933; C. Zonin, Anche la borghesia ha un'ascetica? Rilettura di editi e inediti di Elisabetta Leseur, Napoli 1981. Importante anche M.L. Herking, Le père Leseur, Paris 1952.

P. Vanzan

LETTERATURA. (inizio)

I. Precisazioni terminologiche. Per una corretta impostazione del tema sono necessarie alcune precisazioni terminologiche. Il termine " mistica " ha varie accezioni. Innanzitutto, c'è la mistica cristiana che è un'esperienza passiva di Dio, prodotta da una mozione dello Spirito Santo, dunque soprannaturale e gratuita, che immette l'anima nel " mistero " di Cristo. C'è, poi, la mistica non cristiana, presente in tutte le religioni, che è l'esperienza di Dio, o di un Assoluto, talvolta raggiunto mediante tecniche e sforzi ascetici. Una terza accezione intende per mistica la percezione del mistero, cioè l'intuizione che al di là del mondo visibile esiste un altro mondo, invisibile ma non meno reale. Tale percezione genera in noi la brama di trascendere la realtà che ci circonda per approdare a questo altro mondo. Ciò comporta il superamento della condizione umana, la rottura di ogni attaccamento dell'" io " contingente, il coraggio di sperimentare nuove vie di conoscenza.

Con il termine l. generalmente s'intende l'insieme delle opere, artisticamente valide, di una determinata lingua. Ma c'è un'altra accezione del termine, più pregnante e convincente. Charles du Bos la formula così: " La l. è prima di tutto [...] la vita che prende consapevolezza di se stessa quando nell'anima di un uomo di genio raggiunge la sua plenitudine di espressione ".1 Meglio ancora André Blanchet: " La l.? E un'esplorazione dell'abisso: quello dell'autore, e anche il nostro ".2 In altri termini, è la capacità degli artisti della parola di servirsi del sentimento e dell'immaginazione per penetrare nel mistero dell'anima umana e ghermirne i fremiti e i segreti. Più propriamente, allora, la l. si chiama poesia. David M. Turoldo 3 la descrive come " intuizione cosmica ", " folgorazione sul noumeno delle cose ", " amore e adorazione del "fascinoso" del mondo ", " grido, urlo delle cose " e sforzo di comprenderne il messaggio. E anche profezia. " Poeta è colui che vede con gli occhi del fulmine, nell'attimo sconvolgente della folgore ". Vede le arcane nervature del mondo, soprattutto intuisce " qual è il sacramento della creazione e come tutte le cose non sono che involucri di divine sillabe ".4

II. Rapporto tra l. e mistica. Se la l. è così concepita (come crediamo possa essere) e se la mistica è presa in senso largo, analogico, si comprende il rapporto tra le due realtà. Come la mistica, anche la poesia vuol essere esperienza del sacro, intuizione del divino insito nella natura. Ricordiamo i versi di Baudelaire (nella poesia Corrispondenze): " La Natura è un tempio dove colonne vive lasciano a volte uscire confuse parole: l'uomo vi passa attraverso foreste di simboli: che l'osservano con sguardi familiari ".

Attraversando questa foresta, il poeta non esita a " tuffarsi in fondo all'abisso, Inferno o Cielo, che importa? per trovare il "nuovo" nel grembo dell'Ignoto ", afferma ancora Baudelaire, nella poesia Il viaggio. Il " nuovo " riguarda il mondo nascosto dietro le cose visibili, la possibilità di un diverso modo di essere, la presenza di un Dio nel quale siamo e ci muoviamo. Dunque, il mistero di Dio e dell'uomo.

Per ghermire questo mistero, la poesia deve " purificarsi " fino a raggiungere la sfera dello Spirito e rivestirsi del linguaggio simbolico, perché soltanto mediante i simboli e le analogie è possibile tradurre in parole quanto si percepisce. E, questa, la prospettiva del romanticismo e soprattutto del simbolismo (che ha avuto in Baudelaire il suo massimo rappresentante). La parola d'ordine del poeta romantico e simbolista è perentoria: entra in te stesso per trovare la vera ricchezza e liberarti dall'oppressione della civiltà tecnica e materiale; impara ad esplorare la tua anima, ricca di voci e di segreti; dà significato agli echi che ti giungono da lontano; fa della tua anima il tuo mondo; scopri e ascolta il divino.

III. Poesia e mistica. La poesia così concepita introduce nella sfera della mistica, ma comporta rischi e abbagli.

Alcuni poeti si smarriscono nel sogno e nell'occultismo; altri inseguono paradisi artificiali o stati paranormali; qualcuno tenta anche la deificazione su percorsi che portano alla distruzione della persona. Ci si trova, allora, nel regno della " mistica selvaggia ". Arthur Rimbaud ne ha formulato il programma nella Lettre du Voyant: " Il poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa, ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d'amore, di sofferenza, di follia; cerca se stesso, esaurisce in se stesso tutti i veleni per serbarne soltanto la quintessenza. Ineffabile tortura nella quale ha bisogno di tutta la fede, di tutta la sovrumana forza, e dove diventa il gran malato, fra tutti il gran criminale, il gran maledetto e il supremo paziente Sapiente! - Infatti giunge all'ignoto ".5

Nel regno della " mistica selvaggia " si celebra la morte di Dio; si celebra anche la morte dell'" uomo naturale " affinché nasca l'" uomo nuovo ", demiurgo e sacerdote di un universo creato dalla potenza del Verbo. Nel saggio sulla Crise du concept de littérature Jacques Rivière scrive: " Col romanticismo l'atto letterario è stato concepito come una specie di tentativo sull'assoluto e il suo risultato come una rivoluzione; la l. ha raccolto, in quel momento, l'eredità della religione e si è organizzata sul modello di ciò che essa sostituiva: lo scrittore è diventato sacerdote. Tutti i suoi gesti hanno mirato soltanto a portare in quell'ostia che era l'opera, la presenza reale. Tutta la l. del sec. XIX è un grande incantesimo verso il miracolo ".6

La l. è, dunque, concepita come realtà magico-mistica, antagonista della religione. Col suo verbo demiurgico, il poeta suscita e rivela il paradiso perduto e ritrovato, apre le porte di cieli sconosciuti, attinge l'eternità nell'attimo, si colloca oltre ogni legge. L'atto poetico diventa l'atto supremo, quello in cui l'uomo s'innalza fino a Dio, anzi si sostituisce a lui. " In fondo - ha scritto Jean Daniélou - Rimbaud è l'unico poeta che abbia preso sul serio la morte di Dio di Nietzsche ed abbia tentato di costruire sperimentalmente una mistica dell'uomo assoluto (...). Egli erige una mistica o meglio distoglie l'unica vera mistica dal suo oggetto per trasferire la sua carica di assoluto sull'atto poetico ".7

D'Annunzio e Gide hanno tentato un'operazione analoga: trasferire la carica mistica nell'ebbrezza dei sensi. Secondo il Vate, " non c'è dio, se tu non sei quello ",8 e per essere dio bisogna immergersi nel mondo degli istinti e della pura natura. Gide pensa di raggiungere Dio immergendosi nei " nutrimenti terrestri " con totale disponibilità. La loro conquista " mistica " è smarrimento, nausea e fatale alienazione.

IV. L. poetica ed esperienza del divino. Ma c'è anche una l. poetica che fiorisce sotto i cieli luminosi e fecondi e immette nel regno della mistica intesa come esperienza del mistero e del divino. In merito c'è un brano illuminante di un letterato-teologo, Benvenuto Matteucci: " La poesia, rivelazione della vita dell'anima, è, a somiglianza della grazia, un dono di Dio. Come Platone, ogni poeta avverte un interiore suggeritore, un invisibile verbo; ne ascolta i richiami, ne soffre le seduzioni. Gli sembra quasi di essere avvolto in una rete amorosa e insostenibile di allettamenti, di ripulse, di rapimenti, di estasi, di scoramenti, di abbandoni. E prigioniero di sé, dei suoi pensieri, dei suoi affetti, dei suoi sentimenti. Un irresistibile Amore lo ha messo in catene, ed egli geme, sospira, canta. Un impulso nativo lo spinge a fermare nelle parole il suo sorriso e il suo pianto ... In sé, fuor di sé, nell'universo egli va in cerca di una risposta, povero mendicante d'immagini e di parole, come un innamorato stanco e mai deluso di raggiungere il suo amore [...]. Cammina per gli itinerari dell'universo, bussa alle sue porte, attratto invincibilmente da un luminoso miraggio. Ma resta sempre come un bambino sconsolato di non aver raggiunto il suo paradiso. Il divino suggeritore lo spinge avanti, il Verbo increato gli adombra ogni transitoria bellezza con la luce del suo volto ".9

La citazione chiarisce il rapporto tra mistica e poesia. Il mistico sperimenta la realtà di un altro mondo; il poeta traduce in parole, immagini e simboli quanto di un altro mondo ha sperimentato. " La poesia è un moto di ritorno dalla contemplazione mistica ", afferma Jean Baruzi 10 a proposito di s. Giovanni della Croce. La mistica, senza la poesia, è muta; la poesia, senza la mistica, perde di valore e di fascino.

V. Elementi di l. mistica. Tra gli elementi che immettono la l. nell'area della mistica ne indichiamo tre, i più caratteristici. Innanzitutto il sentimento di disagio e di estraneità dinanzi allo spettacolo della vita. Nulla soddisfa pienamente, la realtà si sbriciola e si dissolve nel tempo, le attese risultano vane, le strade sboccano sul nulla. Un'intuizione colpisce la mente: siamo homines viatores, viandanti diretti altrove, siamo in esilio. La vrai vie est absente, suggerisce Rimbaud,11 e Paul Verlaine proclama che, in questo mondo, il poeta è un esiliato, en allée vers d'autres cieux, à d'autres amours.12

Sono questi autres cieux e autres amours che ispirano le opere più significative di ogni l.

Un secondo elemento, analogo al precedente e suo completamento, è l'inquietudine metafisica o ontologica. Essa ci fa intuire che dobbiamo cercare la nostra completezza in un altrove ontologico, cioè nell'Assoluto. Quasi tutta la grande l. è ispirata da questa inquietudine. Ricordiamo solo, tra i moderni, T.S. Eliot. La sua visione poetica è un invito a spostare lo sguardo dalla Waste Land, dalla terra desolata, ai cieli dell'Assoluto dei Four Quartets. Solo in essi l'inquietudine si placa e l'universo dei sogni romantici diventa realtà. Eliot ci ricorda che se c'è il regno del peccato, c'è anche il regno della redenzione. La fede lo rivela, la mistica lo sperimenta, la grande l. lo intuisce e lo tratteggia.

Infine, il sentimento del mistero. Mistero nel senso di cosa arcana, avvolta di sacralità, che sovrasta e avviluppa la realtà sensibile, ma sfugge ai sensi e all'intelligenza. E la terra dei mistici e dei profeti, è la dimora di Dio. " I poeti ... sentono Dio, sentono l'eternità nel tempo. Veggenti vengono chiamati dai popoli, come i profeti. Vedono da lontano. Sentinelle sempre all'erta sulle trincee tra il visibile e l'invisibile ".13

Mistica e l. camminano sulle stesse strade, ma non sono la stessa cosa. Il mistico, però, può essere anche poeta. E quando riveste di poesia le sue esperienze, la sua parola acquista bellezza e risonanza incomparabili. Si pensi ai profeti d'Israele, a taluni autori dell'induismo, del buddismo, dell'ebraismo, dell'islamismo. Con l'avvento del cristianesimo, nella l. mistica si ha un balzo di qualità. Il Verbo si è rivelato, la letteratura lo ha recepito e annunziato e la sua voce ha assunto un timbro assolutamente nuovo: penetra i cieli e dà ai sogni e alle nostalgie dell'umanità significati che stupiscono per la loro bellezza. Parole che avevano un senso vago e ambiguo - Dio, eternità, amore, vita, divinizzazione - ora acquistano evidenza e splendore. La mistica vivifica la l., la l. ammanta di luce la mistica.

Note: 1 C. du Bos, Che cos'è la letteratura?, Firenze 1949, 15; 2 A. Blanchet, La littérature et le spirituel, I, Paris 1959, 11; 3 D.M. Turoldo, nell'articolo di G. Milano, Ribelle di Dio. Il testamento spirituale di Padre Turoldo, in Panorama, 12 febbraio 1992; 4 Id., O sensi miei, Milano 1990, 354; 5 A. Rimbaud, Una stagione all'inferno e lettere, Milano 1951, 110; 6 J. Rivière, La crise du concept de littérature, in Nouvelle Revue Française, 1er février 1924; 7 J. Daniélou, Lo scandalo della verità, (c. Poesia e verità), Torino 1964, 55; 8 Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D'Annunzio tentato di morire, in Il Vittoriale degli Italiani, 1995, 321; 9 B. Matteucci, Per una teologia delle lettere. Il divino nell'umano, I, Pisa 1980, 271ss.; 10 J. Baruzi, Saint Jean de la Croix et le problème de l'expérience mystique, Paris 1924, 126; 11 A. Rimbaud, Una stagione all'inferno, in I poeti maledetti, a cura di C. Fusero, Milano 1959, 709; 12 P. Verlaine, Art poétique, in Poesie e prose, a cura di D. Grange Fiori, Milano 1992, 358; 13 B. Matteucci, Per una teologia delle lettere..., o.c., 276.

Bibl. L. Borriello, Mistica e umanesimo, in C. Tresmontant, La mistica cristiana e il futuro dell'uomo, Casale Monferrato (AL) 1988; C. du Bos, Che cos'è la letteratura?, Firenze 1949; M. Carrouges, L'avventura mistica della letteratura, Roma 1969; J. Daniélou, Poesia e verità, in Id., Lo scandalo della verità, Casale Monferrato (AL) 1964; J. e R. Maritain, Situazione della poesia, Brescia 1979; B. Matteucci, Per una teologia delle lettere, Pisa 1980; K. Rahner, La parola della poesia e il cristiano, in Id., Saggi di spiritualità, Roma 1966; G. Sommavilla, Incognite religiose della letteratura contemporanea, Milano 1963.

F. Castelli

LETTURA DEI CUORI. (inizio)

I. Il termine. Questo fenomeno, chiamato da s. Paolo anche discernimento degli spiriti (1 Cor 12,10), è il dono di leggere nel segreto dei cuori e discernere il buono dal cattivo spirito. E un dono infuso grazie ad una " relazione d'amore " con Dio, radicata nella pura fede, per cui l'anima attraversa due momenti: quello della passività e quello dell'attività.

II. Nell'esperienza mistica. Nel primo momento l'anima, purificata da Dio, si perde in lui; fa l'esperienza di qualcosa di assoluto, inesauribile nel significato; diventa specchio dell'immagine di Dio che opera le sue meraviglie, comunicando certezze assolute. Dio ispira all'anima il desiderio della conoscenza di cose serie ed importanti, offrendo chiarezza anche nei momenti difficili (passività).

Nel secondo momento, queste certezze non escludono l'impegno delle facoltà intellettuali o l'esame dei segni, per stabilire con una certa sicurezza se certi carismi hanno origine divina o meno (attività).

La fede, infatti, dà all'intelletto del credente una visione e una forza che permettono di superare le apparenze esteriori delle cose e degli eventi per entrare, con umiltà, nel piano di Dio senza che alcuna perspicacia critica prevalga sul cuore puro: " Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli " (Mt 11,25). E un fenomeno abbastanza frequente nell'esperienza dei mistici, come ad esempio Caterina da Siena e la beata A.M. Taigi ( 1837).

Bibl. A. Barruffo, Carismatici, in NDS, 133; Id., Discernimento, in NDS, 419-423; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 1010-1018.

S. Giungato

LEVITAZIONE. (inizio)

I. Nozione. E la sospensione di un corpo materiale nell'aria senza alcun supporto, in contrasto con la forza gravitazionale. Numerose testimonianze hanno confermato, senza alcun dubbio, che alcuni santi, come s. Teresa d'Avila, s. Francesco Saverio ( 1552), s. Giovanni della Croce, s. Pietro Alcántara, s. Caterina da Siena, s. Paolo della Croce e, in special modo, s. Giuseppe da Copertino ( 1663), hanno fatto l'esperienza di questo fenomeno.

II. Spiegazione del fenomeno. La l. si manifesta usualmente in uno stato di estasi che può essere di tre tipi: il primo detto estasi ascensionale, il secondo chiamato estasi in sospensione e, infine, l'ultimo detto estasi progressiva. Normalmente, l'elevazione del corpo avviene rigidamente e senza flessioni come se si trattasse di una statua di pietra; in altri casi, però, il corpo sembra perdere tutto il suo peso e muoversi come una piuma attraverso l'aria.

Esempi di l. apparente si sono osservati durante sedute spiritiche e anche nelle pratiche dei fachiri orientali. Abbiamo anche casi di l. apparente avvenuta per autoinduzione o durante un colpo catalettico. Comunque, è noto che alcune circostanze, come ambienti in cui le luci sono fioche, oppure durante stati emozionali, o in acute suggestioni e forti attese, possono facilmente indurre in errore gli occhi dei testimoni.

Ciò nonostante, i numerosi casi di l. autentica nella vita dei santi giustificano la classificazione della l. tra i fenomeni mistici straordinari. Una l. veramente soprannaturale può venire interpretata come un effetto dell'intensità dell'amore mistico o come un antecedente dell'agilità di un corpo glorificato. Questo, però, non fornisce una prova sufficiente della santità dell'individuo, poiché, con il permesso di Dio, il diavolo può sospendere un corpo materiale nell'aria, oppure alcuni tipi di l. potrebbero attribuirsi a cause naturali.

Bibl. O. Leroy, La lévitation. Contribution historique et critique à l'étude du merveillieux, Paris 1928; I. Rodríguez, s.v., in DES II, 1437-1439; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 1120-1123; H. Thurston, Fenomeni fisici del misticismo, Alba (CN) 1956.

J. Aumann

LIBERAZIONE (TEOLOGIA, SPIRITUALITÀ E MISTICA). (inizio)

Premessa. La teologia della l. costituisce un'espressione tra le più significative e controverse nell'ambito dell'elaborazione teologica degli ultimi decenni. Essa è sorta nel contesto ecclesiale latino-americano, come risultato della riflessione di fede dei cristiani impegnati nei " movimenti di l. ", attivi in varie parti del continente fin dagli anni Cinquanta. Rappresenta una risposta all'esigenza di riscoprire e recuperare, per la prassi di l. in particolare, ma per la vocazione del cristiano in genere, l'esigenza di impegno per la giustizia e la solidarietà implicita nel messaggio della Parola di Dio e nella tradizione della Chiesa. Contro il tradizionale " riduzionismo " spiritualista di certa elaborazione teologica più recente, la teologia della l. si propone di definire l'integrale dimensione dell'essere cristiano, riaffermando i significati salvifici e le esigenze etiche anche per sfere tradizionalmente private di rilevanza teologica, come quella dei rapporti sociali, dell'attività economica e della progettazione politica. Tale esigenza di recupero dell'integralità di senso e di impegno del cristiano si è fatta particolarmente acuta per la situazione di sottosviluppo e di oppressione interna ed esterna in cui versano i popoli di tradizione cattolica del continente latino-americano. Una realtà che interpella la coscienza dei credenti di quel continente e del mondo intero. Per altro verso, la radicalizzazione dei due modelli ideologici, liberal-capitalista e marxista, determinava per la coscienza cristiana l'esigenza di un processo di discernimento e l'urgenza di una presa di posizione.

I. La riflessione teologica della l. si sviluppa, quindi, come impegno di " rilettura " critica dell'interpretazione tradizionale del messaggio della salvezza e come sforzo per recuperare al patrimonio dottrinale acquisito nella tradizione della Chiesa l'integralità di significati e di esigenze propria del progetto salvifico. L'obiettivo centrale della teologia della l., nelle sue diverse correnti, è quello di mostrare il legame di continuità esistente tra processo di l. socio-economico-politica e cammino della salvezza o costruzione del regno.

È significativo rilevare che, fin dalle prime manifestazioni di questo nuovo cammino di elaborazione teologica, si manifesta esplicita la preoccupazione di evitare che la teologia della l. fosse interpretata semplicemente come una " morale sociale ", o fosse vista come semplice estensione applicativa, per il contesto latino-americano, dei temi e dei principi più generali proposti nella dottrina sociale della Chiesa. Fin dai primi passi della teologia della l. (Gutierrez, Assmann, Boff, ecc.) si riscontra anche un esplicito distanziamento dalle varie teologie del " politico " e del " sociale ", apparse negli ultimi decenni in ambiente europeo ed americano, quali la teologia della speranza di Moltmann, la teologia del lavoro di Chenu, la teologia politica di Metz, la teologia della rivoluzione di Rendtorff, ecc.

Il fattore di distanziamento consiste nel fatto che la teologia della l. si propone come una riflessione che nasce dalla prassi (impegno nel movimento di l.) ed è orientata essenzialmente alla prassi di trasformazione della società. Suo punto di partenza non è la tematica teorica della società, ma la situazione concreta, di miseria e di oppressione del continente latino-americano e di tante altre aree del " villaggio globale ". Ed è la " prassi " concreta di impegno dei cristiani per " rompere " con questa situazione e collaborare alla costruzione di una società più giusta e fraterna. Teologia della l. si dà, quindi, a partire dalla scelta di un " luogo sociale " e di un punto di vista particolare: quello del povero e del suo impegno di auto-liberazione.

Tale scelta si pretende motivata dalle esigenze stesse del Vangelo come cammino di fedeltà a Cristo ed al suo messaggio di salvezza. Essa comporta, quindi, un'autentica " ascesi " di cammino di croce e una spiritualità di sequela del Maestro. Come tale, il fenomeno l. è qualcosa di più che una semplice corrente teologica. Si tratta di un " movimento " di recupero di una integralità di vita cristiana, a livello di significato e a livello di prassi storica. La teologia della l., come riflessione dalla prassi e per la prassi, non può essere semplicemente un'operazione di tipo razionale-intellettuale. Essa è il momento di elaborazione razionale e di discernimento critico di un processo " storico " e di un modo di essere più complesso e globale che interessa tutta l'esistenza del teologo, come anche del cristiano e della comunità ecclesiale. Interpella tutto il loro essere ed il loro agire, nella linea della fedeltà a Cristo. L'elaborazione teologica implica, quindi, una " vita ", una scelta radicale ed un " cammino ". In altre parole, implica una " spiritualità " che porta necessariamente ad un'esperienza di comunione restaurata, di incontro trasformante. Una spiritualità che possiamo definire a pieno titolo come mistica della l. E il cammino " antico ", ma sempre nuovo, dell'incontro di Cristo nel povero, dell'incontro di Dio nella storia.

II. Presupposti teologici per una spiritualità della l. Possiamo sintetizzare nei punti seguenti, avendo come punto di riferimento, in particolare, il pensiero di G. Gutierrez.

Teologia della l. è riflessione a partire e in funzione della prassi di liberazione orientata alla trasformazione sociale. Tale riflessione su una problematica tradizionalmente estranea alla sfera del " religioso " è a pieno titolo " teologia ", perché è un processo di discernimento critico condotto alla luce della Parola di Dio. Questo suppone la coscienza del legame di continuità " storica " esistente tra umano e divino, tra mondo e Chiesa, tra progetto di salvezza e istanza di liberazione.

Alla luce della rivelazione, infatti, non si danno due storie distinte ed estranee: quella sacra o " verticale " della salvezza soprannaturale e quella profana o " orizzontale " della l. socio-economica. Ciò che esiste di fatto è l'uomo chiamato all'incontro con Dio. Ed esiste la sua azione nella storia. Quest'azione, alla luce della fede, acquista una rilevanza religiosa, un significato positivo o negativo in vista dell'unico progetto di salvezza, che si fa nella storia. Esiste, quindi, un'unica storia, quella degli uomini, nella quale Dio si fa presente ed agisce. La teologia della l. recupera in questo senso un concetto più integrale della storia umana, senza tuttavia cadere nell'equivoco integralista che annulla il valore e lo spazio proprio delle realtà terrene. La salvezza che Cristo ci porta è realtà, ad un tempo, escatologica ed intra-storica. Non esistono due " storie " parallele o giustapposte. Per questo, la costruzione di una maggiore giustizia e solidarietà non è solo tappa di pre-evangelizzazione, ma è parte integrante dell'economia della salvezza, come realizzazione dell'unica vocazione del cristiano; come costruzione, nel " già " storico, di quel " regno ", la cui pienezza si darà solo in prospettiva escatologica. Redenzione, quindi, non s'identifica con l., ma implica necessariamente anche l. Senza movimenti storici di l. non c'è crescita del regno. Ma il processo di l. non avrà vinto le radici stesse dell'oppressione, dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, se non con l'avvento del regno, che è prima di tutto un dono.

La Chiesa, il teologo, il cristiano sono chiamati a collocarsi in quella dinamica di " incarnazione " di cui Cristo è modello: abbandonare i comodi astrattismi spiritualizzanti e intimistici e " sporcarsi le mani " nella realtà storica concreta, la cui struttura ed i cui meccanismi sono segnati e dominati dal peccato, dal " non regno ". È l'ascesi del cambiamento di " luogo sociale ", è la spiritualità e la mistica dell'incontro e della sequela di Cristo nel " povero ".

Tale visione di continuità tra salvezza e l., per la quale il processo di l. è parte integrante e necessaria del progetto della salvezza rivelato all'umanità in Cristo determina anche un recupero di globalità per la dimensione della rilevanza teologica. Una globalità per la quale nulla del reale, del " qui ", è estraneo o " neutrale " a Dio ed al suo piano di salvezza. In tale globalità tutto, della natura e della storia umana, è rivestito di significato alla luce di un progetto salvifico onnicomprensivo; quindi, tutto è teologicamente rilevante. Da tale concezione deriva per la teologia della l., a livello di " statuto epistemologico ", l'assunzione della mediazione delle scienze in genere ed in particolare delle scienze del sociale, come momento " primo ", necessario, del suo processo conoscitivo (mediazione socio-analitica). Se la natura e la storia sono il luogo dove Dio si rivela all'uomo e dove l'uomo incontra Dio e risponde (o non risponde) al progetto salvifico di Dio e dove si prepara e si anticipa l'avvento definitivo del regno, la conoscenza adeguata di tale " luogo " diventa indispensabile per il processo teologico di discernimento dei " segni " del regno, o " segni dei tempi ".

III. Spiritualità e mistica della l. La teologia della l. si realizza come atto secondo dentro un processo che comporta, come atto primo, la " prassi " di impegno nel movimento di l. ispirata e motivata dall'esperienza di incontro e di sequela di Cristo nel " povero ". Fondamento di tale identificazione Cristopovero, incontro del poveroincontro di Cristo è tutta l'azione e l'insegnamento dello stesso Cristo. È lui, infatti, che ha proclamato la sua identificazione con ogni uomo, con ogni povero, con ogni tipo di povertà umana. È lui che ha stabilito la comunione fraterna, nella giustizia e nella solidarietà, come condizione per poterlo incontrare e seguire ed ha proclamato la pratica effettiva dell'amore fraterno come criterio di valore nel giudizio definitivo sulla vita umana e sulla storia dell'umanità.

L'amore che Cristo vive e chiede è farsi " prossimo " del fratello, è ascesi di cambiamento di " luogo sociale " e di rottura con le idolatrie che dividono e separano da Dio, nel fratello. È mistica dell'incontro con Cristo nella donazione di tutto se stesso per amore del fratello, fino al martirio. E di fatto la spiritualità e la mistica della l. contano già un ricco martirologio: tanti testimoni che hanno dato la vita per la causa del Vangelo, della giustizia e della solidarietà. Forse è nell'esperienza di questa numerosa schiera di seguaci di Cristo che è possibile scoprire come si dà in concreto questa spiritualità e mistica della l.

Asse portante di questi itinerari di eroismo nell'amore, fino allo spargimento volontario del sangue, è l'esperienza della mediazione umana per l'incontro unitivo con Cristo. È il cammino nel quale il fratello, il povero si fa, per la fede, sacramento dell'incontro e della comunione piena con Cristo. L'unione con Dio, obiettivo primario di ogni spiritualità, che ha nell'esperienza mistica il suo punto di realizzazione più piena, non può, infatti, e non deve essere una separazione dall'uomo. Al contrario, essa è vera e possibile solo se passa attraverso l'uomo. Il farsi " prossimo " a Dio (esperienza mistica) si dà nella misura in cui ci si fa " prossimo " al fratello. In tutta la rivelazione, infatti, il povero appare come destinatario privilegiato dell'amore di Dio e di Cristo e dell'annuncio del regno, ed è visto come segno concreto del regno che Cristo inaugura in lui e a partire da lui, con una " prassi " che è ad un tempo di salvezza e di l. In questo senso, si può concludere che il luogo proprio dell'esperienza mistica è l'incontro-comunione con il fratello, con il povero. E dove questo si dà, lì è che si rende concreta la " Chiesa dei poveri ", la comunità degli " anawim di JHWH ", di cui Cristo è capo e modello e la Vergine del Magnificat primizia.

Il cammino proprio di tale " esperienza di Dio nel povero " non si fa nell'intimità individuale, o nella pace e nel silenzio della fuga mundi, ma in un cammino di " incarnazione ", nel farsi " prossimo ", nel vivere in " comunione ". E un'esperienza che porta all'incontro unitivo con l'assoluto di quel Dio che ha scelto il povero come un luogo privilegiato della sua presenza e della rivelazione del suo amore, per la costruzione del regno.

Bibl. L. Boff, Mestre Eckhart: A mística da disponibilidade e da libertaçâo, in Aa.Vv., Mestre Eckhart. A mística de Ser e de nâo Ser, Petropolis 1983, 11-48; Id., Jesus Cristo libertador, Petropolis 198611; E. Cambón, Liberazione (teologia e spiritualità della), in DES II, 1439-1448; J. Espeja, Espiritualidad y liberación, Salamanca 1986; S. Galilea, Il regno di Dio e la liberazione dell'uomo, Cinisello Balsamo (MI) 1987; G. Gutierrez, Teologia della liberazione. Prospettive, Brescia 19814; Id., Bere al proprio pozzo. L'itinerario spirituale di un popolo, Brescia 19832; J.B. Libanio, Teologia de la liberación - Guia didáctica para su estudio, Santander 1989; R. Marlé, Introduzione alla teologia della liberazione, Brescia 1991; A. Marranzini, La teologia della liberazione, in Id. (cura di), Correnti teologiche postconciliari, Roma 1974, 293-310; J. Pixley - L. Boff, Opç_o pelos pobresç, Serie I: Experiencia de Deus e justiga, Petropolis 19872.

M. Foralosso

LIBERTÀ. (inizio)

A. Aspetto filosofico. Premessa. La l. è una delle proprietà degli enti spirituali, mediante la quale non sono sottoposti alla necessità imposta dalla materia e sono padroni dei propri atti e di se stessi. La l. è un presupposto essenziale per la vita spirituale.

Il termine l. deriva dalla condizione sociale dell'uomo chiamato libero, il quale dispone di sé, mentre lo schiavo dipende dal padrone, come un suo strumento. Il significato di l. si sviluppa nel doppio senso del dominio del soggetto su di sé: in senso negativo, esclude la necessità e la determinazione da parte di un altro, sia esterno che interno; in senso positivo, la l. implica nel soggetto una capacità di dominio e di autodeterminazione, un principio radicale di agire e di essere. La l. è un modo privilegiato di essere, riservato ad alcuni tra gli enti piú nobili e non comune a tutti.

La l. si manifesta nel mondo nell'attività degli enti in modo graduale. Non è possibile la l. negli enti non viventi. La l. implica la vita e richiede la conoscenza intellettiva. Negli animali vi è conoscenza e una certa spontaneità istintiva, ma non è possibile una vera l. Essa ha inizio nell'uomo, in quanto essere personale, conoscente e volente, ed è un presupposto della vita umana sia personale che sociale. L'uomo è libero in quanto la sua conoscenza intellettuale si apre alla totalitá del vero, mentre la volontà muove se stessa verso il bene assoluto, senza essere costretta da nessun bene particolare. Che l'uomo sia libero, è un dato pacifico per la maggior parte dell'umanità. Una questione aperta è, invece, la misura della sua l. e la radice dalla quale viene. Per Tommaso d'Aquino, la radice della l. è nella natura intelligente: 1 la l. umana è l. di un ente finito, la cui anima spirituale è forma di un corpo condizionato dalla materia. Ben altra è la l. degli angeli, che sono spiriti senza materia. Soltanto in Dio la l. è assoluta e coincide con il suo essere infinito. La l. accompagna sempre lo spirito e si verifica in modo analogo nei diversi gradi a partire dall'uomo.

I. Sviluppo storico. L'idea di l. avanza nella storia allo stesso passo dello spirito e della soggettività, lentamente e per gradi, ma non ammette ritorno, anche se talvolta comporta deviazioni. Questo processo di crescita è analogo nell'individuo e nella storia culturale dell'umanità. Si possono distinguere tre tappe in linea ascendente: la prima è ancora preistoria, la seconda è cristiana, la terza è moderna. a. Le antiche culture hanno ignorato l'idea di l. del singolo, anche quando hanno parlato di essa. I pensatori greci e romani hanno preparato le vie per la comprensione dell'uomo e del suo posto nel mondo, sia partendo dall'anima come atto o dalla realtà sociale. La loro antropologia ha posto le premesse per la comprensione della l. b. L'idea di l. dell'uomo singolo e della persona procede dalla tradizione e dalla rivelazione giudeo-cristiana. Solo in essa si trovano tutti i presupposti per la l. dell'uomo: un Dio personale e creatore; un mondo prodotto liberamente da Dio; l'uomo immagine di Dio nel mondo, perciò persona, essere intelligente e volente, capax Dei, aperto alla totalità, al di sopra del tempo e dello spazio e allo stesso tempo essere-nel-mondo. Gesú Cristo è la rivelazione dell'uomo libero. Il suo Vangelo è la Buona Novella della l. Di fronte alla cultura che presentava l'uomo schiavo degli elementi, della necessità, o del destino, il NT proclama la vocazione di ogni uomo alla l. e non tollera che ci siano più schiavi. Ecco tre testi del Vangelo sulla l.: " La verità vi farà liberi " (Gv 8,32); " Dove c'è lo Spirito del Signore, c'è la l. " (2 Cor 3,17); " Voi... siete stati chiamati a l. " (Gal 5,13). c. L'idea cristiana di l., come seme nel solco, ha germinato lentamente ed ha avuto notevoli sviluppi nella storia. La comunità cristiana l'ha vissuta, la scolastica l'ha integrata nella teologia, l'epoca moderna l'ha esaltata in modi diversi. Pico della Mirandola ( 1533) cerca il grande miracolo della dignità dell'uomo nella l. I filosofi moderni danno alla l. il posto della ragione. Hegel ( 1831) ha capito bene l'origine cristiana e la vocazione di ogni uomo alla suprema l.2 I politici fanno le rivoluzioni, sullo stile di quella francese, in nome della l. Essere uomo significa per molti essere libero, talvolta con l. assoluta. Così, nella conquista della l. infinita, il moderno Prometeo diventerà ateo, perché non tollera nessuno sopra di lui e si azzarda a dire no a Dio. La storia della l. è anche la storia delle avventure e delle sconfitte umane!

II. L'uomo libero davanti a Dio. Gesú Cristo è il vero modello di l. dell'uomo davanti a Dio. La l. dell'uomo si sviluppa in tre momenti: negli atti, come l. di esercizio; nella scelta degli oggetti, come l. di specificazione; nelle scelte dei fini, in quanto l. per il bene o per il male.3 Ogni l. umana si realizza mentre si consuma come dono nell'itinerario verso Dio. L'uomo riceve da Dio l'essere e il destino, ma Dio lascia nelle sue mani la direzione del proprio essere. Il singolo uomo è una chiamata che attende una libera risposta. La l. non è soltanto un dono, ma anche un rischio e un peso che implicano responsabilità. L'uomo libero si perde quando fa la scelta del male o dimentica il suo fine; invece si salva, quando risponde alla chiamata di Dio con tutto il suo essere. L'uomo mistico salva in Dio la sua l., mentre vi trova la vera liberazione dalla necessità, dalla miseria, dal peccato e dalla morte.

Note: 1 De veritate, 24,2; 2 Enzyclopädie, 482; 3 Tommaso d'Aquino, De veritate, 22,6.

Bibl. G. Campanini, s.v., in NDS, 847-861; D. Centner, Christian Freedom and the Nights of St. John of the Cross, in Carmelite Studies, 2 (1982), 3-80; G. Gatti, s.v., in DTI II, 390-408 (bibl.); Giovanna della Croce, s.v., in DES II, 1448-1450; R. Guardini, Libertà, grazia, destino, Brescia 1957; A. Lobato, El principio libertad, in DoCom 30 (1977), 33-81; B. Mondin, L'uomo libero, Roma 1990; Tommaso d'Aquino, STh I, 83; I-II, 13; Id., De veritate, 22; Id., De malo, 6.

A. Lobato

B. Aspetto psicologico. Premessa. L'uomo è libero nel suo pensare e sentire o piuttosto è coartato dagli albori della vita ovvero dall'ambiente umano in cui vive? Molto del linguaggio quotidiano, cosiddetto spontaneo, (frasi come: " mi fai irritare ", " ti ho fatto soffrire ", ecc.) sembrano esprimere la convinzione che la persona possa essere condizionata da altri ad agire, a pensare, a provare sentimenti; e a sua volta può indurre altri a pensare, agire, provare sentimenti.

Si tratta non tanto di giudizi o di giustificazioni, piuttosto della razionalizzazione di vissuti (sentimenti e convinzioni) le cui radici risalgono alla dipendenza sperimentata nel rapporto con la madre nei primi anni di vita; e in molti casi sono condivise come indiscutibili dal gruppo sociale cui l'individuo appartiene.

In definitiva l'ingigantire o viceversa il negare la responsabilità dei propri vissuti, o peggio dei comportamenti, è sinonimo del viversi inconsapevole nei limiti dell'adattamento ai canoni che l'ambiente assegna. Un adattamento che permette di riconoscersi in alcuni attributi (cortese o duro o ribelle o introverso o lavoratore e così via) e che rassicura, pur nel limite della l. personale, perché sembra che renda prevedibili i rapporti con gli altri e la lettura delle situazioni sulla base di una propria " continuità caratteriale " (Romanini).

La l. umana è collegata invece alla essenza stessa del pensiero superiore che appunto distingue l'uomo dalle specie animali ed è espressione, anzi sinonimo, della responsabilità in prima persona dei propri bisogni e sentimenti e della capacità di gestirli nel qui e ora temporale, pur nella differenza delle circostanze e nell'evolvere dell'età e degli attributi personali con cui si possa essere identificati, nell'essere o meno limitati dall'esterno o dalla propria salute.

Ogni persona ha in sé sia un modo di viversi in adattamento al gruppo, sia un modo di esprimersi e riconoscersi strettamente proprio e, di volta in volta, può conoscere la " realtà " che lo circonda nell'uno o nell'altro modo, ridefinendo gli stimoli esterni sulla base delle proprie passate esperienze e dei valori e giudizi che ha formato dentro di sé. (Romanini, Eccles e Popper, Olivetti, Belardinelli).

Sia che si riconosca nell'aspetto di dipendenza alle leggi sociali come impossibilitato a scelte personali sia che, pur adeguandosi ad esse, si riconosca nella propria unicità che lo distingue da ogni altro, l'individuo è parte di una specifica società di cui ha interiorizzato i canoni generali di rapporto ed affermazione personale e la sua l., quando è tale, è l. nel profondo convincimento della similitudine in diritti e doveri di tutti gli esseri umani (Berne 1964, Romanini 1990).

Da quanto sopra detto deriva la necessità di leggere la persona umana come parte del suo ambiente, profondamente inserita in esso nella sua assoluta distinzione da ogni altra persona del suo gruppo. Il dilemma tra individualità e dipendenza dalle opinioni della comunità è risolto nella profonda l. della persona, responsabile del proprio pensare, agire e sentire, per quanto è consapevole di sé e della possibilità di riconoscere i propri bisogni, sentimenti e desideri, di gestirli responsabilmente nel rispetto di sé e dell'altro (Romanini).

Di conseguenza, l'essere umano, dal suo stesso concepimento e per tutta la sua vita terrena, è " divenire con ".

La persona psichicamente sana ha la possibilità di autoconoscersi fino ad entrare nel proprio massimo profondo, là ove la mente (psiche) si incontra con lo spirito, vivendo a quel punto sentimenti, intuizioni, pensieri, significati in sempre maggiore comprensione cognitiva e adesione affettiva; nel quotidiano però si esprime, almeno parzialmente con comportamenti di adattamento alla sua cultura ambientale e si vive nella limitazione affettivo-cognitiva delle scelte identificatorie dell'età evolutiva, basate sulla dipendenza obbligata dagli adulti (vissute di solito come protezione interiore di sopravvivenza).

Ciò avviene perché la persona, usando la sua parte psichica " sana ", prova sentimenti positivi e negativi reattivi agli stimoli, desideri e bisogni quindi sperimenta gioie ma anche dolori sia collegati al presente sia al futuro previsto o progettato che invadono tutti i livelli psichici, con il possibile coinvolgimento della sfera biologica, in modo assai più vivace di quando si vive nella identità di adattamento all'ambiente. Sia i conflitti pulsionali (e relative sublimazioni e neutralizzazioni) sia i conflitti competitivi (con i complessi di superiorità e inferiorità) o il mondo del simbolismo o le problematiche del ruolo sociale sono possibili momenti conflittuali del necessario adattamento primario all'ambiente portante e ai suoi valori di cui permangono in età adulta tendenze inconsapevoli e tracce limitate ad alcuni aspetti della personalità o che ancora invadono tutto il campo vitale (Berne, Romanini).

Si può aggiungere, parlando del solo livello psicologico, che a qualsiasi età e anche a partire dalla maggiore gravità di blocco esistenziale, la persona può rompere i lacci della pseudo sicurezza dell'adattamento per rischiare la vita in autostima e attaccamento paritario, sorretta nel cambiamento che sembra salto nel vuoto, da un innamoramento o da una conversione religiosa o da lunghi anni di analisi; sempre quindi e comunque in un rapporto che si fa di attaccamento con un'altra persona dotata di pensiero superiore e che si offre in attaccamento reciproco (Romanini).

Cosicché il piccolo problema adattivo, traccia ultima dell'adattamento infantile non ancora rivisitato, o il completo fallimento psichico (pazzia) richiedono lo stesso coraggio e la stessa compromissione affettivo-cognitiva per essere superati, perché il primo, di solito, è vissuto come risvolto della sicurezza personale e l'altro è carico di disperazione esistenziale.

Nell'uno e nell'altro caso il rischio del cambiamento è vissuto come rischio di morte e tutte le difese adattive formate dal soggetto si ergono contro di essa.

Il superamento delle temute " colonne d'Ercole " dell'identità in adattamento (che, positivo o negativo che sia, rende l'essere umano persona) permette una nuova più potente capacità emotivo-intellettiva; non muta la personalità ma la rende, pur nella sua stessa linea costitutiva, più complessa e flessibile.

I. L'essere umano è un tutto unico strutturato in entità diverse, tra loro saldamente coordinate e reciprocamente influenti: l'entità biologica (soma o corpo), l'entità psicologica (mente) e il nucleo interno esistenziale (spirito). La psiche (o mente) umana è distinta dallo spirito così come è distinta dal corpo, in un certo qual modo la mente è il trait-d'union tra l'uno e l'altro.

Se è facile definire cosa si intende per " corpo ", più difficile invece è definire " mente " e tanto più ancora " spirito ".

Neurofisiologi, psicologi e filosofi della scienza sono divisi sulla definizione di mente, tra " monisti " (tra cui cito ad es. Penfeld, Edelman, Rosenfield), che definiscono psiche (mente) il funzionare del cervello - per colonne cellulari o in percorsi bio-elettrici e così via - e " dualisti " (Popper ed Eccles), che la definiscono invece come il frutto e, successivamente, la guida della funzione cerebrale.

La psiche umana auto-evolve (in epigenesi psichica) a partire dal proprio patrimonio genetico in contatto con lo stimolo esterno, per mezzo del confronto interiore delle sue parti (colloquio o metabolismo mentale) (Erikson 1963). La psiche sana è sinonimo di psiche libera di reagire in modo autonomo (originale) anche quando il corpo sia impedito (Erikson).

La mente (o psiche) si esprime in sentimenti, pensieri, giudizi, comportamenti psico-fisici; talvolta distinti tra loro e consapevoli e talvolta confusi o inconsapevoli. Naturalmente, perché la mente possa funzionare bisogna che il substrato organico (cervello) sia sufficientemente integro.

Con " spirito " s'intende il nucleo (innercore) della unicità esistenziale di ogni essere umano (sia consapevole di sé sia inconsapevole), che lo guida nell'evolversi della sua vita e rende la specie umana diversa da ogni altra specie (James, Savorey, Romanini). In altre parole lo spirito sembra strettamente legato al " pensiero superiore ", che è specifico dell'uomo e a cui l'uomo stesso è risvegliato solo dal richiamo di un altro essere dotato di pensiero superiore. Ritengo che il pensiero superiore, che può essere attivo o meno nell'uomo, non sia identificabile con lo spirito ma faccia parte della psiche di cui è la parte cognitiva più nobile.

Siamo invece tuttora solo in grado di ipotizzare l'esistenza dello spirito, che anzi spesso è negata mentre, nel migliore dei casi, si confonde spirito con mente (Eccles).

A ben vedere si deve ammettere che la identificazione dello spirito con la mente, quindi il suo collegamento, in modo più o meno diretto, al funzionare del cervello derivi dall'attuale tendenza a vedere nella psiche il nucleo portante della persona umana (di cui il cervello è l'organo motore biologico), proprio come in tempi remoti s'identificò lo spirito con il respiro (il funzionare del polmone - da cui il nome psiché) e successivamente con il cuore, considerato centro della vita psico-biologica.

Ricordiamo che nel Getsemani Gesù Cristo asserisce: " Lo spirito è pronto ma la carne è debole " (Mc 14,38), ove con carne indica le tragiche previsioni di quanto sta per subire, il dubbio decisionale e l'angoscia: in definitiva quanto qui definiamo psiche.

II. La psiche (o mente) è nello stesso tempo o nello stesso modo distinta e correlata in reciprocità sia allo spirito che al corpo. Sulla base di queste intime correlazioni è quindi scindibile in livelli dal più al meno " profondo ": il livello psico-esistenziale, anello tra lo spirito e la psiche, vissuto dall'individuo come significato ultimo di sé; il livello socio-psichico, sede della identità e degli adattamenti sociali; il livello psico-biologico o istintuale, anch'esso sede, seppure meno portante nell'uomo che in altre specie, dell'adattamento identificatorio di sopravvivenza (Romanini).

Tutti e tre i livelli possono essere substrati inconsci dei sentimenti e dei comportamenti umani o possono divenire consapevoli, senza che in ciò entri l'azione volontaria del soggetto. Il rendersi consapevoli di ogni aspetto psichico è però la base della possibilità di gestire la propria vita: in ultima analisi della l. psichica.

La psiche cresce in potenzialità e complessità lungo tutta la vita, sia che il soggetto accetti la sfida di questo crescere sia che invece usi delle proprie maggiori energie psichiche nel tentativo di mantenersi protetto in una " fedeltà a se stesso " che in definitiva si traduce in comportamenti e sentimenti obbligati, già noti perché sperimentati nei primi tempi della vita come parte portante della propria identità.

Sia che si faccia responsabile delle proprie scelte e dei propri sentimenti, sia invece che si senta coinvolta con l'altro essere umano, la persona sviluppa la sua vita mentale nella mediazione interiore tra i propri sentimenti, pensieri, giudizi e gli stimoli nuovi che le provengono dall'esterno (Romanini).

Le capacità affettiva, cognitiva e di giudizio sono supposte in un continuo interferire reciproco (" colloquio interiore "), sorgente di nuove energie psichiche e di sempre più complessi e profondi modi di diventar persona, cioè se stesso.

La vita umana si distingue in due fasi: l'età evolutiva - di progressivo adattamento (più o meno consapevole) alla cultura del gruppo sociale onde divenirne membro efficiente (evitando il disadattamento); e una seconda fase di progressiva enucleazione dalle strettoie dell'adattamento sociale, per divenire sempre più persona, quindi originale e irripetibile nella consapevolezza di sé e consapevolmente responsabile dei propri comportamenti, pensieri, giudizi, sentimenti.

Da quanto fin qui detto si può concludere che la l. psichica è sinonimo della capacità di gestire se stessi in modo autonomo, pur nel variare degli eventi e dell'età e nella possibile perdita della libertà o della stessa salute fisica.

L. psichica non è dunque l'agire d'impulso senza tenere conto delle conseguenze, né tanto meno la sfrenatezza dei costumi.

Al contrario, s'intende per essa la capacità dell'individuo, in qualsiasi situazione, di venire in contatto con i propri bisogni, sentimenti e sensazioni e di prenderne responsabilmente cura, portando avanti così la propria vita nell'accettazione di sé e dell'altro.

La l., in definitiva, è prima di tutto un " vissuto " a livello mentale, espresso o meno in comportamenti, collegato alla capacità di pensiero superiore autoconsapevole; in altre parole, è l'essenza stessa della psiche umana sana.

III. Una migliore comprensione della l. psicologica umana è data dalla teoria del " Bisogno di Attaccamento ": un bisogno di accettare ed essere accettato dall'altro della propria specie, dimostrato dagli etologi anche nelle più diverse specie animali (Zazzò, Harlow, Dewaal). Un bisogno che porta all'adattamento ai comportamenti di specie, in ultima analisi, alla coesione del gruppo. Quanto più la specie si trova in alto nella scala evolutiva tanto più è evidente il bisogno di attaccamento che facilita i comportamenti di gruppo (non istintuali) la coesione e la struttura gerarchica utile alla sopravvivenza del gruppo stesso.

Nella specie umana, e solo in essa, il bisogno di attaccamento presenta, oltre all'aspetto affettivo, l'aspetto cognitivo, sorgente del pensiero superiore auto-consapevole (Romanini 1993).

Il bambino nasce capace di pensare (intelligenza sensomotoria e intuizione) e di sentire. Non sembra invece capace di colloquio psichico superiore, che deriverà dal metabolizzare in sé comportamenti e sentimenti della madre. Il bisogno di attaccamento, quindi, non solo gli permette il " seguire " la madre adattandosi a lei (Holmes), ma gli permette di interiorizzare come auto-protezione il di lei " pensiero superiore ". Il bambino attiva così in sé la terza potenza mentale che è stimolo al pensiero superiore, ma la usa per adattarsi ai bisogni e voleri altrui, così come la madre si adatta al figlio e insieme pretende dal figlio adattamento. In questo modo, fisiologico alla situazione concreta del bambino, prende piede la confusione tra attaccamento (paritario) e adattamento a chi ha potere, come è fisiologico nei primati e nelle specie inferiori (De Waal 1989). L'adulto presenta, insieme ai comportamenti di attaccamento, comportamenti e vissuti di adattamento - al gruppo sociale, al coniuge e così via -, comportamenti e modi di essere in parte inconsapevoli - cosiddetti spontanei -, spesso ripetitivi (Berne, Romanini).

Nell'età adulta sana l'" adattamento " all'altro è sempre più gestito volontariamente o meditato come scelta utilitaristica o di affetto. Non si tratta più dunque di un " adattamento " che permetta di trovare un proprio posto nel gruppo, ma del riconoscimento del bisogno affettivo e cognitivo che si ha dell'altro: in definitiva si tratta del vivere in libero (volontario) " attaccamento " all'altro, un attaccamento scelto e sofferto.

La l. psichica è in questa lettura il modo di essere della psiche umana, insito come potenzialità in ogni essere fin dalla vita endouterina e raggiunto nell'autoconsapevolezza delle proprie doti e limiti, a partire dal riconoscersi responsabile dei propri pensieri, sentimenti, comportamenti e non responsabile delle risposte altrui (entro i limiti della conoscenza reciproca). Modo che non è perso neppure quando sia persa la capacità di muoversi e di esprimersi (come ad es. nel coma), perché è proprio e specifico dell'individuo umano.

Bibl. E. Berne, What do You Say After You Say Hello?, Beverly Hills 1972; Analisi transazionale e psicoterapia, Roma 1977; C.M. Del Miglio, Ecologia del sé, Torino 1989; G. Edelman, Il presente ricordato, Milano 1991; E. Erikson, Infanzia e società, Roma 1966; J. Holmes, La teoria dell'attaccamento, Milano 1994; M. Olivetti Belardinelli, La costruzione della realtà, Torino 1986; W. Penfield, Il mistero della mente, Firenze 1991; K. Popper - J. Eccles, L'Io e il suo cervello, Roma 1981; M.T. Romanini, Riflessioni in tema di copione, in Riv. It. di Metod. Psicot. e A.T., 1 (1981), 1ss.; Id., I diversi livelli di interpretazione del sogno, in M. Gaudieri e L. Quagliotti (cura di), Il sogno nell'Analisi Transazionale, Napoli 1989; Id., Le basi teoriche della Analisi Transazionale, in Riv. It. di Metod. Psico. e An. Tra., 10 (1990), 19ss.; Id., Genitore come strumento di relazione, in Ibid., 13 (1993), 25ss.; F. de Waal, Far la pace tra le scimmie, Milano 1990; R. Zazzò et Al., L'attaccamento, Roma 1976.

M.T. Romanini

LIBERTÀ SPIRITUALE. (inizio)

Premessa. E opportuno precisare il posto della l. nell'itinerario che porta alla conoscenza amorosa di Dio. In quale misura l'unione con Dio, la vita in presenza di Dio o, in un modo più ristretto, le esperienze più specifiche della manifestazione di Dio all'uomo nella preghiera, richiedono, o inversamente, provocano la l.?

Per rispondere ad una tale domanda, occorre tentare, prima di tutto, una prima definizione della l. E difficile darla, se non in maniera negativa; l'uomo spirituale è colui che è libero riguardo alle passioni che lo legano a se stesso, direttamente o con la mediazione di realtà create, il cui uso non è perfettamente ordinato; ma è anche colui che è libero nei riguardi delle osservanze rituali o ascetiche; infatti, queste non hanno senso che nella misura in cui contribuiscono alla liberazione dalle passioni e alla purezza dell'apertura a Dio tanto della sensibilità quanto dell'affettività e dell'intelligenza. Mantenere rigidamente queste osservanze, quando non si è o non si è più in questa prospettiva, significa mancare di autonomia riguardo a ciò che dovrebbe essere solo lo strumento provvisorio di una purificazione e di una costruzione dell'uomo.

I. L. in s. Paolo. Se, per stabilire ciò che diciamo, facciamo appello a s. Paolo, vediamo che, contro ogni pretesa delle usanze farisaiche da inserire nel cuore della vita cattolica, l'apostolo non ha cessato di salvaguardare l'intera autonomia del cristiano: costui non è condizionato né dalla circoncisione né dal corteo legale delle pratiche che ne derivano (cf Gal 5,1-12), né da alcuna osservanza relativa al mangiare e al bere o ad ogni altro uso dei beni di questo mondo (cf Col 2,16-23); la mediazione di Gesù Cristo, unica sorgente dell'unione con Dio, trascende ogni pratica. In questo senso, la via cristiana verso la perfetta unione con Dio, non è segnata da alcun comandamento: essa poggia, infatti, solo sulla potenza del Mistero del Cristo e l'unica ascesi da essa richiesta è quella della fede. Questa l. si estende anche, paradossalmente, ad alcune pratiche pagane: il cristiano che sa come regolarsi sulle carni immolate ai presunti dei, che in realtà non sono che idoli, può mangiare di queste, se gli pare, poiché egli è capace di percepire la vanità della loro pretesa al sacro (cf 1 Cor 8,1-5).

Tuttavia, Paolo riconosce un limite e uno solo a questa l. riguardo alle pratiche: la carità, cioè la preoccupazione di edificare il fratello o almeno di non scandalizzarlo (cf 1 Cor 8,7-13). Ciò che guiderà, nella pratica, la condotta cristiana è esattamente ciò: fare quello che può costruire il fratello. Tutti i comandamenti, rituali od altri, conservano tutta la loro validità nella misura in cui sono un'espressione della carità, cioè del rispetto e della promozione dei fratelli. Ecco perché Paolo, da una parte ricorda che tutti i comandamenti si risolvono in quello della carità, (cf Rm 13,8-10; 1 Cor 13) mentre, d'altra parte, insiste presso i cristiani di Corinto perché essi non mangino le carni immolate agli idoli: anche se questo nutrimento è in sé lecito, poiché la consacrazione di queste carni agli dei è un atto senza valore oggettivo, esso potrebbe essere considerato da persone più deboli o meno informate come una compiacenza nei riguardi dell'idolatria. E, nello stesso spirito, Paolo stesso circoncide Timoteo, mentre ha tante volte proclamato l'inutilità della circoncisione per la salvezza (cf At 16,3).

Noi siamo condotti, così, al secondo aspetto della l.: un dominio sereno delle passioni. Il trionfo della carità suppone il distacco da sé in tutti i campi in cui un eccesso di affermazione potrebbe sbarrare il passo al progresso spirituale. Nei casi riportati da s. Paolo si tratta, alla fine, di un certo orgoglio, incapace di giudicare i problemi di coscienza altrui perché manca una giusta stima di se stessi. Ma dall'orgoglio si può passare a tutte le altre passioni, di cui Paolo fa, in diversi passi, elenchi impressionanti (cf Rm 1,29; Gal 5,19-21; Col 3,5). In altri termini, la lotta spirituale è il campo in cui progressivamente si compie la l.

Si potrebbero riprendere le stesse affermazioni relative alla l. di fronte sia alle osservanze, sia alle passioni, considerando il tema paolino della legge dello Spirito. Questi libera il cristiano da ogni comandamento esteriore; lo pone nella situazione intravista dai profeti Geremia (31) e Ezechiele (36), dove nessuno ha più nulla né da insegnare né da comandare al cristiano, perché lo Spirito all'interno di lui opera il discernimento di un atto da porre o da omettere, in accordo con l'unico comandamento della carità: gli altri insegnamenti o comandamenti servono, allora, da verifica del discernimento interiore a meno che non siano stati i coadiuvanti provvisori. Si arriva, così, alla condizione dell'uomo spirituale che si potrebbe chiamare anche uomo evangelico: quello le cui reazioni, tanto intime che esteriori, si trovano sempre d'accordo con l'insegnamento e l'esempio del Cristo. Il segno di una tale condizione è ciò che si vorrebbe chiamare il vivere a proprio agio, il " naturale " nell'arte di vivere, la gioia.

II. L. ed esperienza mistica. Qual è la relazione di una tale condizione di l. con l'esperienza mistica? Si potrebbe illustrarla ispirandosi all'insegnamento della tradizione monastica, qui ben rappresentata da Evagrio Pontico, sull'apatheia. La parola significa " assenza di passioni ", " stato non passionale " e la si potrebbe tradurre positivamente con un'espressione come " sereno possesso di sé ". Secondo Evagrio, questa condizione sopraggiunge nel momento in cui il lavoro dell'ascesi ha prodotto il suo frutto di purificazione, ma soprattutto essa è la porta della carità: l'uomo libero da ogni legame non è un signore stoico, " padrone di sé come dell'universo ", ma un uomo umilmente disposto a tutte le occasioni di carità, tanto verso Dio quanto verso gli altri. A sua volta, la carità è l'introduzione alla conoscenza (" gnosi "), cioè ad una percezione interiorizzata, ad immagine di quella di Dio, sia dell'universo delle cose che appaiono nella sua trasfigurazione, sia della realtà stessa di Dio che si manifesta nella vita ineffabile della Trinità. La scala è dunque questa: ascesa, apatheia (che io designerei qui come l.), amore (agape), conoscenza (gnosis).1 Tuttavia, - e forse contrariamente alla mistica abbastanza intellettualista di Evagrio, - non è necessario conservare un carattere cronologico a questa progressione: in realtà, c'è un andirivieni costante tra questi quattro elementi che giocano incessantemente l'uno sull'altro, in modo che si potrebbe ugualmente invertirne la progressione: la conoscenza spirituale di Dio incita all'amore; l'amore rende libero e la l. mantiene la serietà di un'ascesi senza scrupoli. Supponendo che Evagrio abbia veramente considerato come cronologica l'ascesa alla conoscenza, passando per l'amore e per l'apatheia, possiamo qui superarlo: forse c'è stato, infatti, nella storia della tradizione mistica una scoperta progressiva, al di là dell'intellettualismo delle prime sistematizzazioni mistiche, di ciò che si potrebbe chiamare l'uguaglianza dell'amore e della conoscenza: noi sappiamo che Dio è amore, conseguentemente ogni pratica o esperienza dell'amore è della stessa natura di ogni pratica o esperienza della conoscenza: nell'uno e nell'altro caso, è la realtà stessa di Dio che si manifesta attraverso una duplice e complementare esperienza. Colui che ama conosce e colui che conosce ama e tanto l'amore che la conoscenza stabiliscono la persona nella l., mentre questa si schiude in conoscenza come in amore e sfocia in un giusto amore fraterno.

Nota: 1 Cf tra molti altri testi: Ad monachos, 3-6 e 67-69; Praktikos, 81 e 84; Kephalaia gnostika, I, 84-87.

Bibl. A. Agaësse, Liberté: IV: Experience des mystiques, in DSAM IX, 824-838; H.U. von Balthasar, Spiritus Creator, Brescia 1972; I. De la Potterie - S. Lyonnet, La vita secondo lo spirito, condizione del cristiano, Roma 1967; T. Goffi, Uomo spirituale, in NDS, 1630-1647; J. Moltmann, La Chiesa nella forza dello Spirito, Brescia 1976; R. Penna, Lo Spirito di Cristo, Brescia 1976.

G. Lafont

LINGUAGGIO METAFORICO. (inizio)

I. Definizione. Nel contesto della psicologia della comunicazione il termine " metafora " viene applicato a qualunque slittamento di significato. Perciò, ogni qual volta un termine non è inteso ad litteram viene indicato come " metafora ", anche se da un punto di vista strettamente semantico si tratta di analogia, esempio, paragone, sineddoche, somiglianza, parabola, mito o simbolo. Nell'uso corrente della psicologia della comunicazione ormai molti usano il termine " metafora " per indicare semplicemente ogni tipo di " linguaggio figurato ".

Tutte le scienze fanno ampio uso della metafora, così come tutte le religioni fanno ampio uso di miti e simboli. La scienza e la fede comunicano i loro contenuti con metafore.

In questa sede si tralascia l'esposizione delle varie teorie sulla metafora.1

II. Metafora e psicologia. Nell'ambito della psicologia clinica è di massima importanza anche la comunicazione non-verbale inconscia: il sintomo è considerato come la metafora di una disfunzione ed anche il sogno è visto come una metafora di una situazione personale. Il sintomo e il sogno sono il risultato di un processo di metaforizzazione inconscio nel senso che l'inconscio comunica in modo metaforico. La metafora, perciò, non è soltanto un'espressione verbale conscia, ma anche non-verbale inconscia.

Il modulo metaforico-analogico trasmette in modo sintetico un'informazione molto complessa o un'esperienza emotivamente pregnante con una comunicazione fortemente suggestiva, ma anche con una maggiore possibilità di equivoco. L'equivoco interpretativo della metafora sta nel fatto che essendo una comunicazione indiretta " dice e non dice ", " allude " e " lascia intendere senza affermare ". L'interpretazione di una metafora può essere paragonata a un test proiettivo: a seconda di come viene interpretata offre uno spunto per evidenziare bisogni personali.

La psicologia è molto interessata alla metafora per questa sua efficacia e pregnanza comunicativa: la comunicazione metaforica è la modalità più suggestiva e più suggestionante, e la più completa. Infatti, dall'analisi della comunicazione metaforica - così come qui intesa - è possibile conoscere una persona molto meglio che con tanti test. Allo stesso tempo, le nostre metafore - consapevoli o meno, verbali e non-verbali - dicono di noi molto più di quanto non dicano lunghe elucubrazioni sostenute dalla logica razionale.

III. Psicogenesi della comunicazione metaforica. Fin dall'età di due anni 2 si cominciano a produrre metafore; inizialmente sono più quelle dovute al gioco simbolico (somiglianza funzionale per le azioni di finzione; un oggetto viene trasformato verbalmente e gestualmente) che non quelle sensoriali. A quattro anni queste ultime metafore sensoriali cominciano a prevalere su quelle del " far finta ": la realtà viene organizzata e intesa in base alla somiglianza sensoriale e funzionale ed è anche con queste categorie che la realtà viene comunicata. E così che la metafora aiuta a interpretare, quindi a dare un senso alla realtà. Infatti, fin da sempre si possono rilevare le differenze individuali di stile nella produzione delle metafore e questo riflette la diversità nei processi cognitivi di base.

Fra i quattro e i sei anni si comincia a distinguere la somiglianza letterale da quella metaforica.3 Tra i due e i sei anni la produzione di tutti i tipi di metafora diminuisce sempre più fino a un quasi rifiuto di esse a otto-dieci anni.4 Questa fase è denominata " convenzionale " o " letterale " e questo si può osservare anche nei disegni.

La capacità di produrre analogie e metafore riprende verso gli undici anni progressivamente con la crescita e ognuno sviluppa una modalità produttiva di metafore che risultano sempre più personalizzate e questo processo è, quindi, correlato con il processo di individuazione. La consapevolezza che il linguaggio letterale, anche quando è dominato bene, è un veicolo molto povero per comunicare contenuti molto ricchi porta a uno sforzo creativo: inventare una modalità alternativa di comunicazione, quella metaforica.

La produzione metaforica può, così, rilevare non solo la creatività di una persona, ma anche il tipo di equilibrio psichico o di maturità psicologica. In questo caso le metafore si possono differenziare in patogene e terapeutiche.

Quanto più un'emozione è forte tanto più necessita di una comunicazione metaforica per essere trasmessa; in questo senso, l'arte è sicuramente uno degli ambiti più ricchi di metafore. Anche la religione è un ambito molto ricco di metafore proprio per le forti emozioni che in esse vi si esprimono e per i ricchissimi contenuti esperienziali da comunicare.

IV. Metafore e psicologia della religione. Nel comunicare l'esperienza religiosa è impossibile fare a meno della metafora e del linguaggio figurato. Il rapporto personale col trascendente è molto astratto e complesso e necessita di una comunicazione concreta e semplice per essere trasmesso e condiviso. Tutti i testi sacri di tutte le religioni e tutte le esperienze mistiche di qualunque cultura e tempo fanno ampio uso di linguaggio metaforico-simbolico. Senza la metafora il rapporto con Dio (personale o di un popolo, in un evento o in una storia) sarebbe incomprensibile e incomunicabile.

Anche in questo caso, l'esperienza religiosa è come l'esperienza di un amore umano: entrambe possono essere espresse all'interessato e agli altri molto più col senso metaforico-simbolico che con il senso letterale. Spesso il rapporto di amore Dio-uomo diventa una metafora del rapporto d'amore uomo-donna e non si può escludere che anche il secondo possa essere una metafora del primo: come due specchi uno di fronte all'altro.

In tutte le religioni il l. ha una forte prevalenza su quello letterale e molti conflitti religiosi hanno nella loro origine un equivoco interpretativo: una norma morale o un dato di fede comunicato con l. viene inteso alla lettera, o il contrario.

In genere, gli integralisti e i fondamentalisti di qualunque religione hanno una forte tendenza a interpretare alla lettera norme, riti e dogmi. Costoro temono che un'interpretazione diversa possa portare al lassismo, al relativismo o alla dissoluzione della religione. Chi ha questa tendenza all'interpretazione letterale mostra una certa rigidità psicologica caratterizzata da scrupoli, ritualismi o pensieri ossessivi, insicurezza emotiva e bisogno di una forte autorità. D'altro canto, l'uso del linguaggio figurato di per sé non garantisce un grado di maturità o un quoziente intellettivo superiore; infatti, psicotici e nevrotici possono abbondare di metafore.

La comunicazione metaforica per essere di aiuto a un quadro diagnostico deve prendere in considerazione almeno due funzioni: quella interpretativa e quella produttiva. Una forte tendenza a interpretare alla lettera ciò che è metaforico e la produzione di metafore patogene possono facilmente indicare negli adulti una problematicità nei processi cognitivi. Una buona capacità a distinguere il senso metaforico da quello letterale, unita alla capacità di produrre metafore terapeutiche, è indice di un buon equilibrio psichico.

Una metafora terapeutica si differenzia da quella patologica soprattutto per le sue psicodinamiche interne. Mentre le metafore patologiche indicano in modo figurato un processo evolutivo che rimane bloccato, le metafore terapeutiche rappresentano figurativamente delle psicodinamiche di crescita o di possibilità di sblocco.

Un esempio di tutto ciò sono le parabole di Cristo che presentano una psicodinamica evolutiva, di crescita, di superamento, un andare avanti, proseguire. I simboli di queste parabole sono presi dalla natura e dalla vita quotidiana: seme, piante, pesca, lievito, denari, convivi, relazioni (padre-figlio, padrone-servo, debitore-creditore, pastore-pecore), ecc...

Cristo stesso mette in guardia contro l'equivoco interpretativo della comunicazione metaforica: egli parla in parabole, " perché guardino, ma non vedano, ascoltino ma non intendano, perché non si convertano e venga loro perdonato " (Mc 4,12; Mt 13,13).

Nel contesto della psicologia della religione sarà interessante continuare questo argomento soprattutto approfondendo le modalità e le motivazioni di questa comunicazione metaforica.

V. Mistica e comunicazione metaforica. L'esperienza mistica è così ricca che l'interessato - nonostante faccia tutti gli sforzi necessari e pur con una buona padronanza linguistica - non potrà mai comunicarla adeguatamente in modo diretto. Analizzare il linguaggio figurato-metaforico del mistico significa accostarsi maggiormente alle sue immagini mentali, alle sue sensazioni ed emozioni più inesprimibili.

Si può fare un breve tentativo con s. Giovanni della Croce e s. Teresa d'Avila premettendo che uno studio più completo può avvenire solo con una ricerca più ampia e più approfondita sulla personalità del mistico.

S. Giovanni della Croce, volendo evidenziare quattro aspetti dei danni degli appetiti, si esprime con questo linguaggio figurato: a. " Gli appetiti stancano e affaticano l'anima perché essi sono come bambini inquieti e difficili a contentarsi, che chiedono continuamente alla madre ora questa ora quella cosa e non si appagano mai. Come si stanca e si affatica chi scava, spinto dalla cupidigia del tesoro, così si stanca e si affatica l'anima per conseguire ciò che chiedono i suoi appetiti... Lasciandosi vincere dagli appetiti, l'anima si stanca e si affatica perché è come un malato di febbre, che non sta bene perché questa non lo lascia libero, e che sente crescere ogni minuto la sete... L'anima che desidera soddisfarli [gli appetiti] è come colui che, avendo fame, apre la bocca per cibarsi e si inaridisce di più, perché quello non è il cibo adatto per lui... Come si stanca e si affatica l'innamorato se vede crollare i suoi disegni proprio il giorno in cui spera di vederli realizzati, così si stanca e si affatica l'anima che si lascia trascinare da tutti i suoi appetiti... L'appetito è simile al fuoco, il quale cresce allorché viene alimentato dal combustibile, ma deve necessariamente spegnersi dopo che lo ha consumato ". b. " Il secondo aspetto del danno positivo che gli appetiti causano all'anima, è quello di tormentarla e di affliggerla come è tormentato chi subisce la condanna della tortura della corda, il quale, legato a qualche sostegno, non si riposa finché non è disciolto... Come tormenta e affligge se stesso colui che nudo si corica su un letto di spine e di aculei..., come l'agricoltore animato dal desiderio della messe tormenta il bove sotto l'aratro, così la concupiscenza affligge l'anima sotto l'appetito per conseguire ciò che desidera... Come è tormentato e afflitto colui che cade in mano ai nemici, così l'anima che si lascia trascinare dai suoi appetiti ". c. " Il terzo effetto prodotto dagli appetiti nell'anima è quello di accecarla e oscurarla. Come i vapori oscurano l'aria e non permettono che il sole risplenda, come lo specchio appannato non può riprodurre nitidamente il nostro volto o come nell'acqua melmosa non si distingue bene la faccia di chi si guarda, così l'anima... Tutte le volte che l'anima si lascia guidare dall'appetito diventa cieca poiché è come colui che ci vede e si lasciasse guidare da chi non ci vede, quindi è come se tutti e due fossero ciechi ". d. " Il quarto danno che gli appetiti recano all'anima è quello di insudiciarla e di macchiarla... Come l'oro e il diamante se vi si colasse sopra la pece rimarrebbero brutti e impasticciati a causa del calore che la riscaldò e la liquefece, così l'anima... Come i segni della fuligine marchiano e deturpano un volto molto bello e perfetto, così gli appetiti... ".5

Possiamo aggiungere, riportando un brano sul perché Giovanni della Croce ricorra al linguaggio figurato: " E perché s'intenda bene ciò, ricorro a una similitudine... ".6 " Ciò si comprenderà meglio per mezzo di questa similitudine... ".7 Perciò, sembra che il ricorso all'uso delle metafore sia giustificato da una migliore comprensione; gli psicolinguistici direbbero: da una comunicazione più efficace.

Un breve accenno, ora, alla comunicazione metaforica di s. Teresa d'Avila la quale per spiegare i quattro gradi dell'orazione riporta un paragone, non suo: " Chi comincia deve far conto di cominciare a coltivare, per diletto del Signore, un giardino in un terreno assai infecondo, pieno di erbacce. Sua Maestà strappa le erbe cattive e pianta le buone. Ora, supponiamo che questo sia già fatto quando un'anima si decide per l'orazione e ha cominciato a praticarla; con l'aiuto di Dio dobbiamo, da buoni giardinieri, procurare che quelle piante crescano e aver cura d'innaffiarle, affinché non muoiano e producano fiori di molta fragranza, per ricreare nostro Signore, in modo che venga spesso a dilettarsi in questo giardino e a godersi questi fiori di virtù. Vediamo ora in che modo si può innaffiare un giardino, per capire che cosa dobbiamo fare, se la fatica che ci costerà il nostro impegno sarà maggiore del guadagno e fino a quanto tempo essa durerà. A me sembra che un giardino si possa innaffiare in quattro modi: o con l'attingere acqua da un pozzo, il che comporta per noi una gran fatica; o con noria e tubi, tirandola fuori mediante una ruota (io l'ho girata alcune volte), il che è di minor fatica del primo e fa estrarre più acqua; oppure derivandola da un fiume o da un ruscello: con questo sistema si irriga molto meglio, perché la terra resta più impregnata d'acqua, non occorre innaffiarla tanto spesso, e il giardiniere ha molto meno da faticare; infine, a causa di un'abbondante pioggia, in cui è il Signore ad annaffiarla senza alcuna nostra fatica, sistema senza confronto migliore di tutti quelli che ho detto ".8

Un'altra immagine metaforica è quella che s. Teresa usa per spiegare la forza del nutrimento spirituale: " E come un cibo mangiato da molte persone; quelle che ne mangiano poco rimangono solo con un buon sapore per poco tempo; quelle che ne mangiano di più ne hanno aiuto per sostentarsi; quelle che ne mangiano molto ne ricevono vita e forza. L'anima può nutrirsi tante volte di questo cibo di vita e con tale abbondanza da non trovare più gusto in alcun cibo che non sia questo, vedendo quanto bene ne tragga e avendo ormai fatto l'abitudine a un sapore così squisito che vorrebbe cessar di vivere piuttosto che dover adattarsi ad altri cibi, capaci solo di togliere il buon sapore che quello le ha lasciato ".9

Un'ultima breve metafora è quella riferita allo stesso concetto di forza: " Egli [Dio] allora, per quanto noi facciamo per resistergli, rapisce lo spirito, come un gigante prenderebbe una pagliuzza e non c'è resistenza che valga ".10

Conclusione. Lo studio della comunicazione metaforica nel contesto della psicologia della religione è una delle nuove prospettive della ricerca scientifica e teologica che sicuramente porterà a una diversa e migliore comprensione dell'esperienza di Dio.

Tale ricerca non si dovrebbe limitare solo alla comunicazione scritta - come appunto riferita ai testi sacri e agli scritti dei mistici - ma dovrebbe estendersi anche ad altre modalità comunicative: quella verbale, per esempio, usata nella catechesi e nella pastorale.

C'è poi un'altra modalità comunicativa di estremo interesse psicologico: quella non-verbale. Per comunicazione metaforica non-verbale s'intende la gestualità, la quale comporta due dimensioni: quella conscia - come nella liturgia e nell'uso dei simboli - e quella inconscia con significati molto difficili da decodificare. Questa comunicazione metaforica non-verbale inconscia è quella che, in alcuni soggetti religiosi, si esprime con manifestazioni psicofisiologiche: stimmate, sudori sanguigni, trance. Spesso questa modalità comunicativa è stata attribuita a personalità isteriche la cui espressività è caratterizzata dalla " conversione " di conflitti psichici inconsci in disfunzioni fisiologiche. La conversione isterica non segue le leggi del caso. Nella sua specifica tipologia conserva un rapporto isomorfico con la psicodinamica dei conflitti inconsci che l'hanno provocata. Questa teoria, però, non può essere ritenuta come l'unica ipotesi per spiegare la dimensione psichica nella formazione delle stimmate. Si può arrivare alla stessa fenomenologia anche con il processo di identificazione in una personalità fortemente suggestionabile. Qualunque sia l'ipotesi esplicativa, rimane il fatto che anche questi fenomeni somatici possono essere considerati come una metafora di contenuti - in questo caso di natura religiosa - sicuramente molto complessi e altrettanto difficili da comunicare con altre modalità.

Rimane pure il fatto che Dio potrebbe servirsi anche di una personalità isterica (e delle sue eventuali conversioni) per il suo piano di salvezza; altrettanto vale per le allucinazioni di uno schizofrenico così come anche per altri disturbi fisici e mentali. Uno dei problemi pratici non è tanto la teoria quanto piuttosto l'interpretazione, quindi il valore, di queste comunicazioni dalle forme patologiche ma dai contenuti non necessariamente anch'essi patologici. Un contenuto sano, come per esempio " la Buona Novella " può essere comunicato - con o senza l'uso delle metafore - con modalità patologiche; ma una comunicazione patologica può trasmettere contenuti sani? Ossia, una manifestazione isterica può comunicare metaforicamente un contenuto sano, come appunto " la Buona Novella "? Certo, non possiamo limitare Dio a servirsi solo dei sani, perciò anche un malato (nel corpo o nella mente) può, con la sua specifica modalità comunicativa (metaforica o meno), contribuire autenticamente al piano di salvezza di Dio. Rimane però sempre aperto il problema dell'interpretazione.

Note: 1 Le principali teorie sulla metafora sono: 1) La metafora come anomalia semantica: J. Fedor - J. Katz (edd.), The Structure of the Language, Englewood Cliffs 1964; 2) La teoria aristotelica della metafora come comparazione: Aristotele, Retorica e Poetica, in Id., Opere, Bari 1973; R.P. Honeck - R.R. Hoffman (edd.), Cognition and Figurative Language, Hillsdale 1980; 3) La teoria dell'interazione della metafora: J. Richards, La filosofia della retorica, Milano 1967; M. Black, Models and Metaphors, New York 1962; 4) La teoria di U. Eco: U. Eco, Trattato di semeiotica generale, Milano 1975; 5) La teoria di P. Ricoeur: P. Ricoeur, La metafora viva, Milano 1981; 6) La teoria del Gruppo Mi di Liegi: J. Dubois et Al., Retorica generale, Milano 1976 per accennare alla relazione metafora-psicologia, alla psicogenesi della comunicazione metaforica per poi proseguire con la metafora nella psicologia della religione e concludere con mistica e comunicazione metaforica; 2 R. Brown, La prima lingua, Roma 1979; E. Winner, New Names for Old Things, in Journal of Child Language, 6 (1979), 469-491; R. Billow, Observing Spontaneous Metaphor in Children, in Journal of Experimental Child Psychology, 31 (1981), 430-435; 3 S. Vosniadou - A. Ortony, The Emergence of Literal-Metaphorical-Anomalous Distinction in Young Children, in Child Development, 54 (1983), 154-161; K. Chukovsky, From Two to Five, Berkeley 1968; K. Koch, Desideri, sogni, bugie, Milano 1980; 4 E. Marti, La pensée analogique chez l'enfant de 2 à 7 ans, Genève 1979; J. Snyder, The Spontaneous Production of Figurative Language and Word Play in the Grade School Years, Boston 1979; H. Gardner et Al., Children's Metaphoric Production and Preferences, in Journal of Child Language, 2 (1975), 125-141; 5 Salita del Monte Carmelo I, 6,6; 7,1-2; 8,1.3; 9,1; 6 Ibid. II, 5,6; 7 Ibid. 5,9; 8 Vita 11, 6-7; 9 Castello interiore, 16; 10 Ibid., 13.

Bibl. Aa.Vv., Simbolo, metafora, allegoria, Padova 1980; V.C. Aldrich, Linguistic Mysticism, in The Monist, 49 (1976)4, 470-492; L. Alici, Il linguaggio come segno e come testimonianza. Una rilettura di Agostino, Roma 1976; C. Cacciari, Teorie della metafora, Milano 1991; G. Conte (ed.), Metafora, Milano 1981; W.K. Estes, L'orientamento dell'elaborazione dell'informazione nello studio dei processi cognitivi: una confluenza di metafore e di metodi, in N. Caramelli (cura di), La psicologia cognitivista, Bologna 1983; M. Figura, Bildsprache, in WMy, 61-63; G.L. Hallett, Mistica e filosofia linguistica, in Aa.Vv., Mistica e misticismo oggi, Roma 1979, 103-111; A. Ortony, Metaphor and Thought, Cambridge 1979; A. Pacciolla, La comunicazione metaforica, Roma 1991; P. Ricoeur - E. Jungel, Dire Dio: Per un'ermeneutica del linguaggio religioso, Brescia 1978; H. Rikof, The Concept of Church: A Methodological Inquiry into the Use of Metaphors in Ecclesiology, London 1981; J.M. Soskice, Metaphor and Religious Language, Oxford 1985; F. Watts - M. Williams, Psicologia della fede, Cinisello Balsamo (MI) 1996.

A. Pacciolla

LINGUAGGIO MISTICO. (inizio)

I. Il mistico e la parola. Sul difficile rapporto che il mistico ha con il l. si sono soffermati, sia pur talora incidentalmente, tutti coloro che hanno fatto del misticismo l'oggetto delle loro ricerche. La parola del mistico, si è detto, è una parola " spezzata ", una parola cioè che è chiamata a dire ciò che non le è possibile dire. La scrittura mistica è sincopata, frammentata, irregolare, fortemente trasgressiva.

Per il mistico le parole non sono domestiche né addomesticabili, esse rimangono per lui sempre allo stato selvaggio. Ecco, quindi, che il suo parlare non è mai un parlare ozioso e routiniero, un inoffensivo esercizio domenicale, bensì un gesto di grande impertinenza verbale. I mistici, scrive Massignon, ci fanno " dimenticare la prigione delle regole metriche e retoriche ", i loro scritti liberano il " pensiero dalle regole sintattiche abituali ". Il l. per loro non è un " semplice strumento commerciale, un giocattolo estetico ", ma " una fiocina destinata a trarre l'anima a Dio per la sua salvezza o la sua dannazione ".

Al mistico il l. spesso si impunta, talora egli non fa altro che ripetere a singhiozzi un alfabeto, la parola è sempre una barriera che gli riesce difficile superare. " Vi è un conflitto costante - scrive K. Vossler - tra il mago che si serve del l. come di uno strumento e di conseguenza tenta di ridurre, per quanto è possibile, anche Dio sotto il suo controllo, e il mistico che spezza, svaluta e respinge tutte le forme ". Il mistico non crede che il l. possieda una onnipotenza semiotica, anzi egli giunge a mettere in dubbio la stessa possibilità di parlare. La parola sulla sua bocca si fa timida, teme di profanare il totalmente Altro, teme continuamente di cadere in un antropomorfismo irriguardoso.

II. Nuovo l. Ecco che il mistico aspira a fabbricarsi una lingua nuova, una lingua degli angeli. Talora tra i mistici si verificano fenomeni di glossolalia, che più raramente danno luogo alla fabbricazione di una vera e propria lingua (glossopoiesi). La glossolalia, cioè il parlare in lingue inesistenti e che, si afferma, solo Dio o gli angeli possono capire, è una delle direzioni che il mistico può, sui sentieri del l., imboccare.

Da quanto abbiamo sinora detto si può comprendere quanto sia complessa la problematica del l. mistico. Di ciò si era, del resto, già accorto Jean Baruzi agli inizi degli anni Trenta, come risulta da un suo bel saggio intitolato Introduction à des recherches sur le langage mystique. " Il mistico - egli scriveva - aspira a trovare un l. nuovo, suscettibile di esprimere ciò che prova. Se per un verso ritiene qualsiasi traduzione impossibile, dall'altro fa appello a una rigenerazione di tutto ciò che può aiutarlo a tradurlo ".

Gli scandali linguistici dei mistici, le loro trasgressioni categoriali, le loro innovazioni semantiche, ma soprattutto quel loro mettere a dura prova il vocabolario con cui il teologo lavora, furono a lungo fortemente combattutti. Per ottenere che le loro " eccentricità " linguistiche non fossero duramente condannate, i mistici, scrive Michel de Certeau, dovettero combattere " una guerra di cento anni sulla frontiera delle parole ".

Il mistico, scrive sempre il de Certeau, celebra a livello linguistico l'apologia dell'imperfetto e pregia la retorica dell'eccesso. Del resto, già Diego di Gesù aveva difeso la licenza da parte del mistico " di usare "termini imperfetti, impropri e diversi", "viziosi per eccesso" e di "abbassarsi a delle similitudini non decorose" ". Lo stile del mistico è lessicalmente e stilisticamente " impudico ". Il mistico, cioè, non teme di sovvertire la grammatica (i versi di Silesio, nota H. Plard, sono costruiti, talora, nel " disprezzo della correttezza grammaticale ") né di far uso, come notava già il Sandeus, di termini " semibarbari e persino del tutto barbari ".

III. Il l. poetico. Come è stato osservato da molti studiosi, le produzioni verbali del mistico sono profondamente consonanti con quelle del poeta. Infatti, tanto il mistico quanto il poeta tendono ad essere dei sovversivi sul piano della lingua, creano il loro l. via via che procedono. Anche il mistico compie a livello linguistico ciò che Eliot diceva essere tipico del poeta, e cioè " deviare il l. rendendolo significativo ", e per entrambi vale ciò che Paul Valery affermava essere proprio del vero scrittore e cioè l'essere " un uomo che non trova le parole ".

Il mistico ama le metafore assolute, audaci, vive. La metafora, per il mistico, non è un semplice ornamento o un sostituto della similitudine, essa è destinata a provocare incrementi semantici, a fornire nuove informazioni, a generare nuove conoscenze e scoperte. Le metafore, in breve, spesso sono per il mistico strumenti cognitivi, talora essi se ne servono per rimediare ad un vuoto del vocabolario. La metaforicità erompente dei mistici fa violenza all'intuizione, cosicché comprendere le loro metafore equivale a decifrare un codice, ecco perché la loro parafrasi letterale comporta sempre una perdita di contenuto cognitivo.

IV. Figure retoriche. La trasgressività linguistica del mistico privilegia alcune figure retoriche invece di altre. Per Warren e Wellek, in particolare, sono " figure cristiane, mistiche e pluralistiche ", il paradosso, l'ossimoro e la catacresi. A questo proposito Gershom Scholem afferma: " E noto universalmente che le descrizioni date dai mistici delle loro esperienze e del mondo del divino sono piene di paradossi d'ogni specie e d'ogni genere ". Il paradosso, quindi, è la casa del mistico. Ad esso, in verità ricorrono anche i teologi, ma in quelli dei mistici vi è una maggiore selvaggeria, la brutalità logica di una contraddizione che non si cela, ma anzi ama mostrarsi.

Il paradosso non è per il mistico una semplice espressione retorica, è piuttosto una " vigorosa formulazione di qualcosa di essenziale alla fede cristiana ", ma nello stesso tempo è anche una spia significativa delle difficoltà linguistiche in cui egli si dibatte, ci fa avvertiti che siamo in presenza di una impasse, di una insufficienza di l., in altre parole che ci stiamo avvicinando a grandi passi verso il balbettamento e il silenzio.

Oltre al paradosso, anche l'ossimoro è una costante stilistica delle produzioni verbali dei mistici; gli esempi a questo proposito, potrebbero essere infiniti: in Maria Maddalena de' Pazzi ci imbattiamo in " sollazzoso martirio ", " cieco vedere ", " infedeltà di fede ", " cantare con silenzio ", " vedere di nulla vedere ", e così via. La predicazione ossimorica degli opposti serve ai mistici per cancellare i confini logici stabiliti, per produrre enunciati autocontraddittori significativi, per spingere sempre più lontano le frontiere del non senso.

L'ossimoro è, a ben guardare, " la sola espressione soddisfacente dell'estasi che provoca l'esperienza del sacro ". Ed è tale perché nel mondo della dualità crea linguisticamente la coincidentia oppositorum (che secondo Cusano era la definizione meno imperfetta di Dio), perché fonde in unità due immagini contrastanti o due entità linguistiche portatrici di significati concettuali opposti. In breve, l'ossimoro è preferito dal mistico perché gli consente di esprimere qualcosa di ineffabile, perché è lo strumento migliore per parlare del non dicibile.

Conclusione. Riassumendo, possiamo dire che le parole dei mistici sono, in primo luogo, delle parole fortemente trasgressive. In secondo luogo, esse non sono tanto delle parole parlate quanto piuttosto delle parole parlanti. Nelle loro pagine, infatti, ci si imbatte in una lingua giovane, sorgiva, originaria, festiva, in una lingua " sorvolata di stelle, inondata di mare ". In terzo luogo, le parole dei mistici sono, in genere, parole più dette che scritte. Esse, infatti, presentano vuoti e trascuratezze, discontinuità e tortuosità, in breve un incedere talora precipitoso che è proprio delle parole parlate. In quarto luogo, sono parole, per così dire, clandestine, nel senso che non nacquero, nella quasi totalità dei casi, per circolare né tantomeno per essere stampate e lette da un pubblico occasionale. I mistici non scrissero in vista della pubblicazione, non furono scrittori di mestiere, spesso anzi scrissero controvoglia e con riluttanza.

Numerosi studiosi, infine, hanno approfondito i nessi e le differenze che intercorrono tra il l. mistico e quello teologico (R. Garrigou-Lagrange, J. Maritain, Y. Congar) e tra il l. dei mistici e quello dei profeti (A. Heschel, G. Scholem). Per Garrigou-Lagrange tanto il l. dei mistici quanto quello dei profeti hanno i " loro meriti ". Quello teologico è " più astratto e più preciso ", quello mistico " più vivo, più affascinante e anche più sintetico e, in un modo concreto, più comprensivo. Ciò è dato dal fatto che esso non esprime solo delle idee astratte, ma delle idee vissute e un ardente amore di Dio; di conseguenza, evita molte circonlocuzioni e distinzioni speculative che bloccherebbero lo slancio dell'amore di Dio ".

Il l. dei mistici, inoltre, nonostante la sua imprecisione e, talora, la sua oscurità è " più elevato di quello dei teologi " ed è tale poiché esprime una conoscenza più alta e si avvicina al " modo di parlare del Signore nella Scrittura " ben più di quanto faccia il linguaggio teologico. A suo avviso, il linguaggio dei mistici e quello della teologia debbono " illuminarsi scambievolmente ". Per Maritain, teologia e mistica pur parlando " un l. differente " si trovano d'accordo, anche se, ovviamente, pena il loro corrompimento, le formule proprie del mistico non possono essere immesse tali e quali nel traffico dei discorsi del teologo e viceversa.

Non pochi studiosi, tra cui Abraham Heschel e Gershom Scholem, hanno sottolineato le differenze che intercorrono tra la rivelazione profetica e l'esperienza mistica. E tra i tratti caratteristici che consentono di distinguere a priori e radicalmente l'esperienza del mistico da quella del profeta vi è anche un diverso uso del l. Il mistico, infatti, è protagonista di un'esperienza ineffabile, di un'esperienza il cui contenuto non è esprimibile mediante le parole, talora il mistico è costretto a rinunciare a qualsiasi formulazione verbale per rifugiarsi nel silenzio. Ebbene, " la profezia, dal canto suo, è priva di significato senza espressione verbale. La sua vera sostanza è una parola che dev'essere trasmessa, un messaggio da impartire ad altri".

La funzione del profeta, dunque, consiste " nel presentare un messaggio in termini crudi e chiari più che in oracoli e presagi oscuri... A differenza della balbuzie dell'estatico o del linguaggio negativo del mistico, la parola del profeta è come fuoco, come un martello che spezza le pietre". Se il mistico inciampa sui sentieri del linguaggio, il profeta li percorre con grande sicurezza, senza alcuna incertezza. Le parole non costituiscono un inciampo ai suoi passi e per il messaggio che è chiamato ad annunciare trova sempre una formulazione verbale adeguata.

Bibl. V.C. Aldrich, Linguistic Mysticism, in The Monist, 59 (1976)4, 470-492; M. Baldini, Il linguaggio dei mistici, Brescia 19902; J. Baruzi, Introduction à des recherches sur le langage mystique, in Recherches philosophiques, 32 (1931), 66-82; Y. Congar, Langage des spirituels et langages des théologiens, in Id., Situation et tâches présentes de la théologie, Paris 1967, 135-158; A. Dagnino, Il linguaggio dei mistici e quello dei teologi speculativi, in RivAM 2 (1957), 478-485; R. Garrigou-Lagrange, Le langage des spirituels comparé à celui des théologiens, in VSpS 41 (1936), 257ss.; G. Pattaro, Il linguaggio mistico, in La Mistica II, 483-506; G. Pozzi - C. Leonardi (cura di), Scrittrici mistiche italiane, Genova 1988; F. Watts - M. Williams, Psicologia della fede, Cinisello Balsamo (MI) 1996, 190-196.

M. Baldini

LITURGIA. (inizio)

I. Precisazioni terminologiche. Per una migliore comprensione dei rapporti essenziali fra mistica e l., è necessario precisare ciò che s'intende con il termine " mistica ". Questa è generalmente definita come l'esperienza specifica e profonda di conoscenza e di unione d'amore con il mistero divino, liberamente rivelato e partecipato da Dio stesso.1 Qualsiasi mistica è frutto di uno sviluppo della grazia santificante e delle virtù infuse. Effetto della mistica autentica è la crescita nell'amore verso Dio e gli altri. Essa sembra trovarsi frequentemente tra i cristiani dediti alla preghiera e che hanno una forte fede della presenza di Dio nella loro vita. La natura della l., o per meglio dire la spiritualità liturgica, può sollevare una questione di compatibilità con l'esperienza mistica. La l. è costitutivamente comunitaria ed implica un ampio uso dei segni sensibili e dei sensi esterni. Tutto questo sembra ostacolare un rapporto spontaneo con la mistica. Infatti, i grandi mistici parlano poco della liturgia.2

Nel nostro contesto il termine mistica non si riferisce a certi stati o fenomeni particolari studiati dai teologi, ma piuttosto alla condizione cristiana vissuta da tutti coloro che sono stati " battezzati " in Cristo. In questa prospettiva, la mistica indica l'unione sempre più profonda dell'uomo con Dio quale crescita della grazia battesimale nonché presa di coscienza di tale rapporto intimo nei fatti ordinari della vita quotidiana. La mistica si verifica, dunque, nella fede e nell'amore che rendono partecipi tutti i cristiani del mistero di Cristo.3 Chiamati da Dio, non per loro merito, ma per il suo disegno e per la sua grazia divina, giustificati in Cristo Gesù, i discepoli sono diventati nel battesimo veramente figli di Dio, partecipi della natura divina. Questa è la santificazione che hanno ricevuto e che devono, con la grazia di Dio, conservare, far crescere e rendere operante per tutta la loro vita.4 E la condizione che Paolo ricordava con tanta determinazione alla comunità di Corinto, quando scriveva: " Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove " (2 Cor 5,17). Creazione nuova, vita nuova, comportamento nuovo sono opera dello Spirito: " E voi continua Paolo non avete ricevuto uno spirito da schiavi... ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: ’Abbà, Padre!'. Lo Spirito stesso attesta... che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria " (Rm 8,15-17).5

Su questi fondamenti della mistica come il cristiano vivrà da " creatura nuova "? Come parteciperà al mistero di morte e risurrezione del Cristo? In qual modo permetterà che l'immagine di Dio e la rassomiglianza con Gesù si perfezionino in lui? Questo dono e questa vocazione si realizzeranno secondo il disegno di Dio, partecipando a tutti i misteri del Verbo fatto carne.

II. Liturgia. I primi dieci numeri della Costituzione Sacrosanctum Concilium sono il modello di quella che si potrebbe definire la mistica della Chiesa. La SC considera la l. in intima connessione con la Chiesa e con Gesù Cristo. Le tre grandi realtà del piano salvifico decretato dall'eternità da Dio sono: Gesù Cristo (n. 5), la Chiesa (nn. 5-6), la l. (nn. 7-8). Gesù Cristo è il centro dell'economia della salvezza voluta dall'amore infinito di Dio. La Chiesa, soprattutto nella l., è la continuatrice dell'opera salvifica di Gesù Cristo. La l., opera di Gesù Cristo e della Chiesa, manifesta, trasmette ed applica la salvezza. E davvero intima e mirabile la connessione esistente tra queste tre grandi realtà. Si tratta di una connessione soprattutto strutturale: Gesù Cristo è il primordiale e fontale sacramento della salvezza, la Chiesa il sacramento universale che procede da Gesù Cristo, la l. il sacramento complessivo che procede dalla Chiesa e da Gesù Cristo.6

1. L.: luogo d'incontro privilegiato tra Dio e l'uomo. Il n. 2 della SC, che abbonda di citazioni bibliche, espone la ricchezza vitale e dinamica della l.: " La l. (...) contribuisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e manifestino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa ". La l. non soltanto fa vivere ai fedeli il mistero di Cristo e della Chiesa ma rende idonei i fedeli a manifestare agli altri i misteri cristiani. Essa concretizza il mistero di Cristo e della Chiesa e diventa espressione di tale mistero. Sempre nello stesso numero si specifica che la l. riguarda una vera e continua crescita della vita cristiana: " La l. ogni giorno edifica quelli che sono nella Chiesa in tempio santo del Signore, in abitazione di Dio nello Spirito (cf Ef 2,21-22), fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo (cf Ef 4,13). Si può arrivare alla conclusione che tutta l'economia divina della salvezza, che ha il suo centro in Gesù Cristo, si concreta al massimo nella l. ".7

I concetti suaccennati sono messi in evidenza nel n. 7 della SC quando si parla della natura della l.: " Giustamente perciò la l. è ritenuta quell'esercizio dell'ufficio sacerdotale di Gesù Cristo mediante il quale con segni sensibili viene significata e, in modo proprio a ciascuno, realizzata la santificazione dell'uomo, e viene esercitato dal Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale ". In questa definizione della l. si afferma prima di tutto che essa è l'esercizio del sacerdozio di Cristo. Si specifica, poi, che nella l., per mezzo di segni sensibili, viene significata e realizzata la santificazione degli uomini e viene esercitato il culto pubblico ed integrale del Corpo mistico di Cristo. Viene così messo in rilievo il carattere sacramentale della Chiesa, quindi il fine della l. Tale fine non consiste solo nel culto verso Dio, ma anche nella santificazione degli uomini. Elementi costitutivi di tale processo sono: da una parte, l'azione santificatrice di Dio, dall'altra, la risposta cultuale dell'uomo. Così la l. diventa realmente il luogo d'incontro privilegiato e di dialogo tra Dio e l'uomo. Per mezzo dei segni, Dio si abbassa, a motivo della sua misericordia e del suo amore verso l'uomo; questi, redento e santificato, si innalza con slancio filiale verso Dio.8

Questi due elementi - ascendente e discendente - indicano l'unità che intercorre tra Dio e l'uomo. Nella l. Dio parla al suo popolo 9 per mezzo di Cristo, che in essa continua ad annunciare il suo Vangelo di salvezza, e per Cristo, con lui ed in lui il popolo (l'assemblea) nel canto e nella preghiera risponde a Dio (cf SC 33).10 Per mezzo di Cristo mediatore, i cristiani ogni giorno di più portano a compimento la loro unione con Dio e con gli altri, affinché Dio sia finalmente tutto in tutti (cf SC 48). Si afferma, infatti, nella prima fase del n. 7 della SC che Gesù è presente nella sua Chiesa, presente soprattutto nelle azioni liturgiche. E presente nella celebrazione eucaristica,11 nei sacramenti,12 nell'Ufficio divino e nella proclamazione della Sacra Scrittura.13 Per questa presenza di Cristo nella celebrazione della l., la Chiesa vive concretamente nell'oggi, nel mezzo delle manifestazioni della vita umana e divina. Così dal mondo, nel quale Dio stesso vive realmente, viene reso a Dio un onore perfetto, perché la vita divina fluisca incessantemente sul mondo per santificare gli uomini.

2. L.: culto filiale che è dono del Padre per mezzo di Cristo e per l'opera dello Spirito Santo. La via attraverso cui Dio viene all'uomo e questi va a Dio è positivamente segnata da Dio stesso. La rivelazione afferma che il Dio a cui l'uomo deve tendere è il Dio trinitario. La stessa rivelazione indica il suo amore per la salvezza dell'umanità: ogni bene viene dal Padre, per mezzo del suo Figlio incarnato, Gesù Cristo, nella presenza in noi dello Spirito Santo, così nella presenza dello Spirito Santo, per mezzo del Figlio incarnato Gesù Cristo tutto deve tornare al Padre e raggiungere il suo fine, la SS.ma Trinità. Tutto questo movimento cristologico-trinitario dell'economia della salvezza è strutturato nella dimensione discendente (santificazione) e ascendente (culto) della l.: il Padre ci parla e ci santifica per mezzo di Cristo nello Spirito Santo; nello Spirito, per Cristo offriamo il culto dovuto al Padre.14 Tale culto è adorazione di Dio che si esprime nella lode, nel ringraziamento, nell'offerta di sé, nel pentimento e nell'impetrazione di grazie. Certamente, esso è un'attività che risponde al desiderio di incontrarsi con il divino trascendente e vivere in comunione con lui.15 In questa attuazione della salvezza, la l. ha come sorgente e termine Dio Padre. Il dono della parola e della vita eterna procede da lui; la nostra santificazione e il nostro culto filiale tendono a lui. Ogni santificazione viene dal Padre per mezzo di Cristo capo e sacerdote, nella presenza dello Spirito Santo. Così, ogni culto della Chiesa è diretto a Dio nella presenza dello Spirito Santo per mezzo di Cristo capo e sacerdote.16 Ogni preghiera liturgica è costantemente ricondotta alla gloria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La dossologia trinitaria è la prima e l'ultima parola di ogni atto liturgico.17

III. Rapporti fra l. e mistica. Quanto sopra esposto è sufficiente per indicare la mutua relazione che intercorre tra l. e mistica. Per una migliore esposizione dei rapporti esistenti, occorre ricordare alcuni principi teologici ed esistenziali che sottendono tale rapporto.

1. La mistica cristiana trova nella liturgia (parola e sacramenti), il suo nutrimento più solido. La l. non è celebrazione di un'idea, ma il luogo teologico per entrare in contatto con il mistero salvifico di Dio, mistero che trasforma la vita stessa dei credenti.18 In tale incontro la salvezza non solo si annuncia tramite la Parola di Dio, ma si compie e si attualizza altresì " per mezzo del sacrificio e dei sacramenti, sui quali s'impernia tutta la vita liturgica " (SC 6). Nella l. il credente entra in contatto con il Cristo della gloria che continua la sua missione di guarigione, di purificazione, di perdono e di nutrimento, non più in un modo diretto, ma attraverso le azioni sacramentali della Chiesa che è " sacramento di salvezza " (AG 5), " sacramento visibile... di unità salvifica " (LG 9), " universale sacramento di salvezza " (LG 48). In questo senso, la l. è mistagogica, cioè iniziazione effettiva e reale al mistero.19 Di qui nasce la dimensione mistica della l. in quanto questa è l'attualizzazione del mistero divino nella vita del cristiano. La l. compie nel credente l'incorporazione e l'assimiliazione a Gesù Cristo, Figlio di Dio, " immagine e gloria del Padre " (2 Cor 4,4; Col 1,15) ed è strumento della sua " divinizzazione " ad opera delle tre Persone divine che hanno voluto renderlo " partecipe della natura divina " (cf 2 Pt 1,4).20 Oltre ad essere mezzi di partecipazione diretta ed efficace agli atti redentori di Cristo, in modo particolare alla sua morte e risurrezione, i segni sacramentali sono anche mezzi di comunicazione con la persona di Gesù e di assimilazione alla sua vita.21 Da essi nasce un'imitazione nella vita del credente dei misteri celebrati nella l. Di conseguenza, si può affermare che il mistero che si celebra nella l. è il dono della vita di Dio, rivelato in Cristo suo Figlio, morto e risorto, con l'effusione dello Spirito. Tutte le celebrazioni dell'anno liturgico mirano a far vivere sempre più pienamente il mistero di Cristo. La l. nella sua versione mistica è, dunque, radicalmente sacramentale: " Sorge, cresce e si consuma nell'ambiente vitale dei sacramenti a cui la fede ci introduce e ci fa partecipare. La vita mistica cristiana... non è che lo sviluppo pieno della vita del Cristo risuscitato, comunicata nei sacramenti e la trasformazione in questa stessa vita operata nel battezzato sotto l'azione dello Spirito Santo ".22

2. L. e mistica: la Parola di Dio nella l. è Dio che offre se stesso. Il luogo privilegiato in cui la Parola di Dio risuona con particolare efficacia è la l. 23 poiché " in essa Dio parla al suo popolo e Cristo continua ad annunciare il Vangelo " (SC 33). Nella celebrazione liturgica, la Parola si fa storia e consente così di cogliere nei fatti ordinari quotidiani gli eventi salvifici, soprattutto la passione, morte e risurrezione del Signore. Il Concilio Vaticano II, esprimendo la convinzione più profonda della tradizione cristiana, insegna che Dio continua a parlare al suo popolo. Lo fa in modo del tutto speciale nella l., cioè nella celebrazione o liturgia in azione. Nella celebrazione liturgica si svolge un continuo dialogo tra Cristo (mediatore definitivo della parola divina) e l'assemblea che rappresenta la Chiesa; un dialogo basato sulla parola concreta della Sacra Scrittura che è dono di Dio agli uomini per la loro salvezza e che espone l'economia divina che il Padre nello Spirito Santo ha portato a compimento nel Vangelo di Gesù Cristo (DV 2; 4; 7). Tale dialogo ha come punto di arrivo il Padre, lo stesso Dio che è all'inizio di esso e che invia il suo Spirito a predisporre il cuore degli uomini all'ascolto e all'accoglienza della parola di vita.

La celebrazione della parola di Dio nella l. risponde alla perenne validità che hanno tutti i fatti e le parole della salvezza rivelati nella Scrittura. Infatti, l'economia della salvezza è stata disposta da Dio in modo che essa si sviluppasse efficacemente non solo in ognuno degli avvenimenti storici che toccarono l'apice in Cristo, ma anche nel tempo futuro. Di conseguenza, tutti gli uomini possono accettare e vivere con fede quegli eventi che avevano realizzato la salvezza (cf DV 25). Questa disposizione indica la condiscendenza di Dio verso tutti gli uomini di tutti i tempi (cf DV 13) perché egli, con il suo Verbo, ha voluto iniziare e continuare ininterrottamente una conversazione amorosa (cf DV 21). Il Dio che parlava con i profeti e che, nella pienezza dei tempi, volle trattare a tu per tu con tutti gli uomini per mezzo del Figlio suo è lo stesso che continua per sempre a dialogare con la Chiesa nella celebrazione liturgica. Si può affermare che, nel cammino di ogni cristiano, questa rivelazione di Dio diventa straordinariamente personale: Dio ci tocca perché per lui ognuno di noi è unico; ogni vita umana viene ri-modellata dalla sua mano; la sua voce sussurra attraverso lo Spirito Santo nei nostri cuori. In realtà, l'azione dello Spirito fa penetrare la Parola di Dio e l'annuncio della salvezza nei cuori, suscitando la conversione, la fede, la lode, l'invocazione, il gesto e il rito, come risposta efficace: " L'azione dello Spirito non solo precede, accompagna e prosegue tutta l'azione liturgica, ma a ciascuno suggerisce nel cuore (cf Gv 14,15-17.25-26) tutto ciò che nella proclamazione della Parola di Dio vien detto per l'intera assemblea dei fedeli ".24 Il contatto con la Parola edifica l'itinerario mistico del credente. Man mano che la Parola introduce più profondamente nel mistero di Dio e il credente si lascia trasformare dalla potenza dello Spirito, essa diventa suscettibile di ulteriore approfondimento e, a sua volta, il credente è immerso nell'abisso della vita divina.

L'autodonazione di Dio attraverso l'attualizzazione del mistero di salvezza nella vita del cristiano indica come la l. sia il fulcro di uno stile di vita cristiana che conduce alla più alta perfezione. Questo dono di Dio, di cui la l. rimane la sorgente primaria e fondamentale, esige da parte dei partecipanti una risposta specifica cristiana. La SC afferma a questo proposito: " Nondimeno la l. è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù... A sua volta, la l. spinge i fedeli, nutriti dei ’sacramenti pasquali', a vivere ’in perfetta unione'; domanda che ’esprimano nella vita quanto hanno ricevuto mediante la fede' " (n. 10). In altre parole, la vita spirituale viene nutrita attraverso la partecipazione liturgica, ove si appropria di ciò che si celebra per tradurlo poi nella propria esistenza quotidiana. Così la l. diventa uno stile di vita cristiana fondato sull'assimiliazione a Cristo, per mezzo dei sacramenti d'iniziazione e dei sacramenti in genere nonché della preghiera della Chiesa.25

In conclusione, non è paradossale affermare che l. e mistica possano stare insieme. A prima vista, la natura della l. può sollevare qualche incompatibilità con l'esperienza mistica. In realtà, esiste un rapporto intrinseco tra di loro. La l. permette al credente, tramite segni e simboli, di fare memoria dell'azione salvifica del Cristo, rivivendola, rendendola nuovamente presente ed attuale nella sua efficacia divina. Si può, dunque, affermare che nella celebrazione liturgica risplende il mistero salvifico di Dio vivente nell'uomo che restituisce, per così dire, a Dio Padre, la sua esistenza per Cristo e nello Spirito. Nella l., il cristiano cresce " in ogni cosa verso di lui che è il Capo, Cristo " (Ef 4,15) e giunge al pieno dello sviluppo dell'intelligenza che gli consente di " penetrare nella perfetta conoscenza del mistero di Dio " (Col 2,2-3). S. Marsili afferma al riguardo: " Sarà, appunto, la l. attraverso la diretta ’esperienza' del mistero di Cristo (esperienza di salvezza interiore), a darci quella ’conoscenza e rivelazione' dello stesso mistero che non potrà mai restare solo intellettuale, ma tenderà sempre a ripresentarsi, con l'aumento della ’conoscenza e rivelazione', in una maggiore esperienza intima ed esistenziale. La Scrittura, quindi, anche rivelazione di salvezza, si completa nella liturgia ".26 Questa esperienza mistico-liturgica, sotto la guida dello Spirito, cresce sempre più nella celebrazione della Parola e nei sacramenti.27 Più il fedele penetra nel mistero di Dio nella celebrazione liturgica, in particolare in quella eucaristica, più diventa una " creatura nuova " al punto da dire: " Non sono più io, ma è Cristo che vive in me " (Gal 2,20). Raggiunge così il culmine della spiritualità, che è la vita cristiana in atto, in tensione (epektasis) verso la piena statura di Cristo Signore (cf Ef 4,13). Quando l'unione interiore, effetto della vera partecipazione attiva della l. raggiunge la sua perfezione, essa diventa, al tempo stesso, contemplazione o partecipazione. " Se dunque - afferma Vagaggini - la contemplazione è un atto infuso di carità, si deve dire che non si può dare partecipazione piena e perfetta alla l., se non è nello stesso tempo partecipazione contemplativa. Ecco in che senso la l. è ordinata alla mistica come ad un aspetto essenziale di se stessa ".28 La mistica cristiana è, dunque, presa di coscienza del progetto salvifico di Dio celebrato nella " memoria " liturgica. Ciò apre la via alla contemplazione sino al silenzio estatico ed adorante del Dio di Gesù Cristo nell'unità dello Spirito Santo amore. La celebrazione liturgica diventa così punto di partenza per vivere responsabilmente ciò che si sperimenta in questa comunione di amore con il Dio della vita e quindi missione profetica verso il compimento, già qui ed ora, del mistero salvifico intratrinitario.

Note: 1 Cf A. De Sutter, s.v., in DES II, 1625-1631; H.D. Egan, I mistici e la mistica, Città del Vaticano 1995, 7-18; J. van Cangh (cura di), La mistica, Bologna 1992, 87-92; 2 Per esempio, Teresa di Gesù e ancora meno Giovanni della Croce, cf R. Hoornaert, Liturgie ou contemplation, in ÉtCarm 17 (1932), 177-215; Lucien Marie de St. Joseph, Oraison et prière liturgique chez Sainte Thérèse d'Avila, in Carmel, 18 (1960), 92-114; J. Villet, Bible et mystique chez St. Jean de la Croix, in ÉtCarm 34 (1949), 12-18; 3 Cf H.D. Egan, I mistici..., o.c., 12-14; 4 Cf Id., The Mysticism of Everyday Life, in Studies in Formative Spirituality, 10 (1989), 7-26; 5 Cf L. Cerfaux, St. Paul's Mysticism, in Id., Mystery and Mysticism, London 1956, 33-46; 6 Cf H. Schmidt, La Costituzione sulla sacra liturgia. Testo - Genesi - Commento - Documentazione, Roma 1966, 211-356; S. Marsili, La liturgia, momento storico della salvezza, in Aa.Vv., Anàmnesis I, Torino 1974, 33-156; D. Sartore, Chiesa e liturgia, in NDL, 248-259; 7 Cf C. Vagaggini, Ecclesiologia di comunione e riforma liturgica, in Aa.Vv., Liturgia, opera divina e umana. Miscellanea Mons. A. Bugnini, Roma 1982, 59-131; J. López Martín, La liturgia, celebración del mistero de Cristo y de la Iglesia, in Nova et Vetera, 20 (1985), 237-252; 8 Cf S. Marsili, La liturgia, culto della Chiesa, in Anàmnesis I, o.c., 107-136; J. Galot, La cristologia nella SC, in Notitiae, 203 (1983), 305-319; 9 Giustamente il Concilio Vaticano II ha chiamato la parte della celebrazione, soprattutto della Messa, nella quale si legge la Sacra Scrittura liturgia della Parola (SC 56), omettendo antiche espressioni come messa didattica o messa dei catecumeni, cf J.A. Jungmann, Missarum solemnia, I, Torino 1963, 219 e 381; Cf anche: Aa.Vv., L'oggi della Parola di Dio nella liturgia, Torino 1970; Aa.Vv., Liturgia de la Palabra, in Phase, 56 (1970), 122-209; I.H. Dalmais, La Bible vivant dans la liturgie, in LMD 126 (1976), 7-23; L. Deiss, Vivere la Parola in comunità, Torino 1976; T. Federici, La Parola proclamata, celebrata e mistagogia, Roma 1979; S. Marsili, La Parola nel culto, in RL 53 (1966), 149-164; A.G. Martimort, Il dialogo tra Dio e il suo popolo, in Id., La Chiesa in preghiera, I, Brescia 1987, 151-255; 10 Cf Aa.Vv., Nelle vostre assemblee, I, Brescia 19752, 62-191; S. Marsili, Una comunità, una liturgia, in RL 69 (1982), 593-603; A.G. Martimort, L'assemblea, in Id., La Chiesa..., o.c., 109-132; J.A. Jungmann, La celebrazione liturgica, Milano 1958, 54-66; 11 Cf A. Cuva, Gesù Cristo, in NDL, 623-642; S. Marsili, Teologia della celebrazione dell'Eucaristia, in Anàmnesis III2, Casale Monferrato (AL) 1983, 11-186; J.A. Sayés, La presencia real de Cristo en la Eucaristía, Madrid 1976, 185-191; 12 Cf E. Schillebeeckx, Cristo, sacramento dell'incontro con Dio, Cinisello Balsamo (MI) 1980; S. Marsili, Sacramenti, in NDL, 1271-1285; 13 Cf P. Borella, " Il Vangelo e Cristo". L'Intronizzazione del libro del Vangelo ", in Ambrosius, 41 (1965), 233-249; S. Marsili, Cristo si fa presente nella sua Parola, in RL 70 (1983), 671-690; A.M. Roguet, La présence active du Christ dans la Parole de Dieu, in LMD 82 (1965), 8-28; 14 Cf Aa.Vv., Trinité et liturgie, Conférences Saint-Serge, XXX Semaine d'études liturgiques, Roma 1984; B. Neunheuser, La Trinità nella liturgia, in RivVitSp 22 (1968), 510-526; S. Marsili, Mistero di Cristo e liturgia nello Spirito, Città del Vaticano 1986; 15 Cf La nozione integrale del culto cristiano può essere così delineata con le parole di S. Marsili: " Il momento nel quale gli uomini, presa coscienza del loro inserimento in Cristo, realizzano in sé, secondo forme propriamente cultuali (adorazione, lode, ringraziamento) esternamente manifestate, quella medesima totalità di ’servizio' a Dio, che Cristo già rese al Padre accettandone pienamente la volontà nell'ascolto costante della sua voce e nella perenne fedeltà alla sua alleanza " (Culto, in DTI I, 661); 16 Cf A. Hamman, La Trinità nella liturgia e nella vita, in Mysterium salutis, a cura di J. Feiner e M. Löhrer, Brescia 1969, 169-184; S. Marsili, La liturgia..., in Anànnesis I, o.c., 109-120; A. Bergamini, Culto, in NDL 338-340; 17 Cf C. Vagaggini, Il senso teologico della liturgia, Roma 1965, 212-218. 18 Cf O. Casel, Il mistero del culto cristiano, Torino 1966; J. López Martín, " In spirito e verità ". Introduzione alla liturgia, Cinisello Balsamo (MI) 1989; 19 Cf B. Neunheuser, Spiritualità liturgica, in NDL, 1419-1442, in particolare p. 1433; 20 Cf E. Mazza, La mistagogia. Una teologia della liturgia in epoca patristica, Roma 1988; C. Vagaggini, Il senso teologico..., o.c., 670-695; 21 Cf S. Marsili, Sacramenti, in NDL, 1271-1285; R. Pou, La presencia de Cristo en los sacramentos, in Phase, 33 (1966), 177-200; 22 C. Rocchetta, La mistica del segno sacramentale, in La Mistica II, 57; cf anche J. Pinell, L'anno liturgico, programmazione ecclesiale di mistagogia, in 0 Theologos, 6 (1975), 15-30; 23 Cf T. Federici, Bibbia e liturgia, 3 voll., Roma 1973-75; Id., Parola di Dio e liturgia della Chiesa nella Costituzione SC, in Notitiae, 161 (1979), 684-722; 24 Ordo Lectionum Missae (Ordinamento delle Letture della Messa) 1969 e 1981, n. 9; 25 Cf B. Neunheuser, Spiritualità..., a.c., 1420; 26 S. Marsili, La teologia della liturgia del Vaticano II, in Anàmnesis I, o.c., 102; 27 Cf C. Rocchetta, La mistica del segno sacramentale, in a.c., 58: " La vita sacramentale è ordinata per sé alla vita mistica. Il vertice più alto di tale ordinamento fondamentale è dato dall'Eucaristia. In essa si concentra il massimo grado della presenza di Dio fra gli uomini, e l'anima entra, grazie al contatto particolare con l'umanità glorificata di Gesù, in una comunione personale unica con la Trinità stessa. La vita mistica cristiana, per conseguenza, dai suoi primi momenti alle sue più alte cime, non può che nascere, crescere e realizzarsi nell'ambiente vitale della Chiesa e, in essa, nell'ambiente vitale dell'ascolto della Parola di Dio e della partecipazione viva e personale ai misteri sacramentali, in una piena dimensione di fede e di disponibilità all'azione dello Spirito "; 28 C. Vagaggini, Il senso teologico..., o.c., 691.

Bibl. Aa.Vv., Liturgie et vie spirituelle, in DSAM IX, 873-939, in particolare 926-927; Mystique, in DSAM X, 1889-1984; Aa.Vv., Anàmnesis. Introduzione storico-teologico alla liturgia (pubblicati i volumi 1, 2, 31, 32, 5, 6, 7), Casale Monferrato (AL) - Genova 1974-1990; Aa.Vv., Liturgia e vita spirituale, Torino 1980; Aa.Vv., Liturgia e spiritualità, Torino 1981; Aa.Vv., Liturgia, soglia dell'esperienza di Dio?, Padova 1982; Aa.Vv., Liturgia, spirito e vita, Roma 1982; B. Baroffio, La mistica della Parola, in La Mistica II, 31-46; Ch.-A. Bernard, L'esperienza spirituale della Trinità, in La Mistica II, 299-300; L. Bouyer, " Mystique ". Essai sur l'histoire d'un mot, in VSpS 3 (1949), 3-23; Id., Mysterion. Dal mistero alla mistica, Città del Vaticano, 1998; O. Casel, Il mistero del culto cristiano, Torino 1966; J. Castellano Cervera, La mistica dei sacramenti dell'iniziazione cristiana, in La Mistica II, 77-111; Id., s.v., in DES II, 1450-1468; R. Guardini, Lo spirito della liturgia, Brescia 1980; O. Lang, Spiritualità liturgica, Einsiedeln 1977; J. López Martín, " In spirito e verità ". Introduzione alla liturgia, Cinisello Balsamo (MI) 1989; M. Magrassi, La liturgia. Evento, celebrazione, storia, Casale Monferrato (AL) 1979; L. Maldonado, Sacramentalità, sacramenti e azione liturgica, Cinisello Balsamo (MI) 1997; S. Marsili, s.v., in NDL, 725-742; Id., I segni del mistero di Cristo. Teologia liturgica dei sacramenti, Roma 1987; A.G. Martimort (cura di), La Chiesa in preghiera. Introduzione alla liturgia, 4 voll., Brescia 1984-1987; G. Moioli, Mistica cristiana, in NDS, 985-1001; P. Parente, Esperienza mistica dell'Eucaristia, Roma 1981; R. Poelman, Mystique et liturgie, in Vie consacrée, 62 (1990)5, 339-346; J. Sudbrack, Mistica, Casale Monferrato (AL) 1992; A.M. Triacca, Spiritualità liturgica. Questioni fondamentali e principi, Roma 1974; W. Tritsch, Introduzione alla mistica. Fonti e documenti, Città del Vaticano 1995; C. Vagaggini, Il senso teologico della liturgia, Roma 19654; A. Verheul, Introduzione alla liturgia, Roma 1967.

E. Caruana

LOCUZIONI. (inizio)

I. Natura. Sono parole interiori di Dio all'uomo. Possono essere: esteriori o auricolari, come quelle dell'angelo a Maria; o interiori. Queste sono immaginarie, se si ricevono tramite l'immaginazione, da svegli o nel sonno; intellettuali, se comunicate senza intervento dei sensi.1 Le intellettuali possono essere successive: parole e ragionamenti che lo spirito, sempre sotto l'azione del Paraclito, raccolto in sé, forma e su cui discorre fra sé e sé; 2 formali: parole dette formalmente da un altro; 3 sostanziali: se nella sostanza dell'anima fanno e producono quel contenuto e virtù che significano. Tali parole non si odono con le orecchie del corpo ma si sentono molto più chiaramente che non percependole con esse.4 Con Teresa d'Avila concorda Ignazio di Loyola: " Il Signore parla all'interno dell'anima senza alcun rumore di parole, la solleva tutta al suo amore divino, senza che sia possibile anche volendolo, resistere al suo sentimento ".5

Altre qualità delle l.: sono chiare e distinte; 6 una sola fa capire più cose che non sappia comporne l'intelletto in così breve spazio di tempo; 7 producono sostanzialmente nell'anima quello che dicono e, per esempio, fanno diventare effettivamente buoni, fanno amare, tolgono ogni paura.8

II. Scopo. Sono un mezzo di cui Dio si serve per il nostro bene. Ma un semplice atto di amore è più prezioso di tutte le visioni e comunicazioni. Perciò, scrive Giovanni della Croce: " Non v'è più ragione d'interrogare Dio... poiché nel darci... il suo divin Figlio, che è l'unica sua parola... ci ha detto tutto insieme... e non ha più nulla da dire ".9

Note: 1 Cf Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo II, 28,2; 2 Cf Ibid.; 3 Cf Ibid., 30,1; 4 Teresa d'Avila, Vita 25,1; 5 Lettera del 18 giugno 1536; 6 Cf Teresa d'Avila, Castello interiore, VI, 3,13; 7 Cf Ibid., 15; 8 Cf Ibid., 5; Salita..., o.c., II, 31,1; 9 Salita..., Ibid., 22, 3.

Bibl. A. Derville, Paroles intérieures, in DSAM XII1, 252-257; V. Macca - M. Caprioli, Comunicazioni mistiche, in DES I, 576-581; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 1965, 1070-1074.

P. Schiavone

LORENZO DA BRINDISI (santo). (inizio)

I. Vita e opere. Giulio Cesare Russo nasce a Brindisi il 22 luglio 1559, dove intraprende gli studi umanistici presso i minori conventuali che l'accolgono orfano. A Verona veste l'abito dei cappuccini e il 18 dicembre 1582 viene ordinato sacerdote. Nel 1592 diviene a Roma predicatore degli Ebrei. Missionario a Praga nel 1599, si distingue per la sua abnegazione. Intorno al 1607 pubblica a Dresda le sue prediche nelle quali prende posizione in particolare contro alcuni predicatori protestanti. Muore a Lisbona nel maggio del 1619, a sessant'anni. Beatificato nel 1783, L. viene canonizzato nel 1881. Nel 1959 Papa Giovanni XXIII lo proclama Doctor apostolicus.

La sua Opera omnia in 10 voll. e 15 tomi, pubblicata a Padova tra il 1928 e il 1964, evidenzia una dottrina saldamente ancorata alla teologia e ricca di applicazioni concrete.

II. Insegnamento spirituale. Rivolgendosi ai semplici fedeli, L. parla della perfezione cristiana come di una chiamata valida per tutti. Il principio da cui muove è la creazione dell'uomo ad immagine di Dio, perciò il cristiano non è tale se non diventa immagine e somiglianza di Cristo mediante l'obbedienza allo Spirito e la resistenza alle tentazioni del maligno. Questi due atteggiamenti costituiscono i due aspetti di un'unica realtà che si può sintetizzare nel " seguire Cristo ". La sua dottrina è fondamentalmente cristocentrica perché basata sul primato di Cristo nell'universo creato. L'anima deve " ritirarsi nel deserto ", cioè mortificare i sensi esterni ed interni per servire unicamente Dio, disprezzando il mondo. Egli riprende la dottrina relativa alle classiche tre vie: purgativa, illuminativa, unitiva nelle quali dominano rispettivamente la lotta contro il peccato, l'esercizio delle virtù che porta alla conoscenza di Dio, quindi alla fase unitiva. La dottrina di L. è essenzialmente cristocentrica, non solo perché egli vi trasfonde la sua sensibilità francescana, ma per la sua concezione del primato universale di Cristo cui riconduce ogni forma di ascesi, quindi di perfezione e di santità.

L. ha contribuito ampiamente ad edificare il culto accessorio di Maria: Mariamare di amarezza stella del mare mirra del mare e mare di mirra. Egli ha insistito anche, nella sua mariologia, sull'immacolato concepimento di Maria e sulla sua mediazione universale, legandoli alla dignità e maternità divine.

Bibl. Opere: Aa.Vv., Lexicon cappuccinum, Roma 1951, 925-930; Felix a Mareto, Bibliographia laurentiana opera complectens an. 1611-1961 edita, Roma 1962. Studi: Arturo da Carmignano di Brenta, S. Lorenzo da Brindisi, Dottore della Chiesa, 5 voll., Venezia 1960-1963; Id., s.v., in BS VIII, 161-180; Dominic of Herndon, The Absolute Primacy of Christ Jesus and His Mother according to St. Lawrence of Brindisi, in Collectanea Franciscana, 22 (1952), 113-149; Hilarius a Wingene, s.v., in DSAM IX, 388-392; Id., Spiritualitatis laurentianae lineamenta fundamentalis, in Laur 10 (1969), 413-433; Lázaro de Aspurz, Espiritualidad de san Lorenzo de Brindis, in Estudios franciscanos, 53 (1952), 221-234; Metodio da Nembro, s.v., in DES II, 1468-1470; Id., Teologia e missioni in san Lorenzo da Brindisi, Roma-Padova 1960.

M. Baldassarre

LORENZO DELLA RISURREZIONE. (inizio)

I. Vita e opere. Nicola Herman nasce ad Hériménil, presso Lunéville, in Lorena, nel 1614. A diciotto anni viene segnato per sempre da una intuizione improvvisa, cosmica della grandezza e della presenza di Dio. Ferito mentre combatte nella guerra dei Trent'anni, si ritira dall'esercito e conduce un'esperienza di vita eremitica. Lavora, poi, come cameriere a Parigi, ove entra nel 1640 tra i carmelitani scalzi come fratello converso con il nome di Lorenzo della Risurrezione. Sarà cuoco, poi calzolaio al servizio dei suoi numerosi fratelli. Per dieci anni L. passa per una lunga notte dello spirito da cui uscirà grazie ad un atto di abbandono totale, divenendo sempre più un testimone irraggiante della presenza di Dio. Egli attira numerosi visitatori, il più celebre dei quali, il futuro vescovo di Cambrai, Fénelon, lo descrive " grossolano per natura e delicato per grazia ", e, in seguito, " molto malato e molto allegro " e lo cita spesso nella sua celebre disputa con Bossuet. Dopo la morte avvenuta il 12 febbraio 1691, l'abate G. de Beaufort pubblica una piccola collezione di avvisi spirituali, lettere e conversazioni con due schizzi biografici di L. nelle Maximes spirituelles (...) pour acquérir la présence de Dieu (...) du Frère Laurent de la Résurrection... (Paris 1692) e ne Les Moeurs et entretiens du Frère Laurent de la Résurrection... (Châlons 1694). Molto presto egli è tradotto da studiosi protestanti ed anglicani in tedesco, in inglese e più tardi in una quindicina di altre lingue. E stato rieditato fino ai nostri giorni.

II. Dottrina. L'insegnamento di L. è interamente centrato sulla pratica della " presenza di Dio, che - egli dice - è, a mio parere, ciò in cui consiste tutta la vita spirituale e mi sembra che praticandola come occorre si diventi spirituali in poco tempo ". Egli consiglia questa pratica nel cuore della vita quotidiana, nelle " faccende del proprio stato " (" Io giro la mia frittata nella padella per amore di Dio ") invitando tanto alla " fedeltà " quanto alla crescita spirituale. Raccomanda, inoltre, di fare " del nostro cuore un oratorio nel quale ci ritiriamo di tanto in tanto per intrattenerci con lui, dolcemente, umilmente e amorosamente ". La " pratica " della presenza di Dio è un " mestiere " che bisogna " imparare " e, attraverso frequenti " ritorni interiori a Dio ", diventa " come naturale ", si acquista " l'abitudine " e " si diventa spirituali in poco tempo ". Egli insegna: " Questa presenza di Dio, un po' penosa all'inizio, praticata con fedeltà, produce segretamente nell'anima effetti meravigliosi... ". Grazie ad un'intensa vita teologale e ad un'ascesi simile a quella di Giovanni della Croce (" non fare nulla, non dire nulla, non pensare nulla che possa dispiacere a Dio "), tale " pratica della presenza di Dio " conduce L. ad una profonda unione con Dio attraverso " l'esercizio continuo di questa divina presenza ", di cui egli sperimenta gli " aiuti continui " e che gli procura grandi " gioie interiori ". Infatti, " questo sguardo di Dio dolce ed amoroso accende insensibilmente nell'anima un fuoco divino che la brucia ardentemente dell'amore di Dio ".

Bibl. Opere: Laurent de la Résurrection, Ecrits et entretiens sur la pratique de la présence de Dieu (ed. cr. di C. De Meester, Paris 1991); Fr. Laurent de la Résurrection, L'esperienza della presenza di Dio, Milano 1990. Studi: C. De Meester, Vie et pensées du Frère Laurent de la Résurrection, Paris 1992; Id., Frère Laurent en quête de la saintité, in Carmel, 65 (1992), 45-59; Joseph de S. Marie, Lorenzo della Resurrezione: la vita nella presenza di Dio, in RivVitSp 39 (1985), 449-470; V. Macca, Camminare alla presenza di Dio: l'esperienza santificante di Lorenzo della Resurrezione, Roma 1977; P.M. Suzanne, s.v., in DSAM IX, 415-417.

C. De Meester

LUIGI DI GRANADA. (inizio)

I. Vita e opere. Luigi de Sarria nasce a Granada nel 1504, dodici anni dopo la riconquista della città. La sua è una famiglia di operai; il padre muore in giovane età, lasciando una vedova e un orfano, mendicanti. Vivono, secondo quanto lui stesso annota, " della elemosina che danno loro alla porta di un monastero ". La mamma si prende cura del figlio, mentre Dio non fa mancare il suo aiuto. Può affidarlo al Collegio della dottrina, fondato dall'arcivescovo, fra Hernando di Talavera. Qui L. si fa notare per le sue doti e l'arcivescovo lo raccomanda come paggio o compagno dei figli del conte di Tendilla, sindaco di Alambra e governatore del regno di Granada. Il conte di Tendilla è un López de Mendoza, famiglia che si distingue per i suoi servizi alla Corona, per le sue virtù cristiane e per l'amore alle lettere. Il cardinale di Toledo, " terzo re di Spagna ", è, infatti, un Mendoza; e il conte di Tendilla, primo governatore cristiano di Granada, ambasciatore a Roma dei Re cattolici, porta in Spagna l'umanista milanese Pietro Martire ( 1526) di Anghiera come precettore dei suoi figli. Tutti fanno una brillante carriera nelle armi e nelle lettere. L. vive dodici anni nell'Alambra, come una persona di famiglia, facendosi apprezzare per la sua bontà e per il suo ingegno. La sua formazione umanistica è straordinaria e nel 1524, a vent'anni, entra tra i domenicani, nel convento di Santa Cruz la Real, che è stato fondato dai Re cattolici ed è sotto la protezione dei Mendoza. Anche in questo convento si fa notare per le sue doti eccezionali ed è eletto, tra molti, per occupare il posto che spetta ad uno dei membri del convento in san Gregorio di Valladolid. Dal 1529 al 1534 studia con maestri e compagni famosi come Bartolomeo de Carranza ( 1576), con il quale stringe profonda amicizia, e Melchior Cano ( 1560).

La formazione umanistica di L. che, secondo le usanze, è chiamato con il nome di provenienza, invece di Sarria, e la sua applicazione allo studio gli guadagnano la stima del direttore del collegio, che lo incarica della edizione dei suoi commenti di Aristotele ( 322 a.C.). Questo costituisce l'inizio del suo impegno letterario, in prosa e in poesia, come è in uso presso gli umanisti. Tutto fa prevedere un avvenire accademico brillante. Ciò nonostante, egli si lascia entusiasmare da fra Domenico de Betanzos, eccezionale figura di missionario, che proviene da Roma e recluta missionari per il Messico: L. si offre per la missione e nell'estate del 1534 si reca a Siviglia per sbrigare le pratiche relative al viaggio nelle Indie. I superiori, però, non lo lasciano partire, anzi lo inviano a Escalaceli (Cordova) perché restauri il convento fuori le mura di quella città. Lì conosce s. Giovanni d'Avila, del quale diventa " discepolo " e primo biografo.

L. verifica la sua vocazione di frate predicatore - possiede, senza dubbio, la gratia praedicationis, della quale parlano i testi primitivi dell'Ordine - e la segue perfezionandola tanto nei contenuti quanto nello stile. Il card. Giovanni Alvarez di Toledo gli ottiene l'autorizzazione pontificia perché percorra tutta la Spagna predicando. Contemporaneamente è chiamato ad assumere nuovi incarichi e, alla fine (1551-1588), il cardinale infante don Enrico, futuro re, lo conduce con sé in Portogallo mentre il card. Enrico è arcivescovo di Evora.

In Portogallo L. svolge un'attività instancabile come predicatore, confessore e scrittore. Nel 1554 pubblica il Libro de la oración y meditación (Salamanca 1554) che ottiene un enorme successo. A partire da quest'anno, le pubblicazioni si susseguono periodicamente. Citiamo le principali: Guía de pecadores (prima red: Salamanca 1556-1557, 2 voll.); Memorial de la vida cristiana (Lisbona 1565, 2 voll.); Introducción del símbolo de la fe (Salamanca 1583, 4 voll.), Doctrina espiritual (Lisbona 1587) ecc. Questi scritti lo rendono famoso in tutto il mondo cattolico e le sue opere sono tradotte in molte lingue. In Italia questi scritti hanno circa cinquecento edizioni.

Su richiesta di s. Carlo Borromeo ( 1584) intraprende un'ardua impresa per il rinnovamento della sacra eloquenza, scrivendo una Retórica ecclesiástica, e, soprattutto, sei grossi volumi di sermoni per i cicli de tempore e de sanctis.

Molto vecchio e con tanti meriti, muore a Lisbona il 31 dicembre 1588, considerato un santo.

II. La dottrina di L. abbraccia quasi tutti i temi della vita cristiana, adattandosi a tutte le classi sociali e a tutti i livelli spirituali. I due capolavori: Libro de la oración e Guía de pecadores contengono i due aspetti preferiti del suo magistero scritto: la preghiera mentale, della quale è un maestro (s. Teresa lo legge, lo raccomanda, lo apprezza); e l'orientamento o riconversione del cristiano che, per mezzo del battesimo, assume un impegno di santità. L'altra opera, Il memorial de la vida cristiana, ha come oggetto la formazione del cristiano dai primi rudimenti della fede fino alle alte vette della perfezione.

La sua azione ha uno stile ecumenico poiché L. nasce in una città nella quale convivono mussulmani, ebrei e cristiani, e a Lisbona, porto e porta aperta a tutte le genti, dove tratta con molti " non cristiani ", dimostrando un interesse molto vivo nel presentare loro la fede cristiana. La Introducción del símbolo de la fe ha questa finalità, ed è una vasta enciclopedia nella quale L. " dialoga " con cristiani e " non cristiani ". Di questo libro si avranno edizioni perfino in Giappone, mentre ci sono molte testimonianze di lettura e conversioni negli ambienti ebraici del Messico coloniale.

L'orazione è il nucleo centrale della dottrina spirituale di L. e il mezzo per raggiungere la perfezione della vita cristiana che consiste nella perfezione della carità. Tra i diversi esercizi della vita spirituale, quello che può elevare l'anima ad un più alto grado di perfezione è la considerazione della vita e della morte del Cristo Salvatore. Questo esercizio porta alla conoscenza di Dio che è dono suo, ma che cresce anche nella misura in cui cresce l'amore. Nello stesso tempo, un grande amore genera una conoscenza sempre più perfetta e questa diventa, per L., principio e fondamento della felicità umana. L'uomo può giungere a conoscere Dio nelle sue opere, alcune delle quali sono di natura, altre di grazia, ma sono sempre come due grandi libri nei quali si può leggere tutta la vita umana, che trova la sua pienezza in questa conoscenza amorosa del Dio creatore.

Bibl. Opere: T.S. Centi (cura di), Guida dei peccatori, Milano 1993; A. Huerga (ed.), Obras completas, 40 voll. in corso di stampa, Madrid 1994ss.; N. Lepri Palesati (cura di), Libro dell'orazione e della meditazione, Milano 1997. Studi: A. Huerga, s.v., in DSAM IX, 1043-1054; Id., s.v., in DES II, 1196-1198; Id., Fray Luis de Granada. Una vida al servicio de la Iglesia, Madrid 1988; M.H. Lavocat, s.v., in DTC IX, 953-959; R.L. Oechslin, Louis de Granada ou le rencontre avec Dieu, Paris 1954; M. Tietz, s.v., in WMy, 332.

A. Huerga

LULLO RAIMONDO. (inizio)

I. Vita e opere. Nasce a Palma di Maiorca probabilmente nel 1232. Sposato e padre di famiglia, conduce vita brillante alla corte di Giacomo I di Aragona ( 1276). Si dedica anche all'arte dei trovatori e a quella di " scrivere canzoni e dettati sulle follie di questo mondo ". Nel 1263, colpito da una visione del Crocifisso, si converte ad una vita intensamente cristiana diventando terziario francescano ed eremita. Ecco il racconto della sua conversione: una notte, mentre sta per comporre " una canzone per una sua innamorata che allora ama di fatuo amore ", gli appare Gesù Crocifisso che gli dice: " Raimondo, seguimi ", e, poiché egli trema ed esita dinanzi a tale richiesta, gli appare per cinque giorni di seguito. Allora, dopo aver pregato, giunge alla certezza che Dio voglia che " lasci il mondo e si consacri interamente al suo servizio ", ma solo tre mesi dopo, toccato dall'esempio del Poverello d'Assisi, vende i suoi beni, eccetto quanto può bastare al sostentamento della moglie e dei figli, ne distribuisce il prezzo ai poveri, abbraccia la Regola del Terz'Ordine francescano e, con il consenso della moglie, lascia il proprio paese con l'intenzione di consacrarsi interamente al servizio di Dio.

Convinto della propria vocazione missionaria, studia per nove anni latino ed arabo, consegue il dottorato in filosofia e teologia e poi inizia la sua vastissima attività letteraria e missionaria. E poeta e romanziere, mistico e orientalista; viaggia in tutta l'Europa predicando la crociata contro i saraceni. A Miramar fonda un collegio dove un gruppo di frati minori dovrebbe dedicarsi allo studio delle lingue orientali per le conversioni degli infedeli. E lui stesso missionario in Oriente e in Tunisia dove subisce la lapidazione; raccolto morente da alcuni mercanti genovesi che lo riportano in patria, muore nella città natale nel 1316. Sepolto nella chiesa di s. Francesco in quella città e avendo operato molti miracoli, già nel Trecento gode il culto di beato nell'isola nativa, culto poi confermato nel 1763 ed esteso a tutto l'Ordine francescano nel 1847.

Gli scritti di L. sono più di duecento. Se ne possono vedere i cataloghi e le edizioni nell'opera di E.W. Platzeck, Raimond Lull. Sein Leben. Seine Werke, 2 voll. Dusseldorf-Roma 1962. Sono scritti in lingua latina, catalana o araba; abbracciano tutto lo scibile del suo tempo: comprendono opere sistematiche speculative e scritti occasionali, scritti letterari e poetici, filosofici e teologici, apologetici, pedagogici, missionari e mistici. Tra questi ultimi ricordiamo: L'arte della contemplazione, Il libro delle contemplazioni, Il Libro di Evast e Aloma e Blanquerna o semplicemente Blanquerna la cui quinta parte è costituita dal Libro dell'Amico e dell'Amato.

Per l'abbondanza e varietà dei suoi scritti fu soprannominato Doctor illuminatus.

II. Dottrina mistica. Gli studiosi hanno indagato sulle correnti di spiritualità che possono aver influito sulla dottrina di L.: la lirica provenzale, la cultura araba e la spiritualità dei " sufi ", soprattutto la sua formazione di fedele e teologo cristiano, particolarmente il pensiero filosofico e teologico-spirituale dell'agostinismo francescano della seconda metà del sec. XIII. Il fine supremo dell'esistenza cristiana è per lui rappresentato dalla figura dell'eremita contemplativo che si dà allo studio sapienziale e alla contemplazione amorosa la quale conduce a Dio, che è somma bontà. Poiché Dio è summa bonnitas diffusiva anche noi, se lo possediamo veramente, dobbiamo diffonderlo; dobbiamo cercare il Bene (Dio) non solo per noi, ma facendo sì che anche altri lo raggiungano; e ciò fino all'eroismo del martirio. Di qui l'importanza della preghiera che L. distingue in vocale, interna o contemplativa e " pratica " cioè esplicata con l'operare virtuoso.

Il progresso ascendente dell'anima verso Dio avviene mediante la meditazione e la contemplazione rivolte dapprima all'uomo e al creato, poi a Dio e ai suoi attributi, alla redenzione, ai comandamenti, ai sacramenti, alle virtù e ai peccati. E richiesta un'applicazione metodica e ordinata delle potenze dell'anima soprattutto della memoria, dell'intelletto e della volontà. Due secoli più tardi, questo metodo ispirerà s. Ignazio di Loyola. Nell'ascesi contemplativa, L. distingue tre tappe: quella sensibile, quella intellettuale e quella che " moltiplica le opere buone ". La terza tappa è del tutto nuova per il suo carattere pratico. Per questo motivo, L. è stato definito " filosofo dell'azione ", ma egli ne è piuttosto il teologo. L'unione con Dio si ha nell'incontro estatico dell'" Amico e dell'Amato ", incontro che è, allo stesso tempo, affettivo e intellettuale e coinvolge anche i cinque sensi spirituali dell'anima: " Cogitatio, perceptio, conscientia, subtilitas, animositas ". Questi devono essere tutti assorbiti dall'unione contemplativa, quindi occorre essere immersi in Dio e ripieni di lui.

Se il pensiero teologico-spirituale di L. è sostanzialmente quello dell'agostinismo francescano, tutti suoi, invece, sono il procedimento dimostrativo, l'ardore mistico e il colorito romanzesco espressi nel libro Blanquerna (che possiamo tradurre candore) così intitolato dal nome del protagonista. Il genere letterario di questo libro è quello di un romanzo complesso nel quale s'intrecciano molti generi letterari. Mira a presentare la figura di un cristiano che, dopo essersi adoperato (come la Marta del Vangelo) al servizio degli altri, alla fine come Maria " ha scelto la parte migliore che non le sarà tolta ", quella di vivere esclusivamente per amare Dio fino alla propria morte. La quinta parte di Blanquerna è costituita dal Libro dell'Amico e dell'Amato che si presenta come una guida alla contemplazione, con prospettiva della meta finale della perfezione nell'unione mistica dell'anima con Dio. E un libro di meditazione in cui l'amore contemplativo per Dio sgorga con assoluta spontaneità lungi da qualsiasi piano sistematico e logico. Frutto di preghiera e contemplazione, offre diversi argomenti in forma concisa, divisi in tanti versetti quanti sono i giorni dell'anno. " E ogni versetto è sufficiente per contemplare Dio per un giorno intero, secondo L'arte del libro di contemplazione ". I 366 aforismi sono di grande bellezza, vibranti di passione mistica, ammantati di poesia che è preghiera e desiderio di spogliarsi di tutto per possedere l'Amato. Non sono di facile lettura; richiedono attenzione d'amore e silenzio interiore. Le immagini vivide e suggestive richiamano il linguaggio di tutti i grandi mistici di ogni tempo.

Bibl. Opere: Obras de Ramon Llull, a cura di M. Obrador et Al., 21 voll., Maiorca 1906-1950; Raimundi Lulli. Opera latina, curavit F. Stegmüller, 5 voll., Palmae Maioricarum 1969-1977; Raimundi Lulli. Opera latina, edidit Aloisius Madre, Turnholti 1984; Libre de contemplacio en Deu, tomi 2, Palma de Maiorca 1987-1989: Il libro dell'amico e dell'Amato ha avuto varie edizioni in italiano: nel 1932 a Lanciano e a Genova, nel 1978 a Reggio Emilia, nel 1991 a Roma; L. Orbetello (cura di), Raimondo Lullo, Il libro del Natale - Il lamento della filosofia, Firenze 1991. Studi: A. Bonner - C. Lohr, s.v., in DSAM XIII, 171-187 (con ampia bibl.); Carsiano da Langasco, s.v., in BS VIII, 375-392; J. de Guibert, Le méthode des trois puissances et l'Art de la contemplation de R. Lull, in RAM 6 (1925), 367-378; P. Juan-Tous, s.v., in WMy, 328-330; A. Llinarés, Raymond Lulle, philosophe de l'action, Grenoble 1963; F. Longpré, s.v., in DTC IX, 1072-1141; A. Matanic, s.v., in DES II, 1473-1474; E.W. Platzeck, La vida eremitica en las obras del beato R. Lullio, in REsp 1 (1942), 61-79, 117-143; L. Sala - Milins, La philosophie de l'amour chez Raymond Lulle, Paris 1974.

R. Barbariga

LUMINOSITÀ. (inizio)

I. Nozione. Questo fenomeno consiste in una irradiazione di luce da un corpo mistico, specialmente durante periodi di preghiera o di estasi. Talvolta la l. prende la forma di un alone o di una corona che circonda il capo del mistico; in altri casi il volto dell'individuo è raggiante di luce, oppure i raggi di luce provenienti dal mistico illuminano pienamente una stanza.

L'AT afferma che quando Mosè discese dal Monte Sinai, con le tavole della legge, il suo volto era così raggiante che dovette coprirlo con un velo (cf Es 34,29-35). Inoltre, il NT riporta la trasfigurazione di Gesù (cf Mt 17,1-8).

Molti santi fecero l'esperienza di questo fenomeno come, ad esempio, s. Ignazio di Loyola, s. Francesco di Paola ( 1507), s. Luigi Bertrán ( 1581), s. Giovanni Vianney ( 1817), s. Francesco di Sales, s. Carlo Borromeo ( 1584) e s. Filippo Neri.

II. Spiegazione del fenomeno. Se il fenomeno è veramente soprannaturale, può essere interpretato come l'effetto dell'intima unione con Dio o come un antecedente splendore di un corpo glorificato.

Esempi di l. e di fosforescenza sono stati registrati sia durante sedute spiritiche sia in alcune piante e animali. Ne consegue che le cause del fenomeno di l. possono dipendere da diversi fattori, ossia: naturali, preternaturali (diabolico) e soprannaturali.

Nel suo fondamentale studio, De Servorum Dei beatificatione et beatorum canonizatione, Benedetto XIV ammette la possibilità di una causa naturale di l. in alcune persone, ma ammette altresì che il fenomeno di l. di alcuni mistici è di origine soprannaturale. Esiste, quindi, la possibilità che la causa della l. sia anche di tipo naturale oppure diabolico; per questo motivo bisogna essere estremamente cauti nell'attribuire il particolare fenomeno a cause soprannaturali.

Bibl. V. Marcozzi, Fenomeni paranormali e doni mistici, Milano 1990; I. Rodríguez, s.v., in DES II, 1474-1475; H. Thurston, Fenomeni fisici del misticismo, Roma 1956.

J. Aumann

LUOGHI MISTICI. (inizio)

I. I l. sono ambienti, spazi, elementi che trasmettono valori, esperienze trascendenti e significati che alimentano la vita spirituale, che arricchiscono l'anima di ricordi ineffabili, che ridonano nuova speranza e forza per vivere le sofferenze e le difficoltà della vita quotidiana. Tali luoghi di memoria di grazie e interventi divini, ricevuti individualmente o comunitariamente, possono essere: 1. Chiese: " Mi faranno un santuario e io abiterò in mezzo a loro " (Es 25,8-9): il testo biblico traduce il bisogno vitale dell'uomo di celebrare il culto in un luogo sacro e riservato che consente di sperimentare la divina presenza. La stessa costruzione (in forma di croce, il collocamento ad Oriente, nella basilica cristiana, nella cattedrale gotica), l'insieme delle decorazioni ricordano il carattere escatologico della liturgia e aprono alla visione del cielo. Nelle diversità delle forme, in tutte le chiese l'altare è simbolo del Cristo, il tabernacolo segno della sua presenza, entrambi luoghi di esperienze trascendenti. Trattandosi di santuari in cui l'oggetto specifico del culto è un Crocifisso, una statua (Madonna, santi) o una reliquia, il luogo dell'esperienza mistica è il " segno visibile ", attraverso il quale viene riconosciuta, cercata e venerata la presenza di una realtà soprannaturale. 2. Luoghi sacri come ambienti spazialmente definibili sono: il cimitero (dove secondo le credenze popolari si avverano talvolta apparizioni di defunti), le catacombe (dove, per esempio avvenne la trasverberazione di s. Filippo Neri), il deserto, i monti della Terra santa (Tabor, Sinai = Mosè) considerati come mete di pellegrinaggi, presepi (Natale), e Via crucis (con immagini che suscitano profondi sentimenti di mistica partecipazione alla passione di Cristo). 3. Luoghi dell'itinerario spirituale, in cui il singolo e la comunità entrano in stretto contatto con Dio, sono esercizi spirituali fatti in case di preghiere o in privato, raduni e scuole di preghiera, pellegrinaggi, processioni (con il SS.mo Sacramento o nel giorno di festa di un santo). Anche le celebrazioni comunitarie dei sacramenti (battesimo, cresima, Eucaristia, unzione degli infermi), della morte e sepoltura cristiana, della consacrazione religiosa sono spazi aperti alla " receptio " di particolari grazie. 4. Luoghi di esperienze mistiche individuali s'incontrano nella bellezza della natura. Portato dalla contemplazione naturale all'elevazione interiore verso la bellezzza di Dio, l'uomo scopre le orme divine nei fiori, boschi, monti (Giovanni della Croce), nell'ampiezza del mare (Agostino), nel tramonto (riflesso dell'eterno). Luogo di trascendenza può diventare anche l'angolo della casa con un' icona illuminata da una luce. Come luoghi interiori (coscienza, spirito) vanno ricordati l'anima (il fondo dell'anima della mistica tedesca, il castello interiore di Teresa d'Avila, la cella interiore di Caterina da Siena), la comunità come " edificio spirituale " (1 Pt 2,5), come " tempio di Dio " (1 Cor 3,17), la stessa Chiesa come corpo di Cristo, luogo di un culto in spirito e verità.

Bibl. M. Eliade, Il sacro e il profano, Torino 1967; P. Jounel, Luoghi della celebrazione, in NDL, 783-799; A.G. Martimort, I luoghi sacri, in Aa.Vv., La Chiesa in preghiera, Roma 1966, 195-204.

Giovanna della Croce

LUSSURIA. (inizio)

Premessa. L'uomo, creato come corpo e anima e sigillato nella sua corporeità in forza del sesso che lo plasma e definisce, è stato redento da Dio attraverso il Figlio che si è fatto " carne ". Ma non è redento che nella misura in cui si lascia toccare dal mistero di Cristo. Per questo motivo, in lui possono riesplodere le ribellioni profonde del suo " io ", che intaccano sia la carne che l'anima, inseparabilmente.

Tra i sette vizi capitali, che possono fermare la redenzione dell'uomo, viene citata dalla tradizione la l.

I. Definizione. La l. è definita da Tommaso " peccato carnale " 1 per eccellenza, che porta a un accecamento della mente,2 provoca direttamente una diminuzione dell'amore al prossimo 3 e un impoverimento della speranza, anzi uno stato di disperazione.4 Come ogni altro vizio capitale, essa porta l'uomo alla stoltezza, " stultitia ".5

II. Nella Scrittura e nel contesto socio-culturale. Alcune formule della Bibbia e ancor più della semplice riflessione teologica possono essere " tradotte " e in qualche punto riconsiderate, riflettendo sul contesto in cui sono state a suo tempo espresse, ma non si può svuotare il messaggio biblico - e più direttamente quello cristiano - della sua severità riguardo a questo vizio capitale. E anche gli studi scientifici moderni più seri ora insistono nel ricordare come il sesso, principale fattore del problema l., sia un immenso valore (non riducibile per altro alla genitalità) perché si colloca come ciò che modella non solo tutto il corpo dell'essere umano, ma definisce la persona nel più profondo. Però sesso, corpo e persona debbono rientrare in un disegno più ampio che li modera e ispira: solo così è possibile salvare l'equilibrio e la " razionalità " dell'uomo e, come aggiungerebbe sempre s. Tommaso, la sua capacità di " sottostare a Dio ".6

Come la castità è fattore che dispone massimamente ad aprirsi a Dio e ai fratelli e promuove, quindi, la vita sprituale nonché l'attività caritatevole, così la l. riduce di molto l'orizzonte dello spirito e porta una pericolosa insensibilità generale. Difatti, con la l. viaggiano molto l'avidità e la violenza psicologica, che non cessano di incalzare sia i soggetti labili, sia quelli non ancora ben formati, come i giovani, sia anche coloro che sembrerebbero abbastanza ben corazzati di fronte alle suggestioni lussuriose, ma che ne restano ugualmente scossi.

Nella l., così intesa, si è tornati a una mitizzazione o " deificazione " della natura, del tutto opposta allo spirito della rivelazione biblica. Si è giunti non alla vera difesa della natura, ma ad una impostazione esattamente " innaturale ", che porta una grande solitudine e tristezza, poiché si trova il piacere ma non la gioia. S. Giacomo sottolinea: " Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato; e il peccato, quand'è consumato, produce la morte " (Gc 1,14-15).

S. Tommaso fa eco ricordando, a proposito di una " legge divina che mette ordine nell'uomo in base alla ragione circa le realtà del corpo e quelle che toccano il senso ", che tale legge dev'essere sentita come un invito a prestare a Dio " l'ossequio ragionevole ", anzi come una vocazione alla santità, secondo gli insegnamenti di s. Paolo.7 " Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? Infatti, siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo " (1 Cor 6,19-20).

III. L. spirituale. San Giovanni della Croce è molto severo soprattutto nei confronti della l. spirituale, quella che impoverisce l'unione piena con Dio. In modo particolare, egli afferma che i principianti hanno alcune imperfezioni circa questo vizio.8 Esso si manifesta sotto forma di moti impuri, derivanti dal piacere per le cose spirituali,9 anche quando lo spirito è occupato nella pratica di un sacramento e nell'orazione.10 A volte, è proprio il demonio a causare questi moti per turbare le persone e distoglierle dall'orazione.11 Solo attraverso il processo di purificazione, innescato dall'aridità spirituale, la persona viene purificata dalle imperfezioni commesse circa la l. spirituale.12 La l. va perciò combattuta con impegno perché la persona, una volta purificata, possa raggiungere quello stato di quiete e di pacificazione interiore tipico di chi è ormai stabilito nel cuore di Dio.

Note: 1 STh I-II, 72, c. 2; 2 " Caecitas mentis ": Ibid. II-II, 15, c. 3; 3 STh II-II, 170, q. 1 ad 2; 4 STh II-II, 54, 1 co.; 5 STh II-II, 46, 3; 6 Contra Gentes, 1, III, c. 121; 7 Ibid.; 8 Cf Notte oscura I, 4,1; 9 Ibid. 4,2; 10 Cf Ibid.; 11 Cf Ibid. 4,3; 12 Cf Ibid. 13,2.

Bibl. Aa.Vv. Mystique et continence, in EtCarm 31 (1952), tutto il numero; P. Adnès, Luxurie spirituelle, in DSAM IX, 1260-1264; E. Ancilli, s.v., in DES II, 1475-1477; T. Goffi, Amore e sessualità, Brescia 1967, 196-240; G. Pistoni, s.v., in EC VII, 1707-1712; A. Tanquerey, Compendio di teologia ascetica e mistica, Roma 1948, nn. 873-882; M. Vidal, Morale dell'amore e della sessualità, Assisi (PG) 1986, 188-226.

R. Girardello

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