DAMASCENO GIOVANNI - DROGHE - DIZIONARIO DI MISTICA

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DAMASCENO GIOVANNI - DROGHE

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DAMASCENO GIOVANNI (santo). (inizio)

I. Vita e opere. Colui che è considerato il più grande teologo bizantino, Giovanni di Damasco, nasce verso il 650 nella città da cui prende il nome, da una famiglia di dignitari imperiali, di fede cattolica, ma di origine araba. Da ragazzo, viene educato alla cultura greca, senza tralasciare l'approccio alla cultura e al mondo arabi. Dopo una vita spesa come dignitario alla corte imperiale di Costantinopoli, Mansur, questo il suo nome arabo, a cinquant'anni, decide di recarsi a Gerusalemme, entrando, come monaco, nel monastero di Mar Saba. Ordinato sacerdote, per le mani del patriarca Giovanni di Gerusalemme, passerà il resto della sua vita, quasi altri cinquant'anni, applicandosi alla compilazione delle sue opere e alla direzione spirituale di monaci, sacerdoti e vescovi. Si distinguerà anche nel campo liturgico, con la composizione di testi, ancora oggi in uso nella Chiesa d'Oriente, e, tra gli altri, di tre canoni giambici per la sinassi eucaristica. Sarà testimone della lotta contro l'iconoclastia, che egli combatterà con tre famosi discorsi, Contro gli iconoclasti (Orationes de imaginibus tres) appunto, difendendo la bontà e la liceità della venerazione delle immagini sacre. La leggenda racconta che l'imperatore iconoclasta, Leone III l'Isàurico ( 741 ca.), gli fa tagliare la mano destra per punirlo di aver scritto i discorsi in difesa del culto delle icone: D., allora, prega l'icona della Madonna Hodighitria, cioè che indica la via, di restituirgliela con la promessa di scrivere sempre in onore della Vergine. La mano, miracolosamente, torna al suo posto e D. fa applicare all'icona una mano d'argento, che successivamente passa ad indicare il titolo dell'icona e anche una variante del modello iconografico.1 La Madonna delle Tre Mani è conservata ora nel monastero di Chilandar, Monte Athos. Stimato ed amato dai suoi contemporanei, muore quasi centenario nel 750 ca.

Non c'è campo della teologia, in cui D. non si sia applicato; e sembra, secondo la tradizione, si sia interessato anche di argomenti profani. Ma i suoi scritti, tramandati da una buona tradizione manoscritta, segno della stima e della fama di cui godeva tra i suoi contemporanei, sono quelli di un compilatore, di un uomo di sintesi in un'epoca in cui il pensiero patristico comincia a scrivere la sua teologia in modo sistematico, in un'urgenza di ordine e di armonia, che presuppone una pur timida età pre-scolastica. Vissuto nell'epoca dei Florilegia, ultimo Padre della Chiesa orientale, D. è famoso per la sua opera monumentale, una vera summa theologica, che s'intitola Fonte della conoscenza. Quest'opera (Expositio fidei), preceduta da un'introduzione a carattere filosofico (Dialectica), riassume la cristologia dell'età anteriore, presentando, nel corpo dello scritto, numerose trascrizioni letterali di opere dei Padri precedenti: spesso interi capitoli. Le altre due parti che compongono questo lavoro sono una confutazione sistematica di tutte le eresie (De haeresibus) e una presentazione, altrettanto sistematica, della vera dottrina cattolica e della fede ortodossa, per un totale di 228 capitoli.

Predicatore sulla falsariga del Crisostomo, D. è anche autore di alcune omelie di argomento mariologico e cristologico, che trovano posto tra gli scritti esegetici ed omiletici, sulla base dei tempi liturgici dell'anno: sulla Trasfigurazione, sulla Natività, sulla Dormitio della Vergine ed altre, una miniera di esegesi spirituale.

Altre opere a carattere ascetico-morale, come le lettere sul digiuno quaresimale (De Sacris ieiunis) o sui vizi e le virtù (De virtutibus et vitiis), di dubbia attribuzione, e una sua collaborazione, non sappiamo in che termini, ai Sacra parallela, un'antologia che raccoglie i contributi dei Padri nell'ambito della morale, completano il panorama dei suoi scritti.

D. va anche ricordato come autore di alcune opere di agiografia, dedicate a s. Barbara (Encomium in s. Barbaram), a s. Anastasia (Laudatio s. Anastasiae) e al suo amato Crisostomo (Encomium in s. Johannem Chrysostomum).

II. Dottrina. D. è un monaco che scrive per i monaci: per lui l'ideale monastico è l'unico che risponda appieno alla vocazione cristiana della vita perfetta. Fondamento di questa vita perfetta è la verginità, che è anticipo di quella partecipazione alla vita divina, che per il cristiano culmina nella visione stessa di Dio. Il tratto mistico di D. si riallaccia sempre ai misteri liturgici, di cui dà un'interpretazione mistico-spirituale: tutto è ascensione verso Dio, sull'esempio del Salvatore, la cui trasfigurazione sul Tabor diventa esperienza quotidiana per il fedele. Cristo è l'immagine di Dio per eccellenza, " il visibile dell'invisibile... in quanto porta il Padre in se stesso " (De imaginibus I, 2), è il primo exemplum che si presenta al monaco: obbedienza ed umiltà sono le virtù per eccellenza del Figlio di Dio, che siamo chiamati ad imitare; sono le virtù cardini dell' Incarnazione, che egli esprime con una frase sintetizzante il mutuo rapporto che intercorre tra il Creatore e la creatura: " Per causa mia, egli è diventato ciò che sono io ".

Ma l'atteggiamento di Gesù verso il Padre si esprime anche nel rapporto di preghiera, quasi una esemplificazione concreta per noi dell'Amore che rende perfette e feconde le relazioni intratrinitarie. Egli scrive nell'Omelia sulla Trasfigurazione, a proposito di Gesù: " E prega tra sé: madre della preghiera è la solitudine; preghiera, poi, è manifestazione di gloria divina. Quando i nostri sensi sono quieti e ci intratteniamo con noi stessi e con Dio e, affrancati dai vortici del mondo, rientriamo in noi stessi, allora vediamo chiaramente in noi il regno di Dio, perché il regno dei cieli, cioè il regno di Dio, è dentro di noi, proclamò Gesù, il nostro Dio " (In Trasfigurationem 10).

La Scrittura è un altro viatico per la vita spirituale: " Come l'albero è piantato nell'acqua, così l'anima inserita negli scritti divini, si arricchisce e dà frutto ad ogni stagione " (Expositio IV, 17).

La Parola di Dio genera alla vita e alle opere buone: la vera fede conduce al cielo (cf In S. Barbaram 7), alla verità, che è Cristo, sapienza e verità sussistente (cf Dialectica 1).

Ma tutto questo cammino-sequela va nutrito con la disciplina dell' ascesi, dove per ascesi s'intende la spogliazione di se stessi. Consiglia D.: " Se scuoteremo il giogo delle passioni, rovesceremo anche la loro tirannia: dall'amore deriva la misericordia, dalla misericordia, l'umiliazione, dall'umiliazione la salvezza e l'esaltazione " (In sabbatum 39) e la sottomissione delle passioni (cf De virtutibus 96a; De voluntatibus 18,148a), ma anche il progresso nella giustizia (cf In ficum 6; De nativitate 8,6; Dormitio 2,19) nell'intento di farsi più spirituale, più puro, per meglio contemplare Dio: " Occorre quindi lasciare sulla terra le cose della terra, oltrepassare la bassezza del corpo, salire verso l'altissima e divina immagine " (Dialectica 19).

Allora, tutta la vita del monaco diventa movimento dell' anima, che in interiore homine, incontra Dio: la theoria, vale a dire la visione e la contemplazione della Trinità, mette l'uomo in condizione di vivere immerso nella stessa luce divina, dove Dio manifesta la sua gloria, senza che alcun ostacolo si frapponga tra lui e il Creatore: in modo diretto ed immediato. E una partecipazione continua, quotidiana alla vita divina, che riecheggia la relazione immediata e quotidiana tra Dio e il primo uomo: Dio conversa con l'uomo e l'uomo prende dimora in Dio (cf In sabbatum 35). Ma si tratta di una relazione recuperata in una dimensione nuova perché cristologica.

E l'anima, dunque, il luogo privilegiato di Dio: l'anima del monos è monos anch'essa, vive quest'unica e totalizzante esperienza riappropriandosi di se stessa e separando continuamente se stessa da tutto ciò che non è Dio. Se l'ascesi e la vita intellettiva sono l'humus privilegiato, la verginità e la carità sono gli ambiti in cui questo cammino si compie. Tutti e tre i presupposti conducono armoniosamente l'anima al pieno possesso di sé, in una libertà ritrovata che vede il suo compimento naturale solo in Dio. E la libertà il fermento che realizza questa sintesi misteriosa: liberamente l'anima si sottomette a Dio con un atto pieno di volontà e liberamente Dio conduce quest'anima, che gli si è donata, al possesso dei doni soprannaturali. E non è poco quello che si compie poiché l'anima diventa, per grazia, tutto ciò che Dio è per natura: D. usa il termine cooperazione (cf Expositio IV, 15). Questa è la strada che conduce l'uomo alla santità.

I santi, dunque, rassomigliano a Dio; hanno conservato la loro somiglianza con lui, oppure si sono fatti rassomiglianti a lui attraverso l'ascesi e la preghiera, con l'aiuto dello Spirito (cf Expositio IV, 22; Contra Manichaeos 86-87) come moto della volontà propria, ma anche per l'aiuto e l' inabitazione di Dio in loro, tanto da essere chiamati idealmente dei, non per natura, ma per contingenza (cf De imaginibus 3,33). Il santo " tempio vivente di Dio, tabernacolo di Dio, fontana di salvezza per noi, pienezza, onnipotenza e potere infinito " (De fide orthodoxa 1,8), vive in confidenza con Dio: è l'imitatore di Cristo, che si è fatto uomo per indicarci la strada, con la sua libertà interiore e la preghiera, chiamato ad assomigliare sempre più a lui, imitandone la bontà (cf De imaginibus 1,21; 3,26). Il santo, più grande dell' angelo, è colui che più di ogni altro compie in sé la vocazione cristiana, imitatore della bontà divina di Cristo, incarnatosi per educarci all'obbedienza e all'umiltà (cf Dialectica 3), la sequela che chiama l'uomo di Dio (cf In ficum 1), nella piena libertà che lo porta ad abbracciare la volontà del Padre fino alla kenosis, nella preghiera che è partecipazione alla gloria di Dio.

Tra i santi, la Vergine Maria, vergine in spirito, in anima, in corpo (cf In nativitatem 5) è prima di ogni altro. D., riecheggiando i salmi, la chiama con dolcissimi nomi: monte del Signore, la splendente, colei che oltrepassa e supera ogni collina e ogni montagna per la sua santità... è monte di Dio, più sacro del Sinai, coperta dal raggio luminoso del santissimo Spirito... tutta città del Dio vivente, rallegrata dai ruscelli di fiume, la tutta bella, la tutta accanto a Dio (cf In nativitatem 6,9). E lei che inizia la strada, anche per noi (cf In dormitionem II, 3) e sintetizza questo cammino di ascesi e di contemplazione, trovando " diletto nel digiuno, nella continenza e nei canti dei salmi: si rallegra insieme con la castità, la verginità e la saggezza: con esse vive eternamente, in pace, abbracciandole amorevolmente " (In dormitionem II, 19). Non è un vaso passivo, ma partecipa con tutto l'essere all'opera di Dio: partecipa del privilegio di Cristo, che è la vita, ed ha in sé la potenza di guarire. E lei che rappresenta, dopo Cristo, la massima espressione del Tabor. Ascesi e mistica, quindi, si fondono.

Note: 1 PG 94, 455-458. Cf G. Gharib, Le icone mariane, Roma 1987, 166; Id., Apparizione della Madonna a S. Giovanni Damasceno, in Madre di Dio, 8-9 (1992), 3-15;

Bibl. G. Bentivegna, L'effusion de l'Esprit Saint chez les Pères grecs, in NRTh 113 (1991), 690-707; B. Borghini, Canti della risurrezione, Roma 1974; A. Caceffo - A. Candelari, Omelie sulla beata Vergine, Roma 1973; C. Chevalier, La mariologie de S. Jean Damascène, Paris 1936; V. Fazzo, Giovanni Damasceno. Difesa delle immagini sacre, Roma 1983; R. de Feraudy, L'icône de le Transfiguration, Abbaye de Bellefontaine 1978; C. Gheorghescu, La doctrine de l'union hypostatique chez S. Jean Damascène, in Orthodoxia, 23 (1971)4, 181-193; M. Gordillo, s.v., in EC VI, 547-552; J. Grégoire, La relation éternelle de l'Esprit au Fils d'après les écrits de Jean de Damas, in Revue d'Histoire Ecclésiastique 64 (1969), 718-755; W. Heller, s.v., in WMy, 270-271; M. Jugie, s.v., in DTC VIII, 603-751; H. Leclerc, s.v., in DACL VII, 2186-2190; J. Nasrallah, S. Jean de Damas, son époque, sa vie, son oeuvre, Harissa 1950; Th. Nikolaou, Die Ikonenverehrung als Beispiele ostkirchlicher Theologie und Frömmigkeit nach Johannes von Damaskus, in Ostkirchliche Studien, 25 (1976), 138-165; M. O'Rourke, Christ the Eikon in John of Damascus, in The Greek Orthodox Theological Review, 15 (1970), 175-186; D.H. Sahas, John of Damascus on Islam, Leiden 1972; J.M. Sauget, s.v., in BS VI, 732-740; A. Siclari, Giovanni di Damasco: la funzione della " dialettica ", Perugia 1978; G. Sima, Les fondaments doctrinaux de la véneration de saintes Icônes selon S. Jean, in Ortodoxia, 41 (1989), 117-140; M. Spinelli, Giovanni Damasceno: Omelie cristologiche e mariane, Roma 1980; B. Studer, s.v., in DSAM VIII, 454-466; L. Swecney, John Damascene and the Divine Infinity, in The New Scholasticism, 35 (1961), 162-170; Id., John Damascene's Infinite Sea of Essence, in Texte und Untersuchungen, 81 (1962), 248-263.

L. Dattrino

DAVIDICO LORENZO. (inizio)

I. Vita e opere. Castellino Paolo Lorenzo De David detto Davidico, nasce nel 1513 a Castelnovetto (da qui il nome di Castellino), borgo della provincia di Pavia, in diocesi di Vercelli. Figlio di De David e di Giovanna, è avviato agli studi ecclesiastici, conseguendo la laurea in teologia e in utroque iure e divenendo sacerdote. Nel 1536 si aggrega all'Ordine dei barnabiti. Nonostante sia stimato dallo Zaccaria ( 1539) e si riveli zelante e intraprendente, è dimesso dai barnabiti nel 1547 perché considerato incorreggibile nella sua condotta gravemente difettosa. Egli, infatti, è segnato da una personalità disarmonica e ambigua. Da un lato si presenta, al dire dei contemporanei, come " omo de Dio spirituale, prete et predicatore christianissimo ",1 così da ricevere da Giulio III ( 1555) il titolo di " praedicator apostolicus " (1550) e da diventare commissario dell'Inquisizione presso il Sant'Uffizio. Dall'altro lato, attira su di sé le più infamanti accuse di menzogna, malversazioni, furti, abusi, violenza, addirittura sodomia, bestemmia, simonia, superstizione. Sono in lui evidenti una smisurata ambizione e una tenace volontà di protagonismo, che si alternano con il rigorismo ascetico e gli slanci mistici. Il suo è un temperamento ambivalente, secondo gli antichi confratelli 2 e come ebbe egli stesso a riconoscere: " Se di fora mi esercito, la vanagloria mi tende da ogni parte la rethe; se mi retiro in tutto l'accidia mi mangia ".3 Ambivalenza che si riflette sul piano fisico, alternando stagioni di attività febbrile con depressione e perfino collassi.

Lasciati i barnabiti, alla cui porta spesso tornerà a bussare, comincia per il D. un'estenuante peregrinazione che registra oltre trenta spostamenti di città in città al Nord e al Centro Italia, per terminare i suoi giorni in Vercelli, il 29 agosto 1574.

Non indugiamo su quest'aspetto della sua vita, in parte dovuto alla missione di predicatore e di inquisitore, qualifica quest'ultima che lo vede sul banco degli imputati nel 1555, quando è costretto a quattro anni di prigionia nelle carceri romane, dalle quali esce nel 1559 in seguito all'incendio del palazzo dell'Inquisizione. Egli dichiara nel memoriale difensivo del 1556: " Ho operato, confirmando secondo il talento a me dato li catholici, impugnando li heretici, eccitando li tepidi et esponendomi per la fede de Christo... a evidentissimi pericoli della vita ".4 Né diversamente rivendicherà la rettitudine del suo operato nel Testamentum spirituale del 30 luglio 1560, successivamente pubblicato in un'opera, Columba animae, del 1562 dedicata a Pio IV ( 1572). Infatti, l'attività oratoria del D., che il Boffito 5 definisce " grafomane della mistica ", si riversa in una pubblicistica nutritissima, che comprende ventiquattro opere superstiti e sessanta andate perdute o rimaste inedite.6

II. Accenni di dottrina. Il D. redige in volgare le sue opere, in cui emerge il parlato della predicazione più che lo scritto di un'organica riflessione e che offre a un'ampia cerchia di lettori anche non dotti. L'urgenza della riforma si accompagna a un'implacabile denuncia della corruzione soprattutto del clero e con il martellante invito al rigore ascetico e alla pratica dell' orazione dai gradi più elementari a quelli più elevati. E costante il richiamo all'ortodossia e alla disciplina ecclesiastiche e non mancano i toni minacciosi per distogliere i peccatori dal male, ma anche gli eretici dai loro smarrimenti.

Diretto ispiratore del D. è senz'altro fra Battista da Crema, il domenicano guida spirituale di Gaetano Thiene ( 1547) e Antonio M. Zaccaria. Gli stessi contemporanei ritengono che lo spirito del Cremense si sia trasferito in lui, che ne condivide il volontarismo ascetico, l'importanza dell'intenzione, l'amore del paradosso nel presentare la dottrina teologica, l'accentuazione dei diversi gradi del vivere spirituale fino alle vette della mistica (la " quiete mentale " che immerge nella contemplazione unitiva), cui solo gli iniziati possono accedere. A questo si aggiunga la pratica di spettacolari penitenze e dell'accusa pubblica dei propri difetti, mutuata dai seguaci dello Zaccaria, per rendersi conto di come si articoli l'azione catechetica e formativa del D., nella quale, secondo il Firpo, si nasconderebbe, almeno inizialmente, la tendenza attribuita a fra Battista e ai suoi seguaci, di tendere verso un cristianesimo carismatico ed esoterico, con il pericolo di un'illusoria impeccabilità una volta raggiunti i sommi gradi della vita spirituale e il concomitante rischio di sfuggire a qualunque controllo ecclesiastico. Sta di fatto, come riconosce lo stesso Firpo, che nella vicenda del nostro personaggio si verifica quell'involuzione controriformistica che avrebbe poi assicurato tanto successo alle sue opere. In queste è martellante il richiamo al disprezzo del mondo, all'esercizio ascetico, alla pratica devozionale, alla frequentazione dell' Eucaristia, all'imitazione del Crocifisso con il conseguente ricupero della positività della sofferenza e della prova, alla docilità verso la Chiesa e al rifiuto dell'eresia.

E difficile presentare una sintesi ragionata delle opere del D., stante il carattere per lo più " orale " e occasionale della loro provenienza e stante le chiare dipendenze dalla sua fonte primaria. Quella forse che merita maggiore attenzione è l'Anatomia dei vizi, del 1550, che lo avvicina al clima riformistico respirato negli anni della frequentazione barnabitica.

Note: 1 Cit. in M. Firpo, Nel labirinto del mondo, Firenze 1992, 103; 2 " Hora se trova infatigabile et hora confuso ", si legge negli Atti capitolari, cit. da Firpo, 61; 3 Ibid., 213; 4 D. Marcatto, Il processo inquisitoriale di Lorenzo Davidico (1555-1560), Firenze 1992, 60; 5 Biblioteca barnabitica, I, 574; 6 L'elenco in M. Firpo, Nel labirinto... o.c., 237-258.

Bibl. Opere: Oltre alle opere citate, si possono ricordare il Trattato circa la Comunione, Firenze 1550; Sperone de tepidi, Perugia 1552; Laberintho di pazzi, Venezia 1556; Specchio interiore, Vercelli 1571. Studi: P. Bailly, s.v., in DSAM III, 50-51; G. Boffito, Scrittori Barnabiti... Biografia, Bibliografia, I, Firenze 1933, 574-585; M. Firpo, Nel labirinto del mondo. Lorenzo Davidico tra santi, eretici, inquisitori, Firenze 1992; C. von Flüe, s.v., in DBI XXXIII, 157-160; A. Levasti, I mistici, I, Firenze 1925, 266-271; D. Marcatto, Il processo inquisitoriale di Lorenzo Davidico (1555-1560). Ed. critica, Firenze 1992; O. Premoli, s.v., in ScuCat 40 (1912), 164-187 e 282-297.

A. Gentili

DEBOLEZZA. (inizio)

I. Il concetto di d. attraversa completamente la multiforme stratificazione della realtà unitaria dell'uomo e da essa riceve la sua determinazione in ordine allo specifico di ogni livello considerato e la sua rilevanza in ordine alla coordinazione con la globalità antropologica, con quell'insieme di interferenze tipico di ogni fatto unitario. Descrittivamente possiamo individuare una d. fisica in senso proprio nell'astenia ed in senso più generale in tutto ciò che di patologico colpisce ed attenua il normale funzionamento del corpo dell'uomo, con diversa gravità e permanenza. Un adulto cronologicamente maturo può registrare un equilibrio psicologico caratterizzato da labilità ed insufficienze come da vere e proprie malattie, con uno svariato grado di solubilità. Anche culturalmente e sociologicamente possiamo pensare ad una serie di connotazioni e ruoli sociali che una persona possiede o ricopre e stimarli vantaggiosi o svantaggiosi oppure distinguerli in forti o deboli, come facilmente illustrano una sommaria esemplificazione circa il patrimonio di cultura e di educazione o la disponibilità economica o il livello sociale.

II. Esperienza morale e spirituale. Tuttavia, le dimensioni appena descritte di per sé nulla ci dicono del momento prescrittivo dell'esperienza morale e spirituale in quanto tale, cioè del grado di coinvolgimento della libertà dell'uomo nella ricerca e nella realizzazione del senso della propria umanità. Ma, proprio per la rilevanza della problematica morale per l'identità antropologica - l'identità di un uomo è la sua decisione morale, l'uomo non è costituito da ciò che si trova di fatto ad essere, ma da ciò che sceglie di essere -, esattamente qui il tema in questione acquista un profondissimo spessore, perché introdurre il discorso sulla d. o sulla fortezza coinvolge il discorso sull'intensità con cui il soggetto morale persegue la costruzione o la distruzione di se stesso. Le inattese combinazioni che, talora, si scoprono tra la salute fisica, la sicurezza psicologica o sociologica, da una parte, e una d. morale, dall'altra, rendono accorti sulle interconnessioni dei due momenti: svantaggi pre-morali non determinano la scelta morale che è valutabile esclusivamente dal libero coinvolgimento della volontà individuale; questa sola sa accettare il proprio ritmo di crescita secondo una legge di gradualità. La d. fenomenologicamente descritta, da superare nel limite del possibile, non impedisce con la sua presenza l'esperienza morale e spirituale, ma la circoscrive e la situa nella storia, configurandola positivamente piuttosto come una possibilità originale ed irrepetibile di realizzazione morale e spirituale e non tanto negativamente come mancanza di opportunità. La possibilità di diventare persone, di eseguire il senso della propria esistenza è sempre presente nella situazione data, che si configura carica dell'appello e della vocazione di Dio, che ci chiama così personalmente all'esperienza totalizzante e radicale della sua vita di amore e di luce.

La fede cristiana apporta un'interpretazione della d. come conseguenza di una storia di peccato iniziata dall'uomo stesso. Ne è derivata una costitutiva incapacità di auto-salvezza, quindi un costitutivo bisogno di essere salvati. Il mancato riconoscimento di questo stato di necessità salvifica pone l'uomo in una d. costitutiva che rischia di diventare definitiva dispersione di sé.

Bibl. Aa.Vv., L'homme devant l'échec, Paris 1959; Y. Belaval, Les conduites d'échec, Paris 1953; M. Chiva, Débiles normaux débiles pathologiques: actualité pédagogiques et psychologiques, Neuchatel 1973; T. Goffi, s.v., in DES I, 702-705.

P. Carlotti

DELBREL JOSEPH. (inizio)

I. Vita e opere. D., nato ad Agen il 19 luglio 1856, entra nella Compagnia di Gesù nel 1878 ed è ordinato sacerdote nel 1887. Abbandona una promettente carriera come professore di storia divenendo un collaboratore attivo e di spicco in un'importante apostolato della Compagnia restaurata: la santificazione dei sacerdoti. Nel suo libro del 1897, Des vocations sacerdotales et religeuses dans les collèges ecclésiastiques, si chiede perché pochi giovani abbienti, nelle scuole cattoliche, intraprendano il sacerdozio, che cosa promuove le genuine vocazioni e cosa conduce tali vocazioni a fruttificare. Incoraggiato dalla Santa Sede e dai vescovi francesi, si dedica completamente al compito di accogliere e di guidare i giovani sacerdoti. Nel 1901 fonda la pubblicazione bimensile, di larga risonanza, Le recrutement sacerdotal. Tre articoli di questo giornale divengono dei classici: Esto fidelis (Paris 1913), redatto per i giovani religiosi; Ai-Je la vocation? (Paris 1918), redatto per i seminaristi; A-t-il la vocation? (Toulouse 1923), redatto per gli insegnanti. D. è, inoltre, il fondatore dei congressi per i sacerdoti a Parigi, a Marsiglia e a Rouen che divengono modelli per simili congressi in altri paesi. Il libro Jésus éducateur des Apôtres, del 1916, il più importante lavoro di D., è incentrato sulla formazione sacerdotale letta alla luce del Vangelo. Nel suo libro, D. insiste sul fatto che è Gesù la guida e la vera anima di colui che è chiamato al sacerdozio. La vita di D., le sue prediche e i suoi scritti spiegano il suo amore appassionato per Cristo, per Maria, per la Chiesa e per il Vicario di Cristo. Muore nel 1927.

II. La spiritualità di D., come quella del suo maestro s. Ignazio, è più individuale che sociale, più pratica che artistica, più dottrinale che speculativa. Infatti, la spiritualità gesuita del suo tempo è caratterizzata da una forte abnegazione, da una scelta ferma e accurata dei mezzi per conseguire il fine prefisso, da un giudizio fermo, da una pietà evangelica e da un amore esclusivo. D. desidera solo cercare, trovare ed esaudire la volontà di Dio servendo Cristo. Questo maestro così accorto non dimentica mai l'ammonizione di s. Ignazio, rintracciabile nella quindicesima nota degli Esercizi spirituali: il padre spirituale " non dovrebbe propendere per una o per l'altra parte, ma piuttosto, comportandosi come l'ago di una bilancia, rimanere in equilibrio, permettendo così al Creatore di entrare immediatamente in contatto con la creatura e alla creatura con il suo Creatore e Signore ". Il carisma e il segreto del grande successo di D. stanno nel rispetto sia per la libertà totale di chi si è sentito chiamato al sacerdozio, sia nell'efficacia che egli accorda alla grazia.

Bibl. P. Bailly, s.v., in DSAM III, 123-124; J. de Guibert, La spiritualité de la Compagnie de Jésus, Rome 1953, 73-502; P. Lieutier, s.v., in Cath III, 555.

H.D. Egan

DELBREL MADELEINE. (inizio)

I. Vita e opere. Nasce a Mussidan in Dordogna il 24 ottobre 1902 nella casa dei nonni materni attigua alla piccola fabbrica di cera creata dal nonno. Poiché suo padre è operaio ferroviere, l'infanzia e l'adolescenza di M. trascorrono nelle diverse sedi di trasferimento di quest'uomo alquanto straordinario: grande patriota e grande organizzatore, amante delle lettere e della politica. M., sia per la fragile salute che per i continui trasferimenti del padre, non segue un corso regolare di studi. La famiglia, sul piano religioso, è indifferente, ma M. incontra sacerdoti che la illuminano sulla fede, così a dodici anni fa la sua prima Comunione.

A Parigi, dove il padre è trasferito nel 1916, M. incontra alcune persone molto dotte, ma atee che segnano la sua giovinezza. Confessa: " A quindici anni ero strettamente atea e trovavo ogni giorno il mondo più assurdo " (La lezione di Ivry, 509). Le piace il ballo e vi dedica molte serate. Sembra spensierata, ma in realtà la sua intelligenza si dibatte intorno ai concetti di " morte " e di " assurdo ". In questo periodo incontra alcuni cristiani che la mettono in crisi per il loro impegno e la loro coerenza. Legge s. Ignazio e si aggrega agli scouts della sua parrocchia. La rivelazione di Dio è per lei un vero " abbagliamento ". Gradatamente le si fa chiara la sua vocazione: vivere le esigenze del Vangelo nel mondo, in una vita simile a quella di tutti gli altri uomini. Alcune amiche si uniscono a lei e nasce una piccola comunità laica. Nel 1933, esse si trasferiscono a Ivry-sur-Seine, villaggio povero e scristianizzato, centro importante di un comunismo ad alto livello. Dal 1933 al 1946 M. s'impegna nel servizio sociale. La sua casa è aperta a tutti. Nel settembre 1939, insieme alle compagne è mobilitata per la guerra nei servizi sociali. Nel 1941, il card. Suhard fonda, con la Commissione episcopale francese, il seminario della Missione e M. è invitata a parlare della sua esperienza di Ivry.

Verso il 1944, M. ha una specie di seconda conversione: le si chiariscono i rapporti di carità fraterna tra credenti e non credenti, tra marxisti e cristiani e, in un certo senso, si assolutizzano il suo impegno di annuncio cristiano e il suo compito missionario. Si approfondisce anche quel suo cammino singolare di contemplazione di Dio sulle strade del mondo. E invitata a parlare della sua testimonianza nei gruppi più vari. Gli appunti, minuziosamente preparati, dei suoi interventi costituiranno, con le centinaia di lettere, una documentazione preziosa dello sviluppo del suo pensiero e soprattutto del suo cammino spirituale.

Nell'aprile 1938 appare sulla rivista Études Carmelitaines un breve articolo intitolato Nous autres gens des rues, dove è chiaramente presente il nucleo fondamentale della spiritualità di M.: la sintesi tra preghiera e azione, un'azione " piena d'amore ".

Nel 1957 vede la luce il libro che raccoglie la maturazione del suo pensiero nei confronti del marxismo, della missione dei cristiani e della Chiesa: Ville marxiste terre de mission (=VM).

Attingendo al copioso materiale ritrovato dopo la sua morte, avvenuta il 13 ottobre 1964, gli amici pubblicano Nous autres, gens des rues (=NA) (1966); La joie de croire (=JC) (1968); Communauté selon l'Évangile (=CSE) (1973), Alcide, guide simple pour simples chrétiens (=ALC) (1980), Indivisible Amour (=IA) (1991).

II. Esperienza mistica. La chiave per capire, per quanto è possibile, il segreto della spiritualità di M. è l'espressione da lei usata per indicare l'unione profonda tra preghiera e azione: " l'action vraiment amoureuse ", immersione d'amore in Dio in ogni azione. " Ogni atto docile ci fa ricevere pienamente Dio e dare pienamente Dio con grande libertà di spirito... Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel quale il paradiso ci è dato e nel quale noi possiamo dare il paradiso... Non importa ciò che dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una penna stilografica; parlare o tacere; rammendare o tenere una conferenza; curare un malato o battere a macchina. Tutto ciò non è che la scorza della splendida realtà: l'incontro dell'anima con Dio... " (NA, 23).

Il silenzio, un particolare silenzio, è caratteristico dell' itinerario contemplativo di M.: " I monasteri appaiono come i luoghi della lode e come i luoghi del silenzio necessario alla lode. Nelle strade, schiacciati tra la folla, noi stabiliamo le nostre anime come altrettante cavità di silenzio dove la Parola di Dio può fermarsi e risuonare " (Ibid. 63-67). Più volte, M. parla di anima aperta, totalmente aperta, in disponibilità ad accogliere la Parola, " il Verbo di Dio fatto vita umana ". " Nessun dono di Dio si versa se non tra le mani della fede, nessun dono di Dio si riceve se non nella profondità vertiginosa della speranza... Il Vangelo per liberare il suo mistero non chiede uno scenario né un'erudizione né una tecnica. Chiede un'anima prosternata nell' adorazione e un cuore spoglio di ogni fiducia nell'uomo " (Ibid. 72-80).

M., come ogni contemplativa, conosce la preghiera-gioia, ma anche la preghiera-fatica. " Pregare è una fatica immensa, rude, che mette in gioco tutto noi stessi. Essere completamente presenti a Dio, totalmente ricettivi davanti a lui non equivale a un riposo " (CSE 156). M. parla spesso della croce, ma pone in guardia contro l' ascetica per l'ascetica, l'esercizio per sentirsi forti; la vita con Dio è piuttosto " danza ", in abbandono totale al suo ritmo (cf NA 81-83).

M., parlando della sua conversione, soleva dire di essere stata " abbagliata " da Dio: termine questo che esprime per davvero tutta la sua vita di contemplativa nel mondo e per il mondo. Tale contemplazione, radicata nella Parola di Dio, porta all' imitazione di Gesù, che è richiesta ogni giorno, in ogni stagione dell'anno; essa ricorda ciò che è: l'assoluto dell'amore di Dio, l'assoluto dell'amore del prossimo. " Se oggi non si può più pregare "come" un tempo, a meno di essere in un monastero o in certe situazioni di vita particolare, non ne consegue però che non si debba più pregare: ne consegue invece che bisogna pregare in altro modo ed è questo altro modo che bisogna scoprire " (cf Primo gruppo di note sulla preghiera). Questo rimane il suo messaggio più attuale.

Bibl. Ch. de Boismarmin, Madeleine Delbrêl (1904-1964). Strade di città, sentieri di Dio, Roma 1988; N. Carreras-Paxtot, Madeleine Delbrêl: eroismo di una vita banale, in Studi Cattolici, 11 (1967), 267-271; M.L. Coppadoro, Abbagliata da Dio. La preghiera in Madeleine Delbrêl, Milano 1994; M.L. Cravetto, Madeleine Delbrêl (1904-1964). Una vita missionaria, in Humanitas, 27 (1972), 15-41; 142-161; L. Delannoy, Madeleine Delbrêl dopo " Nous autres des rues. La gioia di credere ", in Studi Cattolici, 19 (1969), 347-351; H. Jung, L'Évangile et Madeleine Delbrêl, in Ibid. 53 (1971), 739-748; J. Loew, Dall'ateismo alla mistica. Madeleine Delbrêl, Bologna 1996; J.P. de Menasce, La vie et la réflexion de Madeleine Delbrêl, in VieSp 49 (1967), 325-329; D. Mondrone, Impegno e autenticità cristiana negli scritti di Madeleine Delbrêl, in CivCat 123 (1972) I, 541-544; K. Neufeld, Atheismus und Spiritualität. Zum Zeugnis von Madeleine Delbrêl, in Geist und Leben, 44 (1971), 296-305; B. Papasogli, Madeleine Delbrêl: l'inquietudine della frontiera, in Letture, 33 (1978), 757-770.

M. Tiraboschi

DEPRESSIONE. (inizio)

I. Il termine d. comprende vari significati come tristezza, malumore, malinconia, dolore morale. La psichiatria per d. intende uno stato psicopatologico caratterizzato da un abbassamento più o meno stabile del tono dell'umore, da una modificazione dell' affettività e dei sentimenti in generale, da uno spettro abbastanza ampio di sintomi fisici e psichici.

II. I sintomi. Da un punto di vista psicologico, i sintomi della d. si presentano come veri e propri tratti della personalità, o meglio come uno stile di vita, un modo doloroso di vivere. Ciò che colpisce è in primo luogo la tristezza vitale, un'assoluta mancanza di gioia di vivere, che si accompagna ad un rallentamento ideativo e motorio.

Il senso di incapacità è un altro dei tratti distintivi della d. Il soggetto si sente completamente incapace: incapace di svolgere le normali attività giornaliere, incapace di lavorare; sente che non può prendersi cura di sé e tanto meno degli altri; avverte dentro di sé l'incapacità di provare i sentimenti di sempre (aridità affettiva), specie l'affetto per i suoi cari. Si sente come se fosse svuotato. A tutto ciò fa seguito un senso di inutilità di se stesso (quindi un senso profondo di autosvalutazione), degli altri, delle cose. Questo senso di inutilità si generalizza ad ogni ambito dell'esistenza, portando il depresso a concludere che la vita stessa è priva di ogni senso. Ne deriva l'assenza di qualsiasi speranza per il futuro.

Neanche i ricordi del passato si presentano in maniera positiva: non sono " bei ricordi ", ma più semplicemente ricordi carichi di dolore e di colpa. Questa, infatti, è un altro tratto tipico della d.

Le forti e continue autoaccuse, il senso di incapacità e di inutilità tengono il depresso in uno stato permanente di ansia e provocano crisi d'angoscia specie al risveglio mattutino.

Su un piano più propriamente organico, la sintomatologia comprende astenia, ossia un grande senso di spossatezza, soprattutto agli arti inferiori, che si condensa nella frase tipica di " sentirsi impotenti " a fare qualsiasi sforzo fisico che per altri può essere considerato normale.

III. Esistono diverse forme depressive in cui la sintomatologia è varia, dove spicca sempre l'abbassamento del tono dell'umore ma la manifestazione clinica è complicata da sintomi molto più complessi. Esistono forme la cui genesi sembra essere di carattere organico: le forme deliranti, lo stupore malinconico, la mania (in cui si assiste all'esatto contrario della sintomatologia esposta, la tristezza si muta in eccitazione, al rallentamento ideomotorio si sostituisce un'attività tumultuosa e frenetica).

Altre forme sono le d. reattive e le d. psicogene. Nelle prime, l'osservazione clinica rivela sempre che l'abbassamento del tono dell'umore è stato scatenato da un avvenimento ben definito come la perdita di qualcosa di caro: la morte di un congiunto, la perdita di beni materiali. Le d. psicogene o nevrotiche conservano il quadro tipico descritto sopra, il soggetto però, al contrario di quanto avviene nelle psicosi avverte il contrasto fra ciò che sente e i dati provenienti dalla realtà, eppure non riesce a vivere un'esistenza diversa da quella che vive. Non esiste remissione, se non dopo un intervento di carattere psicoterapeutico. In questo senso si può dire effettivamete che la d. diventa un " doloroso stile di vita ".

IV. Le spiegazioni e le interpretazioni psicologiche, che hanno riguardato le d. psicogene, sono molteplici ed alcune hanno mostrato nel corso degli anni una modesta coerenza. Le teorie psicanalitiche hanno interpretato la tristezza e gli altri aspetti della d. nei termini della retroflessione: la rabbia nei confronti della perdita di una persona amata viene rivolta dal paziente depresso verso se stesso. Per Adler i sintomi depressivi sarebbero un mezzo per manipolare l'ambiente circostante e volgerlo secondo i propri bisogni.

Negli ultimi anni, la corrente cognitivo-comportamentale ha proposto un modello di spiegazione, basato su diversi contributi della psicologia dell'apprendimento e della psicologia sperimentale, che ha trovato una favorevole accoglienza e si è dimostrato utile tanto nella investigazione che nella prassi clinica. Questo modello sostiene che il comportamento umano è guidato da una serie di cognizioni (o convinzioni) ovvero: atteggiamenti, credenze, aspettative. Tali cognizioni sono fondamentali anche nel produrre risposte emotive e comportamentali. In altri termini, ciò che si sperimenta a livello di sentimenti come il comportamento che ne segue è determinato dal " concetto " che si ha di se stessi, delle cose e degli altri. Importante nella formazione della struttura cognitiva è l'apprendimento. Così anche il comportamento depressivo viene appreso (apprendimento classico, operante, per modelli) attraverso una serie di esperienze nel corso di tutta l'esistenza. Nella d. sarebbero predominanti pensieri negativi che generalmente si dispongono su tre fronti: verso se stessi, verso il mondo, e verso il futuro (ciò che Beck e altri definiscono come " triade depressiva ") che si allacciano e dipendono strettamente da una filosofia di vita (cognizioni), profondamente radicata. Per Ellis e Harper (1977), i pensieri negativi, o irrazionali poiché non trovano nessuna prova nella realtà, predominanti nella d. riguardano inadeguatezza personale di fronte a mete e stili di comportamento difficilmente realizzabili.

Altro tentativo di spiegazione è quello proposto dalla logoterapia e Analisi Esistenziale (Frankl, 1983), secondo cui molte forme depressive dipenderebbero da motivi esistenziali. Il vuoto esistenziale, ovvero l'incapacità di trovare un senso nella propria esistenza si traduce in una frustrazione esistenziale che ha per effetto un senso di noia e apatia, mancanza di interesse per tutto e tutti, senso di inutilità personale e perdita progressiva della propria identità, tutti i segni tipici della d.

G. Froggio

V. Nel comportamento religioso è possibile che alcune forme depressive possano essere interpretate come atteggiamenti di umiltà. Questi equivoci si possono manifestare più frequentemente nei confronti di una triade esistenziale: la morte, la colpa e la sofferenza.

Inoltre, verso le realtà mondane il depresso nel suo comportamento religioso esprime tutta la sua scontentezza e profonda insoddisfazione. Nelle sue parole e nei suoi atteggiamenti abbiamo l'espressione dell'aggressività repressa. Questo biasimo per le cose materiali potrebbe essere frainteso come atteggiamento ascetico. Il depresso nel suo comportamento religioso non sa dare un senso al piacere e al godimento sforzandosi di sublimarlo - senza riuscirvi - in una dimensione spirituale-astratta. La gioia e la serenità, lo scherzo e il gioco, il ridere e il sorridere sono praticamente estranei al depresso oppure costano fatica e sforzo. Al contrario, il mistico autentico si caratterizza, fra i vari tratti di equilibrio psichico, anche per un profondo realismo e per un appropriato senso dell'umorismo.

L'umorismo, diversamente dalla comicità, è la capacità di osservare se stessi, di ridere dei propri errori e, tuttavia, continuare ad amarsi. Il vero umorista, diversamente dall'ironico, è capace di avere questo atteggiamento oltre che con se stesso, anche nei confronti delle persone e delle cose che gli stanno a cuore perché è uno stimolo alla crescita. Queste caratteristiche si ritrovano in molti santi, ma non nei depressi.

È possibile che anche i mistici abbiano delle crisi depressive. In tal caso, è importante differenziare non solo le varie forme di d., come si è fatto sopra, ma è soprattutto importante distinguere una fase depressiva da una personalità depressa. In questo senso, anche il mistico può avere una fase di sconforto o scoramento con i contorni di una vera crisi depressiva. In questi casi, sono determinanti, ai fini di una riflessione psicologica, la funzionalità e l'esito di questa fase. Due esempi spesso portati ma non sempre sufficientemente compresi: " L'anima mia è triste fino alla morte " (Mt 26,38); " (Elia) desideroso di morire disse: "Ora basta, Signore! Prendi la mia vita perché io non sono migliore dei miei padri" " (1 Re, 19,4).

Nel primo brano l'espressione non potrà essere sufficientemente compresa senza riflettere sulla sua funzione che in questo caso è quella di comunicare l'angoscia esistenziale di fronte alla morte che Cristo nella sua umanità prova. Non si tratta di un modus vivendi, ma di una reazione di fronte alla fine del proprio io corporeo. L'esito di questo momento sta nel suo superamento attraverso la risurrezione, quindi la pienezza di un messaggio di gioia.

Nel secondo brano, la funzionalità è quella di esprimere il proprio atteggiamento di fronte a un fallimento. Anche in questo caso, il fallimento di Elia non sembra sia limitato a un episodio ma piuttosto riferito all'intera vita se confrontata con le generazioni precedenti. Astenia, introversione, disturbi dell'alimentazione e rifugio nel sonno sono sintomi di d. che troviamo anche in questo brano. L'aspetto patologico della d. non sta tanto nell'avere o meno certi sintomi, ma piuttosto nel manifestare se questi sono giustificati, proporzionati e stabili. Il superamento della sintomatologia depressiva indica la sua funzionalità: una crisi, di qualunque tipo e grado, se determina una successiva ripresa e accelerazione della crescita può dirsi funzionale nel senso che è bene tutto ciò che fa crescere. Bisogna, comunque, subito aggiungere che non sempre il superamento di una d. dipende esclusivamente dal soggetto, quindi bisogna essere estremamente prudenti nel considerare la responsabilità morale del perdurare di una d.

È anche possibile che una d. abbia dei significati spirituali, come nel caso della notte oscura di Giovanni della Croce. È possibile che vi siano tutti i sintomi clinici per una diagnosi di personalità depressa o di una d. reattiva, ma non è lecito con questo dedurre la non autenticità della spiritualità di un mistico. Di questo passo potremmo anche ipotizzare la complementarietà sistemica tra l'orientamento depresso di Giovanni della Croce e la passionalità di Teresa d'Avila, ma saremmo al limite della psicologia della religione e a un passo (o forse anche meno) dallo psicologismo che pretenderebbe di spiegare, giustificare e interpretare tutto con la sola chiave dell'inconscio.

Al di là di queste ipotesi è importante ribadire che la d. non è di per sé un sintomo che esclude o che determina la non autenticità di un mistico.

A. Pacciolla

Bibl H.S. Akiskal - W.T. Kinney, Depression Disorders: Toward an Unified Hypothesis, in Sciences, 182 (1973), 62; S. Atkinson, Uscire dalla depressione, Cinisello Balsamo (MI) 1996; A.T. Beck, Principi di terapia cognitiva, Roma l974; A.T. Beck - A.J. Rush - B.F. Shaw - G. Emery, Terapia cognitiva della depressione, Torino 1987; R.F. Berg - C. McCartney, La depressione, Assisi (PG) 1985; R. Carli, s.v., in DES I, 720-721; J.F. Catalan, Dépression et vie spirituelle, Paris 1996; A. Ellis - A. Harper, A New Guide to Rational Living, Hollywood 1977; V.E. Frankl, Un significato per l'esistenza, Roma 1983; V.F. Guidano - G. Lioffi, Elementi di psicoterapia comportamentale, Roma 1987; E.A. Gutheil, Le depressioni reattive, in S. Arieti (cura di), Manuale di psichiatria, I, Torino 1969, 362-399; E. Jacobsen, La depressione, Firenze 1979; G.C. Reda, Depressione-mania e psicosi maniaco-depressiva, in Id. (cura di), Trattato di psichiatria, Firenze 1982, 250-270; J.P. Schaller, La mélancolie, du bon usage et du mauvaise usage de la dépression dans la vie spirituelle, Paris 1988.

DERELIZIONE. (inizio)

I. Il termine d., nell'uso religioso, è l'abbandono che una persona sperimenta nella privazione libera di un grande bene spirituale, in riferimento a Cristo che sulla croce prega il salmo 21: " Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? " La d., secondo l'intensità, ha un triplice significato. Il primo è di affidamento della propria volontà a quella di Dio in modo che motivazione e finalità siano mutuate direttamente dalla fede o mediatamente dai pastori di anime ai quali, per fede e in umiltà, una persona si sottomette. Un secondo significato è quello di esercizio ascetico di una persona che non vuole per amore di Cristo avere in proprietà cose create che piacciano ai sensi o allo spirito, ma vuole abbandonare tutto per avere " puramente in Dio il proprio tesoro ".1 Un terzo senso definisce lo stato di un'anima che, così permettendo Dio che la vuole purificare e disporre all'unione d'amore, sperimenta di essere abbandonata da Dio, perché peccatrice, indegna di essere avvicinata da lui che le appare sdegnato. " In questo tempo - scrive s. Giovanni della Croce 2 - l'anima è avvolta da fitte tenebre nel suo intelletto; nella volontà soffre grandi aridità e oppressioni; nella memoria è afflitta dal ricordo delle sue miserie... nella sostanza patisce abbandono e somma povertà. Quasi sempre arida e fredda, raramente fervorosa, in nessuna cosa trova sollievo, neanche un pensiero che la conforta ".

II. Nella vita spirituale. Questo stato di d. è transitorio e sperimentato in ordine alla contemplazione in cui Dio introduce sempre più profondamente la persona per realizzare l'unione d'amore. Teresa d'Avila 3 descrive la d. come un supplizio, una tempesta che si abbatte sull'anima; questa si sente castigata da Dio per i propri peccati, incapace di scorgere la verità, persuasa d'essere da Dio rigettata. Soltanto la misericordia divina può liberarla da questa angoscia. Allora la persona conosce " con evidenza la sua grande miseria e il poco che noi possiamo fare quando Dio ci abbandona ".

Lo stato di d., scelto o accettato ad imitazione di quello di Cristo sulla croce, assume, oltre il valore di purificazione dagli affetti effimeri, un valore redentivo per la persona stessa e per la Chiesa.

Note: 1 Cf Giovanni della Croce, Salita del Monte Carmelo I, 13,12; 2 Fiamma viva d'amore 1,20; 3 Relazione I, 11; Castello interiore, VI, 8-10.

Bibl. H. Martin, s.v., in DSAM III, 504-517; cf inoltre le voci: Abbandono e Purificazione.

G.G. Pesenti

DESECOLARIZZAZIONE RISACRALIZZAZIONE. (inizio)

I. Status quaestionis. Alle soglie del terzo millennio, nel contesto socio-culturale e religioso cosiddetto " postmoderno ", le società tecnologicamente avanzate occidentali registrano ogni giorno più una significativa inversione di tendenza rispetto alle pretese di quella " modernità " che, secondo le previsioni, avrebbe dovuto costruire il regnum hominis, specialmente attraverso le ideologie del liberismo capitalista, prima, e del marxismo collettivista, poi: entrambe comunque inglobate nella categoria della " secolarizzazione ". Sembra, invece, ogni giorno di più evidente che quel mito stia naufragando nella pseudoideologia trasversale del peggiore " secolarismo ": non solo marcatamente segnato dal consumismo, ma anche a forte deriva nichilista. Sicché non a caso si parla di " fine della modernità ", anche se molto incerto è per ora l'avvento del " postmoderno " e quali caratteristiche socioculturali e religiose assumerà.

II. E significativo invece l'odierno, crescente risveglio d'interesse per forme spirituali " alternative " rispetto a quelle " tradizionali ", finora invalse nelle grandi religioni e Chiese. Un risveglio decisamente contrastante le nere previsioni di quanti ritenevano irreversibile ormai la fine del sacro e della religione a opera del processo secolarista. Una tesi che in ambito sociologico è stata resa famosa dal best-seller di S.S. Acquaviva, L'eclissi del sacro nella civiltà industriale (Milano l9754), ridimensionata poi dallo stesso Autore nel vol. realizzato con R. Stella, Fine di un'ideologia: la secolarizzazione (Roma 1989). Nella filosofia della religione, invece, è notevole lo studio di A. Rizzi, Il senso e il sacro, Leumann (TO) 1995, dove non solo viene confermata la reciprocità tra l'area del sacro e del religioso - cosicché ogni discorso filosofico circa il sacro può darsi soltanto come ermeneutica (o discorso indiretto) circa l'esperienza religiosa -, ma anche la connessione, entro l'ambito religioso, dell'istanza vuoi cosmica che etica (le due figure del " senso "): ma notando come solo il primato dell'etica consente l'imporsi del " senso " come alterità. Certo, questo risveglio suscita varie perplessità, dati gli equivoci che lo attraversano, sicché il Terrin ha ragione di scrivere: " Questo revival, lungi dal suscitare facili entusiasmi o ancor peggio sentimenti di rivincita, deve spingere nella direzione di un'analisi valutativa che colga la vera portata della nuova situazione che siamo chiamati a vivere ". Ma ciò non sminuisce quanto afferma il card. Danneels sulle ultime tendenze dell'uomo postsecolarista: " La Chiesa si era preparata a confrontarsi con un uomo perfettamente secolarizzato, ateo, completamente assorbito dalle preoccupazioni materiali. E invece cosa trova nel 1990? Un uomo inquieto, alla ricerca di senso religioso, non più tanto incantato dai risultati della scienza e della tecnica. Ovunque sentiamo chiedere: datemi qualcosa di diverso da quello che esce dal calcolatore ".

Illuminante è anche rileggere oggi quanto scriveva vent'anni fa, in pieno trionfo della secolarizzazione, H. Cox, un protagonista della teologia corrispondente. Già allora egli si mostrava perplesso circa l'interpretazione radicale (a tavolino) dell'esperienza bonhoefferiana mistica (e drammatica). Ammetteva, pertanto, che il suo ricercare " una interpretazione non religiosa del cristianesimo, ispirata a D. Bonhoeffer, era condannata a fallire. (...) Perché una teologia che arresta là il suo interesse è miseramente fallita. Non avrà occhi per vedere la maggior parte dei fenomeni che sono oggi significativi sul piano religioso e conseguentemente non saprà coglierli, né misurarsi con essi ". In breve, gli anni Novanta segnano un confuso ma incalzante bisogno di spiritualità che, in parallelo alla nostalgia per le dimensioni sacro-mitico-simboliche, diventa un elemento notevole su cui dovrà riflettere la Chiesa nell'elaborazione di quella che ormai viene chiamata " la strategia della nuova evangelizzazione ". Certo, non mancano rischi, se fosse vero (come afferma Wilson) che il risveglio del sacro è oggi l'ultima manifestazione del processo secolarizzante e il carattere individualistico-frammentario dei nuovi movimenti spirituali confermerebbe il loro carattere " residuale " nei confronti del religioso autentico; mentre Ferrarotti individua nel ritorno del sacro le caratteristiche del sorgere di una religiosità diffusa ma non istituzionalizzata, vaga perché senza dogmi e, a ben guardare, humus ideale per una transreligiosità che ridimensiona sì l'infatuazione secolarista, ma al contempo innesta un equivoco processo di risacralizzazione che non si vede dove porti. In questo senso può essere rivelatrice la " terza via " che è stata indicata da H. Mynarek per andar oltre le religioni e gli ateismi classici, ossia per superare tanto l'arcaico Dio personale e trascendente, quanto la piatta e banale negazione del medesimo (entrambe le posizioni rese ormai consunte dal postmoderno). Perciò, in Religiös ohne Gott (Wien 1983) egli propone sì una " religiosità ", ma " senza Dio ": ossia una transreligiosità che accomuni tutti gli uomini di tutte le fedi, proprio riscoprendo il denominatore comune e inestirpabile, presente sempre e ovunque nel cuore di tutti: un impulso metafisicoreligioso (ma indefinito né definibile), che spinge ogni uomo a cercare qualcosa di autentico e profondo dentro e oltre l'aspetto immediato delle cose. Un recupero non da poco, in termini di praeambula fidei e come ridimensionamento dell'infatuazione secolarista, ma che purtroppo in Mynarek si risolve neognosticamente: ossia provocando a cercare " il divino " che - presente nel cuore dell'uomo e a sponda d'ogni realtà visibile - sarebbe mortificato tanto dalle religioni storiche, quanto dallo scientismo moderno, altrettanto dogmatico e, perciò stesso, impossibilitato a cogliere " il noumeno presente nel fenomeno ". Peccato che questo " divino noumeno " sia un " dio invertebrato e gassoso ", che non soddisfa né la fede giudeocristiana, né i mistici e filosofi delle grandi tradizioni extracristiane. Paradossalmente, quindi, alle soglie del terzo millennio e quando ormai sembrava concluso il processo desacralizzatore via al secolarismo, dobbiamo registrare un'inattesa desecolarizzazione funzionale a una risacralizzazione la cui pericolosità non è meno forte di quella registrata nella prima desacralizzazione. Infatti, come trent'anni fa la desacralizzazione - secondo l'ottimistica teosociologia della secolarizzazione - avrebbe purificato la fede biblica dalle incrostazioni " religiose " - mentre finì nel secolaristico buttar via, con l'acqua sporca della religiosità mistificante, anche il bambino della vera fede -, così oggi l'ambiguo ritorno del sacro non aiuta certo il recupero della fede biblica autentica, ma favorisce piuttosto la riedizione della salvezza neognostica o l'evasione sincretista del New Age.

Bibl. H. Cox, La seduzione dello spirito, Brescia 1974; G. Danneels, Lettera pastorale per il Natale, in Regno Documenti, 13 (1991), 415; F. Ferrarotti, Una fede senza dogmi, Bari 1990; E. Fizzotti (ed.), La dolce seduzione dell'Acquario, Roma 1996; G. Kepel, La rivincita di Dio, Milano 1991; A. Rizzi, Il terzo uomo, Fiesole (FI) 1995; J. Sudbrack, La nuova religiosità, Brescia 1988; A.N. Terrin, Nuove religioni, Brescia 1987; Id., La religiosità del postmoderno, Bologna 1992; J. Vernette, Il New Age, Cinisello Balsamo (MI) 1992; B. Wilson, La religione nel mondo contemporaneo, Bologna 1985.

P. Vanzan

DESERTO. (inizio)

I. Nell'AT il termine d. è usato più frequentemente per indicare luoghi aridi o semi-aridi, disadatti ad insediamenti stabili. Questi luoghi possono essere parzialmente utilizzati come pascoli per piccoli greggi.

Le tradizioni più ricorrenti ricordano la ribellione del popolo di Israele che " mormorava nel d. ", un popolo testardo, ingrato verso Dio (cf Dt 32; Es 20) che lo aveva salvato dalla schiavitù egiziana e provvedeva alle sue necessità nel d. inospitale: " Divise il mare e li fece passare e fermò le acque come un argine. Li guidò con una nube di giorno e tutta la notte con un bagliore di fuoco. Spaccò le rocce nel d. e diede loro da bere come dal grande abisso. Fece sgorgare ruscelli dalla rupe e scorrere l'acqua a torrenti. Eppure continuarono a peccare contro di lui, a ribellarsi all'Altissimo nel d. " (Sal 77,13-17).

Queste tradizioni mettono perfettamente in risalto l'infedeltà di Israele, in contrasto all' amore ed alla premura costante di Dio.

Un famoso passo di Geremia (2,2-3) spesso fa da chiave di lettura per interpretare il d. come un ideale di vita. Un'analisi dettagliata di questo stesso brano mostra non già l'amore, sia pure buono, d'Israele per Dio, mentre era nel d., ma l'amore inesauribile di Dio per Israele quando lo guidava attraverso il d., " quando mi seguivi nel d. in una terra non seminata " (Ger 2,2).

Inoltre, il d. era, in certi casi, un luogo di rinnovamento spirituale. Mosè (cf Es 3,1-4; 17) ed Elia (cf 1 Re 19), ad esempio, vi si rifugiano ed incontrano Dio.

Il d. era la strada scelta esplicitamente da Dio, poiché egli voleva dimostrare di essere l'unica vera guida del suo popolo. Difatti, nel d. del Sinai gli ebrei ricevettero la legge (cf Es 20) che fece di questi nomadi il vero popolo di Dio. Israele nasce, quindi, nel d., tuttavia Dio promette una terra, rendendo così il soggiorno nel d. provvisorio, anche se privilegiato. Fin dall'inizio del viaggio, gli ebrei mormorano contro le disposizioni del Signore: " Allora il popolo mormorò contro Mosè: "Che berremo?" " (Es 15,24); " Fossimo morti per mano del Signore nel paese d'Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo d. per far morire di fame tutta questa moltitudine " (Es 16,3). Il tema della lamentela è chiaro: anche se la vita era faticosa come quella che avevano vissuto in Egitto, essi l'avrebbero preferita all'attuale vita straordinaria che dipendeva per intero dalla sollecitudine di Dio. Il d. rivela, quindi, che il cuore umano è incapace di sostenere la prova alla quale è sottoposto. Anche se Dio permette che periscano nel d. quanti hanno mancato di fede e sono induriti dall'infedeltà, non abbandona il suo piano; trae, invece, il bene dal male. Al popolo che mormora, egli dà acqua (cf Es 15,25) e cibo (cf Es 16,11) in modo prodigioso. Se deve castigare i peccatori, offre mezzi di salvezza inaspettati, come, ad esempio, il serpente di bronzo. Il trionfo finale, cioè l'ingresso nella terra promessa, ci permette di guardare al d. non tanto come ad un periodo di infedeltà del popolo eletto, ma come ad un inizio della fedeltà misericordiosa di Dio.

II. Nel N.T. Gesù, dopo essere stato battezzato da Giovanni, viene spinto nel d. dallo Spirito di Dio, per essere messo alla prova. Ma, al contrario del popolo di Israele, egli supera la prova, rimanendo fedele al Padre suo.

Durante la sua vita terrena, Gesù si reca nel d. per isolarsi dalle folle. E da rilevare che il d. è un luogo di preghiera, congeniale alla comunione di Gesù con il Padre: " Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava " (Mc 1,35); " Ma Gesù si ritirava in luoghi solitari a pregare " (Lc 5,16), o al suo desiderio di un luogo tranquillo per stare insieme ai suoi discepoli: " Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po' " (Mc 6,31).

Vale, inoltre, la pena sottolineare che il termine " montagna " è quasi sinonimo di d., inteso come rifugio, luogo di tranquillità e di preghiera. Sul Monte Tabor, Gesù appare con i due personaggi più celebri del d.: Mosè ed Elia. Dio manifesta la sua presenza divina sul Tabor, così come precedentemente si era manifestato al popolo di Israele nel d. Il d., comunque, è un simbolo legato più intimamente alla narrazione biblica. Gesù vi moltiplica i pani non per dimostrare ai suoi discepoli che vivere nel d. è indispensabile, ma che è iniziata un'era nuova, in cui occorre vivere secondo il dettato evangelico.

Cosa importante da notare nel NT è che Gesù viene presentato come colui che realizza, con la sua persona, i meravigliosi doni del d. Difatti, egli è l'acqua viva, il pane del cielo, la via e la guida, la luce nell'oscurità, il serpente eretto che dà vita a tutti coloro che si rivolgono a lui per essere salvati.

Il d., inteso come luogo e tempo, trova, quindi, la sua piena realizzazione in Gesù. s. Paolo insegna che gli avvenimenti dei tempi antichi servivano ad istruire noi che siamo arrivati alla fine dei tempi. In 1 Cor 10,1-5, l'apostolo afferma che i cristiani vivono ancora nel d., anche se sacramentalmente. Paolo sottolinea che le esperienze di Israele nel d. sono state simili al cammino cristiano (cf 1 Cor 10,6-13).

III. La letteratura patristica, come, per esempio, il libro di Gregorio di Nissa, La vita di Mosè, considera le esperienze di Israele nel d. da questo stesso punto di vista. I Padri considerano il cammino d'Israele nel d., come un genere di vita spirituale cristiana, caratterizzata dal distacco dal peccato e dalle passioni, dal ritiro dal mondo e dalla crescita attraverso la lotta contro la tentazione.

Durante le persecuzioni, a partire dal 64 d.C. fino al momento in cui, nel 313, Costantino proclama la completa libertà religiosa, spesso i cristiani sono costretti a rifugiarsi in luoghi appartati, lontano dalle città.

Nel III secolo, e anche più tardi, molti cristiani abbandonano le città per la vita eremitica, in Egitto, in Siria, in Palestina, in Arabia ed in Europa. E in questo periodo che nasce una fiorente letteratura spirituale come, ad esempio, La vita di Antonio, La vita di Atanasio, le varie raccolte dei Detti dei Padri, gli scritti di Evagrio, le Conferenze di Cassiano e la Scala del paradiso di Giovanni Climaco.

Questa letteratura influenza tutte le principali correnti della spiritualità cristiana.

IV. Lungo i secoli. Dal V al VII secolo in Irlanda, in Scozia, nel Galles, pellegrini e missionari si ritirano dal mondo vivendo, come nel d., un genere di vita eremitica.

La Regola di Benedetto, scritta per i cenobiti, contempla la possibilità di una vita eremitica. E nel Medioevo le chiese parrocchiali talvolta hanno annesso un ampio spazio di terra, ove potersi ritirare. Con il passare dei secoli, nelle chiese orientali, la vita eremitica ha un ampio spazio, sostenuta dalla spiritualità esicasta e dai grandi centri monastici come, ad esempio, quello del Monte Athos.

Nei secc. X e XI, l'Occidente vede una ripresa del rinnovamento eremitico fortemente influenzato da quello orientale. Romualdo ( 1027), Pier Damiani e la comparsa della Congregazione camaldolese (distinta da una condizione di eremitaggio e di clausura) sono esempi chiave, come del resto lo sono anche Bruno ( 1101) e l'Ordine certosino. Nel sec. XIII, Francesco d'Assisi trascorre alcuni periodi in solitudine e scrive una Regola per gli eremiti, cosicché la vita eremitica continua ad essere un elemento importante nella spiritualità francescana, come del resto lo è ancor più per i carmelitani, la cui Regola iniziale è appunto eremitica.

Più tardi, nel sec. XIV, la letteratura eremitica contemplativa si arricchisce delle opere di R. Rolle, dell'autore del libro La nube della non-conoscenza, di Giuliana di Norwich e di G. Ruusbroec.

Nei secoli moderni, l'eremitaggio cristiano è testimoniato dalla vita e dagli scritti di alcuni eremiti, sia orientali che occidentali, come, ad esempio, da Serafino da Sarov ( 1833) e da Charles de Foucauld. Ai nostri tempi, scrittori spirituali come Catherine de Huech Doherty (Poustinia, la parola russa per indicare il d.), Thomas Merton ed Henri Nouwen hanno preso in esame l'impellente bisogno di solitudine dei cristiani. Il nuovo CIC riconosce ufficialmente la vita eremitica (can. 603).

La cosa più importante è che la vita eremitica è un segno per tutti i cristiani. Sacramentalmente, la loro vita in Cristo può essere vista come un viaggio attraverso il d.

Nella Chiesa uno dei più stimati maestri della preghiera, s. Teresa d'Avila, fornisce con il suo insegnamento e con la sua testimonianza, un eccellente esempio della suddetta verità. Nella sua nota spiegazione di preghiera mentale (chiamata preghiera contemplativa nel CCC, 2709), descrive quest'ultima come un rapporto intimo tra amici e mette in rilievo la necessità di non avere fretta quando si rimane soli con Colui dal quale sappiamo di essere amati.1 Essere soli in un rapporto di intima amicizia con Colui che sappiamo fedele nel suo amore per noi riassume per Teresa tutto il tessuto della preghiera. La solitudine del d. si può incontrare allora nelle profondità del cuore di ogni cristiano, dove Cristo dimora nella fede, oppure nella cella: " Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto ti ricompenserà " (Mt 6,6).

Inoltre, il d., nel quale è scaturita acqua dalla roccia, richiama il Cristo fonte di acqua viva. Teresa d'Avila descrive, perciò, i messaggi che Dio le invia durante la preghiera come acqua che sgorga dalla roccia che è Cristo. Quest'acqua lava, rinfresca e, allo stesso tempo, accresce la sete di Dio, mentre, contemporaneamente, la placa.2 Nella contemplazione perfetta (preghiera di unione totale), l'anima beve direttamente dalla roccia di vita o dalla fonte dell'acqua di vita che è Cristo.3 Ma Cristo disseta in molti modi coloro che vogliono seguirlo, poiché nessuno se ne andrà senza essere stato consolato o dissetato.4

Nella stessa maniera, Teresa presenta l' Eucaristia come la manna per il nostro viaggio nel d. Con l'Eucaristia ci si nutre di Cristo pane di vita eterna che salva dalla morte. L'Eucaristia è la manna sacra che rende capaci di sopportare le prove della vita per essere buoni discepoli del Cristo.5

Infine, i cristiani possono essere capaci di raggiungere la semplicità dell'amore di Cristo nei loro rapporti umani, ascoltando nel d. interiore del loro cuore l'immenso silenzio di Dio che è la sua Parola di vita.

Note: 1 Cf Vita 8,5; 2 Cf Cammino di perfezione 9; 3 Cf Ibid. 32,9; 4 Cf Ibid. 20,2; 5 Cf Ibid. 34,2.

Bibl. P. Anson, The Call of the Desert, London 1964; P. Bonnard, La signification du désert selon le NT, Neuchâtel-Paris 1946, 9-18; C. Carretto, Il deserto nella città, Milano 1978; M.M. Davy, La mystique du desert, in Encyclopedie des mystiques, Paris 1972, 189-203, 458-460; S. De Fiores, Spiritualità del deserto, in NDS, 389-392; A. Fanuli, Dio in strada con l'uomo. Sulle orme del deserto, Milano 1977; M.M. Fox, " Geremia 2,2 e il "Desert Ideal" ", in Catholic Biblical Quarterly, 35 (1973), 441-445; C. de Hueck Doherty, La comunità del deserto oggi, Milano 1979; R. Lack, Il deserto nella Bibbia, in NDS, 381-389; R. Le Daut - J. Lecuyer, Exode, in DSAM IV, 1957-1995; X. Leon-Dufour, s.v., in DTB, 215-220; F. Roustang, Je t'epouserai au désert, in Chr 7 (1960), 190-203; G. Turbessi, s.v., in DES I, 534-540; Un Monaco, L'eremo. Spiritualità del deserto, Brescia 1976.

K. Kavanaugh

DESIDERIO. (inizio)

II. Il termine. " Cos'è il desiderio se non la brama di cose assenti? ".1 Tensione, movimento dell'anima verso un bene non ancora posseduto, il d. è la componente dinamica dell' amore: ne condivide l'intensità, lo apre al futuro, gli dona speranza. Esso esprime la creaturale incompiutezza dell'uomo e dà slancio alla ricerca del compimento.

La forza del d. non poteva non trovare un posto di rilievo nella concezione giudaico-cristiana dell'uomo, considerato come creatura in cammino verso la pienezza del bene nella comunione con Dio. Se la sete di Dio è già per il salmista come quella della cerva che " anela ai corsi d'acqua " (Sal 41,2), al cristiano sono riservati " i desideri dello Spirito " che " portano alla vita e alla pace " (Rm 8,6), fino al supremo desiderio di essere sciolto dal corpo per " essere con Cristo " (Fil 1,23).

II. Nella mistica. Il valore del d. nell'ascesa verso la perfezione traspare dalle testimonianze innumerevoli delle grandi anime e in modo particolare dei mistici.

Per s. Agostino è il d. a dare forza alla preghiera: " Chi è animato dal d., anche se tace con la lingua canta con il cuore; chi invece è senza d., per quanto colpisca col rumore le orecchie degli uomini, è muto davanti a Dio ".2

S. Bernardo considera il d. sempre nuovo, sempre ravvivato, il mezzo con cui l'anima cammina: " Dio non si cerca con i passi dei piedi, ma con i desideri. E la felicità di averlo trovato non estingue il d. santo, ma lo accresce. Forse che la pienezza del gaudio significa estinzione del d.? Anzi, è olio che lo alimenta, perché il d. è fiamma ".3

Anche per Teresa d'Avila i desideri svolgono un ruolo decisivo per giungere alle vette più alte dell' unione mistica: " Bisogna avere molta confidenza: conviene assai più confidare in Dio, che non soffocare i desideri che ci vengono. Se noi ci sforziamo, a poco a poco, benché non subito, potremo giungere al punto in cui giunsero molti santi con l'aiuto di Dio. Se essi non si fossero decisi a desiderare tale meta e, a poco a poco, a porre in opera i loro desideri, non sarebbero mai saliti a sì alto grado ".4

Come risulta chiaramente dalla Relazione I della stessa Teresa d'Avila, l' esperienza mistica è accompagnata da un crescendo di desideri: " In questo stato mi pare che le virtù diventino più forti, i desideri più intensi... Chiamo intensi quei desideri di cui l'anima talvolta, e anche spesso, si sente accesa, senza che abbia potuto precedere alcuna orazione... l'anima non vuole che il Creatore; comprende di non poterlo vedere se non con la morte e, siccome non può darsi la morte da sé, muore dal desiderio di morire... L'impeto ordinario viene con un assoluto d. di servire Dio, una grande tenerezza e abbondanti lacrime per il d. di abbandonare questo esilio... Altre volte sembra che questa ferita d'amore avvenga nel più profondo dell'anima. Gli effetti che produce sono grandi... Si tratta di desideri di Dio così ardenti, così elevati, che non si possono esprimere ".

Riguardo al desiderio della perfezione c'è da registrare la condanna di una proposizione di Michele de Molinos: " Chi ha donato il suo libero arbitrio a Dio, non deve preoccuparsi di alcuna cosa, né dell'inferno, né del paradiso; né deve avere il desiderio della propria perfezione, né delle virtù, né della propria santità, né della propria salvezza dalla cui speranza deve difendersi ".5

Note: 1 S. Agostino, En. in Ps. 118, 8,4; 2 Ibid., 86, 1; 3 S. Bernardo, In Cant. 84,1; 4 Vita 13,2; 5 M. Molinos, DS 2212.

Bibl. M. Albert, Perfection, in Cath X, 1242-1253; I. Bochet, Saint Augustin et le désir de Dieu, Paris 1982; D. Cumer, s.v., in DES I, 727-730; F. Dima, Camminare incontro a Cristo, Milano 1997; A. Dupuy, Perfection: le désir de la perfection, in DSAM XII, 1138-1146; A. Gozier, Le désir intérieur, in VieSp 120 (1969), 291-305; R. Kearney - G. Lafont, Il desiderio e Dio, Cinisello Balsamo (MI) 1997; J. Leclercq, Cultura umanistica e desiderio di Dio, Firenze 1983; F. Taymans d'Eypernan, Dieu (désir de), in DSAM III, 929-947.

U. Occhialini

DESOLAZIONE MISTICA. (inizio)

I. Natura. Con l'espressione d. si indica, di solito, la sensazione d'infinita distanza dall'oggetto amato (Dio), l' abbandono accompagnato da un senso di solitudine estrema. L'esempio più evidente è quello del salmista: " Dio mio, Dio mio, perché m'hai abbandonato? " (Sal 21,2), ripreso dal Cristo sulla croce. E il momento della d. più " crudele " e insieme più " positiva " della passione del Figlio di Dio. Non sono più gli uomini, ma è Dio Padre stesso a provare Cristo uomo: a fargli sentire quanto sia terribile essere " lasciati " da Dio.

L'esperienza del Cristo è stata rivissuta un po' da tutti i grandi santi, perché sembra provato che tale esperienza faccia parte necessariamente della via alla santità.

II. Nell' esperienza mistica. I grandi mistici dell'antichità, Diadoco di Foticea, s. Nilo, Cassiano, Giovanni Climaco, ecc. hanno lasciato chiare testimonianze di questa purificante realtà. Ma ancor più l'hanno fatto i mistici delle epoche posteriori. Tra tutti il più significativo e famoso è Giovanni della Croce. Nella sua Notte oscura ha esposto la sua stessa esperienza, confrontata con quella di altri, tra cui Teresa di Gesù, evidenziandone i risvolti più vari.

Il Dottore mistico specifica, fin dall'inizio, che la notte di cui vuol trattare non è quella di chi percorre la via larga del peccato, ma del vero credente; per cui tale notte si coniuga con la perfezione, alla quale l'anima giunge per puro dono di Dio. In tale lavoro anche il corpo è spesso coinvolto con sofferenze acute.

La prima d. arriva quando Dio toglie all'anima il gusto di meditare le sue verità: è l' aridità purificatrice. In essa, però, l'anima percepisce che l' amore di Dio l'ha conquistata e si ritrova con una forza e una pace impensate. La tattica di Dio è usare modi severi per preparare al suo mistero. L'anima, a un certo punto, arriva ad un'amarezza e ad uno sgomento terribili. Dio, esigente e munifico insieme, si nasconde e intanto arricchisce la persona. " Dite al mio Amato che io languo d'amore ", sente il bisogno di dire l'anima. La natura stessa può (per malattie, per le impostazioni d'un carattere non molto felice, ecc.) essere lo strumento con cui il Signore induce alla d.; e il demonio tenta senz'altro di infiltrarsi in questa prova, che può durare tempi assai lunghi.

Quanto si prolunghino questi tempi lo raccontano le varie biografie di testimoni come Maria Maddalena de' Pazzi, Paolo della Croce, Alfonso M. de' Liguori, Teresa di G. B. Sono tutti santi che hanno desiderato molto soffrire per il Cristo, che li ha purificati come l'oro nel crogiuolo. Certo, quello che ha provato Teresa di G.B. negli ultimi diciotto mesi della sua vita è di una desolazione e tragicità da far tremare, ma insieme da far lodare Dio che, come ricorda Giovanni della Croce, si comporta con la saggezza e bontà d'una madre autentica che vuole che i suoi figli non restino eterni bambini, ma diventino santamente adulti nella fede.

Bibl. Aa.Vv., L'esperienza di Dio oggi, Assisi (PG) 1975; L. Boros, Sperimentare Dio nella vita, Brescia 1978; H. Martin, s.v., in DSAM III, 631-645; K. Rahner, Teologia dell'esperienza dello Spirito, Roma 1978.

R. Girardello

DEVOTIO MODERNA. (inizio)

I. Il movimento. Agli inizi del sec. XIV, si manifesta nei Paesi Bassi un nuovo movimento,1 animato da G. Groote e chiamato, in seguito, da G. Busch Devotio moderna. Esso vide il suo periodo d'oro nel sec. XV. Molto presto, però, sperimentò il suo declino, assorbito in altre scuole o forme di vita evangelica.

Nel suo periodo aureo, s'incarnò particolarmente in due forme di vita: i Fratelli e Sorelle della Vita Comune e i membri dell'Abbazia di Windesheim. Esso nacque come reazione riformatrice nei confronti della vita religiosa, troppo formalistica ed epidermica. Benché, infatti, la liturgia venisse celebrata regolarmente, essa si svolgeva senza solennità. I fratelli delle comunità dovevano assistere in silenzio, privilegiando le disposizioni personali di raccoglimento e serenità interiore.

Benché J. Ruusbroec avesse avuto influsso su alcuni membri di tale movimento, esso non si dedicò alla mistica, come esemplificata da Taulero ed Eckhart, anzi insistette sull'acquisizione di varie virtù e su un metodo di meditazione molto concreto e dettagliato. Venne in conflitto anche con vari Ordini religiosi, come i benedettini ed i domenicani, mentre i gesuiti ne ereditarono vari elementi.

II. Natura e rappresentanti della d. Si chiama " moderna " non perché tracciò un nuovo sentiero di spiritualità o volle introdurre nuovi metodi, ma perché esaltava la purificazione dell'anima e la crescita nelle virtù. Si opponeva alle penitenze straordinarie e tradizionali. Sottolineava, prima di tutto, un aspetto decisamente anti-intelletuale e anti-scolastico; si applicava alla parte affettiva della spiritualità, centrata sulla persona di Gesù piuttosto che sulla meditazione degli attributi divini. Il trattato classico De imitatione Christi, il libro religioso più diffuso dopo la Bibbia, è un'esemplificazione tipica di questo movimento. In quest'opera si evidenzia che l'atteggiamento più importante della vita cristiana è la sequela di Cristo, realizzata concretamente assimilando le virtù che egli incarnò durante la sua vita terrena.

In comunità, si dava ampio spazio alle " collationes ", un metodo di preghiera che prendeva in considerazione un passo evangelico, applicandolo poi alla vita dei fratelli e sorelle che vivevano in comunità. Durante questa meditazione in comune, ognuno poteva esprimere le suggestioni ricevute che diventavano, poi, motivo di revisione di vita. Nelle abbazie dei canonici regolari, invece, la meditazione della Scrittura assumeva la forma d'una conferenza ai monaci da parte del superiore. I seguaci di tale movimento esaltavano la fuga mundi: gli affari mondani distraggono dall'unico bene necessario. Per questo motivo, l'impegno apostolico era alquanto trascurato. La lettura del testo sacro era fatta più in chiave devozionale che esegetica. I seguaci di questo movimento nutrirono scarse simpatie per gli eremiti e per coloro che coltivavano gli studi umanistici. Difatti non stimavano i valori umani, pertanto, rimasero l'antitesi della nascente tendenza umanistica del tempo.

Tra le figure più autorevoli si ricordano G. Groote di Deventer, il suo discepolo Fiorenzo Radewijns ( 1400) che seppe dare al movimento un'impronta giuridica. Fondendo le due forme di vita, vita comune e l'esperienza Windesheim, egli contribuì alla riforma della Chiesa, opponendosi strenuamente alle tendenze speculative e scolastiche. Gerardo Zerbolt ( 1398) descrisse i punti basilari del movimento nei suoi vari scritti; Gerlach Peters ( 1411) evidenziò alcune caratteristiche della mistica; Enrico Mande ( 1431) condusse una vita santa e descrisse le sue esperienze mistiche in vari trattati. Ma, colui che maggiormente si identifica con la d. è Tommaso Hemerken da Kempis ( 1471), al quale si attribuisce l'Imitazione di Cristo. Egli scrisse parecchi altri trattati, più brevi, nei quali evidenzia un certo influsso agostiniano basato su una devozione affettiva e sulla contemplazione dell'umanità del Cristo. Un altro nome da ricordare è quello di Giovanni Mombaer ( 1501), che scrisse un'opera enciclopedica, il Rosetum esercitiorum spiritualium.

La d. poneva l'accento sulla discrezione, sulla moderazione, su una vita regolare basata su un orario ragionevole che potesse essere seguito da tutti. Non apprezzava entusiasmi, piuttosto valutava i metodi provati. Per questo motivo, non s'interessava di mistica. Benché non si possa considerare precursore del protestantesimo, in esso si può notare l'inizio di una separazione tra teologia e spiritualità, tra ascetica e mistica. In questo senso, il movimento ha un approccio " moderno " contro gli sforzi medievali di presentare tutta la realtà in una visione e una sintesi unitaria.

Note: 1 J. Châtillon, Devotio, in DSAM III, 714.

Bibl. P. Debongnie, s.v., in DSAM III, 727-747; C. Egger, s.v., in DIP III, 456-463; R. García Villoslada, Rasgos característicos de la " Devotio moderna ", in Manresa, 28 (1956), 315-358; A. Huerga, s.v., in DES I, 730-736; E. Persoons, Recente publicaties over de Moderne Devotie 1956-1972, Leuven 1972; G. Picasso, L'Imitazione di Cristo nell'epoca della " Devotio moderna " e nella spiritualità del sec. XV in Italia, in Rivista di storia e letteratura religiosa, 4 (1968), 11-32; P. Post, De moderne devotie, Amsterdam 1950.

R.M. Valabek

DEVOZIONE. (inizio)

I. Il termine d. denota una realtà che, percorrendo la storia umana, oscilla tra un'azione concreta, esterna e un senso morale, interiore. Nel latino classico indica l'atto con cui una persona o una cosa si consegnano a déi maligni per placarli e sovente per ottenerne un favore; si usa anche come una maledizione. Più tardi, viene usato per designare la consacrazione di un suddito al servizio del capoimperatore. In questo contesto assume un significato morale, denotando le disposizioni di una persona devota, cioè il rispetto, l'ossequio, l'attaccamento, la dedizione, la fedeltà.

Nel cristianesimo, d. designa prima di tutto gli atti rituali, liturgici secondo i quali si offre un culto a Dio, come segno del servizio dovuto al Signore. La salmodia ed il sacrificio eucaristico diventano devozioni. Ma allo stesso tempo, e non sempre in modo da poter fare una netta distinzione, d. si usa per indicare le disposizioni interiori, necessarie per poter celebrare degnamente la liturgia: l'ossequio, la fede, l'impegno, il fervore.

Contemporaneamente i cristiani, utilizzando il significato di ossequio e fedeltà offerta al re, usano il termine d. per indicare l'ossequio e l'impegno dovuto in primo luogo a Dio. Questo senso oltrepassa l'uso liturgico, inteso come atteggiamento abitualepermanente in una persona che, con fervore, prontezza e costanza, offre a Dio il suo servizio espresso in varie forme. La d., in questo senso più ampio, indica la profondità della fede, la certezza della speranza e l'ardore della carità. A volte, viene praticamente identificata con la caritàamore. In alcuni casi, la d. può richiedere il sacrificio della propria vita e nello stesso tempo può sostenere il cristiano chiamato al sacrificio. La d., infatti, unisce a Dio e alla sua volontà distaccando dagli ostacoli alla vita di fede.

II. Nel corso della storia. Nel Medioevo la preghiera personale viene considerata prolungamento della preghiera liturgica, pertanto le vengono attribuiti gli stessi atteggiamenti. Con il tempo, però, negli ambienti monastici d. indica anche il fervore dell' anima, infiammata dall'amore di Dio. Così s. Bernardo pone la d. nella linea dell'affettività. Non sorprende, quindi, che gli autori di questa scuola considerino la d. un mezzo efficacissimo per raggiungere la contemplazione.

Nella scuola francescana la d. è centrata sulla persona concreta di Gesù (s. Bonaventura). Insistendo sull'affettività, i francescani identificano la d. con gli effetti di una preghiera profonda, permeata dall'amore di Dio: il giubilo, l'eccesso di gioia, l'intensità dell'affetto, il trasporto spirituale.

S. Tommaso d'Aquino, fedele ai principi della sua teologia e spiritualità, vede la d. non come un atteggiamento abituale basato sull'affettività, ma piuttosto come uno degli undici atti interiori della virtù della religione.1 Per mezzo di quest'ultima si offre a Dio ciò che gli è dovuto come Creatore. Più specificamente, il Dottore Angelico definisce la d. l'offerta pronta della volontà a Dio. Come l' adorazione offre il corpo a Dio, così la d. è il primo atto della religione e racchiude tutti gli altri, essendo la volontà la facoltà più importante da sottomettere al Signore. Tutto il resto - l'orazione, il sacrificio, - dev'essere sostenuto da questa d., che è radicalmente l'amore di Dio. Nel suo senso fondamentale, allora, la d. non denota sentimento, atti emotivi, anche se spesso è accompagnata da sentimenti di compiacenza, d'affetto, di gioia. Resta, comunque, per sua natura un atto della volontà e non può essere misurata dai sentimenti suscitati.

Poiché l'Aquinate vede la d. come la prima espressione della virtù di religione, virtù infusa da Dio, essa ha origine in Dio che la concede alla persona umana. Quest'ultima l'alimenta con la meditazione sul riconoscimento della propria miseria e della sovrabbondante misericordia e bontà di Dio. Ciò attua il distacco da ciò che impedisce l' unione con Dio, e fissa la volontà in lui. Tutte le altre virtù morali, come la giustizia, la temperanza diventano atti di culto divino.

III. Nel contesto storico-spirituale la d. esprime innanzitutto l'attenzione interiore e il fervore con i quali si compiono gli atti religiosi sia pubblico-liturgici, sia individuali. Denota un certo gusto, alacrità e compiacenza nei rapporti con Dio. " Fare una cosa con d. " vuol indicare un'osmosi tra l'atto esterno e le disposizioni positive, interne. In questo senso denota un culto autentico. Nella vita spirituale, la d. designa uno stato, spesso agli inizi del cammino verso la perfezione, nel quale il Signore colma la persona devota delle sue consolazioni anche sensibili, per radicarla in lui. Ma spesso tale d. sensibile, che permea tutta la persona, diminuisce man mano che si avanza nella vita interiore.

S. Giovanni della Croce sottolinea che la d. è fondamentalmente una realtà, che scaturisce dalla volontà e non dai sensi. Perciò, nel cammino verso la patria celeste, spesso le purificazioni, sia sensibili sia spirituali, comportano la scomparsa della d. sensibile. Ciò significa che lo Spirito del Signore sta purificando l'anima da un atteggiamento troppo individualista e centrato su di sé per proiettarla in lui. Allora la d. diventa amore agapico che non cerca un tornaconto personale, ma piuttosto la dedizioneimpegno nel servizio di Dio.

V. D. e devozioni. Queste ultime sono gli atti di pietà verso Dio, Gesù, la Madonna, i santi, i vari titoli che denotano un aspetto del mistero di queste realtà, o anche una situazione sacra. Esse, in genere, sono liberamente scelte e rispondono al bisogno connaturale di concretizzare l'atteggiamento interiore della d. Seguendo l'indole della persona e dei gruppi religiosi, comportano atti, compiuti con slancio e affetto, rispondenti alle diverse dimensioni dei misteri della religione cristiana. Così si hanno devozioni per la sacra umanità di Gesù Cristo, per Maria, per i santi, per il rosario e lo scapolare. Di per sé le devozioni devono rispecchiare le varie dimensioni del cultoservizio dovuto all'unico Dio. Esse corrispondono ai valori che permeano tutta la persona; sono parziali, ma in quanto collaudate dalla Chiesa, possono aiutare anche potentemente ad avviare la persona umana al servizio dell'unico Dio.

In questo senso, le devozioni specifiche, specialmente quelle che raggiungono proporzioni universali, mettono in risalto le realtà fondamentali della fede e i bisogni psicologici dell'individuo e del gruppo.

La Chiesa costantemente ammonisce i fedeli contro un superficiale, quasi superstizioso moltiplicarsi delle devozioni nella vita spirituale e ne indica le caratteristiche dell'autenticità: interiorità, costanza, distacco in favore della volontà di Dio, pratica della purezza di cuore, fiducia e tenerezza. Inglobando tali atteggiamenti, le devozioni accrescono la d. e si rivelano un mezzo sicuro per giungere all' unione più profonda con Dio.

Note: 1 STh II-II, q. 82.

Bibl. Aa.Vv., La religiosità popolare, valore spirituale permanente, Roma 1978, 255; E. Ancilli, Devozioni, in DES I, 741-743; E. Bertaud - A. Rayez, Dévotions, in DSAM III, 747-778; J. Châtillon, s.v., in DSAM III, 702-716; J.W. Curran. Dévotion (fondement théologique), in DSAM III, 716-727; R. Moretti, Religione e devozione, in RivVitSp 9 (1955), 151-173; Id., La devozione sensibile, in Ibid. 13 (1959), 42-62; Id., s.v., in DES I, 736-741.

R.M. Valabek

DIADOCO DI FOTICEA (santo). (inizio)

I. Vita e opere. D. di Foticea, nasce nel 400 ca. e muore nel 474 ca., comunque prima del 486. Di lui conosciamo relativamente poco, malgrado sia uno dei maggiori maestri di spiritualità del sec. V. Greco, colto e buon scrittore, è vescovo di Foticea nell'antico Epiro (oggi, Adonat in Trespontia). Fozio ( 895 ca.) ne esalta l'antimonofisimo. Nella lettera che informa l'imperatore Leone I ( 461) del linciaggio, avvenuto nel 457, di s. Proterio, vescovo ortodosso di Alessandria, il suo nome appare tra i firmatari, senza escludere che sia lui stesso il promotore. Dall'elogio, che Vittore di Vita ( sec. V) pronuncia di D. nella Storia della persecuzione vandala (486), è nata l'ipotesi che il vescovo di Foticea sia morto in Africa.

D. ha scritto una Horasis (Visione di s. D. vescovo di Foticea in Epiro), dialogo con Giovanni Battista, avvenuto in sogno, che tratta problemi relativi alla visione di Dio, bellezza senza forma, in cielo. Ma il capolavoro di D. è il suo Kephalaia praktika gnoseos (kai diakriseos pneuematikes) Capita centum de perfectione spirituali (et de discretione spirituali), (Cento capitoli sulla perfezione spirituale), titolo completato da alcuni manoscritti che aggiungono: e il discernimento dello spirito. Scritto prima dell'episcopato di D., mostra quanto la spiritualità sia al centro del dibattito ecclesiale. Una sua Omelia sull'Ascensione difende le due nature di Cristo e presenta la deificazione come rinnovamento glorioso di ciò che l' uomo era sin dall'inizio, tramite l'immagine di Dio. Una Catechesi trasmessa sotto il suo nome viene attribuita a Simeone il Nuovo Teologo o a un discepolo di quest'ultimo.

II. Dottrina spirituale. D. discute la grazia in polemica con il messalianismo, setta mistica di indole materialistico-pragmatica condannata al Concilio di Efeso nel 431. Del messalianismo D. condivide largamente il vocabolario; ad esempio, l'insistenza sul sentimento e sul senso spirituale dell'anima; ma se ne allontana ancorando la mistica ai sacramenti, anziché alla sola preghiera mistica. Prendendo spunto dal fatto che le tentazioni continuino dopo il battesimo, i messaliani concludono che la grazia coabiti con il diavolo; difatti, come consequenza del peccato di Adamo, in ogni anima abita un diavolo che nessun battesimo può esorcizzare, ma solo la preghiera incessante. Siccome i messaliani confondono l'esperienza psicologica della grazia con la mistica, D. insiste sulla necessità del discernimento spirituale, consigliando la netta distinzione tra fasi iniziali, inondate di grazia, e fasi progredite in cui la grazia è meno vistosa, ma più sicura.

Influsso su D. hanno avuto gli scritti prima attribuiti a s. Macario d'Egitto, ma ora comunemente attribuiti a Simeone di Mesopotamia (attivo tra il 385 e il 430), un autore per molti intaccato dal messalianismo, ma che altri ritengono solo accomunato a loro da alcune espressioni. Le Omelie spirituali pseudo-macariane descrivono il cuore dell'uomo come campo di battaglia tra Dio e il diavolo. L'influsso di Evagrio Pontico, il cui Trattato sulla preghiera, è stato trasmesso sotto il nome di s. Nilo d'Egitto, traspare nel modo in cui D. insiste sull'indole spirituale della preghiera, sull'idea della purificazione progressiva dell'anima, come pure sull'idea che le visioni sono opera di vanagloria per uno che ha raggiunto l' apatheia. Proprio il contrario di quanto sostengono i messaliani identificando tentazione e peccato, D. ribadisce che l'apatheia non consiste nell'assenza di tentazioni ma nel resistervi efficacemente. Non sono le visioni lo scopo dello sforzo ascetico, ma l'amore insaziabile. In pratica, nonostante ammetta eventuali visioni, D. non vi fa eccessivo affidamento, pur concedendo che l'anima purificata possa avere la visione della luce del proprio intelletto.

D. non parla mai dell' Eucaristia. Quanto al battesimo, pietra angolare della spiritualità di D., egli ne distingue un primo dono, nel ristabilimento in noi dell'immagine di Dio offuscata a causa del peccato, e un secondo dono, nella somiglianza con Dio che lo Spirito opera in noi nel processo di purificazione. Contro i messaliani, che fanno leva sulla sola preghiera, D. insiste sulla necessità delle opere; intanto, è la carità a rendere simili a Dio. Proprio quando la consolazione delle fasi iniziali viene a mancare, le tentazioni più gravi sono contro la carità, di cui l' umiltà e l' obbedienza forniscono la misura. Il grado più alto della rassomiglianza con Dio, è l'illuminazione (photismós), che scaturisce dal dono di Dio santificante chiamato contemplazione (gnosis), o conoscenza che viene dall'esperienza intima delle cose spirituali. Il colmo della scienza è la conoscenza della Trinità. In fondo, illuminazione, saggezza e teologia sono la stessa realtà. L'illuminazione della vera conoscenza è di natura spirituale e aiuta il discernimento a separare infallibilmente bene e male, proprio contro i messaliani, per i quali la luce della scienza è sensibile.

Per l' Oriente cristiano D. è uno dei più noti fautori della preghiera di Gesù, o meglio, a Gesù, legata all'espressione frequente di D. " ricordo di Dio ", in contrasto con il " ricordo del male " (pensieri cattivi, tentazioni) e che quindi sta in linea con l' esicasmo, con cui ha tratti comuni. L'invocazione del nome di Gesù è efficace contro le illusioni del diavolo. D. parla del cuore e del costante ricordo del nome di Dio, come lo Pseudo-Macario ( V sec. ca.). Inoltre, D. è uno dei maggiori fondatori della dottrina dei sensi spirituali e del discernimento, tema che la polemica antimessaliana provoca inevitabilmente. Quanto al discernimento: mentre ammette la possibilità di visioni sensibili di Cristo e degli angeli, in effetti è estremamente scettico su ogni visione e audizione. Diverso è per D. il sentimento intimo aisthesis (sentimento) o peira (esperienza), conoscenza connaturale delle cose di Dio nell'uomo deificato. L'abbinamento di plerophoria che si aggiunge all'aisthesis sottolinea la ricchezza o l'abbondanza di questo sentire. Quanto all'aisthesis noos (oppure: aisthesis noera) o kardias (senso intimo dell'anima), occorre ricordare che, in D., noos ha le funzioni di pneuma ed è il punto di riferimento per l'immagine di Dio nell'uomo; quindi l'espressione indica il gusto delle cose oggetto di discernimento, e si ritrova nell'espressione di origine messaliana, ma di significato ortodosso, en pasei aisthesei kai plerophoria (=in piena certezza del senso interiore). D. riconosce un solo senso spirituale, al contrario dei cinque sensi corporali, essendo la diversità dei sensi risultato del peccato di Adamo. D. effettua la sintesi tra mistica intellettuale evagriana e mistica del cuore dello Pseudo-Macario. Diviene così nel mondo bizantino uno dei più grandi promotori della spiritualità del deserto.

Grande è l'influsso di D. in Oriente, dove è incluso nella Filocalia di Nicodemo Aghiorita ( 1809), passando, da lì, in Russia, dove si trova, per esempio, nel Racconto del Pellegrino al suo staretz; e in Occidente, dove s. Ignazio di Loyola e s. Teresa d'Avila subiscono il suo influsso, diretto o indiretto, su punti come l'invocazione del nome di Gesù, il discernimento degli spiriti, l' indifferenza e la povertà.

Bibl. Opere: É. des Places (cura di), Diadoque de Photicé: Oeuvres spirituelles, Paris 1955. Studi: P. Chrestou, Diadoco di Foticea (in greco), Thessoloniki 1952; F. Dörr, Diadochus von Photike und die Messalianer, ein Kampf zwischen wahrer und falscher Mystik im 5. Jahrhundert, Freiburg i. Br. 1937; H. Dörries, Diadochos und Symeon, Das Verhältnis der kephálaia gnostiká zum Messalianismus, in Id., Wort und Stunde I, Göttingen 1966; M. Figura, s.v., in WMy, 111-112; I. Hausherr, L'erreur fondamentale et la logique du messalianisme, in OCP 1 (1935), 328-360; A. Louth, The Origins of the Christian Mystical Tradition, Oxford 1981; V. Messana, Cento considerazioni sulla fede, Roma 1978; J. Meyendorff, Orthodox Spirituality, Crestwood, New York 1972; É. des Places, s.v., in DSAM III, 817-834; D. Stiernon, s.v., in DHGE XIV, 374-378; M. Viller - K. Rahner, La spiritualità dei primi secoli, Roma 1992, 209-218; K. Ware, The Jesus Prayer in St. Diadochus of Photice, in G. Dragas (ed.), Aksum-Thyateira, Atene 1985, 557-568.

E.G. Farrugia

DIDIMO DI ALESSANDRIA, (detto il Cieco). (inizio)

I. Vita e opere. Sulla vita di D. ci informano i suoi discepoli, come Palladio ( 425), ma non tutto è attendibile. D. è un laico, nato forse nel 313, che vive da asceta nei dintorni di Alessandria e muore nel 398. Rufino ( 410) riferisce che è stato scelto da s. Atanasio come decimo dirigente della scuola catechetica di Alessandria. Più che pensatore indipendente, D. è un grande erudito, cosa che desta tanta maggiore ammirazione in quanto a soli quattro o cinque anni di età era cieco, sviluppando in compenso una memoria prodigiosa. D. si muove nella tradizione di s. Clemente di Alessandria, quanto alla teologia morale e ascetica, e in quella di Origene, per la dottrina spirituale. Fra i suoi discepoli si ricordano s. Rufino e s. Girolamo.

Per quanto riguarda le opere, tre libri De Spiritu Sancto ci sono conservati nella traduzione latina di s. Girolamo; sarebbero suoi anche tre libri Sulla Trinità (giunti a noi incompleti). C'è, inoltre, un commento al Peri Archon di Origene. D. è noto quale commentatore della Bibbia. Da testimonianze o frammenti sembra che egli abbia composto commenti esegetici a: Genesi, Esodo, Levitico, Isaia, Geremia, Daniele, Osea, Zaccaria, Giobbe, Salmi, Cantico dei Cantici, Proverbi e Qoelet; Matteo, Giovanni, Atti, 1 e 2 Corinzi, Galati, Efesini, e forse ad altri libri. Da buon origenista, ne dà l'interpretazione spirituale, o mistica, interpretando le realtà di questo mondo come allegoria delle realtà del mondo venturo. La scoperta, nel 1941, a Tura (vicino a Il Cairo) ha fatto assegnare il Contra Eunomium non più a Basilio, ma a D., attribuzione discutibile; ma il suo commento a Zaccaria ha gettato nuova luce sull'opera esegetica di D.

II. Insegnamento spirituale. La dottrina di D. fu ripetutamente condannata per origenismo: nel 543, nel 553 e, più tardi, nel 647, al Concilio del Laterano (DS 519). Comunque, l'importanza di D. sta nel fatto che, per opporsi agli ariani, ha sviluppato la psicologia di Cristo quando, nel IV secolo, infieriscono le discussioni sull'integrità della natura umana di Gesù Cristo. D. ne sottolinea la valenza spirituale: egli, infatti, parla, nel Commento ai Salmi, di propátheia, stadio preliminare alla tentazione, quindi alla possibilità di peccare, senza mai vedere in Gesù la minima perdita dell'equilibrio psichico-morale. Questo aiuta la cristologia a salvare la piena umanità di Cristo e la spiritualità a riconoscere il ruolo positivo delle tentazioni. Tale accento posto sulle " pre-passioni " o inclinazioni al peccato ha spinto la discussione cristologica a ri-orientarsi verso quell'" anima mediatrice " di cui aveva parlato Origene.

Anche qui, D. elabora la distinzione, presente già in Origene, tra vita teoretica (o gnostica) (contemplazione e conoscenza spirituale che ne risulta, ovvero comprensione di quanto dicono i misteri della Chiesa), e vita pratica (ascesi in vista della contemplazione), che cerca di seguire le indicazioni dell'altra: essendo la vita teoretica più importante di quella pratica, la prima virtù è la gnosi. Questa distinzione, nella forma così come proposta da Evagrio Pontico, è entrata nel patrimonio classico della spiritualità orientale. L'unione del cristiano con Cristo è concepita sul modello del Cantico dei Cantici, cioè, sul modello del matrimonio tra Cristo e l'anima. Ma per arrivarvi bisogna attingere ad un regime ascetico che spoglia da quanto è superfluo e inutile. Seguendo Clemente di Alessandria, che parla della divinizzazione (theopoiesis, o usando il termine scritturistico, hyiothesia, figliolanza), D. si serve del termine deificazione del cristiano, che spiega attraverso la morte piuttosto che attraverso l' Incarnazione di Cristo. Tale unione deificante unisce al Padre in Cristo attraverso lo Spirito.

Bibl. Opere: PG 39; PL 23. Studi: G. Bardy, s.v., in DSAM III, 868-871; L. Doutreleau, Didyme l'Aveugle: Sur Zacharie I-III, Paris 1962; A. Grillmeier, Gesù il Cristo, I2, Brescia 1982; J. Gross, La divinisation du chrétien d'après les Pères grecs, Paris 1938; E.L. Heston, The Spiritual Life as Described in the Works of Didymus of Alexandria, Roma 1938; J. Lanczkwoski, s.v., in WMy, 217-218; Palladius, Historia lausiaca 4; A. van Roey, s.v., in DHGE XIV, 416-427; Rufino, Historia ecclesiastica 2; Socrate, Historia ecclesiastica 4; C. Sorsoli - L. Dattrino, s.v., in DES I, 762-763; M. Viller, Aux sources de la spiritualité de saint Maxime: les oeuvres d'Évagre le Pontique, in RAM 11 (1930), 156-184, 239-268.

E.G. Farrugia

DIFETTI. (inizio)

I. Nozione. Il termine d. è variamente e generalmente usato per indicare, in senso molto largo, privazione, mancanza di qualche cosa, assenza di qualità, disposizione che rende la persona imperfetta e incompiuta nella sua vita, sia fisica che psicologica e spirituale. In senso specifico e stretto, in quanto riferito alla vita spirituale, il d. fa riferimento a una disposizione acquisita, mediante la ripetizione di atti, che impedisce la piena realizzazione dell'esperienza di Dio. Va, quindi, chiaramente sottolineato che si tratta sempre di disposizione non buona, volontaria. E in questo senso, cioè, in quanto disposizione volontaria, da una parte si distingue dall' imperfezione come tale, ma sulla quale il d. può radicarsi ed esprimersi nelle sue varie e molteplici forme, e dall'altra necessita di un attento discernimento e di un coraggioso ed umile atteggiamento di superamento.

II. Discernimento. E pregiudiziale, ai fini di una compiutezza dell'esperienza di Dio, operare con tutti i mezzi a disposizione un'attenta analisi per coglierne ed individuarne l'ordine di importanza e la natura. Tale discernimento è una condizione assolutamente essenziale di quella revisione o conversione di vita senza le quali sarebbe illusorio parlare di perfezione e di autentica esperienza di Dio. Esso, però, risulta non facile per vari motivi, sia di ordine soggettivo che oggettivo.

Dal punto di vista soggettivo il primo e fondamentale ostacolo di un adeguato discernimento sono l'orgoglio e l'amor proprio, il non voler ammettere per paura - più o meno consapevole - realtà personali che possono risultare non gradite. C'è, inoltre, e non è cosa di poco conto, una insufficiente sensibilità spirituale derivante dalla poca familiarità con Dio e con le realtà spirituali; una mancanza di luce assolutamente necessaria per cogliere ed individuare i propri d.

Va, tuttavia, tenuto presente che esistono difficoltà oggettive di analisi e discernimento, e ciò anche in chi sinceramente e onestamente è ben disposto a far emergere nella nuda verità la sua specifica realtà religiosa. Soprattutto, va segnalato in questo campo l'apparente somiglianza, quindi, la confusione possibile a scambiare per virtù e atteggiamenti positivi ciò che effettivamente è vero d. e atteggiamento negativo. Sono presenti spesso, nella letteratura spirituale, l'accenno e il richiamo a questo tipo di realtà e, conseguentemente, una maggiore attenzione per non cadere nell'inganno. Ci possono essere, ad esempio, un'apparente fortezza e fermezza di spirito che invece nascondono un atteggiamento di spiriti prepotenti e arroganti e facili all'ira; come, d'altra parte, possono esserci persone dai modi dolci e remissivi che, tuttavia, nascondono mancanza di energia e di fortezza di spirito, una certa passiva remissività.

III. Aiuti per un autentico discernimento. Tutto ciò rende più necessaria e sommamente urgente una conoscenza appropriata dei singoli d. personali attraverso un'applicazione metodica e paziente che va fatta con serena e fiduciosa umiltà, ma anche con la lucida consapevolezza che non è tanto importante rilevarne il numero e la materialità quanto cercare di pervenire alla radice e alla ragione e disposizione di fondo. A tal fine, questi possono essere i mezziaiuti più utili per un sano e reale discernimento.

1. Esame di coscienza: scoprire di fronte alla Parola la nostra reale identità come si manifesta nel complesso articolarsi della vita quotidiana. Esso non può limitarsi ad un atto di pietà da sbrigarsi in pochi minuti o al conteggio, magari minuzioso e puntiglioso, delle varie mancanze ma dev'essere un esercizio metodico e impegnativo che cerca di arrivare al fondo e alle radici del cuore " là dove nascono le cose buone e le cose cattive ". Ciò significa far emergere, lentamente e sinceramente, le motivazioni e le intenzioni, esaminare i sentimenti e le emozioni, prendere seriamente in considerazione la nostra mente e la nostra coscienza, limpidamente sviscerare tutto il mondo della propria affettività, tendere costantemente a rilevare il bene non fatto. E un'esperienza, quella dell'esame di coscienza, che va fatta alla luce della misericordia di Dio, dove Dio stesso ci rivela a noi stessi, perciò occorrono tempo, preghiera e attenzione costante. Solo allora l'esame serve a conoscersi e a cambiare.

2. Correzione fraterna: riflessione critica su un particolare aspetto della propria condotta fatta da altri, soprattutto se vivono accanto a noi, quindi, hanno l'opportunità di conoscere bene alcuni aspetti della nostra vita. Prendere in considerazione questi rilievi con serenità e realismo aiuta moltissimo a rientrare in noi stessi e a coglierci nella reale identità.

3. Mortificazione: anche se sa di vecchio e suona piuttosto sgradevole alla sensibilità dell'uomo, essa, tuttavia, è estremamente importante ai fini dell'individuazione e dell'eliminazione dei d. Letteralmente vuol dire " far morire ", ma dev'essere capita e può essere capita solo all'interno di una logica integrativa del male e della morte. Significa, infatti, non solo accettare e dare senso redentivo alla propria morte e alle piccole morti quotidiane, ma scegliere di far morire o limitare alcune tendenze negative o d. per far nascere tendenze positive e virtù. Limitarsi a dire " no " significherebbe rimanere allo stadio infantile della presunzione, dell'orgoglio e dell'illusione d'onnipotenza.

Bibl. W. de Bont, De la connaissance de soi à la transformation de soi, in VSpS 18 (1965), 187-207; A. Cabassut, s.v., in DSAM III, 68-88; P. Zubieta, s.v., in DES I, 764-767.

B. Zomparelli

DIGIUNO. (inizio)

I. La pratica del d. è ben nota nella cultura e nella spiritualità cristiane, ma anche le culture e le spiritualità non cristiane come quella buddista, ebraica, islamica, induista lo praticano. Per i cristiani il d. è, fondamentalmente, uno dei mezzi ascetici e penitenziali indicati dalla Bibbia e dalla tradizione. E interessante, a questo proposito, leggere gli scritti dei Padri della Chiesa che trattano di questo tema. Oltre che per raggiungere un bene spirituale personale e comunitario, il d. può essere praticato per esigenze di culto, come per es. il d. eucaristico o per esigenze di vigilanza spirituale, come per es. il d. che fino a non molto tempo fa si faceva alla vigilia e in preparazione di feste liturgiche. Al di fuori dell'ambito religioso esso è praticato per ragioni di salute fisica, psichica o di moda. In qualche caso, si fa il d. come reazione al consumismo smisurato o per motivi di solidarietà con i poveri. Dal punto di vista pedagogico tale d., alla cui base si trova un giudizio severo sugli sprechi e sul consumismo sfrenato, è uno stimolo ad un gesto di condivisione. In questo caso, il d. educa alla dimenticanza di sé e apre il cuore all'altro. Esso, infine, può diventare anche un'arma di ordine politico e sociale.

II. Nel cristianesimo. A noi interessa la portata religiosa e spirituale del d. che i cristiani sono invitati a praticare. Il cristianesimo, come tante altre religioni, lo attua per motivi ascetici, penitenziali e spirituali. Molto spesso, si ricorre al d. per ottenere la liberazione dalle colpe e dai peccati o per espiare le colpe e i peccati propri e quelli degli altri. Sul piano personale, esso viene praticato per ottenere la liberazione da vari condizionamenti interiori che impediscono la scelta e l'impegno nell'ambito del servizio per Dio e per l'uomo. Il cristiano è cosciente che gli appetiti disordinati che lo abitano, sfuggono al suo controllo e rendono difficile la sua crescita e maturazione spirituale. Il d., quindi, impegno tipico dell'esperienza spirituale cristiana, favorisce la vigilanza cristiana e dispone all'aiuto che viene da Dio. " Non amate né il mondo né le cose del mondo (...); perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo " (1 Gv 2,15-16). Indipendentemente dal fatto se il d. sia prescritto o scelto di propria iniziativa, la sua logica sta nella forza interiore dell'uomo la quale dimostra che la dipendenza dal cibo, quindi da ciò che è materiale, non è né totale né assoluta. L'essenziale per il d. è, quindi, la finalità cui esso porta e non il d. come tale che è sempre un mezzo. Fatto per amore di Dio, il d. risveglia nell'uomo disposizioni interiori all'azione della grazia di Dio. Tale d., oltre che ricordare: " Non di solo pane vivrà l'uomo " (Lc 4,4), aiuta a vivere l'esperienza del limite e della precarietà del proprio corpo nonché di una forza nuova che si sprigiona in lui proprio grazie ad esso. Più che il divieto, vale nel d. la libera astensione attraverso la quale il soggetto, manifestando la forza della propria volontà, esprime anche la propria fragilità bisognosa di soccorso. E questa la ragione per cui non si deve considerare il d. solo in ottica di ascesi mortificativa. Uno dei testi dell'AT, che ha per oggetto il d., è quello di Is 58. Denunciando il formalismo nell'osservanza del d., il testo sottolinea che esso non consiste nell'affliggere il corpo, ma nello spezzare ogni forma di egoismo. L'uomo, uscendo da se stesso e ponendosi sotto la guida di Dio, acquista una vitalità nuova: " La tua gente edificherà le antiche rovine, ricostruirai le fondamenta delle epoche lontane. Ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di rovine per abitarvi " (58,12).

III. Sul piano ascetico-spirituale. E importante che il d., in quanto esercizio ascetico-spirituale cristiano, non venga assolutizzato. Esso non può essere fine a se stesso e non può esaurirsi negli esercizi come astinenza dai cibi, veglie notturne, lavoro manuale. In certi casi, potrebbe darsi che il d. sia l'espressione di volontà motivata egoisticamente. Dal punto di vista storico, esso possiede un suo contesto ascetico-spirituale: d., preghiera, elemosina (= carità). " Non ci è stato comandato di lavorare, di vegliare e di digiunare continuamente, mentre la preghiera incessante è una legge per noi ".1 Sempre nella Chiesa, il d. faceva parte della triade: d., preghiera, elemosina (cf Tb 12,8; Mt 6,1-18), in quanto espressione di penitenza interiore del cristiano. La legge nuova portata da Cristo invita a praticare gli atti della religione, quali: d., preghiera, elemosina, ma li ordina al " Padre che vede nel segreto ", in opposizione al desiderio di " essere visti dagli uomini " (Mt 6,1-6. 16-18). Il d. cristiano, pertanto, pur esprimendosi con gesti esteriori e visibili, conserva sempre il suo carattere interiore, contribuendo, così, alla conversione del cuore. Per questa ragione, è fondamentale la sua motivazione teologica: lo spirito del d. e non l'astensione formale dai cibi. Il fine spirituale verso cui orienta è il conseguimento delle virtù, quali la temperanza, la moderazione, la generosità, l' umiltà, la carità. In altre parole, il d. è il mezzo per liberarsi dal dominio della carne e accettare su di sé il dominio di Cristo. Dal punto di vista della crescita spirituale cristiana, il d. acquista valore spirituale all'interno di un progetto di vita che prevede uno spazio all'ascesi per dominare i disordini passionali e per stimolare l'impegno concreto verso Dio e verso il prossimo. L'uomo è coinvolto nella dialettica di fiducia e di sfiducia su tutto l'essere personale: " Ogni uomo è Adamo, ogni uomo è Cristo ".2 Di conseguenza, la spiritualità cristiana, mentre invita ad amare se stessi inclusa la propria corporeità, insiste sulla necessità della profonda purificazione di tutto l'essere personale per potersi aprire al dono totale in Cristo. Perciò, alla luce dell'esperienza e dell'insegnamento di Cristo, il d. riceve, prima di tutto, il significato cristologico. E secondario, invece, il carattere ascetico del d. Contrariamente alle apparenze, la spiritualità cristiana considera il mistero pasquale come coinvolgente tutto l'essere dell'uomo e non solo la sua parte spirituale, perché " la carne è il cardine della salvezza. Quando l'anima viene unita a Dio, è la carne che rende possibile questo legame. E la carne che viene battezzata perché l'anima venga mondata; la carne viene unta affinché l'anima sia consacrata ".3

Note: 1 Evagrio Pontico, Capita practica ad Anatolium, 49; 2 S. Agostino, In Psalmum LXX. Enarratio Sermo secundus; 3 Tertulliano, La risurrezione dei corpi, 8,2.

Bibl. P. Cabrol, s.v., in DACL VII, 2481-2501; CEI, Il senso cristiano del digiuno e dell'astinenza. Nota pastorale del 4 ottobre 1994; P. Deseille, s.v., in DSAM VIII, 1164-1175; Paolo VI, Constitutio apostolica " Paenitemini et credite Evangelio ", 17 februarii 1966, in AAS 58 (1966), 177-198; C. Ranwez, Le jêune, in VieSp 118 (1968), 271-291; Ph. Rouillard, s.v., in Cath VI, 829-835; A. Scarnera, Il digiuno cristiano. Dalle origini al IV secolo. Contributo per una rivalutazione teologica, Roma 1990; F. Schmal, Die Flucht aus dem Dschungel der Süchte das Fasten, Rottweil 1977; J.H. Schmith, Digiuno come rinnovamento fisico, mentale e spirituale, Torino 1986.

DIONIGI AREOPAGITA. (inizio)

I. Vita e opere. Confuso spesso con s. Dionigi, primo vescovo di Parigi, o con Dionigi di Alessandria, un santo del III secolo, o con un discepolo sconosciuto di s. Basilio Magno, pare, invece, sia un martire ateniese del I secolo convertito da s. Paolo. Fin dal sec. VI gli sono attribuite le seguenti opere: De coelesti hierarchia, De ecclesiastica hierarchia, De divinis nominibus, De mystica theologia e dieci Lettere. Questi scritti risalgono certamente alla fine del sec. V e sono raccolti nel Corpus Dionysiacum, il cui autore si indica convenzionalmente come Pseudo-Dionigi l'Areopagita. Il Corpus rappresenta il tentativo più sistematico di teologia mistica compiuto sulla base degli schemi e della terminologia neoplatonica. La dipendenza della sua dottrina da Proclo ( 485) è innegabile.

II. La dottrina mistica di D. è strettamente legata alla tradizione platonica e patristica e può essere sintetizzata nei seguenti punti: 1. rapporto tra la conoscenza umana razionale e Dio; 2. carattere " sovrarazionale " dell' unione mistica, dovuto sia all'insufficienza della mente umana, sia al principio generale in base al quale la conoscenza può avere luogo solo tra termini simili; 3. idea della " riduzione all'unità ", anch'essa dipendente dal principio generale ricordato nel punto 2; 4. interpretazione allegorica dell'ascesa di Mosè sul Monte Sinai e, in particolare, del suo ingresso nella tenebra (cf Es 20,21).

1. In pieno accordo con la tradizione platonica e patristica, ed in particolare con il neoplatonismo, D. considera " il metodo negativo " - che consiste nello spogliare gradualmente la divinità di qualsiasi attributo o concetto, a cominciare da quelli infimi per finire a quelli più alti - come il più idoneo all'accostamento, in termini razionali, della mente umana al primo principio (cf Ger. cel. II, 3[12,14-13,3 Heil, Patristische Texte und Studien (= PTS) 36], Nomi div. XIII, 3 [280,1-4 Suchla, PTS 33]).1 La coerente applicazione del " metodo negativo " fa conoscere, però, non ciò che Dio è in se stesso, ma solo ciò che non è (cf Ger. cel. II, 3 [12,16-17]).2 Come si evidenzia dalla conclusione della prima ipotesi del Parmenide platonico, base della teologia del neoplatonismo riguardante il primo principio,3 il suo sbocco inevitabile è rappresentato dal più totale silenzio e dall'assoluta ignoranza della mente umana nei confronti dell'oggetto della sua ricerca che, proprio in quanto superiore alle realtà più alte accessibili concettualmente ed esprimibili con nomi, è assolutamente inconoscibile e ineffabile.4 Sul piano strettamente razionale, la conoscenza di Dio coincide, quindi, pienamente con l'ignoranza, idea questa presente già in Filone, in alcuni Padri e nel neoplatonismo (cf Nomi div. I, 1 [108,8-9], VII, 3 [198,4]; Teol. mist. I. 3 [144,15 Ritter, PTS 36], II [145,1-3, 11-12], Ep. I [157,3-5 Ritter, PTS 36],V [162,6-7]).5

2. L'unione con il sommo principio non può avere una connotazione razionale per due ragioni: da una parte, l'assoluta ignoranza e il totale silenzio prodotti dall'impiego del " metodo negativo " non consentono alla mente l'ulteriore svolgimento delle sue funzioni, almeno per quanto riguarda la conoscenza di Dio; dall'altra, D. resta fedele al principio formulato da Aristotele ( 322 a.C.) e fatto proprio dal neoplatonismo, secondo cui la conoscenza è possibile solo tra termini simili.6 Che Dio, l'uno-bene, sia superiore all'intelligenza metafisica e non svolga, quindi, l'attività noetica caratteristica di questa ipostasi, è un'idea ricorrente in tutto il neoplatonismo " ortodosso " e in D.7 In base al principio sopra enunciato, la mente umana, per poter raggiungere l'uno-bene e unirsi ad esso, deve superare il livello dell'intelligenza metafisica, inferiore all'oggetto del suo desiderio e della sua ricerca. Plotino,8 Gregorio di Nissa 9 e D. stabiliscono un preciso parallelo tra la necessità di superare le realtà sensibili per poter raggiungere la contemplazione delle realtà intelligibili, le idee contenute nell'intelligenza metafisica, e la necessità di superare quest'ultima per poter raggiungere ciò che si trova al di là di essa (cf Nomi div. I, 1 [109,7-11], IV, 11 [156,15-19]). Avvolta nell'ignoranza e nel silenzio che le impediscono di pensare, la mente umana è ormai simile all'uno-bene che non pensa e può, quindi, unirsi ad esso. L'unione con il sommo principio ha il suo presupposto proprio nella cessazione (o abbandono) di qualsiasi attività noetica; è qualcosa di " sovrarazionale ", di " superiore all'intelligenza ", espressione questa che D. prende di peso da Proclo (cf Nomi div. I, 1 [108,3-5], I, 4 [115, 9-10], I, 5 [116,14-117,1], II, 7 [131,3-4], IV, 11 [156,17-19], VII, 1 [194,11-12], VII, 3 [198,13-14], XI, 2 [219,10-11]; Teol. mist. I, 3 [144,11-12,14-15], Ep. I [157,3], V [162,7; 163,1,3-4]).10 La facoltà che nell'uomo rende possibile l'unione con l'uno-bene è qualcosa di ben distinto dall'ordinaria facoltà dell'intelligenza, che consente solo la contemplazione delle realtà intelligibili (cf Nomi Div. VII, 2 [194,10-11]).11 Anche se D. non lo dice apertamente, si tratta di quella facoltà che Proclo e Damascio ( prima metà del sec. VI) chiamano il " fiore dell'anima ".12

3. Il principio secondo cui la somiglianza è il requisito indispensabile della conoscenza è alla base non solo dell'idea della cessazione dell'attività noetica nell'unione mistica, ma anche dell'idea della " riduzione all'unità " dell'animo umano: poiché Dio è l'uno assoluto per eccellenza (anche questa è una dottrina basilare della teologia del neoplatonismo e di D.), chi vuole realizzare l'unione con lui deve ridurre le molteplici facoltà della propria anima ad una perfetta unità (cf Nomi div. I, 4 [112,12-14]).13 Questa perfetta unità, realizzata dall'anima che è in procinto di unirsi con l'uno, altro non è che il " fiore " dell'anima stessa.14

L'anima che ha raggiunto l'unione mistica con l'uno non solo è essa stessa un'unità simile all'uno - per D. e il neoplatonismo la piena realizzazione dell'ideale platonico della somiglianza con Dio consiste proprio in questo - ma s'identifica anche con l'uno stesso, appartiene totalmente ad esso, perde la propria identità e non vive più una propria vita: non esistono più due " uni " distinti, ma un'unica realtà (cf Teol. mist. I, 3 [144,12-14], Nomi div. IV, 3 [159,3-8]).15

4. La purificazione dal sensibile come condizione preliminare della contemplazione delle realtà intelligibili, il superamento della conoscenza di queste ultime da parte della mente umana, il silenzio e l'ignoranza in cui la mente piomba allorché applica il procedimento negativo fino alle sue estreme conseguenze, l'abbandono di ogni attività noetica e, infine, il raggiungimento dell'unione sovrarazionale con l'uno-bene trovano il loro simbolo scritturale nell'episodio dell'ascesa di Mosè sul Monte Sinai che D. descrive ed interpreta nel terzo paragrafo del primo capitolo della Teologia mistica tenendo presente Filone e la tradizione patristica precedente.15 Non è necessario procedere qui ad un'analisi dettagliata di questa sezione della Teologia mistica e soffermarsi sulle numerose corrispondenze che essa presenta con Filone, Clemente, Origene e Gregorio di Nissa.16 Ci limitiamo a ricordare che la tenebra di Es 20,21 è il simbolo dell'ignoranza della mente umana (cf Teol. mist. I,3[144,10-12], Ep. I[156,6]); e che la luce oltremodo risplendente che pervade questa tenebra è il simbolo dell'illuminazione che nell'unione mistica subentra all'ignoranza concedendo una forma di " conoscenza " sovrarazionale (cf Teol. mist. II [145,1-3], Ep. V [162,1-8]). Tale illuminazione, naturalmente, non va confusa con l'illuminazione caratteristica della conoscenza puramente intellettuale.

L'influsso di D. fu molto importante. La sua Teologia mistica diventa l'opera fondamentale cui s'ispira tutta la mistica medievale, da Bonaventura a Tommaso d'Aquino. Ma la sua influenza continua lungo i secoli: Giovanni della Croce s'ispirerà a lui quando parlerà della notte oscura, mentre Teresa d'Avila riprenderà da lui il tema della sofferenza di Dio. Ma l'opera che ricalca più da vicino la teologia negativa resta la Nube della non-conoscenza.

Note: 1 Per i paralleli neoplatonici e patristici cf S. Lilla in La Mistica I, 365, nota 26; 2 Cf Plotino, V, 3, 14 [324,6-7 Henry-Scwyzer], Porfirio, In Parm. X, 21-24 Hadot, Proclo, In Parm. VI [vi 53,4-5 Cousin], Clemente, Strom. V, 71,3 [ii. 374,14-15 Stahlin], Gregorio di Nissa, C. Eunom. II [i. 396,10-13 Jaeger], Agostino, De Trin. 8,2 [CCSL 270,15-16]; 3 Cf Parm. 142a, 1-6; 4 Sul " silenzio ", che svolge un ruolo preminente in tutta la tradizione platonica e patristica, cf Nomi div. I, 3 [111,6] e Koch, Pseudo-Dionysius Areopagita in seinen Beziehungen zum Neoplatonismus und Mysterienwesen, Mainz 1900, 123-134, J. Kroll, Die Leher des Hermes Trismegistos [Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelaltes XII, 3-4] 335-338, O. Casel, De philosophorum graecorum silentio mystico [Religionsgeschichtliche Versuche und Vorarbeiten XVI, 2], Giessen 1919, W. Wölker, Kontemplation und Ekstase bei Ps.-Dionysius Areopagita, Wiesbaden 1958, 146-147; R. Morthey, in JThS 24 (1973), 197-202 e S. Lilla, Helikon, 31-32 (1991-1992), 31-33; 5 Sul testo di questo passo cf S. Lilla in ASNP Classe di lettere, serie III, 10, 1 (1980), 125-127, Aug 31 (1991), 443-444, cf Filone, De post. C. 15 [ii 4,6-9 Cohn-Wendland], Clemente, Strom. V, 71,5 [ii. 374,23]; Basilio, Ep 234,2 [ii. 43,12-13 Courtonne], Gregorio di Nissa, De vita Mos. II [86,6-7,15-17 Musurillo], Plotino, VI, 9,4 [312,1-3]; Porfirio, Sent. 25 [15,3-4 Lamberz], In Parm. II, 16-17, Damascio, De prim. princ. 29.1 [i.84,3 Westerink]; 6 Aristotele, De an. I, 407 b, 17-18, Met. B 1000 b 5-6, Plotino, I, 8,1 [121,8], Porfirio Sent. 25 [15,4-5], Ad Marc. 19 [287,2 Nauck], In Parm. IV, 25-26, Proclo, Teol. plat. I, 3 [15,17-18 Saffrey-Westerink], Exc. Chald. IV [209,12-16 des Places]; 7 Plotino dedica a questo problema un intero trattato, il sesto della quinta ennéade; cf, anche Proclo, In Parm. III [0v. 33,2], VI [vi. 86,3-4] e Ps.D., Teol. mist. V [149,1-2]; 8 Enn. V, 5,6 [348,17-20]; 9 De Vita Mos. II [87,1-4]; 10 Cf. Plotino, V, 5,6 [348,19-20], VI, 7,35 [277,1-2,279,29-30,43-45]; Porfirio, Sent. 25 [15,2], In Parm. II, 17, Proclo, Teol. plat. I, 3 [14,8-9,16,19-20], I, 25 [111,11-12], Exc. Chald. IV [209,29]; Damascio, De Prim. Princ 27 [i. 73,8], 291 [83,10-11,13]; 11 Passo dipendente da Plotino, VI, 7,35 [258,19-22]; cf Koch, o.c., 158, rist. in Hermes 92 (1964), 219-220 e S. Lilla in La Mistica I, 39; 12 Cf Exc. Chald. IV [210,29], In Alc. pr. 247,7-11, Westerink, In Parm. VI [vi. 42, 6-10], De prim. Princ. 252 [i. 65,5-6]; 13 Cf Plotino, V, 5,7 [350,32], VI, 9,11 [326,8-9]; Proclo, Exc. Chald. IV [209, 11,25-26], Teol. plat. I, 3 [15,20-21,24-26,16,21-24]; Damascio, De Prim. Princ. 27 [73,8], 291 [83,3-6,11-12,13] e anche Gregorio di Nissa, De An. et Res.: PG 46.93 b 8-10, c 6-8; 14 Cf sopra, la fine del punto 2; 15 Cf Plotino, VI, 9,10 [325,15-18,326,21], VI, 9,11 [326,4-6], Gregorio di Nissa, De An. et res.: PG 46.93 c 9-10; 16 Cf a tal proposito H.Ch. Puech, La Ténèbre mystique chez le pseudo-Denys l'Aréopagite et dans la tradition patristique, in EtCarm 23 (1938)2, 33-53,=En quête de la Gnose, I Paris 1978, 119-141.

Bibl. Opere: Dionigi Areopagita, Tutte le opere, a cura di P. Scazzoso, Milano 1981. Studi: Y. de Andia, Philosophie et union mystique chez le pseudo-Denys l'Aréopagite, in Aa.Vv. Sophies Maietores, Hommage à J. Pépin, Paris 1992, 511-531; Id., Pathòn tà theia, in Aa.Vv., Platonism in Late Antiquity, Notre Dame 1992, 239-258; Id., Henosis. L'union à Dieu chez Denys L'Aréopagita [PhA 71], Leiden 1996; A. Brontesi, L'incontro misterioso con Dio. Saggio sulla teologia affermativa e negativa nello Pseudo-Dionigi, Brescia 1970; M. Figura, s.v., in WMy, 424-425; M. de Gandillac, s.v., in G. Rubbach - J. Subbrack (cura di), Grandi mistici I, Bologna 1987, 97-114; E. von Ivanka, Dunkelheit, in Reallexikon für Antike und Christentum, IV, Stuttgart 1959, 350-358; S. Lilla, Introduzione allo studio dello Ps. Dionigi l'Areopagita, in Aug 22 (1982), 568-577; Id., s.v., in La Mistica I, 361-398; A. Louth, The Origins of the Christian Mystical Tradition, Oxford 1981; H.Ch. Puech, La ténèbre mystique chez le Pseudo-Denys l'Aréopagite et dans la tradition patristique, in EtCarm 23 (1938) 2, 33-53, (=En quête de la Gnose, I, Paris 1978, 119-141); R. Roques, Contemplation, extase et ténèbre chez le Pseudo-Denis, in DSAM II, 1885-1911; K. Ruh, Die mystische Gotteslehre des Dionysius Areopagita, in Sitzungsberichte der bayr. Akademie, Phil.-Hist. Kl., (1987)2, 1-63; J. Vanneste, Le mystère de Dieu, Bruxelles 1959; C. Yannaràs, Heidegger e Dionigi Areopagita, Roma 1995. Ulteriori studi vengono citati nella nota bibliografica de La Mistica I, 397-398.

S. Lilla

DIONIGI IL CERTOSINO. (inizio)

I. Vita e opere. Dionysius van Leeuwen nasce a Rijkel, nel Limburgo belga, nel 1402 e muore in fama di santità il 12 marzo 1471, nella Certosa Bethlehem Mariae di Roeremond. Vi era entrato nel 1425, dopo avere avuto una prima formazione a Saint Trond e alla celebre scuola municipale di Zwolle, quindi all'Università di Colonia, dove aveva seguito corsi di filosofia e di teologia. Una scelta convinta della vita solitaria non gli impedisce di raggiungere notorietà e celebrità per gli scritti copiosi e la partecipazione alle vicende politiche e religiose del suo tempo come apprezzato consigliere spirituale, noto ai papi Eugenio IV ( 1447) e Nicolò V ( 1455) e collaboratore di ecclesiastici insigni come il card. Nicola da Cusa.

La sterminata opera esegetica, spirituale, pastorale comprende quarantadue volumi e conosce una grande diffusione, finché è oggetto di una prima edizione completa nel 1532, a Colonia, seguita in epoca moderna da un'altra, apparsa tra il 1896 e il 1935; il " Corpus Christianorum " ha dato inizio, nel 1990, alla pubblicazione dell'edizione critica dell'Opera omnia, con traduzione francese e commento.

II. Dalla propria esperienza spirituale di vita mista, separata e insieme partecipata rispetto alle vicende del secolo, D. ricava la convinzione, diffusa in numerosi trattati spirituali ed ascetici dedicati a tutti gli stati di vita degli uomini - comprese la " lodevole " vita dei coniugati, quella delle vergini, dei mercanti, dei militari - che il genere di vita cristiana più elevato è quello che combina la perfezione della vita contemplativa con la coerenza nella carità della vita attiva. Trattati come il De auctoritate generalium conciliorum o quelli in difesa del dogma dell'Immacolata Concezione, allora discusso da molti teologi, o il Contra perfidiam Mahometi, manifesto pubblico in favore della crociata, indicano che D. attribuisce un valore ecclesiale e politico alla scelta contemplativa. Un insegnamento già tradizionale, soprattutto nell'Occidente dell'ora et labora, viene riproposto alle soglie dell'epoca moderna e, attraverso la dottrina di D., ispirerà santi come Ignazio di Loyola, Francesco di Sales e Alfonso de' Liguori.

Come autore propriamente spirituale, D. lega la sua notorietà alla molteplice produzione di opuscoli consacrati alla vita mistica, raccolti e pubblicati insieme per la prima volta nel 1532. Li caratterizza il tentativo di una riflessione critica, che pone un'esperienza interiore a confronto con le concezioni tradizionali sulla mistica stessa. Ne deriva una contaminazione del lessico e delle categorie filosofiche della scolastica tomista con il linguaggio e la teologia apofatica di Dionigi Areopagita, di s. Giovanni Climaco e di s. Bonaventura, ma anche dei mistici tedeschi e fiamminghi come Taulero, Suso, Ruusbroec... Il risultato, da un punto di vista del rigore metodologico, appare spesso eclettico e compilatorio, da " ultimo scolastico ", come qualcuno designò D. con fondamento.

Resta alla base delle diffuse considerazioni spirituali di D. un approccio al fenomeno mistico quale conoscenza negativa e passiva di Dio, raggiunta nella contemplazione. Il concetto cosciente di Dio, percepito in un amore intenso, anche affettivo, resta frutto di un dono totale e gratuito dall'alto: quello della saggezza come istinto cristiano. Quando l'intelligenza è dominata dalla carità soprannaturale, essa assapora nelle cose la verità con un istinto superiore, fruisce di un accesso connaturale all'essere e all'agire della Trinità. Questo è l'" istinto " del cristiano. Il dono di sapienza è la mistica in senso stretto, capace di produrre stati estatici, che D. confessa di avere avuto.

Nel De contemplatione, più che in altri scritti, D. fonde, e talora frammette, la teologia negativa dionisiana con la nozione tomistica del dono della sapienza. La contemplazione " affermativa ", che privilegia il momento psicologico ed ascetico come disposizione inerente al percorso contemplativo, è presentata insieme a quella " negativa " di tradizione più antica, e permette a D. di sostenere che la contemplazione è realizzabile in ciascuno degli stadi o gradi " classici " di perfezione. Ciò spiega come egli indichi una via semplice, generale, liturgica e biblica alla contemplazione. " In ultima analisi, il modo più fruttuoso di salmodiare consiste nel prestare attenzione al senso dei salmi ". Ogni cristiano, insegna D. all'alba della nuova cultura umanistica e laica occidentale, è chiamato alla perfezione contemplativa nel suo stato di vita, purché affini il proprio " istinto " soprannaturale. " L'anima può unirsi ed aderire a Dio senza intermediari ed immagini, nuda e pura, per quel tanto che la fragilità umana lo permette ".

Bibl. Opere: Dionysii Cartusiani, Doctoris ecstatici Vita simul et Operum eius fidelissimus catalogus, Coloniae Agrippinae 1532; Doctoris ecstatici D. Dionysii Cartusiani Opera omnia in unum corpus digesta, 44 voll., Montreuil-sur-Mer, Tournais 1902-1913; Parkminster 1935; Dionysii Cartusiensis, Opera selecta, I, Prolegomena. Bibliotheca manuscripta, IA-IB, Studia bibliographica, auctore K. Emery Jr., 2 voll., Turnholti 1991. Studi: E. Ancilli - D. De Pablo Maroto, s.v., in DES I, 792-793; A. Combes, s.v., in EC IV, 1671-1674; P.A. Nissen, s.v., in WMy, 116-118; P. Pourrat, Denys de Rickel, in Cath III, 627-628; A. Stoelen, Recherches récentes sur Denys le Chartreux, in RAM 29 (1953), 250-258; Id., s.v., in DSAM III, 430-449; Un Charteux, s.v., in DTC IV, 436-448.

V. Peri

DIREZIONE SPIRITUALE. (inizio)

A. Aspetti psico-pedagogici

Premessa. Nel cammino verso Dio concorrono fattori sia spirituali sia umani. L'accompagnamento spirituale si propone di aprire sempre più l'animo all'azione dello Spirito Santo e di attivare le risorse psicologiche per investirle in un impegno cosciente e motivato verso un cammino di maturazione umana e spirituale di tutta la persona. Le riflessioni che verranno qui esposte si muovono prevalentemente sul piano psicologico, quale premessa indispensabile per introdurre in modo coerente ed efficace i fattori soprannaturali: la fede, la grazia, i valori, la preghiera, i mezzi proposti dall' ascetica, ecc., che costituiscono il dinamismo più valido e necessario nell'impegno di conversione e di perfezione.

I. Direzione spirituale e psicologia. La d. si configura come l'incontro tra chi, desiderando fare un cammino di conversione interiore, si rivolge ad una persona che ha la capacità e la disponibilità di accompagnarlo. Come in ogni rapporto interpersonale, anche nella d. si mettono in movimento varie dinamiche che la psicologia aiuta a diagnosticare e ad orientare verso un processo di conversione o di perfezione. Una conoscenza di base delle scienze umane e dei metodi che esse propongono per rendere efficaci i rapporti interpersonali risulta sempre più necessaria nell'ambito pastorale. Le mutate situazioni familiari e sociali, la crisi del " sacro ", la secolarizzazione e il conseguente disorientamento nella scala dei valori, il turbamento nei rapporti tra persone di età diversa, l'accresciuta fragilità psichica dei giovani costituiscono ostacoli rilevanti per una corretta comprensione della sensibilità e degli atteggiamenti che molti assumono nei confronti dei valori e dei doveri religiosi e morali. Altra situazione che rende sempre più urgente un'adeguata preparazione psicologica per gli operatori della pastorale individuale, della quale la d. è l'espressione più qualificata, è il livello di formazione teorico-pratica richiesta a quanti operano nel campo sociale e sanitario (consulenti, assistenti sociali, psicologi, terapeuti, psichiatri, medici). Il fenomeno della " d. laica ", la cui diffusione si può valutare dal numero rilevante di coloro che si rivolgono allo psicologo per risolvere problemi religiosi, morali o vocazionali, sembra determinato dalla delusione che molti hanno vissuto con direttori spirituali impreparati ad accogliere e a comprendere le persone.

II. Incontro di aiuto spirituale. Le scienze dell'educazione accentuano sempre più la necessità del rapporto interpersonale a tu per tu o in piccoli gruppi per promuovere il processo di crescita e di maturazione. Chi desidera fare un cammino verso la conversione o verso la perfezione, sente il bisogno di incontrare qualcuno disposto ad accoglierlo e capace di ascoltarlo, di comprenderlo e di promuovere un processo di miglioramento interiore. Partendo da questo concetto, l'atto di " aiutare " non va inteso come un dare all'altro qualcosa di nostro (consigli, proibizioni, spiegazioni, giudizi, soluzioni già fatte, ecc.), ma consiste nel facilitare in lui una chiara presa di coscienza della situazione presente e nello stimolare i dinamismi interiori necessari per operare il cambiamento. Questa modalità di aiutare, che pone la persona come attore principale del proprio cammino verso la maturità, si traduce più coerentemente con il termine " accompagnamento " che con quello di " direzione ". Si tratta di un metodo che s'ispira alla " terapia centrata-sulla-persona " inaugurata dallo psicologo americano C. Rogers.

III. Attese in chi chiede aiuto. Anzitutto, ognuno desidera essere accettato così come è e non sulla base di valutazioni o di pregiudizi a carico della persona. Ognuno ha diritto di essere accettato per il semplice fatto di essere persona, anche se segnata da fragilità o da incoerenze. La mentalità moralistica porta facilmente a classificare gli uomini in buoni e cattivi, inducendo così un atteggiamento di approvazione o di condanna, di accettazione o di rifiuto. Altro desiderio di chi chiede aiuto è quello di venire compreso a fondo. L'unica via per giungere ad una vera comprensione è quella di tener conto della percezione che l'individuo ha di se stesso. Quanto più si riesce ad entrare nel mondo percettivo dell'altro, a vedere la situazione come la vede lui e a cogliere il significato che egli stesso vi annette, tanto più sicuramente si giunge a comprenderlo a fondo e dall'interno. E questa la " comprensione empatica " di cui Rogers parla presentando il suo metodo. Ognuno desidera sentirsi libero di esprimersi e di prendere decisioni con senso di responsabilità personale. Tale libertà viene promossa stimolando l'individuo a parlare liberamente di sé, a valutare il proprio operato, a individuare le vie da percorrere e a decidere sul da farsi. L'accompagnatore favorisce la presa di coscienza della situazione, attira l'attenzione su eventuali rischi e propone vie alternative per giungere ad una decisione ponderata e libera. La promozione di una sana libertà e del senso di responsabilità costituisce una valida risposta al bisogno di dare all'esistenza un significato coerente coi valori nei quali l'individuo crede. Questa è una delle attese più profonde. Dalla risposta che ad essa viene data, dipende fondamentalmente l'efficacia dell'incontro di aiuto.

IV. Qualità e disposizioni dell'accompagnatore. Chi accetta di accompagnare qualcuno nel cammino verso la maturità e la libertà interiore, deve ispirarsi ad una concezione dell'uomo positiva e aperta al trascendente. E inoltre necessario che egli conosca e accetti se stesso e che abbia raggiunto un normale livello di maturità affettiva, in modo da vivere con atteggiamento eterocentrico la relazione di aiuto e da impegnarsi con libertà e dedizione al bene della persona. Oltre a queste doti, il padre spirituale ha bisogno di coltivare tre disposizioni che, nel metodo rogersiano, vengono considerate fondamentali e indispensabili: l'autenticità, l'accettazione incondizionata e l'empatia.

a. E autentico chi ha la libertà di prendere contatto col proprio mondo interiore, di accettarlo nei tratti sia positivi che negativi e di presentarsi agli altri a volto scoperto, evitando di nascondersi dietro qualche maschera.

b. L'accettazione incondizionata, o considerazione positiva, o rispetto nei confronti della persona, si basa sulla concezione positiva che l'accompagnatore dovrebbe avere dell'uomo in genere. La formazione moralistica, l'atteggiamento egocentrico e il ruolo di maestro e di giudice attribuito al padre spirituale, rendono molto difficile un'accoglienza animata da sincero rispetto per l'individuo e da convinta fiducia nelle risorse presenti in ogni persona. Tale accoglienza produce significativi vantaggi all'individuo, quali: l'incoraggiamento ad entrare nel proprio mondo interiore per conoscerlo e per accettarlo; l'avvio di un processo di miglioramento nell'immagine di sé; il superamento di eventuali stati di scoraggiamento, di insicurezza o di ansia; la graduale conquista di una sana autonomia personale; la forza per superare i momenti critici nel cammino verso la perfezione.

c. Per giungere a comprendere a livello empatico una persona è necessario immergersi nel suo mondo soggettivo e partecipare alla sua esperienza nella misura in cui la comunicazione verbale e non verbale lo permette. Si può dire che l'empatia richiede di mettersi nei panni dell'altro e di vedere la realtà come la vede lui, con i suoi occhi.

Sono vari gli ostacoli che il padre spirituale incontra nell'impegno per entrare nel mondo percettivo dell'interlocutore, quali: l'egocentrismo, la direttività e la tendenza a giudicare.

Se il padre spirituale vive l'incontro con disposizione egocentrica, qualsiasi comunicazione risveglia in lui ricordi, confronti, risonanze emotive che catalizzano la sua attenzione e sfociano in risposte condizionate da tali reazioni soggettive, anziché essere mirate a chiarire lo stato d'animo dell'interlocutore. Il fenomeno dell'ascolto egocentrico viene indicato con l'immagine del " terzo orecchio " col quale il padre spirituale ascolterebbe le proprie reazioni, mentre presterebbe un'attenzione superficiale e frammentaria alla voce dell'interlocutore. Il modo direttivo di condurre il colloquio di aiuto porta l'accompagnatore a prendere in mano la conduzione del colloquio, trascurando le esigenze, la sensibilità e le disposizioni dell'individuo. L'atteggiamento direttivo si manifesta con tipi di intervento, quali: porre domande che orientano il discorso; esprimere il proprio giudizio su quanto esposto dall'interlocutore; proporre (o imporre) linee di soluzione partendo dalla propria mentalità; deviare un discorso che il padre spirituale sente come poco interessante o che potrebbe creare in lui disagio e difficoltà; tentare di consolare o di incoraggiare ricorrendo a frasi convenzionali e non convinte; riportare fatti simili a quello esposto dall'individuo. La tendenza a giudicare rivela il criterio moralistico che porta a dividere le persone in due categorie: quelle buone e quelle cattive. Si cerca di legittimare il giudizio proclamando di voler " condannare il peccato, non il peccatore ", ma è normale che la persona senta che quella condanna colpisce direttamente lei, peggiorando ulteriormente l'immagine negativa di sé. A livello psicologico si possono ricordare i benefici effetti che scaturiscono da un'accettazione benevola e da un ascolto non giudicante.

V. Come condurre l'incontro. La conduzione di un colloquio di aiuto è contemporaneamente scienza e arte in quanto presuppone sia la conoscenza di principi di psicologia e di metodologia delle relazioni interpersonali, sia particolari disposizioni e sensibilità congenite ma perfezionabili con l'esercizio. I principi psicologici qui presentati sono desunti dalla psicologia umanistico-esistenziale, quelli metodologici si ispirano alla prassi della " terapia centrata-sulla-persona ". I momenti che scandiscono ogni incontro ispirato a questo metodo sono: ascoltare, rispondere, responsabilizzare e stimolare all'impegno concreto.

Questo discorso sul piano psicologico apre necessariamente ad una visione diversa, che è quella prettamente spirituale e che si inserisce nella lunga tradizione ecclesiale di guida per la realizzazione piena del progetto salvifico di Dio nelle vie dello Spirito.

Bibl. Aa.Vv., Direzione spirituale e orientamento vocazionale, Milano 1992; Aa.Vv., Direzione spirituale, Milano 1996; W.A. Barry - W.J. Connolly, Pratica della direzione spirituale, Milano 1990; Ch.-A. Bernard, L'aiuto spirituale personale, Roma 1978; A. Brusco - S. Marinelli, Iniziazione al dialogo e alla relazione di aiuto, 2 voll., Verona 1992 e 1994; B. Giordani, Il colloquio psicologico nella direzione spirituale, Roma 1992; A. Gonzáles-Alorda, Acompañando el crecimiento espiritual, Lima 19862; A. Mercatali - B. Giordani, La direzione spirituale come incontro di aiuto, Brescia-Roma 19872; G. Rodríguez Melgarejo, Formación y dirección espiritual, Bogotà 1986; J.P. Schaller, Direction spirituelle et temps modernes, Paris 1978.

B. Giordani

B. Aspetti spirituali

I. La nozione. D. è un'espressione, diventata comune nella Chiesa, per indicare l'aiuto offerto da una guida sperimentata a un fedele in cammino verso la pienezza della vita in Cristo e nello Spirito.

Non si tratta della cura pastorale estesa a tutta la comunità cristiana, ma di quella di uno dei suoi membri chiamato, insieme agli altri, ad essere perfetto " come è perfetto il Padre celeste " (Mt 5,48), e tuttavia con un cammino di grazia e libertà unico, irripetibile, incomunicabile, rispondente a quel rapporto d'amore personale che ogni figlio della famiglia di Dio ha con il Padre.

II. La prassi storica. La storia registra la pratica del ricorso al consiglio di guide sapienti ed esperte anche tra i pagani o nelle religioni non cristiane. La d. si caratterizza, però, come prassi specificamente cristiana, espressione e frutto della dottrina e dell'esperienza della comunità dei credenti in Cristo. Pur essendo rivolta all'individuo, la pratica della d. è e deve essere animata dallo spirito della comunione ecclesiale, sia sul piano immediato, come sostegno di un fratello a un altro fratello, sia sul piano storico, in quanto un vero direttore spirituale attinge la sua dottrina da quel patrimonio inestimabile di esperienza di santità creato dallo Spirito lungo tutto il corso della vita della Chiesa.

Non si può parlare, in senso stretto, di una fondazione biblica della d.: essa, come tante altre pratiche, nasce e si afferma nella Chiesa, dove il seme evangelico cresce, sviluppando e manifestando tutte le sue virtualità.

Il bisogno di aprire il cuore a un fratello (o anche a una sorella) esperto nelle vie di Dio per riceverne luce e conforto si fa sentire in maniera rilevante nell'antico monachesimo e specificamente in quello egiziano. I monaci non si ritenevano persone privilegiate, ma semplici cristiani che si ritiravano dal mondo per trovare, nella solitudine, la via più sicura della salvezza, intesa come guarigione dalle infermità causate dal peccato e pienezza di vita nello Spirito. Ed è nella solitudine che il monaco scopre le profondità dell' anima e ingaggia la dura lotta contro i pensieri (logismoi) passionali suggeriti, si crede, dai demoni.

Ciò di cui si ha più timore è il pericolo di essere ingannati dalle astuzie degli spiriti maligni, dalle illusioni che suscitano nelle anime per farle cadere. Si avverte, allora, il grande valore del discernimento, della capacità cioè di riconoscere da quale spirito vengono i pensieri, i desideri del cuore. Secondo il padre del monachesimo, Antonio, " abbiamo bisogno di molta preghiera e ascesi per poter, mediante il carisma del discernimento degli spiriti, conoscere ciò che li riguarda... Numerose sono, infatti, le loro astuzie e le loro manovre insidiose ".1

Un grado eminente di discernimento (diàkrisis) diventa segno di grande maturità spirituale e il monaco che, dopo un lungo cammino, arriva a possederlo viene ricercato come Padre (abba o apa) spirituale da coloro che desiderano acquistare la stessa capacità di scoprire le insidie del nemico e ascoltare la voce dello Spirito di Dio.

Dal monachesimo la pratica della d. si diffonde nella Chiesa e si estende a tutte le categorie di cristiani aperti alla perfezione, assumendo caratteristiche dettate e collaudate dall'esperienza, diventando un'arte e un mezzo tra i più preziosi e necessari.

Sulla necessità, sia pure relativa, della d. non ci sono dubbi. s. Bernardo scrive: " Chi elegge se stesso come maestro, si fa discepolo di uno stolto ".2 E s. Francesco di Sales: " Mia Filotea, volete coscientemente incamminavi verso la perfezione? Cercate qualche buona persona che vi guidi e vi conduca; è questo il consiglio dei consigli ".3

III. Il direttore spirituale e le persone dirette. A un buon padre spirituale si richiede dottrina solida, santità o, almeno, sincera aspirazione alla santità, esperienza, carità paterna, spirito di discernimento. Per chi cerca una guida sono necessarie sincerità, fiducia, docilità (da non confondere con l'obbedienza religiosa).

Nell'esercizio della d. si deve ricordare che la missione del direttore " non è quella di un pioniere; egli deve piuttosto camminare dietro e guardare Dio che sta dinanzi ".4 La guida principale resta lo Spirito Santo: il direttore accompagna le anime per aiutarle a conoscere se stesse e il disegno di Dio su di loro, senza imporre il suo modo di agire o di vedere le cose, per spronarle a camminare con libertà ed equilibrato impegno, per sostenerle e incoraggiarle soprattutto nei periodi di prova.

E naturale che il modo di dirigere le anime debba corrispondere al loro grado di maturità spirituale. Per i principianti c'è bisogno di una d. più frequente e particolareggiata: essi si trovano ad avanzare in regioni totalmente sconosciute, dove è facile sentirsi smarriti e isolati o essere vittime di indiscreti fervori oppure di scoraggiamento e di sfiducia. Per chi è progredito abbastanza, gli incontri con il direttore dovrebbero essere meno frequenti e più brevi, poiché si suppone un'acquisita capacità di discernimento e di saggezza spirituale.

IV. Nell'esperienza mistica. Che dire di coloro che sono introdotti dalla grazia nelle vie sublimi dell' esperienza mistica? Sembrerebbe che queste anime, giunte a un livello molto elevato di vita spirituale, non abbiano più bisogno di una guida. Invece non è così. Anzi, proprio il fatto di addentrarsi in un mondo sconosciuto alla comune esperienza, in un mondo fatto di luce abbagliante e di tenebre spaventose, rende i mistici particolarmente bisognosi dell'autorità e del conforto del direttore spirituale.

Il ven. F.M.P. Libermann afferma: " Le persone che sono in uno stato straordinario hanno bisogno più delle altre di essere guidate e non devono mai fidarsi dei propri lumi. Se non diffidano di se stesse, si confondono in ogni circostanza, perché sono pochi i casi nei quali Dio si compiace di guidarle lui stesso senza l'aiuto di un direttore ".5 Abbiamo una conferma autorevole nella lettera di Leone XIII al card. Gibbons: " Coloro che cercano una maggiore perfezione, proprio per il fatto che entrano in un cammino dalla maggior parte non sperimentato, sono più esposti all'errore, perciò hanno più bisogno degli altri di un maestro e di una guida ".6

Proprio a queste altitudini diventa particolarmente importante la scelta di una guida capace. Ce lo assicura l'autorità di s. Giovanni della Croce: " L'anima tenga presente che in questa faccenda (l'unione con Dio e la sostanziale trasformazione di tutte le potenze dell'anima) è Dio il principale agente e la guida del cieco che la deve condurre per mano dove ella non saprebbe andare, cioè nelle cose soprannaturali... L'impedimento le può venire se si lascia guidare e condurre da un altro cieco. E i ciechi che la potrebbero sviare dalla retta strada sono tre, cioè il direttore spirituale, il demonio o essa stessa ".7 L'anima dovrà, quindi, badare bene a chi si affida: " Per questo cammino, almeno per il tratto più elevato di esso ed anche per quello di mezzo, difficilmente si troverà una guida fornita di tutte le qualità che si richiedono; perché, oltre ad essere dotta e discreta, è necessario che sia esperta. Benché, infatti, per dirigere lo spirito il fondamento siano la scienza e la discrezione, se non ha esperienza di ciò che è puro e vero spirito, non indovinerà a incamminarvi l'anima quando Dio a essa lo concede anzi neppure saprà capirlo ".8

In modo particolare nell'esperienza mistica la d. si renderà necessaria per guidare l'anima nei progressivi stati di orazione, per sostenerla durante le notti purificatrici, per giudicare eventuali fenomeni straordinari.

La storia della spiritualità insegna quanta parte abbiano avuto nella vita dei mistici i direttori spirituali. Basti pensare a s. Teresa d'Avila, a s. Margherita Maria Alacoque, a s. Gemma Galgani. Tutto ciò dimostra la verità delle parole di Leone XIII: " E norma generale che Dio, provvidentissimo, come ha voluto che gli uomini, il più delle volte, siano salvati per mezzo di altri uomini così ha stabilito che siano guidati per mezzo di altri uomini coloro che chiama a un più alto grado di santità ".9

Note: 1 S. Atanasio, Vita di Antonio, 2; 2 Ep. 87,7; 3 Introduction à la vie dévote, 1,4; 4 F.W. Faber, Il progresso dell'anima, c.18; 5 Écrits spirituels, Paris 1891, 356; 6 Testem benevolentiae; 7 Fiamma viva d'amore 3,29; 8 Ibid., 30; 9 Testem benevolentiae.

Bibl. Aa.Vv., s.v., in DSAM III, 1008-1142; E. Ancilli (cura di), Mistagogia e direzione spirituale, Milano 1985; G. Arledler, La direzione spirituale. Origini, natura, prospettive, Milano 1997; F.W. Faber, Il progresso dell'anima nella vita spirituale, Torino 1926; R. Frattallone, La direzione spirituale, Torino 1996; I. Hausherr, Direction spirituelle en Orient autrefois, Roma 1955; A. Louf, Generati dallo Spirito, Magnano (BI) 1995; R. Plus, La direzione spirituale. Natura, necessità, metodo, Torino 1944; J. Stru_, s.v., in DES I, 793-806; J. Sudbrack, Direzione spirituale. La questione del maestro, dell'accompagnatore spirituale e dello Spirito di Dio, Roma 1985.

U. Occhialini

DISCERNIMENTO DEGLI SPIRITI. (inizio)

I. La nozione. E la scrutazione e il giudizio circa i moventi delle nostre azioni. Poiché gli enti che possono influire o causare tali moventi sono di natura spirituale, quali l' anima umana, Dio, il demonio, si usa il termine " spirito ".

Nelle nostre azioni, come nei nostri pensieri e sentimenti, influiscono più fattori; le nostre tendenze, l'inconscio, le abitudini e altro, che procedono dalla nostra natura. Possono influire, altresì, le illuminazioni e gli aiuti della grazia divina, ma anche gli influssi deleteri e maligni dello spirito del male. Per questo motivo, occorre adoperare criteri per distinguere da quale spirito provengano le mozioni e le azioni.

A seconda del modo in cui si arriva a giudicare si distingue: d. infuso e d. acquisito. Il d. infuso consiste in una luce particolare che dona lo Spirito Santo. Il d. acquisito consiste in un giudizio retto in base alle regole e ai precetti della fede. Nel d. infuso si ha la certezza assoluta; in quello acquisito la certezza morale e prudenziale.

Oggetto del d. sono i movimenti come le sollecitazioni, le inclinazioni, le attrattive, i molteplici richiami, che si producono nella persona per accaparrarsi e determinare la sua volontà prima che si decida.

L'uomo ha sempre dovuto praticare il d., anche se purtroppo spesso, non si è attenuto al giudizio saggio. L'AT ci offre molti casi di tale d. Nel NT Gesù è oggetto di discernimento: positivo nei semplici e retti; negativo nei corrotti e male intenzionati.

II. Nella direzione spirituale. Il d. per il direttore spirituale non di rado può risultare un compito difficile, specialmente quando si tratta di dirigere anime che hanno particolari esperienze. Si richiede al direttore spirituale, oltre, una ricca vita interiore, un'approfondita cognizione dell'animo umano alla luce della teologia spirituale e della psicologia.

Riguardo agli individui che percorrono un cammino spirituale fuori dell'ordinario, se non vi sono fatti straordinari, basterà che si ci assicuri della rettitudine d'intenzione e della conformità delle opere alle norme e direttive della Chiesa. Le cose si complicano quando una persona afferma di sperimentare fatti che ritiene preternaturali, come visioni sensitive o immaginative, rivelazioni.

Le visioni sensitive (si vede con i sensi) e quelle immaginative (si vede solo con l'immaginazione) possono avere origine soprannaturale; ma, secondo l'esperienza e gli insegnamenti dei grandi mistici, sono molto rare. Quasi sempre si tratta di illusioni o allucinazioni naturali o di inganni diabolici.

S. Giovanni della Croce scrive: " L'uomo deve assolutamente rifuggirle ". S. Teresa, pur essendo sostanzialmente d'accordo con s. Giovanni della Croce, è meno categorica. E s. Paolo della Croce suggerisce: "Queste visioni, elevazioni, ecc., più sono frequenti, più sono sospette".

Tuttavia, si possono riconoscere quelle che vengono dal Signore. E difficile, ma possibile, se si osservano alcune norme: l'attento esame del significato della visione, le doti psichiche e morali del visionario e i fatti che l'accompagnano.

Meno complessa è l'indagine sull'autenticità delle visioni intellettive. Si riconoscono specialmente dalla natura e dal contenuto delle medesime.

Molta attenzione si dovrà usare per distinguere le notti dello spirito di natura mistica da alcune forme di depressione naturale.

III. Nella vita spirituale. Il d. aiuta la persona impegnata nelle vie dello Spirito a scorgere gli inviti di Dio ed aiuta, inoltre, a proteggerla dalle sollecitazioni del demonio come anche dalla sua natura corrotta (A. Chollet). In ultima analisi, aiuta a conoscere la volontà salvifica di Dio per poi compierla nel quotidiano.

Bibl. Aa.Vv., s.v., in DSAM III, 1223-1291; Aa.Vv., Il discernimento dello Spirito e degli spiriti, in Con 9 (1978), numero monografico; A. Barruffo, Discernimento, in NDS, 419-430; Ch.-A. Bernard, Teologia spirituale, Cinisello Balsamo (MI) 1989; A. Cappelletti, s.v., in DES I, 806-810; A. Chollet, s.v., in DTC IV, 1401; Giovanna della Croce, Il discernimento dono dello Spirito, Bologna 1986; A. Gentili, Il discernimento spirituale comunitario, in Aa.Vv., Mistagogia e direzione spirituale, Milano 1985, 329-343; V. Marcozzi, Ascesi e psiche, Brescia 1963; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 1010-1021; M. Ruiz Jurado, Il discernimento spirituale, Cinisello Balsamo (MI) 1996; G.B. Scaramelli, Il discernimento degli spiriti, Venezia 1753.

V. Marcozzi

DISCREZIONE. (inizio)

I. Il termine d. indica l'atteggiamento di riguardo nei confronti degli altri, ossia la capacità dell'uomo maturo ed equilibrato di astenersi da ogni forma di morbosa curiosità e di inopportuna invadenza.

Nel linguaggio cristiano d. indica due facoltà morali tra loro interagenti: discernimento e misura. Discernimento come attitudine a discernere il bene dal male, scelta ed attuazione di ciò che davvero è bene, " pressante ricerca della verità " (VS 61) cioè ricerca della volontà di Dio accolta con cordiale adesione perché essa è il vero bene perdell'uomo (cf Eb 5,14). Misura come equilibrio e buon senso nel mantenersi nei giusti limiti, come tatto e riservatezza nel trattare gli altri, come capacità di dosare - anche nel fare il bene - le realtà e le forze, senza sconti e senza eccessi.

Così intesa, la d. rimanda alla virtù della prudenza: discretio quae ad prudentiam pertinet.1

La d. alla luce della Sapienza divina (cf Prv 8,14; 1 Cor 2,6-7) si esplicita nel vivere in autentica libertà di cuore senza attaccamento smodato alle cose, in pazienza e forza d'animo nelle avversità senza pessimismo e durezza, controllando se stessi senza annullare la propria spontaneità.

La d. richiede armonia di tutte le forze (fisiche, psichiche, spirituali) dell'uomo e integrazione di esse nel progetto di santità di ciascuno (cf LG 40): essa è virtù insieme naturale e soprannaturale, acquisita attraverso lo sforzo umano e il dono della grazia di Dio.

Imparare la d. attraverso la pratica costante di atti di rispetto per gli altri e di vigile equilibrio di sé può rappresentare per i discepoli del Signore un vero " culto " (cf Rm 12,1-2) da rendere a Dio che, nel manifestare la sua volontà, si mostra come Colui che si possiede totalmente tanto da farsi dono per gli uomini (cf Mt 1,23), nel rispetto reale per la loro persona (cf Lc 11,28-30).

II. D. come virtù. La d. è, dunque, un atteggiamento fatto di attenta vigilanza, nel continuo discernimento su fatti e su parole, un discernimento possibile alla luce del regno di Dio che urge con il suo stile di verità e di pace, di dono di sé, quindi di pienezza di vita.

Come virtù, la d. si alimenta nell' umiltà di chi sa stare al proprio posto senza pigrizie e senza pretese, senza fughe e senza rigidità, nel riconoscimento sincero dei propri limiti e delle proprie possibilità. Inoltre, attinge a quel " santo timor di Dio " che non pretende di dettare condizioni a Dio chiedendogli cose e risposte lontane dalla sua logica e che, ad un tempo, non invade l'intimità degli altri valicandone il limite imposto da Dio stesso.

La d. porta ad avere un senso di misura in tutto: nel corpo per non essere smodato, nel pensiero per non correre il rischio di " giudizi senza appello ", nelle parole per non banalizzare la parola o servirsi di essa per ferire, nelle opere per non mascherare il proprio egoismo con una facciata di perbenismo, nella fede per non indagare presuntuosamente nelle vie di Dio quasi a costringere l'azione ai propri interessi.

Lo stesso " spogliamento " di Gesù assume la forma della d.: la d. nella fede sta nella fiducia obbediente di chi si abbandona con libera volontà nelle mani di Dio provvidente e buono (cf Lc 12,22-32); la d. nei rapporti umani è la capacità di saper favorire la crescita altrui, quindi di saper amare in modo giusto (cf 1 Cor 13,1-7).

La persona discreta conosce il valore di quel " silenzio presente " che sa farsi vicinanza, rispetto, intuizione e sintonia con il cuore altrui, compassione e accettazione, perdono e compagnia: se vuoi capire una persona " non ascoltare ciò che dice, ma ciò che non dice " (K. Gibran).

In fondo la d. è l'arte di saper comprendere per poter amare eo di saper amare per poter comprendere. Chi è discreto sa prevenire, sa comprendere.

La d. si presenta, così, come una forma concreta e molto urgente di quella imitazione di Cristo, " mite ed umile di cuore " (Mt 11,29) cui tende il cristiano per giungere alla perfezione della carità, cioè all'incontro con il Dio vivente sperimentato nel quotidiano.

Note: 1 Tommaso d'Aquino, STh, In III Sent. 33,2.

Bibl. R. Assagioli, Armonia della vita, Roma 1977; A. Cabassut, s.v., in DSAM III, 1311-1330; D. Milella, s.v., in DES I, 814; A. Storr, L'integrazione della personalità, Roma 1969; Tommaso d'Aquino, STh II-II, qq. 47-56.

G. Giuliano

 

DISTACCO. (inizio)

I. Definizione. E l'atteggiamento interiore di uno spirito libero da qualsiasi legame equivoco ed egoistico verso persone e cose. Anche se in senso più ampio esso può coincidere, e di fatto coincide, con altri termini come: mortificazione, rinuncia, spogliamento, abnegazione, ecc., non va confuso, da una parte, né con l'insensibilità e la durezza, e dall'altra, con l'egoistica indifferenza verso tutto e verso tutti oppure con il disprezzo delle cose create, oppure con la falsa tranquillità di chi si gode beatamente la propria pace e il proprio benessere. Il suo significato specifico è precisamente questo: libertà interiore di fronte alle persone e alle cose. Ma cosa significa e comporta questa libertà e quali atteggiamenti e comportamenti il cristiano deve assumere?

II. Alcuni punti fermi. Occorre partire da alcuni punti fermi per capire la portata e il contenuto del d. ai fini di evitare errori di eccesso opposto, sempre possibili. a. Innanzitutto, la bontà sostanziale della creazione che rimane tale anche dopo il peccato. " Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona " (Gn 1,31). Prendere sul serio la creazione. Il mondo creato è buono in tutti i suoi aspetti e si sottrae a qualsiasi arbitraria valutazione umana, anzi è il fondamento e il criterio di ogni valutazione, come pure di qualsiasi realizzazione. Tutto il mondo creato, in quanto appunto creazione, è un insieme che forma un tutto a capo del quale vi è l'uomo e che deve essere ricondotto a Dio dall'uomo. " Tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie, perché esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera " (1Tim 4,4). b. La realtà del peccato: " L'uomo tentato dal maligno, fin dall'inizio della storia abusò della sua libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio. Rifiutando di riconoscere Dio quale suo principio, l'uomo ha infranto il debito ordine in rapporto al suo fine ultimo, e al tempo stesso tutto il suo orientamento sia verso se stesso, sia verso gli altri uomini e verso tutte le cose create " (GS 13). Il quadro delle relazioni intime tra l'uomo e il cosmo è tragicamente turbato dalla realtà del peccato. E turbato l'orientamento dell'uomo verso le cose, appunto perché è scossa la relazione, la finalizzazione dell'uomo a Dio. c. Il fatto dell' Incarnazione: " Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi " (Gv 1,14). Dal momento che Dio, in Gesù Cristo, ha scelto di assumere tutta la vicenda dell'uomo per farne il luogo della salvezza, la realtà mondana è diventata la via attraverso cui egli ci visita, ci parla e ci salva. E la logica dell'Incarnazione. Questa scelta di Dio impone di riconsiderare tutta la realtà mondana, con i suoi valori, le sue contraddizioni, le sue speranze... come una realtà ormai salvata. d. Cieli nuovi e terra nuova: salvati, nella speranza. (cf Rm 8,24). Incorporato al Cristo, morto e risuscitato nel Cristo, fatto tempio dello Spirito Santo, l'uomo è un essere salvato. Nello stesso tempo, cammina per realizzare pienamente la sua salvezza che si manifesterà completamente al compimento dei cieli nuovi e della nuova terra. Il cristiano partecipa dell' eternità, ma la sua vita si svolge nel tempo. E questa tensione dialettico-esistenziale tra l'eterno e il temporale è il tempo del cristiano: tempo di salvezza già presente ma ancora in via di realizzazione. Tempo di speranza.

III. Comportamenti. E su questi punti fermi che vanno compresi il significato e il contenuto del d. ed è sempre da essi che deve nascere una conseguente cultura dei comportamenti, ancorata profondamente ad una visione cristiana del mondo e sostenuta da una robusta e profonda spiritualità.

a. Visione cristiana del mondo: " Abitano nella propria patria, ma come stranieri, partecipano a tutto come cittadini, e tutto sopportano come forestieri; ogni terra straniera è loro patria e ogni patria è terra straniera " (Lettera a Diogneto). La " riserva escatologica " della Chiesa e del cristiano non sopporta adattamenti e compromessi mondani, esige la domanda e la sollecitazione costante verso nuovi traguardi e nuove mete. Prendere coscienza intellettualmente e soprattutto nei comportamenti concreti che non c'è una cristianità da ricercare, un'altra patria terrena da attendere o da costruire, ma quella in cui si trova a vivere è la sua patria e che in essa il cristiano deve operare con il massimo di impegno, per il suo miglioramento, per la sua crescita e al tempo stesso con il massimo di d. interiore e di libertà.

b. Spiritualità del " conflitto ": non è facile vivere un atteggiamento di impegno e di d. insieme, di pieno coinvolgimento nella realtà, qualunque essa sia, e al tempo stesso di interiore libertà cristiana. Questo "dualismo" cristiano di impegno e di d., di incarnazione e di trascendenza - vissuto come esperienza esistenziale oltre che come dato teologico - va superato in una sintesi che insieme dia una qualche garanzia tra le tentazioni opposte della fuga dal mondo o della caduta nel pragmatismo. E questo è possibile solo a livello di una profonda vita interiore. Assumere il " conflitto " come elemento essenziale del bagaglio culturale e spirituale del cristiano significa allora vivere in una continua ricerca, con lacerazioni e tensioni, che consenta di credere nel valore delle cose e al tempo stesso di relativizzarle. E questo il senso ultimo del d. come esperienza esistenziale spirituale.

Bibl. G.E. Ganss, s.v., in Aa.Vv., The New Dictionary of Catholic Spirituality, Collegeville (Minnesota) 1993, 269-270; G. Jacquement, s.v., in Cath II, 688-691; B. Marchetti Salvatori, s.v., in DES I, 815; R. Oechslin - G. Bardy - H. Martin, Depoullement, in DSAM III, 455-502.

B. Zomparelli

DIVINAZIONE. (inizio)

I. Il termine. La d. è la predizione di fatti futuri. Tale termine deriva dal fatto che, non distinguendosi il modo di predirli né la natura dei fatti futuri, tale cognizione non può venire che da Dio. In realtà, si devono, però, distinguere anche altre forme di d., che non vengono da Dio.

II. Divinazione come profezia. Soltanto una forma di predizione viene da Dio: la profezia in senso stretto. Essa è la predizione certa e determinata, ossia nei particolari, di avvenimenti futuri e liberi. Così intesa, la profezia è propria e solo di Dio. Infatti, è impossibile che una mente finita, qual è la nostra, per quanto illuminata, possa conoscere con certezza un fatto che ancora non esiste, né in sé, perché futuro, né nella sua causa, perché libera, la quale quindi può agire e può non agire e agire in un modo, piuttosto che in un altro. Dio, eterno e onnisciente, può conoscere anche il futuro libero. " Dio vede l'infinita moltitudine dei possibili nella sua essenza ".1

L'uomo può fare al più previsioni certe, fondandosi su fatti o fenomeni necessitati. E queste non sono profezie in senso stretto. Ci si deve perciò guardare da coloro che pretendono di conoscere con certezza il futuro libero: gli indovini per mestiere, gli astrologi, i chiromanti, i fattucchieri, i praticanti la magia.

Il noto parapsicologo Amadou 2 osserva che tutte le " predizioni " paranormali sono " previsioni, che si fondano su una maggiore conoscenza di se stessi, delle proprie tendenze o di quelle degli altri, non solo mediante la conoscenza normale, ma anche attraverso quella telepatica ".3

Nella vita cristiana o nell'esperienza mistica bisogna evitare qualsiasi desiderio di conoscere il futuro e, più ancora, quel desiderio morboso che può indurre tale conoscenza. Al contrario, occorre nutrire fiducia nella provvidenza di Dio e a lui sottomettersi in umile e filiale abbandono.

Note: 1 R. Garrigou-Lagrange, Dieu. Son existence et sa nature, Paris 1919, 401; 2 R. Amadou ebbe un'esperienza non comune. Fu segretario dell'Institut Métapsychique International di Parigi e direttore della " Revue de Parapsychologie "; 3 R. Amadou, La parapsychologie, Paris 1954, 260.

Bibl. A. Alvarez de Linera, Adivinación y psicología, in Revista Española de Teologia, 9 (1949), 489-525; R. Amadou, La parapsychologie, Paris 1954; F. Klein, Peut-on connaître l'avenir?, Genève 1969, 214; V. Marcozzi, Fenomeni paranormali e doni mistici, Cinisello Balsamo (MI) 1990, 87-89; W. Schamoni, Wunder under Tatsachen W. Naumam, Würzburg 1976, 252-285; I. Rodríguez, s.v., in DES I, 817-818.

V. Marcozzi

DOCILITA. (inizio)

I. Il termine. d. esprime il contenuto del termine latino docilitas e sta ad indicare la virtù di chi si sottomette facilmente, cioè di chi possiede l'attitudine ad apprendere, di chi si lascia ammaestrare, istruire, educare, formare. La persona docile si caratterizza per la capacità, conquistata con lungo esercizio, a lasciarsi guidare cercando ed accogliendo insegnamenti altrui con abituale facilità: una tale persona è, dunque, obbediente, comprensiva, mansueta, mite, perciò gradevole. L'uomo docile è il saggio che cerca saggezza (cf Sir 6,32-37), è l'uomo prudente che " con premura, con frequenza e riverenza applica il proprio spirito agli insegnamenti dei maggiori, senza trascurarli per pigrizia e senza disprezzarli per superbia ".1 La d. si presenta, dunque, come autentica virtù morale, " disposizione abituale e ferma a fare il bene " (CCC 1803), perché è disponibilità a farsi guidare nella ricerca delle " cose giovevoli " e conformi al vero bene.2

II. D. e vita cristiana. La fede si vive fondamentalmente come obbedienza a Dio che si rivela (cf DV 5): vi è perciò uno stretto legame tra d. e vita cristiana. La d. è, infatti, condizione necessaria per la fede, e la fede è coronamento e pienezza per la d. dell'uomo. La d. si esplicita innanzitutto verso lo Spirito Santo, che trasforma il " cuore " dell'uomo e lo guida alla maniera di Dio formando Cristo in lui (cf Gal 4,19), suscitando cioè sentimenti e azioni concrete di " amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé " (Gal 5,22). Verso lo Spirito di verità (cf Gv 16,13-14) l'atteggiamento dell'uomo non può che essere di docile ascolto, abbandono, conformità, " connaturalità " (VS 64) per poter discernere e poi attuare ciò che è giusto e buono secondo Dio. Tutta la storia cristiana può essere compresa come storia di d. sull'esempio e con la grazia di Cristo: la storia della fede inizia sempre dall' accoglienza docile della Parola di Dio (cf Gv 1,11-14) e si dipana in un clima di autentica libertà perché solo la Verità di Dio rende liberi (cf Gv 8,22), tanto liberi da provare gioia nella osservanza dei comandamenti. La d. trova espressione concreta nell'adesione al Magistero ecclesiale (cf CCC 87): questo è posto nella Chiesa " per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito Santo " (DV 10), a servizio della fede dei credenti perché la loro vita sia in consonanza con la volontà di Dio. La virtù della d. trova in Maria di Nazaret una perfetta concretizzazione: " Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto " (Lc 1,38). E da Maria a Gesù sulla croce. Il " tutto è compiuto " (Gv 19,20) del Signore crocifisso è ormai divenuto paradigma della perfetta e docile adesione al piano divino di salvezza, reale superamento della profonda contraddizione che vede l'uomo fatto per l'infinito eppure irretito in se stesso finito, segno e " luogo " della totale appartenenza al Padre. In breve, la d. è più " del grasso degli arieti " (Is 1,11): quando ascoltare stanca, obbedire costa, perdonare è difficile, chiedere scusa è lacerante, quando i propri progetti vengono messi in discussione o l'amore alla verità è scomodo, la d. è più " del grasso degli arieti ". Difatti, è in questi momenti che il " cuore " si sintonizza con lo Spirito di Dio e con lo spirito del fratello: si è compreso che la d. è canale privilegiato per giungere alla libertà del dono di sé verso Dio e gli altri, senza riserve, e per instaurare nuovi rapporti sociali, fondati sulla solidarietà e sulla pace.

Note: 1 Tommaso d'Aquino, STh II-II, q. 49,3; 2 Cf Ibid., II-II, q. 47,1.

Bibl. Aa.Vv., La direzione spirituale, in RivVitSp 4 (1950), 255-283, 313-460; C. Gennaro, s.v., in DES I, 818; G. Lefebvre, Amare Dio, Sorrento (NA) 1962; J. Lécuyer, s.v., in DSAM III, 1468-1497; Tommaso d'Aquino, STh II-II, q. 49,3.

G. Giuliano

DONI DELLO SPIRITO SANTO. (inizio)

I. Precisazione dei termini. "Lo Spirito Santo, che già opera la santificazione del popolo di Dio per mezzo del ministero e dei sacramenti, elargisce ai fedeli anche dei d. particolari (1 Cor 12,11), affinché mettendo "ciascuno a servizio degli altri il suo dono al fine per cui l'ha ricevuto", contribuiscono anch'essi, "come buoni dispensatori delle diverse grazie ricevute da Dio" (1 Pt 4,10), all'edificazione di tutto il corpo della carità (cf Ef 4,16) " (AA 3). La stessa citazione del Concilio Vaticano II parla di d., anche semplicissimi, che vengono concessi dallo Spirito ai fedeli. Infatti, una mansione dei presbiteri è anche quella di " scoprire, con senso di fede, i d., sia umili che eccelsi, che sotto molteplici forme sono concessi ai laici " (PO 9). Essi in " ragione dei d. ricevuti, sono testimoni ed insieme vivi strumenti della missione della Chiesa, "secondo la misura con cui Cristo ha dato loro il suo dono" (Ef 4,7) " (cf LG 33). Si potrebbe continuare a citare passi dei documenti conciliari, e più distintamente si coglierebbe che, da oltre un centinaio di loci dei diversi documenti, si fa uso di una terminologia che solo apparentemente risulta sinonima. Di fatto dono, donazione, grazia, carisma, forza, operazione, ministero, vocazione, servizio, ecc., che pure sono il più delle volte in relazione con l'azione dello Spirito Santo lo sono con contenuti e significati diversificantisi. Senza entrare nei particolari di una disamina che può risultare anche utile, è necessario ricordare che il termine carisma (greco: charisma) significa dono gratuito ed è in intimo rapporto con la radice da cui deriva charis=grazia.

Tuttavia, nel NT carisma può designare l'insieme dei d. di grazia che provengono da Cristo (cf Rm 5,15ss.) e sono dati al fedele dallo Spirito per finalità tipiche, e che in ogni caso sfociano nella vita eterna (cf Rm 6,23). Però, la terminologia da una parte è sinonima (carisma è dono), dall'altra è fluttuante (non ogni dono è carisma). Si veda come in Cristo il fedele è " colmato di grazia " (Ef 1,6: charitoo) e a lui è " accordata ogni sorta di d. " (Rm 8,32: charizo), tra i quali spicca - per primato speciale - la carità (Rm 5,5; 8,15). Dinanzi al fatto che " ogni dono valido discende dal Padre " (cf Gc 1,17) la persona umana deve aprirsi al dono (cf Mc 10,15 e par.) e, a sua volta, essere capace di dono (cf 1 Gv 3,16). Di fatto il dono è ricevuto per trafficarlo (cf Gv 15; cf Mt 13,12) e per donarlo, nella memoria del loghion di Cristo " vi è più gioia nel dare che nel ricevere " (At 20,35).

Per trattare dei d. dello Spirito, distinti dai carismi occorrerebbe una lunga trattazione che esorbita dai limiti di questa voce.1 Si potrebbe però addivenire ad una distinzione tra dono e carisma se per carisma si intendessero quei d. particolari che lo Spirito elargisce ai fedeli in modo che essi facendone esperienza, mettono a disposizione di altri il dono che - in un certo modo - è concretizzato in ministeri, in servizi, in operazioni personali e a raggio ecclesiale. I carismi sono d. " manifestati " - " epifanizzati " - " concretizzati " in modo che pur rimanendo distinti dagli elementi istituzionalizzati presenti nella " comunità ecclesiale - popolo di Dio " (a loro volta questi sono essi pure " impregnati " di Spirito), animano gruppi di cristiani, fermentano generazioni ed epoche della storia della Chiesa. Si può convenire che esistono carismi ecclesiali e personali; gli uni e gli altri si richiamano mutuamente.

Al di là delle discussioni che si sono sviluppate nell'immediato post-Concilio circa l'antitesi " carisma-istituzione ", oggi si preferisce parlare di dono dello Spirito come anima dell'istituzione legata ai ministeri istituzionali frutto del dono, della presenza e dell'azione dello Spirito. Per eccellenza tra i ministeri si deve annoverare il sacramento dell'Ordine con quanto vi è connesso per insegnare - per santificare - per governare. Ad esso si può meritatamente e in un certo senso accostare il sacramento del matrimonio. Il dono dello Spirito è anima anche del carisma dono spirituale gratuito (non si tratta di tautologia) fatto al credente per la sua " missione " di battezzato e confermato. Tale missione si concretizza nella vocazione di ciascun fedele.

Tra i carismi che trainano altri si può annoverare quello della verginità consacrata e delle diverse forme di vita consacrata; tra quelli più appariscenti si computano quelli legati al martirio, alla profezia, alla glossolalia, al dono di far miracoli, ecc.

II. Nella Scrittura. Di fatto già nella Sacra Scrittura si ritrovano classificazioni ed enumerazioni di carismi (cf 1 Cor 12,8ss. e 28ss.; Rm 12,6ss.; Ef 4,11; 1 Pt 4,11). In genere essi sono in relazione alla funzionalità del ministero (cf Ef 4,12): degli apostoli, dei profeti, dei dottori, degli evangelisti, dei pastori (cf 1 Cor 12,28; Ef 4,11). Però sono carismi anche quelli connessi con ogni tipo di diaconia, di servizio, di insegnamento, di esortazione, di opere di bene, di parole di sapienza, di discernimento degli spiriti (cf 1 Cor 12,8ss.). A questo proposito sono importanti le analisi dei testi Rm 12,3-16; 1 Pt 4,1-11; 1 Gv 4,1-6. Da essi si possono evincere alcuni criteri (cf 1 Cor 12-14) per comprovare l'autenticità dei carismi (1 Ts 5,19ss.), quali: la dimensione cristologica in rapporto con la confessione che Gesù è il Signore (1 Cor 12,3; 1 Gv 4,1-6) e viene da Dio (cf 1 Gv 4,1ss.), a tanto si giunge perché si è animati dallo Spirito Santo; al contrario il falso profeta è animato dallo spirito dell'anticristo (cf 1 Gv 4,3; 1 Cor 12,3); la dimensione pneumatologica legata ai frutti dello Spirito (cf Gal 5,14-22; Ef 5,8-10) permette di comprovare sia l'autenticità dei carismi, sia il discernimento degli spiriti (chi agisce con la pratica della carità è in sintonia col dono dello Spirito Santo: cf 1 Cor 12,31-14,1); la dimensione ecclesiale: è la controprova dell'autenticità dei carismi.

Di fatto, secondo un ordine di importanza, alla sommità dei carismi non sta la loro spettacolarità ma la loro funzionalità per edificare la Chiesa (cf 1 Cor 14,2-25) per il buon ordine delle assemblee (cf 1 Cor 14,33), sotto la guida degli apostoli (cf 1 Cor 12,28; Ef 4,11).

III. Nei testi conciliari. In questa scia si possono leggere i testi conciliari che sottolineano che i carismi sono d. dello Spirito alla Chiesa (cf LG 4.7; AG 4.23) adattati e utili alle varie necessità della Chiesa stessa (cf LG 12), e sempre subalterni all'attività degli apostoli e dei loro successori (cf LG 7). Di fatto l'autorità ecclesiastica giudica della genuinità dei carismi (cf LG 12), ma i pastori devono anche riconoscere i carismi presenti nei laici (cf LG 30; PO 9) che per loro mezzo vivificano l'attività dell'apostolato (cf AA 3). In una parola, i carismi sono collegati all'istituzione ma non si limitano ad essa. Di fatto è lo Spirito Santo che rende capace ogni fedele di assumere opere, responsabilità, mansioni nel tessuto ecclesiale nella libertà e nella sua liberalità nel donarsi. Di qui due opinioni circa il carisma dibattute al Concilio Vaticano II e cioè carisma=dono straordinario-miracoloso (card. Ruffini); carisma=dono essenziale conferito a qualsiasi fedele (card. Suenens). Si potrebbe dire che il dono dello Spirito è comune a tutti i credenti-fedeli in forza della vocazione cristiana (battesimale - confirmatoria - eucaristica). Esso costituisce il principio e la sorgente (animazione) della nuova creatura in libera risposta personale, verificabile dai frutti, senza escludere la possibilità di resistere allo Spirito. L'uomo nuovo figlio di adozione, in forza dello Spirito, possiede di fatto l'inabitazione dello Spirito, per comunicare nello Spirito.

I d. " spirituali " (carismi) sono speciali per ciascuno secondo la misura della vocazione particolareministeri. Essi sono all'origine della tensione nella varietà (unificazione) tra i diversi fedeli, in funzione e al servizio comunitario di tutto il corpo di Cristo che è la Chiesa, senza escludere la possibilità di spegnere lo Spirito. I carismi possiedono manifestazioni permanenti o momentanee, ordinarie o straordinarie, ma intese all'edificazione ecclesiale.

Al dono dello Spirito corrisponde nel fedele il camminare nello Spirito. Ai d. " spirituali " (carismi) deve corrispondere il discernimento (cf 1 Cor 12-14 e 1 Gv 3-5).

IV. In relazione alla mistica. Di per sé la stessa mistica è dono dello Spirito alla Chiesa. Essa con tutti i d. che contiene, è sorgente inesausta di quelle forze di cui ha assoluto bisogno il mondo (cf GS 43). La mistica è locus di convergenza dei d. differenti che vengono dati gratuitamente al cristiano, per cui il mistico fa esperienza vissuta del molteplice dono dello Spirito. L'esperienza ha un punto di partenza: la fede come dono e conquista; un luogo di crescita: la carità come collaudo dei d. e dei carismi; una meta a cui tendere: la speranza continuamente in atto.

Il " mistico " è colui che accoglie e custodisce la varietà dei d. e anche dei carismi, senza optare in modo preferenziale per nessuno di loro quasi uno fosse come esclusivo e assoluto, ma approfondendo esistenzialmente il fatto che tutti i carismi sono in funzione dell'edificazione ecclesiale. Egli integra i carismi nel dinamismo dei d. raggiungendo un " dosaggio " nel primato della carità e un " equilibrio " nel discernimento in prospettiva della fede e della speranza. Il " mistico " diventa il catalizzatore per eccellenza dei d. dello Spirito nel tessuto ecclesiale, a bene degli altri fratelli e sorelle. Vive attraverso una continua paraclesi dello Spirito in vista di una continuità di crescita. Vive non solo di illuminazione dello Spirito, ma sotto l'egida dello Spirito. In questo senso la dimensione mistica è connaturata all'autentica vita di ogni fedele.

Note: 1 " A proposito della mistica si deve distinguere tra i doni dello Spirito Santo e i carismi accordati in modo totalmente libero da Dio. I primi sono qualcosa che ogni cristiano può ravvivare in sé attraverso una vita zelante di fede, di speranza e di carità e così, attraverso una seria ascesi, arrivare a una certa esperienza di Dio e dei contenuti della fede. Quanto ai carismi, s. Paolo dice che essi sono soprattutto in favore della Chiesa, degli altri membri del Corpo Mistico di Cristo (cf 1 Cor 12,7). A questo proposito, va ricordato sia che i carismi non possono essere identificati con dei doni straordinari (" mistici ") (cf Rm 12,3-21), sia che la distinzione fra i ’doni dello Spirito Santo' e i ’carismi' può essere fluida. Certo è che un carisma fecondo per la Chiesa non può, nell'ambito neotestamentario, venir esercitato senza un determinato grado di perfezione personale e che, d'altra parte, ogni cristiano ’vivo' possiede un compito peculiare (e in questo senso un " carisma ") ’per l'edificazione del corpo di Cristo' (cf Ef 4,15-16), in comunione con la gerarchia, alla quale ’spetta soprattutto di non estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono' (LG 12) ", Congregazione per la dottrina della fede, Alcuni aspetti della meditazione cristiana. Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica, 1989.

Bibl. Aa.Vv., s.v., in DSAM III, 1579-1641; Aa.Vv., La vita secondo lo Spirito, Roma 1967; Aa.Vv., Lo spirito del Signore, Bologna 1981; Aa.Vv., Credo in Spiritum Sanctum, 2 voll., Città del Vaticano 1983; A. Barruffo - T. Beck - F.A. Sullivan, L'azione dello Spirito Santo nel discernimento, Roma 1983; R. Cantalamessa, Rinnovarsi nello Spirito, Roma 1984; Y.M. Congar, La parola e il soffio, Roma 1985; C. Heitmann - H. Muehlen (cura di), La riscoperta dello Spirito. Esperienza e teologia dello Spirito Santo, Milano 1974; M.-M. Philipon, I doni dello Spirito Santo, Milano 1965.

A.M. Triacca

DONNA. (inizio)

Premessa. L'attenzione alla d., indicata dalla Pacem in terris (n. 22) come uno dei segni dei tempi, non ha in sé solo un aspetto rivendicativo di conoscenza e di ruoli, ma esprime soprattutto attenzione al " genio " (MD 30) femminile, ossia a quel tipico " donna " che da sempre influenza l'umanità in tutti gli aspetti della sua vita. Esistono, infatti, caratteristiche peculiari nella mascolinità e nella femminilità che si integrano e si influenzano a vicenda, completandosi nel progetto unico della totalità del " maschio e femmina li creò " (Gn 1,27), dove si vedono due persone diverse, ma immagine di un Dio unico. Certamente, la caratterizzazione della d. è soprattutto nell'ordine di una ricettività che genera vita nuova e questo non solo nell'ambito biologico. Semmai quest'ultimo diventa segno di una realtà molto più comprensiva e profonda che, generalmente, viene riconosciuta come espressione di realizzazione femminile: più la d. è profondamente se stessa, più sente l'accoglienza-dono come via di realizzazione totale.1 La storia (e non solo quella religiosa) è ricca di esempi di amore oblativo, di servizio, di esperienze di misericordia. Proprio per questo motivo, l'umanità, agli albori, trovò nella Dea-Madre l'oggetto primo di adorazione e, anche quando questo culto venne messo da parte, ne rimasero le tracce qua e là nelle varie espressioni religiose.2

E con il Cristo Gesù, però, che viene posta l'attenzione più viva alla d. come prototipo di apertura mistica, come esemplificazione di quella caratterizzazione femminile che coinvolge anche l'uomo in quanto aperto al tu di Dio e alla sua accoglienza dentro di sé.

L' esperienza mistica, infatti, ha la sua radice più profonda in questa accoglienza consapevole dell'immagine di Dio che ciascuno porta in sé e della quale sviluppa la trasparenza: " Questo è stato il sogno del Creatore: potersi contemplare nella sua creatura e vedervi riflettere tutte le sue perfezioni, tutta la sua bellezza come attraverso un cristallo puro e senza macchia ".3

I. La connotazione femminile della mistica biblica. Prima dell'avvento del cristianesimo, in Oriente la religiosità popolare considerava le dee prototipo del sublime, del trascendente. In seguito, il culto si popolò anche di dei.

Di fronte ai culti pagani, tanto pieni di dei e dee, Israele non nomina Dio se non con parafrasi: il Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe, colui che è e, tantomeno, gli attribuisce un minimo attributo sessuale. Quando, però, ne parla, Dio diventa un padre che agisce da d.: procrea nelle sue viscere: " Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito? " (Dt 32,6); " Succhierete al suo petto..., come una madre consola un figlio, così io vi consolerò " (Is 66,11-13). Siamo nei secc. VII-VI a.C.: Isaia parla di Dio madre.

Nel NT, non è più Dio ad avere una connotazione femminile, ma è la d. che diventa quasi paradigma di intimità con lui. Cristo, infatti, parla con le donne delle cose di Dio e queste le comprendono. Si avverte quasi come un'autentica risonanza della mente e del cuore e la risposta di fede sgorga istantanea (cf la samaritana, per esempio, Gv 4). La d., più dell'uomo, si rivela capace di attenzione verso la Parola, perché " capace di attenzione verso la persona concreta " (MD 18) e si ritiene " che la maternità sviluppi ancora maggiormente tale disposizione " (Ibid.). La maternità, perciò, diventa anche capacità e " disponibilità a "custodire" la Parola di vita eterna " (Ibid. 19). I Vangeli mostrano che tale è soprattutto la maternità della Madre di Dio, ma anche la maternità di ogni d. assume un valore diverso: non è solo naturale, bensì genera creature destinate a diventare " figli di Dio " (Gv 1,12), perciò, nella nuova alleanza nel sangue di Cristo, " creature nuove " (2 Cor 5,17).

Nel NT la d. è chiamata, come l'uomo, a realizzare una vocazione comune che trova il suo fondamento in 1 Cor 11,12 e Gal 3,28: ricostruire in se stessi e partecipare al mondo l'immagine di Dio che Cristo esprime in maniera perfetta. Nelle lettere apostoliche, più ci s'inoltra nel mistico, più scompaiono le distinzioni uomo-donna: " Non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù " (Gal 3,28). L'esperienza mistica, infatti, trascende l'aspetto maschio-femmina per perdersi nello Spirito che, spesso, viene considerato l'archetipo del femminile.4 Dovendosi esprimere con categorie umane, pertanto si usa di solito l'immagine femminile per caratterizzare l'opera propria dello Spirito Santo che genera Cristo nell'uomo.

II. La mistica femminile nella tradizione 5 evidenzia come le mistiche abbiano usato il piano concreto per esprimere la loro esperienza di unione con Dio, a differenza degli uomini che l'hanno espressa più in termini teologici.

Tale esperienza mistica, di solito, ha avuto come punto di riferimento la persona di Gesù, percepito come sposo, richiamando le immagini bibliche del matrimonio fra Dio e Israele o la Chiesa. Nel Medioevo, soprattutto, le mistiche tedesche parlano di Dio in termini sponsali femminili, ma anche Giuliana di Norwich, mistica inglese, assume lo stesso tono, aggiungendovi la visione di Gesù che, come madre, nutre e avvolge di amore.6 Comunque, era stato Bernardo di Clairvaux il primo a parlare in termini di mistica d'amore sponsale, come una caratterizzazione del femminile che è nell'essere umano.

Dalla mistica sponsale nasce la mistica apostolica come generazione del Cristo nelle anime. Questa esperienza è comune a mistiche che vivono in monastero: da Teresa d'Avila 7 fino a Teresa di Lisieux e altre o mistiche che vivono nel mondo, da Maria dell'Incarnazione a S. Weil a M. Delbrêl.

Un altro tema caro alle mistiche è l'accentuazione del Cristo in altre espressioni della sua umanità: Gertrude canta il Cristo, giovane e bello, che sradica i peccati e porta alla Trinità, Caterina da Siena ne percepisce la presenza continua,8 Teresa d'Avila ritroverà la pace del cuore quando sarà rassicurata sull'umanità del Cristo, non vista più come ostacolo ad immergersi nella divinità, ma unica via per giungere ad essa.9

E, legata all'umanità del Cristo, nasce una mistica che si potrebbe definire della misericordia nei confronti del Cristo che soffre: è la mistica della passione cui le donne hanno partecipato lungo tutti i secoli.10

Ma la scolastica aveva teorizzato il discorso su Dio in termini maschili e da quel momento la teologia è stata pensata e organizzata in termini maschili! Anche la teologia mistica!

Forse il discorso può essere recuperato sul piano della sacralità della materia, di cui Teilhard de Chardin è stato il fautore, e dell'incontro con l' Oriente mistico che ha posto l'accento, nel rapporto con il divino, soprattutto sul piano dell'unità della persona umana, non privilegiando la razionalità pura.

In conclusione si può osservare, con la MD, che " sul fondamento del disegno eterno di Dio, la d. è colei in cui l'ordine dell'amore nel mondo creato delle persone trova un terreno per la sua prima radice " (MD 29). Nella maternità della d., infatti, si ritrova un segno dell'attività propria dello Spirito che, dopo aver generato i figli di Dio riversando nel cuore dell'uomo l'amore (cf Rm 5,5), li fa crescere e li educa (" Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera " Gv 16,13), inserendoli nel mistero pasquale di cui Cristo stesso parla usando un'analogia che è propria dell'esperienza della d.: " La d. quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'afflizione, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo, e il vostro cuore si rallegrerà, e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia " (Gv 16,21-23). E questa la gioia propria della consapevolezza amorosa della creatura che accoglie ed esprime il canto perenne della lode " Sia santificato il tuo nome " (Mt 6,9), eco del Sanctus eterno (cf Ap 4,8), cui l'uomo e la d. tendono da sempre, ma che, grazie all' Incarnazione del Figlio nel seno di una d., diventa attuale nel già della consapevolezza mistica di cui la " femminilità " umana può fare l'esperienza e nel non ancora della visione beatifica di tutti i figli di Dio.

Note: 1 Cf E. Stein, La donna. Il suo compito secondo la natura e la grazia, Roma 19873 (a p. 61ss. si fa notare come nel donarsi totalmente a Dio, si ritrovi la vera possibilità di appagare il desiderio più profondo del cuore femminile); 2 Lo sciamanesimo parla di Grandi Dee e di sciamane visionarie e al servizio del popolo; il buddismo conosce l'esistenza di monache; l'induismo possiede canti d'amore mistico composti da Mîrâ Bâi, una principessa vissuta nel sec. XV, ecc. (cf Aa.Vv. Encyclopédie des mystiques, Paris 1977); 3 Elisabetta della Trinità, Opere. Ultimo Ritiro, 8, a cura di L. Borriello, Cinisello Balsamo (MI) 1993; 4 U. Occhialini, Lo Spirito Santo archetipo del femminile, in Convivium Assisiense, 2 (1994), 61-92; 5 Si rimanda per lo sviluppo storico alla voce "mistica". Cenni storici; 6 " La nostra madre amata Gesù ci nutre di se stessa ", cf A. Cabassut, Une dévotion médiévale peu connue: la dévotion à Jésus notre mère, in RAM 25 (1949), 234-245; 7 F.R. Wilhélem, Dio nell'azione. La mistica apostolica secondo Teresa d'Avila, Città del Vaticano 1997; 8 Così riferisce il suo confessore e padre spirituale, Raimondo da Capua; 9 Cf Vita 22,4; 10 Brigida di Svezia, Giuliana di Norwich, Gemma Galgani hanno pagine straordinarie in cui esprimono il loro impellente desiderio di unione con l'uomo dei dolori.

Bibl. Aa.Vv., Il genio femminile. Maria e la donna, Milano 1994; Aa. Vv., Le donne dicono Dio, Milano 1995; M.T. Bellenzier, s.v., in NDM, 499-510; L. Boff, Il volto materno di Dio, Brescia 1989; M.L. Cappadoro, Abbagliata da Dio. La preghiera in M. Delbrêl, Milano 1995; A. Carr, Grazia che trasforma. Tradizione cristiana e esperienza delle donne, Brescia 1991; L. Ciccone, s.v., in Aa.Vv., Dizionario di spiritualità dei laici, I, Milano 1981, 239-245; P. Dronke, Donne e cultura nel Medioevo, Milano 1986; E. Ennen, Le donne nel Medioevo, Roma-Bari 1986; P. Evdokimov, La donna e la salvezza del mondo, Milano 1980; J. Galot, s.v., in NDT, 336-348; A. Gentili, Se non diventerete come donne, Milano 1987; T. Goffi - M. Caprioli, s.v., in DES I, 839-846; I. Gómez Acebo, Dio è anche madre, Cinisello Balsamo (MI) 1996; J. Lanczkowski - P. Dinzelbacher, s.v., in WMy, 175-179; G. von Le Fort, La donna eterna, Milano 1960; E. Moltmann-Wendel, Le donne che Gesù incontrò, Brescia 19932; M.T. Porcile Santiso, La donna spazio di salvezza, Bologna 1994; G. Pozzi - C. Leonardi (cura di), Scrittrici mistiche italiane, Genova 1988; C. Ricci, Maria di Magdala e le molte altre. Donne sul cammino di Gesù, Napoli 1991; S.M. Schneiders, Feminist Spirituality, in Aa.Vv. The New Dictionary of Catholic Spirituality, Collegeville (Minnesota) 1993, 394-406.

M.R. Del Genio

DONO DI SE. (inizio)

I. L'espressione d. richiama non tanto la disponibilità di qualcosa, quanto l'apertura e l'oblazione di se stessi, di ciò che si è, in atteggiamento costante di piena donazione a cominciare dalla propria volontà, base di ogni possibile dono.

L'offerta di sé realizza in modo completo tutte le caratteristiche del dono: questo, per essere tale, dev'essere concreto, senza riserve e restrizioni, disinteressato; chi fa un dono lo compie per pura liberalità, in gratuità, senza esigere alcunché in cambio perché il contraccambio è l'esatto contrario del dono.

Il d. attua così la carità, cioè l'effettivo superamento della cupidigia e del calcolo in quanto essa è l'origine prima e l'oggetto ultimo di ogni generosità in una circolarità sempre in crescendo.

II. E Dio che prende l'iniziativa. Tutto ciò che è buono da Dio viene e a lui porta, infatti " ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall'alto e discende dal Padre della luce " (Gc 1,17). E sempre Dio a prendere l'iniziativa; egli si rivela come il Dio creatore, provvidente, liberatore, il Padre di ogni bontà " perché egli è il Bene " (VS 9): l'uomo si nutre di questa iniziativa e attinge a questa pienezza, per cui l'apertura all' amore divino è la condizione previa per crescere in autentica generosità (cf 1 Gv 3,16),

Il d. acquista consistenza e possibilità di attuazione quando è vissuto in sintonia con l'autodonazione di Gesù alla volontà del Padre suo che vuole tutti gli uomini salvi (cf Gv 17,3): nell'amore che lo unisce al Padre, Gesù realizza pienamente il dono totale di se stesso; egli dà la vita in perfetta obbedienza, dona la sua " carne per la vita del mondo " (Gv 6,51) e comunicandoci lo Spirito Santo, il dono di Dio (cf At 11,17), rende a noi possibile il vero amore oblativo (cf Gv 15,12s.).

Il d. si presenta, dunque, come massima espressione dell'amore cristiano, esso è il vertice di ogni virtù e dell'intera esistenza, quasi un atto riassuntivo e sintetico della realtà personale dell'uomo raggiunto e colmato dalla grazia divina.

III. D. a Dio e al prossimo. Nei riguardi di Dio, il d. si realizza nella volontà amorosa e stabile di offrire, semplicemente, a lui la propria realtà con tutte le sue componenti e il suo divenire: nella radicale obbedienza, quotidianamente attuata, di rimettersi al piano salvifico di Dio si riconosce innanzitutto Dio come Dio, l'unico vero Dio, e s'instaura con lui l'accordo dell'amore per cui ci si occupa di lui e della sua gloria in intima gioia e pace (cf Gv 17,9-11).

Nei riguardi del prossimo, accolto come tale, il d. si concretizza in atteggiamenti ed atti particolari che ne specificano il contenuto e ne evidenziano il significato: d. come il farsi " tutto a tutti " (1 Cor 9,22), come " comprensione ", come " prendere con sé " con sollecitudine, premura, solidarietà. D. come " benevolenza ", cioè bontà e tenerezza, perché la carità è sempre benigna (cf 1 Cor 13,4). D. come " gratuità ", come l'amore di Dio che " dona a tutti generosamente e senza rinfacciare " (Gc 1,5). D. come " gratitudine ", perché " vi è più gioia nel dare che nel ricevere " (At 20,35). D. come " perdono ", " per-dono " nonostante tutto, " fino a settanta volte sette " (Mt 18,22) perché solo con il dono si spezza il circolo vizioso del male e della vendetta.

BIV. L'esistenza cristiana si struttura così sull'evento pasquale del Signore ed è qui che trova sostanza ed autenticità: il " passaggio " dalla schiavitù dei servi alla libertà degli amici, il " salto " dalla morte del peccato alla vita diin Dio, l' " esodo " dalla indisponibilità (essere diper sé) alla disponibilità (essere perdell'altro). Nella logica della croce, continuamente rinnovata nel memoriale eucaristico, nella logica cioè del d., l'uomo ritrova l'unità e la pienezza della vita perdute con il peccato; egli, che è dono, solo nel donarsi trova l'altro e Dio, quindi anche se stesso (cf Gv 12,25). Il Signore ama gratuitamente e lega a sé con i vincoli fedeli e perenni del suo amore: dare se stesso in dono è come restituirsi a colui dal quale si proviene perché egli operi, con la libertà dell'uomo, nella storia umana.

Il d. a Dio si traduce necessariamente in servizio al prossimo: il servizio, a qualunque livello e in qualunque intensità è richiesto. Non c'è dono senza servizio (cf Gv 13,1-15): amare donando se stesso equivale ad esprimersi quasi in riflesso della stessa carità di Dio (cf Lc 22,26-27).

Nel concreto esercizio dell'autodonazione è richiesta la virtù della perseveranza unita a stabile equilibrio: il cammino quotidiano conosce stanchezza, scoraggiamento, delusione perché il cuore umano porta le tracce del peccato, della debolezza, della volubilità. Il rialzarsi dopo la caduta, per esempio, è anch'esso esercizio e sviluppo del d., anzi ne è la costante storica: il riprendere il cammino è, infatti, segno di un cuore forte nelle avversità, buono con le persone, prudente nelle situazioni. La perseveranza fedele è la prova che irrobustisce la volontà oblativa e la reale ricostruzione della speranza cristiana. Affermare la possibilità di una cultura del dono equivale a disegnare l'unica strada concretamente praticabile per il superamento del peccato individuale e sociale: l'esempio dei numerosi santi cristiani, primi fra tutti i martiri, rappresenta la " esaltazione della perfetta umanità e della vera vita " (VS 92).

Conclusione. D. dice, dunque, liberazione perché effettiva rottura del circolo asfissiante della propria mediocrità, del proprio limite, dei propri calcoli. E d. dice ancora sempre nuova possibilità di autentica convivenza umana, a tutti i livelli, da quello familiare a quello internazionale: convivenza pacifica e solidale. " Occhio per occhio, dente per dente... " (Es 21,24): l'antica misurazione della giustizia legale, ancora invocata come rimedio a situazioni drammatiche e pericolose, rivela proprio in queste la sua radicale insufficienza. Nel d. sta il completamento e, insieme, il superamento della giustizia: questa insegna a dare ciò che è dovuto, quello apre agli spazi dell'amore divino verso la cui pienezza il nostro passo si rivolge.

Al seguito di Cristo Gesù, che vive in pienezza il dono totale di sé, i discepoli raggiungono la carità perfetta che unisce a Dio Padre e fonte della vera vita.

Bibl. Aa.Vv., Dives in misericordia - Commento all'Enciclica di Giovanni Paolo II, Brescia 1981; O. Becker - H. Vorländer, Dono, in DCB, 517-521; G.G. Pesenti, s.v., in DES I, 846-848; J. Schryuers, Le don de soi, Bruxelles 1919; Tommaso d'Aquino, STh II-II, qq. 23-54; J. Tonneau, s.v., in DSAM III, 1567-1573; A. Vanhoye, Dono, in DTB, 306-310.

G. Giuliano

DROGHE. (inizio)

Premessa. Da sempre si è saputo che lo stato della coscienza può essere alterato artificialmente con sostanze esterne ingerite dal soggetto come quelle contenute in bevande, erbe, profumi e mille altri elementi. Un altro dato altrettanto noto è quello relativo alla modificazione della coscienza sulla base di stimoli psicologici personali interni al soggetto stesso come avviene, per esempio, con la concentrazione prima di una lotta o di una gara oppure durante la meditazione o la preghiera.

L'uomo ha sempre tentato di raggiungere un particolare stato di coscienza con un supporto esogeno (proveniente dall'esterno, quindi di tipo artificiale), anziché con il solo uso delle risorse proprie; ossia, endogene di tipo naturale.

Seguendo questa tendenza, molti hanno cercato la sostanza appropriata che riproducesse lo stato di trance mistica.1

Prima dell'avvento della psicofarmacologia, e ancora attualmente in varie tribù, le sostanze usate per simulare o indurre la trance mistica sono tutte quelle eccitanti che si trovano in natura e che variano con la flora locale.2

E a partire dagli anni Cinquanta, e proprio con il rapido sviluppo della psicofarmacologia, che si hanno i primi rilievi di laboratorio sull'uso della psilocibina e della psilocina, che sono dei principi attivi in funghi allucinogeni.3

I. Induzione di stati pseudo-mistici. Più o meno tutti gli allucinogeni porterebbero a stati pseudo-mistici, in particolare i derivati dell'indòlo (CHCH: - CH'NH composto ottenuto dal catrame minerale e dall'indaco; e può derivare anche dalla decomposizione del triptofano nell'intestino). Il più noto degli allucinogeni è l'acido lisergico, più conosciuto come LSD. Di quest'ultima sostanza vengono rilevati effetti in cinque ambiti: 1. Stato d'animo e affettività; 2. Processi sensoriali e percettivi; 3. Funzionamento intellettuale e percezione della realtà; 4. Processi intuitivi e intellettivi; 5. Comportamento interpersonale.4

Tutte le sostanze allucinogene che potrebbero indurre uno stato pseudo-mistico possono sommariamente essere suddivise in tre categorie: a. Allucinogeni percettivi (di tipo indolico o feniletileminico) che distorcono soprattutto la percezione visiva e sono: la LSD, la psilocibina, la DMT e la mescalina. La DMT (contenuta in piante psicoattive come: la Virola Theiodora detta " epenà " e la Adenanthera Peregrina, detta " yopo ") inalata dal naso altera moltissimo la percezione ed è usata dagli sciamani di alcune popolazioni dell'Amazzonia e dell'Orinoco, in Venezuela. b. Allucinogeni di tipo empatogenico (la MDA e tutti i correlati della MMDA costituiti da molecole di natura anfetaminica) con effetti devastanti nella sfera emotiva. Per questo, i prodotti di queste sostanze vengono chiamati " love drog " oppure " ecstasis " e sono stati impiegati, con dubbi risultati, anche in alcune psicoterapie sperimentali. c. Allucinogeni di tipo oneirogenico (l'armalina e la ibogaina) contenuti in una bevanda allucinogena detta " Ayahuasca " o " Yagé " usata dagli sciamani del Nord-Ovest dell'Amazzonia. Una proprietà di queste ultime sostanze sembra essere quella di dare una sensazione di contatto con la divinità attraverso simboli archetipi.5

A questi allucinogeni bisogna aggiungere altri quattro tipi di sostanze, i cui effetti spesso vengono accostati ai contenuti degli stati mistici: a. Il muscimolo (contenuto nell'Amanita Muscaria e usata dagli sciamani siberiani); b. I THC (tetraidrocannabinoli) sono i principi attivi della Cannabis che attualmente è una delle sostanze più diffuse con effetto leggero, ma unita all'alcool o ad altre sostanze e pratiche eccitatorie può portare a stati dissociativi pseudo-mistici; c. Gli anticolinergici deliranti (atropina, scopolamina e iosciamina contenute in piante come l'Atropa Belladonna, la Mandragora Officinarum, lo Hyoscianum Niger, Datura Inoxia) che possono provocare un vero e proprio stato delirante per due o tre giorni. d. La Ketamina (Cloridrato di ketamina) è un anestetico che può portare a stati dissociativi del tipo EEC (Esperienze Extra-Corporea.6

Tutte queste sostanze possono indurre stati di neurotossi così dissociativi della personalità e come tali induttori di una trance che non può, ipso facto, dirsi né mistica né ipnotica o medianica o di altro tipo. Di fatto, è possibile che questi stati possano facilitare la creatività dell'inconscio.

Oltre che da queste e analoghe sostanze chimiche, spesso conosciute come " sostanze psichedeliche " o " dilatatori di coscienza ",7 una trance mistica potrebbe essere indotta o simulata artificialmente non solo con mezzi chimici, ma anche da particolari condizioni psicofisiche: la deprivazione sensoriale e l'ipnosi. Sono da considerarsi artificialmente indotte anche le trance provocate dall'eccitazione con rituali, danze e musiche particolarmente ritmate e prolungate da provocare uno stato psicofisico simile a quello ipnotico, qualora dovesse comparire un'ideoplasia.

II. Alcune religioni permettono l'uso di sostanze stupefacenti per ottenere un'esperienza pseudo-mistica. Questo è il caso della Chiesa Nativa Americana, dove è permesso il consumo del Peyote (Cactus Lophophora dal quale si estrae la mescalina) che per le sue proprietà particolari permette di " fare un viaggio ", ossia una sorta di dissociazione temporanea dal contesto della realtà vigile e cosciente. Dato il contesto religioso, queste sostanze stupefacenti innescano delle allucinazioni di tipo mistico dando l'impressione di un contatto intimo con la divinità.

Nel cristianesimo, le sostanze chimiche sono ammesse solo a scopo terapeutico. L' estasi è considerata un dono di Dio che si potrebbe anche chiedere, ma non certo provocare artificialmente.

Note: 1 W. James, Le varie forme della coscienza religiosa, Torino 1904; J.H. Leuba, The Psychology of Religious Mysticism, New York 1925; A. Huxley, The Doors of Perception, New York 1954; 2 M. Winkelman, Theoretical Model and Trans-cultural Analysis, New York 1968, 174-203; 3 R.G. Wasson, Soma: Divine Mashroom of Immortality, New York 1968; F. Festi, Funghi allucinogeni: Aspetti psicofisiologici e storici, Rovereto (FE) 1985; 4 E. Servadio, Al di là della coscienza? Esperienze con l'LSD, in Gazzetta Sanitaria, 38 (1967), 492; 5 C. Naranjo, Drugs Induced States: Handbook of States of Consciousness, (B.B. Wolman - M. Ullman edd.), New York 1986; 6 A. Pacciolla, Ipnosi, Cinisello Balsamo (MI) 1994, 135-182; 7 R.E.L. Master - J. Houston, The Varieties of Psychedelic Experiences, New York 1966.

Bibl. S. Cohen, Drugs of Allucinations, Frogmore 1973; A. Cuvelier, La droga o la santità. Saggi sulla mistica naturale e la mistica trinitaria, Roma 1980; J.M. Davidson - R.J. Davidson, The Psychobiology of Consciousness, New York 1980; M. Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell'estasi, Roma 1985; P. de Felère, Poisons sacrés. Ivresse divines. Essai sur quelques formes inférieures de la mystique, Paris 1934; E. Gellhorn - W.E. Kiely, Mystical States of Consciousness: Neurophysiological and Clinical Aspects, in Journal of Nervous and Mental Disease, 154 (1972), 399-405; A. Keys, The Biology of Human Starvation, Minnesota 1950; H. Kluver, Mescal and Mechanism of Hallucinations, Chicago 1966; W. La Barre, The Peyote Cult, New York 1975; C.A. Landini, Fenomenologia dell'estasi, Milano 1980; M. Laski, Ecstasy: A Study of Some Religious and Secular experiences, Bloomington 1961; J.H., Leuba, La psicologia del misticismo religioso, Milano 1960; L. Lewin, Atlante farmacologico di tutte le droghe, Firenze 1987; I.M. Lewis, Le religioni estatiche, Roma 1972; B. Lex, The Neurobiology of Ritual Trance, (E. Aquili et Al. edd.), New York 1979, 117-151; A.M. Ludwig, Altered States of Consciousness, in Arch. Gen. Psychiat., 15 (1966), 225-234; Id., Altered States of Conciousness, in Arch. Gen. Psychiat., 15 (1966), 225-234; A. Mandel, Toward a Psychobiology of Trascendence: God in the Brain, (J.M. Davidson - R.J. Davidson edd.), New York 1980; R.E.L. Master - J. Houston, The Varieties of Psychedelic Experiences, New York 1966; G.B. Murray, Pharmacological Mysticism, in Rev. Univ. Ottawa, 36 (1966), 347-366; C. Naranjo, Drugs Induced States: Handbook of States of Consciousness (B.B. Wolman - M. Ullman edd.), New York 1986; A. Neher, A Physiological Explanation of Unusual Behavior in Ceremonies Involving Drums, in Human Biology, 34 (1962), 151-160; W.N. Pahnke, Psichiatria clinica e religione, Milano 1973; W.N. Pahnke - W.A. Richards, Implication of LSD and Experimental Mysticism, in Journal of Religion and Health, 5 (1966), 175; R. Prince, Shamans and Endorphins, in Ethos, 10 (1982), 409-423; E. Romeo, Droga e misticismo, in Aa.Vv., Mistica e scienze umane, Napoli 1983, 285-289; U. Scapagnini - P.L. Canonico - N. Ferrara, Psiconeuroendocrinologia, Padova 1981; C.T. Tart, Altered States of Consciousness, New York 1968; R.C. Zaehner, Mysticism, Sacred and Profane: An Inquiry into Some Varieties of Praeternatural Experience, New York 1961; R. Zavalloni, Le strutture umane della vita spirituale, Brescia 1971, 354-384.

A. Pacciolla

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