VAN DER MEER PIETER - ZEN - DIZIONARIO DI MISTICA

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VAN DER MEER PIETER - ZEN

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VAN DER MEER DE WALCHREN PIETER. (inizio)

I. Vita e opere. Nasce nel 1880 in Olanda da una famiglia protestante liberale. Diventa presto con-fondatore di un'associazione di studenti marxisti. Si laurea in filosofía e in lettere e diventa giornalista. Incontra Christine, giovane pittrice belga, di famiglia cattolica anticlericale. Tutti e due sono agnostici. Si sposano a Bruxelles e nasce il primo figlio. Sono felici. Amano viaggiare. Il loro mondo? Pittori, romanzieri, musicisti, filosofi e poeti. Tutti e due sono innamorati dell'arte. Tutti e due inquieti: cercano disperatamente un senso da dare alla loro vita. Si trasferiscono a Parigi. La loro felicità non li soddisfa pienamente. Sentono di essere fatti per qualcosa di più grande. L'idea che il loro amore umano possa avere fine è per loro intollerabile. " Abbiamo vissuto, Christine ed io, ore di angoscia estrema pensando che solo l'assurdo poteva essere il fondamento dell'esistenza. Ma allora, che ne sarà del nostro amore? Il vero amore umano non sopporta nessun limite, nessuna misura. L'amore esige tutto, vuole l'infinito... ".

Anche Christine ha fame di verità: " Siamo due esseri sperduti nell'immensità... Viviamo, sì, io non so scrutare l'abisso di questa parola: vivere... Vivere, perché? ".

Sarà la sincerità del loro amore ad incamminarli verso Dio. Bussano alla porta di Léon Bloy e rimangono sconvolti dalla sua fede virile e dal suo ideale di santità. " Amico mio - dice l'anziano scrittore cattolico - voi siete nell'errore perché non siete nella Chiesa ". Consiglia loro di leggere alcune biografie di mistici. Un anno dopo, Pieter e il figlio Pieterk chiedono il battesimo. Christine ritrova la fede della sua infanzia e tutti e tre imboccano un cammino di fede che, a mano a mano, li porta ad un'autentica vita mistica.

Il culto della grazia, quindi, dell'inabitazione della Trinità nell'anima unita a Dio, fa da fondamento a tutta la loro vita di laici cristiani. " Quanto è bella la nostra vita, meravigliosamente condotta dall'infinita tenerezza di Dio! ". Ed ancora: " Quando si vive con Dio e quando la Trinità divina vive in noi, allora si vive in comunione con tutti gli uomini e con la creazione intera ". " La nostra vita è per noi uno stupore continuo ". Sorge allora in Pieter il desiderio di farsi portatore " della nostalgia di Dio " nel cuore degli uomini.

Brillante e ricercato oratore, scrittore molto apprezzato nel mondo cattolico, ed anche fuori, pubblica ventotto libri. I più conosciuti sono: Giornale di un convertito, Dio e gli uomini, Il paradiso bianco, Incontri, La terra e il Regno, La verità vi renderà liberi, Uomini e Dio.

II. Esperienza mistica. La vita di questi due sposi convertiti è piena della presenza di Dio, perciò è così spiritualmente feconda. Essi incontrano Dio nella preghiera e nella contemplazione, nel dovere di stato e nell'arte, nelle gioie e nei dolori. " Il nostro rapporto con Dio, ecco la sola cosa che importa veramente! Siamo profondamente felici! " E Pieter confida: " Adesso Christine ed io sappiamo per esperienza che il prodigio dell'amore non consiste nell'amare, ma nell'essere amato, nell'essere amabile. Ed è vero non solo per l'amore degli uomini tra di loro, ma anche - e in un senso assoluto - per l'amore di Dio... Mistero formidabile: essere amato da Dio! ".

Conoscono la straziante prova del distacco: Jean-François, il beniamino, e Pieterk, religioso benedettino, muoiono all'improvviso. Anne Marie, l'unica figlia, entra nell'abbazia di Oosterhaut (Paesi Bassi). Pieter e Christine hanno ricevuto molto da Dio e gli hanno dato molto. Decidono, ora, di dargli tutto, cioè di fare il sacrificio della loro vita comune, della loro " beata vita di perfetta pienezza ". Sacrificio eroico, non capito da tutti. La prospettiva di un tale distacco è per loro straziante. Pregano. Insieme recitano il Magnificat. Distribuiscono i loro beni, salutano gli amici sconvolti. Pieter accompagna la sua Christine fino alla clausura dell'abbazia di Solesmes (Francia), poi se ne va, solo, all'abbazia di San Paolo a Oosterhaut. Dopo un anno e mezzo di noviziato, vissuto con un fervore spirituale ammirabile, ma anche con una profonda sofferenza umana, i superiori decidono: " Siete fatti per vivere insieme. Il vostro posto è nel mondo. Ritornate l'uno vicino all'altro ".

Si ritrovano a Parigi, a casa degli amici Maritain. Ricostruiscono il loro focolare. Pieter riprende il suo posto presso l'editrice Desclée de Brouwer. La vita in comune ricomincia nella semplicità e nella gioia. Christine riprende a coltivare fiori e a ricamare. Pieter scrive e fa conferenze. " Gioiamo di quella solitudine a due, piena della presenza di Dio... Ci sforziamo di non lasciarlo mai solo. Siamo profondamente felici ", confida Christine.

Il segreto della loro sovrumana felicità è scoprire e amare la mano di Dio che dirige tutto e tutti. E ciò è loro possibile perché, da autentici mistici, sanno coltivare e contemplare la presenza di Dio nelle profondità della loro anima.

Alla morte di Christine (1953), Pieter ritorna all'abbazia di Oosterhaut ove è ordinato sacerdote nel 1956. E comincia per lui un nuovo e lungo periodo di contemplazione e di intenso apostolato. Muore nel 1970.

Bibl. R. Maritain, I grandi amici, Milano 19825. T.H-M. Van Schaik, s.v., in DSAM XVI, 241-245.

M.T. Huber

VARANO CAMILLA BATTISTA DI CAMERINO. (inizio)

I. Vita e opere. La b. V. da Camerino, una delle più affascinanti mistiche del Quattrocento, nasce illegittima nel 1458 dal signore del luogo, Cesare Varano. Cresce accanto alla madre adottiva, Giovanna Malatesta, e si forma nel clima culturale di una brillante corte rinascimentale.

Nella chiesa camerinese di San Pietro in Muralto ascolta, all'età di otto o dieci anni, in un venerdì, una predica di padre Domenico da Leonessa sulla passione di Gesù in cui il francescano fa appello a " omniuno che almanco almanco el venerdì se recordasse de questa passione e (de) buttare una lacremuccia sola sola per memoria di quella ". La bambina fa dell'appello un voto personale, che attua sempre più, man mano che impara a fare orazione mentale. Tutta la sua vita e le sue opere recano il timbro di questo gesto. Nel 1481, B. entra tra le clarisse dopo un cammino interiore, riportato, con accenti impareggiabili, nella sua autobiografica Vita spirituale. Muore il 31 maggio del 1524.

La prima opera di V. è la Lauda della visione di Cristo, frutto di un voto di castità emesso il 24 marzo 1479 e della decisione di diventare clarissa. Durante il suo noviziato ad Urbino, V. racconta alcune rivelazioni avute prima di entrare in monastero, i Ricordi di Gesù, in cui Gesù l'ammaestra sul come stare in croce in modo fruttuoso. Venuta a Camerino (1484), dopo quattro anni di meditazione sul Crocifisso (visione della Vergine desolata e concessione dei piedi sanguinanti di Gesù), nel 1488, scrive i Dolori mentali di Gesù, già rivelati a Urbino, i quali colgono la passione interna di Gesù, cioè le sue pene morali. Nel 1491 scrive la Vita spirituale, il suo capolavoro mistico e poetico, mentre l'ultima grande opera di V. è il Trattato della purità del cuore (1521): un trattato completo del cammino dell'anima verso l'unione con Dio.

II. L'esperienza mistica di V. è particolarmente cristocentrica, affettiva e pratica, sulla scia della spiritualità francescana. Ella, infatti, insiste sulla devozione eucaristica, sui misteri della passione di Cristo e sulla devozione al S. Cuore di Gesù. La fase ascetica, che sottolinea la " purità del cuore ", è condizione prima e indispensabile per conseguire la contemplazione infusa di Dio, dono ordinario necessario ai fini della perfezione: più un'anima è perfetta, più è disposta a ricevere da Dio doni sublimi di contemplazione infusa.

Maestra esimia di preghiera, V. non si preoccupa del metodo. Pregare, insegna, non è altro che pensare a Dio, sempre più abbracciarsi a Cristo e abbandonarsi alle mozioni divine. Non vuol determinare tempi fissi di orazione mentale, ma dedicare il maggior tempo possibile a seconda della devozione. Dalla contemplazione della passione del Cristo nasce in V. il desiderio di riparazione, condividendo i patimenti del Salvatore per il mondo, quelli che ha dovuto sostenere quale capo del Corpo mistico.

Bibl. Opere: Beata Camilla Battista da Varano, clarissa di Camerino, Le Opere spirituali, a cura di G. Boccanera, Iesi (AN) 1958. Studi: G. Barone, s.v., in WMy, 509-510; G. Boccanera, Biografia e scritti della b. Camilla-Battista da Varano, clarissa di Camerino (1458-1524), in Miscellanea francescana, 57 (1957), 64-94, 230-294, 333-365; A. Gattucci, Le " Istruzioni al discepolo " della b. Battista da Varano, in Collectanea Francescana, 64 (1994), 241-285; B. Giannini, Storia di una principessa, Assisi (PG) 1988; Id., La principessa velata, Assisi (PG) 1991; J. Heerinckx, s.v., in DSAM XVI, 280-281; P. Luzi, Camilla Battista da Varano (Una spiritualità tra Papa Borgia e Lutero), Torino 1989; A. Matanic, s.v., in DES I, 291-292; G. Napoli, La spiritualità della b. Battista da Varano, in Miscellanea francescana, 64 (1964), 38-102; G. Pozzi - C. Leonardi (cura di), Scrittrici mistiche italiane, Genova 1988, 303-329.

B. Giannini - T. Jansen

VEGLIA PROLUNGATA. (inizio)

I. Nozione. Usiamo il termine nel senso comune di stare svegli e non in quello metaforico o liturgico; nemmeno vogliamo intendere l'assenza di sonno.

Fuori della patologia, la v., o privazione prolungata del sonno, può derivare da cause ascetiche o da cause mistiche.

II. Sul piano spirituale. L'aspetto ascetico si verifica in persone così impegnate nella disciplina interiore da raggiungere una profonda unificazione e pace. Si riscontra pure in chi è dotato di struttura psicofisica eccezionale, con superiori capacità di concentrazione. Anche un buon autocontrollo può, all'occorrenza, giustificare la v. Tale persona riesce a imporre al proprio organismo una particolare intensità di riposo con conseguenti ritmi veloci di recupero delle energie. Anche una malattia fisica o stati emozionali o disposizioni naturali possono provocare " veglie " che si protraggono per più mesi.1

Ma il fatto che situazioni del genere si verifichino anche in soggetti carenti di significativi rapporti con Dio e di scarsa o nessuna vita religiosa, dice che esse, di per sé, non hanno alcuna valenza mistica.

Questa, invece, deriva dalla comunicazione delle " grandezze di Dio " e dal suo desiderio: " Passai senza sonno le notti, simile al passero solitario sui tetti ".2 L'amore-desiderio tiene desta la persona in effusioni rigeneranti che producono un profondo riposo affettivo.3 Tuttavia, su di una natura umana non ancora pienamente disposta ad accoglierlo, l'amore esercita violenza, l'affatica e logora.4 Per tale motivo la " veglia " non può protrarsi troppo a lungo.

III. Discernimento del fenomeno. Pur non sottovalutando l'ambiguità del fenomeno per la carenza di elementi che ne possano far discernere le cause naturali e quelle soprannaturali, sembra opportuno ricordare che, di solito, nella contemplazione infusa mistica transitoria i sensi sono sospesi e che ogni fenomeno mistico trova il suo riscontro autentico in una crescita della carità e in una testimonianza escatologica che presuppone la vita nello spirito.

Note: 1 N. Irala, Il controllo del cervello, Roma 1971, 157; 2 Teresa d'Avila, Vita, 20,10; 3 Id., Fondazioni, 2,4; 1,8; Lettera del giugno 1570, 3: attende con desiderio il riposo notturno per starsene in intimità con Gesù nella solitudine. Lettera del 10 febbraio 1577, 8: non riesce a dormire nonostante faccia ogni sforzo possibile; 4 Giovanni della Croce, Cantico spirituale, 39,14.

Bibl. J. Aumann, Teologia spirituale, Roma 1991, 511-512; A. Farges, Les phénomènes mystiques, II, Paris 1923, 308-309; N. Irala, Il controllo del cervello, Roma 1971, 157; I. Rodríguez, s.v., in DES III, 2614; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 1107-1109.

C. Zorzin

VELLEITA. (inizio)

I. Nozione. La volontà è la capacità dell'uomo di scegliere con fermezza ciò che ritiene bene e positivo, anche se forse spesso, si sbaglia, poiché è possibile, anzi probabile, che la sua mente colga non esattamente il valore di ciò che poi la volontà decide di abbracciare. La v. è la forma mancata della capacità di decidere: è il desiderare con spirito diviso, è il non determinarsi mai. E coltivare un desiderio legittimo o meno, affascinante o meno, senza passare ai fatti, perciò lasciando sempre aperto il problema ed irrisolte le scelte da fare. V. non è affatto, come sostengono alcuni, l'atteggiamento di chi vede chiaro l'ideale, ma s'accorge fin troppo della crudezza della realtà che lo costringe per forza a desistere. Non è lo scacco che la vita impone ai tipi a volte donchisciotteschi, ma spesso carichi di autenticità, di alta levatura. E, invece, una vera debolezza, una mancanza di addestramento, una impreparazione. Essa viene ora da un'educazione in cui il soggetto è stato troppo protetto e poco responsabilizzato e ora da una formazione troppo rigorosa, che ha indotto più paure e sentimenti d'insuccesso che spirito di conquista e di giusta aggressività. Da notare che la v. non va confusa con le perplessità che legittimamente ognuno può provare prima d'una scelta. La prontezza nel decidere rivela il temperamento della persona e anche l'abitudine che essa può acquistare sia in generale, sia in campi determinati; ma per sé non rivela sempre intelligenza. Si danno risoluzioni fulminee in cui esplode piuttosto la stupidità di chi non ha avuto la pazienza e l'umiltà di valutare problemi e situazioni; e ve ne sono invece altre che mostrano intuizione geniale e una certa profezia. Comunque, le esitazioni, gli indugi e i dubbi non sono da soli qualcosa di indecoroso, perché l'uomo consapevole e riflessivo deve concedersi dei congrui spazi di ripensamento.

II. La v. come apatia. L'apatia - che è una forma un po' affine e che sta a mezzo tra la malattia depressiva e la v. presa nel senso più generale detto sopra - è anch'essa una espressione tipica di una sbagliata educazione della volontà. Essa non è infrequente e avanza - spesso - in triste parallelo con lo spirito di aggressività sempre più accentuato. L'apatico è un uomo senza virtù attive, intorpidito nei suoi meschini egoismi, uno che denota una vera caduta intellettuale e morale: privo di gusto non tanto per il lavoro o per le iniziative o le situazioni nuove, ma privo del gusto del vivere stesso, anche se non pensa più di tanto a soluzioni estreme, come il suicidio. Preso a rimorchio da quanto avviene intorno a lui, non mette quasi nulla di suo se non nella difesa delle sue passioni, spesso ben mimetizzate.

III. Rimedi. Con questo ultimo tipo di velleitario, si comprende bene quanta novità cristiana occorra per recuperare tante persone che risultano schiacciate dalla esistenza per molteplici cause e in svariate forme. Ad esse è rivolto tutto il " lieto annuncio " del Vangelo, che va proposto a questo non nuovo ma accresciuto genere di " poveri " perché ogni persona possa debellare la v. assumendosi la propria responsabilità di fronte a Dio e alla propria coscienza. Questo atteggiamento porterà a vivere la propria vita quotidiana assolvendo ai doveri del proprio stato di vita e della propria professione nei tempi e modi in cui ci si trova. Al riguardo occorre ricordare che Dio non chiede l'impossibile, ma solo il compimento del proprio dovere quotidiano, concedendo l'aiuto della sua grazia al fine di superare gli ostacoli che impediscono la corsa alla santità.

Bibl. Aa.Vv., Volonté, in DSAM XVI, 1220-1269; G. Del Lago, Dinamismi della personalità e della grazia, Torino 1970; S. Dianich, L'opzione fondamentale nel pensiero di S. Tommaso, Brescia 1968; P. Ricoeur, Le volontaire e l'involontaire, Paris 1950; C. Sorsoli, s.v., in DES III, 2614-2615.

R. Girardello

VERGINITA. (inizio)

I. Fondamenti. La v. trova il suo fondamento nell'" intuizione mistica ", meglio nel dono dall'Alto, di percepire Dio come il Sommo e l'Unico Amore.

All'inizio, c'è un atto sovrano di Dio che sceglie liberamente una persona per manifestargli un amore personalissimo, così singolare da fargli comprendere che " lui solo può bastare ".

Dio appare, allora, come l'Amore che ha dato origine ad ogni cosa, che tutto muove, tutto riempie, tutto beatifica. Un amore che chiede di essere amato " con tutto il cuore ", in forma esclusiva e con " cuore indiviso ".

Chi è afferrato da questa " intuizione "-" rivelazione " avverte che ogni altro amore umano potrebbe entrare in concorrenza con questa richiesta di amore esclusivo e straordinario: afferrato dal tutto, non può cercare altro. Immerso nel mondo della Trascendenza e dell'eterno, la creatura umana comprende che Dio deve diventare il suo unico amore. Le grandi religioni conoscono, anche se in forma diversa, questa " illuminazione " che cambia radicalmente la forma di vita e il rapportarsi con le creature.

II. Nel cristianesimo. Gesù chiede ad alcuni dei suoi discepoli di lasciare ogni cosa per seguirlo e per far parte della sua famiglia. La risposta a tale richiesta esigente presuppone l'intuizione-rivelazione o esperienza mistica, del mistero della persona di Gesù, anche se il più delle volte solo allo stadio iniziale.

Gesù introduce nel mondo affascinante del mistero del regno di cieli, per il quale osa chiedere di lasciare tutto, persino gli affetti più profondi e legittimi, quali quelli familiari. La sua richiesta è quella di vivere come lui, esclusivamente dedito all'amore di Dio Padre e dei fratelli. Il suo celibato, che egli chiama rudemente eunochia, dice la sua donazione totale all'Amore: un servizio alla rivelazione del Dio amore e una presenza operosa di questo amore nel mondo.

La v. implica, allora, un entrare nel mistero dell'amore verginale del Figlio unigenito, uno con il Padre. Un amore che tocca il suo vertice di rivelazionne sulla croce, dove il Figlio ama il Padre e i suoi " sino alla fine ", manifestando l'intima natura del mistero di Dio, un mistero di amore-dedizione incondizionati.

III. La v. come dono. Un'altra affermazione costante della tradizione cristiana è che la v. è un dono dello Spirito, concesso solo ad alcuni. Il che significa sia che " non a tutti è dato di comprendere " sia che la comprensione presuppone un'esperienza spirituale, frutto dell'azione dello Spirito.

Lo Spirito, infatti, è l'amore di Dio rivelato nel cuore dell'uomo, che lo rende capace di comprendere il mistero dell'amore di Dio, anche quella peculiare forma di amore che richiede una risposta totale ed esclusiva.

Lo Spirito dà la possibilità di dare tale risposta difficile, rendendo in tal modo palese l'elevazione del regno di Dio sopra tutte le cose terrene, come la preminente grandezza della forza di Cristo regnante e l'infinita potenza dello Spirito, mirabilmente operante nella Chiesa (cf LG 44).

Lo Spirito fa comprendere che la vocazione ultima dell'uomo non è quella di " essere per la donna ", e viceversa, ma di " essere per Dio ", in Cristo. La destinazione ultima del cuore dell'uomo è la totalità dell'amore di Dio, rivelato e reso presente da Cristo, Signore e Sposo.

Lo Spirito suscita la brama della sposa, che supplica e dice allo Sposo: " Vieni ", " Vieni ": è l'invocazione tipica dell'amata protesa verso l'incontro con l'Amato del suo cuore.

Lo Spirito fa risplendere agli occhi della mente e del cuore la bellezza unica di Cristo, al cui seguito ci si è posti e al cui cospetto si desidera comparire per bearsi della visione del suo volto. Lo Spirito dà anche l'illuminazione sulle realtà ultime, in quanto mostra, con una evidenza interiore, che la situazione definitiva della persona umana dinanzi a Dio sarà quella della v.: nella morte e dopo la morte l'uomo resta solo con Dio. L'unico amore per l'eternità resta l'amore eterno, il Dio amore che ha voluto essere amato come l'unico amore duraturo, vero, consistente.

E ciò non in opposizione agli altri legittimi amori, ma a fondamento ultimo e a criterio di ogni altro amore umano.

La v. assume, allora, una dimensione escatologica, non solo perché suggerisce di quale amore ogni persona che viene in questo mondo sarà beata nell'eternità, ma quale amore è necessario coltivare fin d'ora, per vivere nella verità, quindi, per non restare delusi.

Così, grazie anche a chi " sperimenta Dio come unico amore ", il cuore inquieto dell'uomo può orientarsi in mezzo agli amori umani, verso l'amore che sta all'origine e al termine di tutto.

Bibl. Aa.Vv., Castità, in DIP II, 644-678; P.G. Cabra, Con tutto il cuore, Brescia 199110; A. Marchetti - M. Caprioli, Castità, in DES I, 467-474; Philippe de la Trinité, Amour mystique, chasteté parfait, in ÉtCarm 42 (1952), 17-24; R. Plus - A. Rayez, Chasteté, in DSAM II, 777-797; A.M. Sicari, Castità, in Aa.Vv., Dizionario di spiritualità dei laici, I, Milano 1981, 97-100; R. Terenzi, Amore, sessualità, castità. Valori per una scelta di vita, Roma 1986.

P.G. Cabra

VERNAZZA BATTISTINA. (inizio)

I. Vita e opere. B. nasce a Genova nel 1497 ed è battezzata col nome di Tommasina, madrina al fonte battesimale Caterina Fieschi, l'ardente s. Caterina da Genova della quale il padre Ettore è amico e collaboratore nella fondazione di ospedali e opere caritative.

B., secondo il costume del tempo nelle famiglie del suo rango, riceve un'educazione culturale umanistica: lingua latina e lingua volgare, letteratura classica e biblica, studio della musica e del canto. Si distingue nell'uso del cembalo che suona con passione.

Le sorelle Catetta e Ginevra si fanno monache e Battistina, a soli tredici anni, decide di seguire il loro esempio scegliendo di entrare nel monastero della Madonna delle Grazie delle canonichesse regolari lateranesi.

La sua vita di religiosa scorre apparentemente uniforme tra le pareti del monastero dove, senza clamore esterno, ricoprirà nel tempo, per due volte, la carica di priora: dal 1547 al 1553 e dal 1577 al 1581. Muore nel maggio 1587.

Il silenzio è la caratteristica profonda dei lunghi giorni che V. trascorrerà nella clausura scelta. La sua esperienza interiore si matura inizialmente accompagnata dalla riflessione sui problemi che le va ponendo il suo rapporto con Dio. Nascono così, in questo periodo, i quarantasei Dubbi sullo stato di unione ch'ella sottopone al giudizio di un teologo. Si tratta di una forma di riflessione che risente della sua preparazione concettuale, ma che già indica l'incalzante bisogno che le nasce dal profondo dell'anima di abbandonarsi all'attrattiva di Dio.

I Colloqui - organizzati poi in piccoli trattati sulla contemplazione - segnano il passaggio verso il progressivo abbandono alla vita unitiva.

Tra i suoi scritti vanno ricordati i componimenti poetici, le lettere e un'autobiografia composta per obbedienza al suo direttore spirituale.

II. Esperienza mistica. Il cammino spirituale di V., che rapidamente s'inoltra verso la contemplazione, è segnato da un episodio iniziale di rilievo quando, per la prima volta, percepisce, durante la preghiera, una voce che le comunica un messaggio in risposta alla sua richiesta di voler morire in Cristo secondo la parola di s. Paolo: " Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio " (Col 3,3). Questa voce diventerà presto, nella sua percezione, un dialogo tra una terza persona e un " tu " divino a cui lei stessa si rivolge. Capirà in seguito che quel " tu " coincide con la terza voce mentre gradatamente, come riferisce nei Colloqui, riuscirà a passare dalla preghiera attiva a quella passiva e ad aprire il cuore alla pura disponibilità (cf Colloqui 15-20).

La sua vita si cala sempre più nel silenzio perché il tipo di contemplazione uditiva che l'alimenta richiede questo stato di totale ascolto. Il suo essere profondo è immobilità e silenzio nell'ascolto, è un io che si annulla e, in questo annichilimento mistico, il " tu " di Dio diventa " bocca " che le propone di " divorarla ". " Onde che nell'istesso benedetto giorno (festa dell'Epifania) dovendo andare a riceverti in sacramento, sentii più volte dentro, tua maestà chiamarmi, dicendo: "Vieni che ti voglio tutta divorare" " (Ibid. 16).

L'identificazione con Cristo crocifisso si precisa nella profezia che le annuncia che anche a lei, nella sua morte, sarà aperto il petto perché ne esca acqua e sangue: " Quando tu sarai morta, io ti aprirò il petto e n'uscirà sangue ed acqua, ed ognuno ne beverà " (Ibid. 9).

L'interpretazione è che si tratti dell'alimento fecondo dei suoi scritti offerti agli uomini che vorranno nutrirsene. Gli stati di estasi e la dolcezza dei colloqui con Dio non toglieranno mai a V. l'affiorare del dubbio che si tratti d'inganno. Annota in fretta, subito dopo aver udito la voce, ciò che le viene detto e se una parola non sa più se veramente le è stata comunicata, annota anche questa sua perplessità. Tale perplessità, tuttavia, non la tormenta, ma contribuisce a semplificare e a rendere trasparente sempre più il suo abbandono all'essenzialità di Dio: " Le sopraddette cose ho trovate notate in diversi papiretti, quali, dopo la santa Comunione, dovendo andar all'offizio, le notava così confusamente, per giungere con l'altre al detto offizio, pensando di scriverle poi compiutamente. Ma sia per oblivio o sia perché non m'assicurava che fossero da tua maestà, son restate così imperfette; ed ora, accoppiandole, le ho fatte di parola in parola così schiette com'erano... " (Ibid. 23).

Quando V. lascerà questa vita, si sarà probabilmente avverata la parola che ne caratterizza il cammino: " Tanto in me ti nasconderò che non troverai te stessa... " (Ibid., 22).

Bibl. Opere: D. Dionisio da Piacenza (cura di), Opere spirituali della reverenda et devotissima vergine di Cristo Donna Battistina da Genova canonica Regolare Lateranense, 3 voll., Venezia 1588. Studi: C.A. Boeri, Una gloria di Genova ossia compendio della vita della Ven. Battistina Vernazza, Genova 1906; U. Bonzi da Genova, La vénérable Battistina Vernazza, in RAM 16 (1935), 147-179; Cassiano da Langasco, s.v., in BS XII, 1040-1042; J. Heerinckx, s.v., in DSAM I, 1240-1242; D. Mondrone, Donna Battista Vernazza mistica e umanista del Cinquecento, in CivCat 119 (1968), 253-260; N. Petrocchi, Storia della spiritualità italiana, II, Roma 1978; G. Pozzi e C. Leonardi (cura di), Scrittrici mistiche italiane, Genova 1988, 363-381; G. Scatena, s.v., in EC XII, 1286-1287.

M. Tiraboschi

VERONICA GIULIANI (santa). (inizio)

I. Cenni biografici e scritti. Il 27 dicembre 1660, in casa Giuliani, a Mercatello sul Metauro nell'entroterra pesarese, nasce la settima figlia, che nel battesimo riceve il nome di Orsola. Due sorelle non sopravvivono; anche la mamma ben presto lascia la famiglia, ma prima della morte affida le figlie alle cinque piaghe del Signore. A Orsola, che ha appena sette anni, tocca in sorte quella del costato, e questo diventa quasi un segno profetico per quella che sarà poi tutta la sua vita.

A diciassette anni Orsola, che è una ragazza vivace, espansiva e molto corteggiata, vince le ultime resistenze del padre ed entra nel monastero delle clarisse cappuccine a Città di Castello e qui assume il nome di Veronica. Di giorno in giorno crescerà nell'essere come la donna che, non riportata nei Vangeli ma viva nella tradizione, durante il viaggio al Calvario si avvicina a Gesù per confortarlo nell'asciugargli il Volto coperto di sangue, sputi e polvere, coperto delle ferite che sfigurano la bellezza della creatura fatta a " immagine e somiglianza di Dio ". Per V. non ci sarà impresso il Volto su un candido lino, ma lei stessa assumerà i tratti di " vera icona " di Gesù.

Tutta la vita di V., che si chiuderà il 9 luglio 1727 a Città di Castello, sarà un crescere nell'assimilazione, non alla croce, ma al Crocifisso, a Colui che è andato sulla croce e che, risorto, è il vivente per sempre e per il quale non è assurdo giocare tutta la propria vita.

Per conoscere e penetrare nell'esperienza mistica di V., la strada più semplice e sicura è andare direttamente ai suoi scritti: alle circa ventiduemila pagine del suo Diario, scritto giorno per giorno a partire dal 1693, alle Relazioni autobiografiche, alle Lettere e alle Poesie, accessibili in edizioni complete e in estratti.

II. Esperienza mistica. V. risente logicamente dell'ambiente in cui nasce e vive, della sua famiglia, della formazione e spiritualità dei confessori e direttori spirituali, della storia civile ed ecclesiastica del suo secolo, dei fenomeni del giansenismo e del quietismo, dei libri che legge: ma tutto questo è solo il paesaggio, il luogo, lo sfondo in cui avviene l'incontro: l'incontro che dà senso alla sua vita, dove importante è solo la persona amata. Si scopre in V. una donna innamorata che si lascia " condizionare " solo dallo Sposo, Gesù, il Crocifisso risorto. E docile ai direttori spirituali che, tra l'altro, le impongono di scrivere il diario e le memorie autobiografiche; è sottomessa alle autorità ecclesiastiche, alle sue superiore, alle monache consorelle, ma... non ne è mai succube, accetta anche le ingiustizie, ciò che con ragionamento, secondo la mentalità del mondo, è controsenso, non per debolezza o incapacità di reazione: basterebbero alcune frasi del Diario a dimostrarci il contrario. Ad esempio, quando è tormentata da una connovizia, scrive: " ...Mi sentivo crepare lo stomaco dalla violenza... " o " nel mio interno quanto contrastavo per vincermi... ", ma perché il suo cuore possiede il Tesoro unico, è in comunione con lui ed è da lui posseduta.

Gesù, suo Maestro e Sposo, le parla in modo straordinario, spesso con segni particolari, ma è fondamentale cogliere come questi modi straordinari scaturiscano dall'ordinario contatto quotidiano con la Parola di Dio attraverso i salmi e le letture della liturgia quotidiana, da come si snoda il mistero di Cristo nell'anno liturgico, da quella preghiera vitale continuata anche fuori dal coro nelle occupazioni quotidiane, dai sacramenti, in particolare dalla confessione e in modo eminente dall'Eucaristia a cui, secondo l'usanza del tempo, non poteva partecipare ogni giorno, ma che desiderava sempre ardentemente.

Questo permette di scoprire sempre più una V. incentrata nel mistero pasquale, nel vivere in pienezza l'iniziazione cristiana che si può riassumere nel paolino: " Non sono più io che vivo è Cristo che vive in me " (cf Gal 2,20); anche il suo " patire " e " gioire nel patire " e " voler patire ", non esprimono masochismo, ma semplicemente un essere una " sola cosa " con il Signore Gesù, " carne della sua carne, osso delle sue ossa ". Si comprende così che il " matrimonio mistico " non è un qualche cosa di aereo, ma entra nella concretezza feconda della vita.

Attraverso le pagine del Diario si scopre come, proprio perché tutta dello Sposo Gesù, V. sia la " donna per gli altri ", la missionaria, la riparatrice o come ella si definisce la " mezzana ", colei che si mette in mezzo, che sta sulla porta, perché chi arriva lì non vada alla perdizione, ma riceva la " buona notizia " della salvezza. Le mura della clausura non costituiscono impedimento per sentire i palpiti del mondo con tutti i suoi problemi e affanni e donarsi a quanti vivono, operano, soffrono. Nella pratica del suo agire per gli altri dimostra come il " cuore non tolleri clausure ", ma si allarghi e spazi negli orizzonti stessi di Dio per essere come lui misericordiosi.

Voler portare nel proprio corpo le " stimmate ", la passione di Gesù non è un anacronismo, un fenomeno strano, ma è aver capito come " Gesù si sia caricato di tutti i nostri mali "; e allora chi, come lei e come dovrebbe essere di ogni battezzato, vive in Cristo, in forza dell'iniziazione cristiana, si fa carico di tutte le ferite dell'umanità (anche se non le vede con gli occhi di carne sul proprio corpo...) e si presenta al Padre, come Gesù, nella veste del Servo sofferente dalle cui piaghe tutti sono guariti. Si può dire che la caratteristica nota cristiana della " passione " di V. sia quella del volto gioioso, del calore umano e della misericordia verso il prossimo, della serenità profonda di chi sa con certezza che Gesù è il risorto, è il vivente che non muore più.

Accostarsi a V. è, in fondo, vederla come la discepola che in tutto segue la sorte del Maestro: importante è questo annuncio di sequela del Maestro con cuore da innamorata, e può capirla solo chi è in questa sintonia. I modi concreti di manifestazione di questo incontro sono poi diversi per ogni persona.

Una chiave particolare per comprendere l'esperienza mistica di V. è quanto dice a proposito dell'Eucaristia, una vera esperienza di contatto col fuoco dello Spirito, di quel " carbone acceso " che entra in noi quando ci accostiamo alla mensa eucaristica, che ci " trasfigura " e ci rende come Gesù, il Figlio diletto, offerta gradita al Padre nello Spirito. L'esperienza eucaristica comunicata da V. manifesta una sintonia formidabile con sublimi testi di omelie e inni di grandi Padri orientali. Leggiamo ad esempio: " Mi sentii tutta ardente; abbruciavo e non vedevo fuoco, sentivo come consumarmi, e non sapevo come. Tutto ciò mi staccava da tutto: davami solo brama di amare Iddio. Altro non mi ricordo che io andassi dicendo se non che queste precise parole: o Amore, o Amore! e più volte replicavo: o Amore! "

Tutto ciò permette di definire la sua esperienza interiore come mistica della riparazione, attraverso cui ella si offre a Dio come vittima di espiazione per la salvezza degli uomini.

Non va dimenticata la familiarità con gli abitanti della Gerusalemme del cielo e in particolare con Maria, che si rivela come compagna di viaggio, consigliera, stimolo e modello nell'accogliere Gesù, soprattutto nel momento della sua " Ora ", e vivere di lui, per lui e con lui e giungere all'immersione nella lode della Trinità.

Una prova della solidità del cammino e della vita mistica di V. è data anche dagli attacchi del maligno che abilmente s'infiltra, ma che " nel Nome di Gesù ", nella ricerca costante del " progetto di Dio ", viene smascherato e messo in fuga.

Bibl. Su Veronica Giuliani esiste una produzione immensa di scritti, dalle biografie che si sono succedute a partire dal 1776 fino ai nostri giorni, agli studi su vari temi e tappe della sua esperienza mistica. Due biografie, tra le ultime, si presentano fresche nel linguaggio, capaci di rendere attuale e viva oggi questa figura di donna " cristiana " nel senso pieno della parola: Fernando da Riese Pio X, Santa Veronica Giuliani, Padova 1985, con tavole fuori testo, ricca e aggiornata bibliografia; R. Bistoni, Santa Veronica Giuliani, Perugia 1995. Lexicon cappuccinum, Roma 1951, 1801-1803; Felix a Mareto, Bibliographia vitae et operum sanctae Veronicae Giuliani, in Collectanea Franciscana, 31 (1961), 463-555. Studi: M. Baldini (cura di), Veronica Giuliani " Sola con Dio solo... Pensieri mistici, Roma 1992; G. Barone, s.v., in WMy, 511; F. Campanile, Bibliografia analitica generale su Veronica Giuliani, Messina 1986; Felice da Mareto, s.v., in BS XII, 1050-1056; C. Gatti, Gli scritti di santa Veronica Giuliani: il dramma di un'anima religiosa, in Giornale storico della Letteratura Italiana, 72 (1922), 161-212; L. Iriarte, s.v., in DSAM XVI, 473-483; Id., Santa Veronica Giuliani. Experiencia y doctrina mística, Madrid 1991; C. Lucchetti, Itinerario mistico di santa Veronica Giuliani, Siena 1983; Id., Ascesa spirituale e misticismo di santa Veronica Giuliani. Dagli inizi all'unione trasformante, Città di Castello (PG) 1983; Metodio da Nembro, s.v., in DES III, 2630-2633; Id., Misticismo e missione di santa Veronica Giuliani, Milano 1962; R. Piccinelli, La teologia della croce nell'esperienza mistica di S. Veronica Giuliani, Assisi (PG) 1988; L. Radi, S. Veronica Giuliani e la mistica dell'espiazione, Assisi (PG) 1997.

G. Oberto

VINCENZO DE' PAOLI (santo). (inizio)

I. Cenni biografici. V. de' Paoli (o Depaul, o de Paul, 1581-1660) nato a Pouy vicino Dax, nelle Lande, nell'aprile del 1581, è il terzo di sei figli di Jean Depaul e Bertrande de Moras (o Demoras). La sua vita può essere divisa nei seguenti periodi: a. il tempo della ricerca (1581-1608); b. il tempo della conversione (1608-1617); c. il tempo delle fondazioni (1617-1633); d. il tempo dell'irradiazione (1634-1660).

Ordinato presbitero nel settembre 1600, a diciannove anni, in un primo tempo cerca solo di fare carriera. Fa una feconda esperienza pastorale nella parrocchia dei SS. Salvatore e Medardo di Clichy. E poi cappellano della famiglia Gondi.

Nel 1617 ha la manifestazione della sua vocazione. Nel gennaio a Folleville, vicino ad Amiens, è chiamato al capezzale di un moribondo che chiede un confessore. Ha la rivelazione della terribile povertà spirituale della Francia del suo tempo. Poi, nell'agosto a Châtillon-les-Dombes, non lontano da Lione, viene a contatto con l'altra faccia della miseria, la povertà materiale.

Crea dapprima le " Carità " (1617), associazioni di laici che vogliono una Chiesa come luogo della carità. Secondo il santo, nel battesimo c'è la vocazione al servizio. Egli è convinto che la carità cristiana debba precedere, esplorare gli ambiti inediti e colmare i bisogni radicali dell'uomo: bisogno di compagnia, di condivisione.

Viene poi la Congregazione della Missione (1625). Essa assume un duplice compito: evangelizzare le campagne e formare i sacerdoti con i ritiri, i seminari e gli incontri formativi. Dalle Carità (1633) si sviluppano le figlie della carità, suore di vita attiva, senza clausura, con voti annuali privati, esenti dagli Ordinari, ma anche con una Regola che rimane a lungo senza alcuna approvazione da parte della S. Sede.

II. Spiritualità e mistica. A lungo V. è stato presentato come il santo dell'azione, caratterizzato da una spiritualità ascetica e molto pratica. La realtà è diversa. Egli è un uomo di fede, ma che appartiene a un mondo che stenta a morire, il mondo della Chiesa prima di Trento, che considera il sacerdozio un beneficio, non una missione. La sua spiritualità non è teorica, ma nasce dalla duplice esperienza di Cristo e dei poveri. Le sue fonti ispiratrici sono, pertanto, il Vangelo e la vita. Fra gli autori coevi più che Bérulle, di cui è stato discepolo, occorre sottolineare la dipendenza da Benedetto da Canfield e da s. Francesco di Sales.

Al centro della sua spiritualità c'è la SS.ma Trinità, che egli contempla nelle sue relazioni soprattutto in funzione dell'origine incandescente della carità.

Riscopre Cristo, non in una visione o in una parola di rivelazione, ma nei due incontri di Folleville e Châtillon. Si verifica in lui una conversione che lo decide ad operare per la ricerca di Dio nel servizio dei poveri: " Dio ama i poveri e per conseguenza ama coloro che amano i poveri perché quando si ama molto una persona si sente affetto anche per i suoi amici e per i suoi servi... Perciò abbiamo motivo di sperare che per amore loro Dio ci amerà. Coraggio... dedichiamoci con rinnovato amore al servizio dei poveri, cerchiamo anzi i più miserabili e i più abbandonati, riconosciamo dinanzi a Dio che sono essi i nostri signori e padroni e che non siamo degni di prestare loro i nostri umili servizi (SV XI, 392ss.). Il suo Cristo è, pertanto, l'evangelizzatore dei poveri. Il testo programmatico della sua vita è Lc 4,18-19.

Non ci può essere amore di Dio se non si conduce il prossimo ad amare Dio: " Non mi basta amare Dio se il mio prossimo non lo ama " (Ibid. XII, 262). Il prossimo è immagine di Dio. E niente, ma è un niente rivestito di Cristo, abitato da Cristo, quindi, diventa un mezzo per raggiungere il Cristo.

In questa ascesa, il santo richiama le due grandi virtù di Cristo, vale a dire la religione verso il Padre e l'amore per l'uomo (cf SV XII, 108). Nel primo movimento c'è una forte dominante ascetica, anche perché nel suo insegnanento doveva formare uomini e donne chiamati a " darsi a Dio per servire i poveri ". Parlando, però, della preghiera avverte che, oltre e sopra la meditazione, c'è il momento passivo in cui Dio interviene, per cui l'anima non fa altro che ricevere ciò che Dio dona. E una forma di preghiera che si trova ordinariamente presente nei ritiri delle sue suore. Nella sua pedagogia della preghiera non c'è solo un bisogno di interiorizzazione, ma anche un sincero anelito di comunione. Nelle ripetizioni di orazione e conferenze (famose le conferenze del martedì, riservate ai sacerdoti secolari) c'è in lui la proposta di partecipare nella preghiera ai doni degli altri.

Si capisce, pertanto, come le virtù vincenziane (semplicità, umiltà, mansuetudine, mortificazione, zelo delle anime) non siano realtà ferme, ma essenzialmente dinamiche. Sono segno di una santità che si deve comunicare all'uomo. Tutta l'azione apostolica è, pertanto, giocata sull'unione di carità e Vangelo, di evangelizzazione e testimonianza della carità.

Il movimento di carità s'innesta sull'Incarnazione. Il servizio non è un puro fare, ma è soprattutto scoperta mistica del Cristo presente nei poveri. Essi sono " nostri signori e padroni, nostri re "; anzi Cristo è presente in loro. Di qui scaturisce il principio del " lasciare Dio per Iddio " (Ibid. VI, 47 e passim), secondo il quale il servizio compiuto con questa densità interiore, come ricerca concreta della volontà di Dio, non impoverisce interiormente, non diventa occasione di abbandono della preghiera, ma permette di trovare e di incontrare Dio. Da qui anche l'insegnamento, che è più importante, " l'esercizio della volontà di Dio " quello della " presenza di Dio " (Ibid. XI, 319). " Altri si sono proposti di operare con purità di intenzione, di scegliere Dio nelle cose che sopraggiungono, per farle o sopportarle per amor suo. Ciò è molto sottile " (Ibid. XII, 152). La perfezione non consiste nelle estasi, ma in una perfetta comunione di volere e non volere con il Cristo, come il Cristo con il Padre (Ibid. XI, 317).

Il santo distingue una volontà attiva e una passiva. Quest'ultima si ha quando Dio stesso compie in noi il suo volere senza che vi pensiamo (cf Ibid. XII, 160). Il santo suggerisce di scegliere nelle cose indifferenti ciò che meglio contribuisca a mortificare, privilegiando comunque l'abbandono alla Provvidenza: " Quanti tesori sono nascosti nella santa Provvidenza e come onorano supremamente nostro Signore quelli che la seguono e che non la scavalcano " (Ibid. I, 68).

Grazie a questo principio, le comunità di vita attiva sono liberate dal pericolo dell'attivismo o dalla tentazione di un rimpianto misticheggiante per realizzare una spiritualità della carità che può ben essere definita mistica dei poveri o dell'azione.

Bibl. Fonti: P. Coste, Saint Vincent de Paul, Correspondance, entretiens, documents (=SV), 14 voll., Paris 1920-25; XV, Paris 1970; Conferenze spirituali alle Figlie della Carità, a cura di L. Mezzadri, Roma 1980. Studi: Aa.Vv. Monsieur Vincent témoin de l'Évangile, Toulouse l990; Aa.Vv., Diccionario de espiritualidad vincenciana, Salamanca 1995; F. Antolín Rodríguez, s.v., in DES III, 2637-2638; H. Bremond, Bérulle et Vincent de Paul, in Id., Histoire littéraire du sentiment religieux en France depuis la fin des guerres de religion jusqu'à nos jours, 31, La conquête mystique. L'École française, Paris 1925 (n.ed., Paris 1967); P. Defrennes, La vocation de Saint Vincent de Paul. Étude de psychologie surnaturelle, in RAM 13 (1932), 60-86, 160-183, 294-321, 389-411; A. Dodin, s.v., in DSAM XVI, 841-863; Id., Saint Vincent de Paul et la charité, Paris 1960, Id., Théologie de la charité selon Saint Vincent de Paul, in Aa.Vv., Humanisme et foi chrétienne, Paris 1976, 633-647; Id., L'esprit vincentien. Le secret de saint Vincent de Paul, Paris l981; Id., En prière avec Monsieur Vincent, Paris 1982; Id., François de Sales, Vincent de Paul les deux amis, Paris 1982; J.M. Ibáñez, La fe verificada en el amor, Madrid 1993; L. Mezzadri, San Vincenzo de' Paoli. Il primato della carità, in Aa.Vv., Le grandi scuole della spiritualità cristiana, Roma 1984, 553-576; L. Mezzadri et Al., La spiritualità cristiana nell'età moderna, Roma 1987; L. Mezzadri, La sete e la sorgente, 2 voll., Roma 1992-94; A. Orcajo - M. Perez Flores, San Vicente de Paul. II: Espiritualidad y selección de escritos, Madrid 1981; J.M. Román, San Vincenzo de' Paoli. Biografia, Milano 1996; SIEV, Colloquium vincentianum: Le Christ de Monsieur Vincent, in Vincentiana, 30 (1986), 234-408; G. Toscani, La mistica dei poveri, Pinerolo (TO) 1986; Id., Amore, contemplazione, teologia, Pinerolo (TO) 1987.

L. Mezzadri

VIRTU' CARDINALI. (inizio)

Premessa. Nella teologia realista, l'essere personale si " costruisce " agendo personalmente e subendo passivamente l'azione divina sia della grazia che dei doni dello Spirito Santo. L'operatio sequitur esse, ma esse perficitur operando e lasciandosi agire dal Signore. La relazione è reciproca come tra l'albero e i frutti nel discorso di Gesù (cf Mt 7,15-19). La vita mistica dell'influsso abituale dei doni dello Spirito Santo si caratterizza con una certa passività di fronte a Dio, con la semplificazione della vita e l'esperienza di Dio. L'essere, vivere ed agire non solo nella presenza del Signore, come coglievano la morale e la mistica tradizionale, ma soprattutto con la presenza del Signore. L'accento si pone sull'esperienza globale del credente che vive la sua vocazione alla vita divina nella società umana e nella Chiesa per costruire il regno di Dio con una consapevolezza della conoscenza contemplativa " quasi sperimentale di Dio " e delle cose divine tanto da poter dire con s. Paolo " non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me " (Gal 2,20), Cristo con il Padre e con lo Spirito Santo. Si arriva all'autentica vita mistica quando tutto l'essere personale è " permeato " dalla grazia di Dio, " preso " da essa, e si " è lasciato " totalmente guidare dai doni dello Spirito Santo. Per entrare, però, nella vita mistica, nell'unione con Dio che si esprime nella contemplazione, nell'orazione e nell'agire (comportarsi, porsi) di fronte a se stesso, agli altri, a Dio, per sperimentare la vita sotto l'influsso dei doni dello Spirito Santo, occorre una personalità unificata dalle tre virtù teologali e dalle quattro virtù morali cardinali allo stato superiore, eroico ed unitivo, vissute nella prospettiva storico-salvifica. Il centro della morale è costituito dalla persona del credente che vive alla presenza del Signore e il centro della persona-mistica è Dio che vive pienamente la sua presenza. La connessione delle v. attorno alla carità e alla prudenza forma un unico organismo dinamico e spirituale. La prudenza unisce tutte le virtù morali, la carità invece quelle teologali e i doni dello Spirito Santo. Per impostare il discorso sia sulla morale che sulla mistica, soprattutto dell'essere, si deve tener conto dell'antropologia teologica (chi è l'uomo nella storia della salvezza: creato da Dio a immagine e somiglianza sua, peccatore e salvato da Cristo), della complessa struttura interna dell'uomo (unità tra l'anima e il corpo), delle diverse, e non unite dalla natura, sue facoltà operative (la ragione, la volontà e l'affettività) ed infine della complessa struttura del suo atto morale e mistico. Occorre strutturare tutta l'unione (comunione) con Dio attorno all'amore-dono e alla presenza di Dio che ha preso possesso di tutto il nostro essere: l'intelligenza, la volontà e l'affettività. Non basta saper discernere il bene dal male (la prudenza), è necessaria anche la fortezza per evitare l'uno e praticare l'altro con perseveranza e senza perdersi d'animo; sono necessarie la temperanza, che supera le difficoltà derivanti dall'affettività, e la ferma volontà di dare a ciascuno il suo (giustizia). L'unione con Dio, che è caratteristica dei mistici nell'età unitiva, esige - secondo i maestri mistici come Dionigi l'Areopagita, s. Tommaso d'Aquino, s. Teresa d'Avila e s. Giovanni della Croce - che si attraversi prima lo stato iniziale e purificatore. Le tappe non possono essere saltate. A noi interessa l'ultima, perciò consideriamo le prime due come presupposte e passiamo a delineare, a grandi linee, le quattro virtù cardinali nell'età mistica. Le virtù tutte insieme fanno sì che l'uomo diventi padrone di se stesso e permetta a Dio-Trinità di diventare padrone della sua vita, formi il suo volto interiore lasciandosi formare come l'essere vivente sotto l'influsso e la guida dello Spirito Santo.

I. PRUDENZA. 1. Il cristiano, per affrontare degnamente la complessità della sua vita comunitaria nella prospettiva storico-salvifica, dev'essere un mistico che si lascia plasmare e guidare dal di dentro dalla grazia del Signore e dai doni dello Spirito Santo. In concreto, il cristiano che vive la comunione con Dio, sotto la guida dello Spirito, formula i giudizi e prende, sulla base di essi, le decisioni e successivamente le realizza dando così testimonianza della trasformazione interiore operata da Dio nel suo essere. 2. Il contesto dell'esistenza e dell'azione prudente non può essere solo individuale, anzi sempre più diviene quello socio-culturale e salvifico-storico. Gesù manifesta la vita prudente del suo regno nelle parabole sulle vergini prudenti e non (cf Mt 25,1-13), sul costruttore della torre (cf Lc 14,28-30), sul re che deve affrontare una battaglia (cf Lc 14,31) e raccomanda ai suoi discepoli: " Io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe " (Mt 10,16). S. Paolo, a sua volta, ci presenta la p. come una ricerca permanente di ciò che piace al Signore (cf Ef 5,10), come un discernimento su che cosa vuole Dio da noi, " cos'è buono, a lui gradito e perfetto " (Rm 12,2). La Bibbia, insomma, parla della p. e dell'uomo prudente, la tradizione patristica, invece, con una certa preferenza, di discernimento. Il Vaticano II non dice cosa sia la p., ma spesso raccomanda ai pastori della Chiesa il prudente consiglio, il prudente giudizio o invita ad agire con la p. (cf LG 37,20; OT 21,6; GS 50,34). Più esplicito è il CCC: " L'uomo, talvolta, si trova ad affrontare situazioni che rendono incerto il giudizio morale e difficile la decisione. Egli deve sempre ricercare ciò che è giusto e buono e discernere la volontà di Dio espressa nella legge divina " (CCC 1787). " A tale scopo l'uomo si sforza di interpretare i dati dell'esperienza e i segni dei tempi con la virtù della p., con i consigli di persone avvedute e con l'aiuto dello Spirito Santo " (CCC 1788). 3. Cosa è la virtù di p. mistica? La p. è una virtù cardinale conoscitivo-morale della ragione pratica che non solo permette di conoscere come agire, ma come agire bene nelle circostanze concrete, decidendo sulla base del giudizio vero e retto e compiendo l'azione decisa. Il mistico dirige la propria vita morale e quella degli altri perché è prudente. Gli atti essenziali nella p. sono: consigliare, scegliere e comandare. a. Il discernimento (consilium): la lettura personale e comunitaria del contesto storico-salvifico, della situazione (kairos attuale, segni dei tempi), in cui il cristiano prudente tiene conto dell'esperienza passata (memoria), di quella presente sua e di quella circostante (decifra i segni dei tempi, cf Mt 16,2-3) per formare un giudizio retto sul progetto futuro da compiere. Il giudizio sulle diverse possibilità include, altresì, la scelta tra le possibili alternative, sempre tenendo conto delle norme morali, degli atti concreti e dell'applicazione del giudizio sia all'appetito che all'operazione. b. La scelta (electio) del prudente è fatta sulla base della lettura dei segni dei tempi. Ciò che si è individuato hic et nunc come volontà del Signore, adesso si sceglie. Sia il giudizio che la scelta del progetto per portare avanti il disegno di Dio sono illuminati ed ispirati dai doni dello Spirito Santo. c. La decisione (praeceptum) di compiere il progetto consigliato, giudicato e scelto è il più importante atto della p. I tre momenti possono essere formati rettamente se inseriti nella vita delle tre virtù teologali e nell'unitaria visione della vita cristiana. L'uomo prudente ha coscienza delle seguenti note caratteristiche: conoscenza dei principi morali, capacità di sfruttare l'esperienza propria e altrui, vigilanza, percettività, docilità, capacità di ragionare correttamente, creatività, previdenza, capacità di vagliare bene le circostanze. Al contrario, egli evita gli ostacoli come precipitazione, esitazione, lentezza nelle decisioni, negligenza, razionalizzazione ed instabilità. La p. dirige non solo al fine debito personale, ma anche al fine comune o al bene comune della comunità. Ci sono, pertanto, specie di p. secondo i diversi beni da perseguire: personale, familiare (economica) e politica, pastorale e mistica in tutte le dimensioni precedenti. Per quanto riguarda la formazione della coscienza, il ruolo principale della virtù di p. è quello di " disporre la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo (...). Essa dirige le altre virtù indicando loro la regola e misura. E la p. che guida immediatamente il giudizio di coscienza. L'uomo prudente decide e ordina la propria condotta seguendo questo giudizio. Grazie alla virtù della p. applichiamo i principi morali ai casi particolari senza sbagliare e superiamo i dubbi sul bene da compiere e sul male da evitare " (CCC 1806). Le tre età della vita spirituale, purgativa, illuminativa e unitiva, rispettivamente formano la virtù di p. degli incipienti, dei proficienti e dei perfetti. Il nucleo centrale di ogni vita cristiana consiste nella carità unita alla fede e alla speranza teologali. Chi possiede la grazia, possiede tutte le virtù, quindi anche la p. L'aiuto dei doni dello Spirito Santo si fa sentire pienamente solo in quell'ultima età. Qui, il cristiano sperimenta la nuova luce (illuminazione) nelle sue capacità conoscitive per formare un giudizio vero e retto che dà una nuova energia (ispirazione e mozione) alla volontà ed alla affettività per attuare una scelta giusta e retta e induce alla sua realizzazione. Il cristiano trova aiuto nella vita prudente anche nelle grazie sacramentali, soprattutto nella riconciliazione e nell'Eucaristia. La p., guidata dalla carità diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo (cf Rm 5,5) diventa ormai la sapienza del mistico. Questi non soltanto sa leggere i segni dei tempi, sa fare le scelte giuste e realizzarle insieme agli altri e per gli altri, spinto dall'amore-dono, ma si lascia trasformare e fecondare totalmente dall'amore del Signore e dai doni dello Spirito Santo. Oltre alla p. acquisita c'è la p. infusa (divina) di tutti " coloro che camminano verso la somiglianza con Dio: e questi si dicono purificanti. E allora la p. ha il compito di disprezzare tutte le cose mondane per la contemplazione delle cose di Dio e di indirizzare tutti i pensieri dell'anima soltanto verso queste ultime (...). L'altra è la p. di coloro che si dicono purificati, cioè hanno già raggiunto la somiglianza di Dio. E allora la p. si riduce alla contemplazione delle sole cose divine " 1. Quest'ultima è nient'altro che la p. eroica che si manifesta spesso in atti che agli occhi degli uomini appaiono atti imprudenti, ma che in realtà si rivelano di una p. superiore per i risultati ottenuti. La p. del mistico dà testimonianza all'influsso dello Spirito Santo, via e dono del consiglio. " I sette doni dello Spirito Santo sono la sapienza, l'intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio. Appartengono nella loro pienezza a Cristo, Figlio di Davide. Essi completano e portano alla perfezione le virtù di coloro che li ricevono. Rendono i fedeli docili ad obbedire con prontezza alle ispirazioni divine " (CCC 1831). Dio dirige l'uomo per mezzo del consiglio e non per mezzo del giudizio o del precetto.

II. GIUSTIZIA. 1. L'uomo, consapevole di essere creato a immagine e somiglianza di Dio e salvato da Cristo, non solo avanza le pretese dei diritti, ma riconosce anche i propri compiti verso gli altri, la famiglia, la società, la Chiesa, lo Stato e Dio. La fede e l'amore di Dio lievitano dal di dentro la vita della g. dei cristiani. La fame di g. può aprire l'uomo a Dio che " è la g. stessa ". Il cristiano ha coscienza che Dio, che " solo è giusto ", agisce nel mondo e nella Chiesa per manifestare la sua g. attraverso la sua testimonianza di vita. Il mistico, poi, sperimenta l'azione di Dio al grado superiore della g. in quanto attualizza già, qui ed ora, il compito fondamentale di ogni uomo: ritornare a Dio seguendo la strada indicataci sia dalla natura, che dalla grazia redentrice e dai doni dello Spirito Santo. 2. Nella Scrittura, a cominciare dalla Genesi (difesa della vita), attraverso l'Esodo fino ai profeti, si difendono sempre i poveri, le vedove, lo straniero, il prigioniero, il malato, il nudo e l'affamato. Il regno di Dio annunciato da Gesù, fondato sull'amore di Dio e del prossimo, richiama alla g. di Dio. Nel comandamento dell'amore è contenuto tutto ciò che concerne la g. Non può esserci amore senza g. e viceversa. L'amore " sovrasta " la g., ma allo stesso tempo trova in essa la sua verifica. " Beati quelli che hanno fame e sete della g., perché saranno saziati " (Mt 5,6). Gesù ha predicato la g. che supera quella degli scribi e dei farisei (Mt 5,20). Per mezzo di Cristo noi possiamo diventare " g. di Dio ", allora lui è la " stessa g. di Dio " (2 Cor 5,21). " Chi teme Dio e pratica la g. a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto " (At 10,35). La g. biblica è nient'altro che la santità come s. Giuseppe che è chiamato uomo giusto. La perfetta g. cristiana è g. infusa derivante dall'unione intima con Dio e compie tutti i doveri verso gli altri: famiglia, comunità religiosa, Chiesa e Stato ed, infine, verso Dio. Secondo il magistero, " la g. è la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto. La g. verso Dio è chiamata "virtù di religione". La g. verso gli uomini dispone a rispettare i diritti di ciascuno e a stabilire nelle relazioni umane l'armonia che promuove l'equità nei confronti delle persone e del bene comune " (CCC 1807). Il bene comune è orientato verso un ordine personale che ha come fondamento la verità, si edifica nella g., ed è vivificato dall'amore. La g. degli uomini, nei quali agisce la grazia trasformante, dà testimonianza alla g. divina. 3. La g. viene considerata una virtù che rende a ciascuno " quanto è dovuto ". Quanto gli è " dovuto " è fondato sulla sua dignità di figlio di Dio destinato alla visione beatifica, in unione con Dio e con i fratelli nel cielo, la quale già adesso comincia nella grazia e nel grado più alto della virtù di g. mistica guidata dal dono della pietà.

Nella g., come nelle altre virtù, s'incontrano diversi gradi, a cominciare da quello dei principianti, per passare a quello dei proficienti fino a giungere a quello mistico unitivo della g. eroica. Al centro di questo grado si trova Dio-Trinità che, con la sua presenza gratuita ed intima, trasforma l'essere del mistico e si manifesta attraverso la sua vita e la sua azione. L'uomo credente vive la sua comunione con il Signore e la sua g. come santità nei rapporti con Dio, con i confratelli o con la sua comunità (religiosa: Chiesa; civile: Stato) con il cosmo (la natura) e con se stesso. La virtù della g. ha tre forme fondamentali: commutativa, distributiva, legale e sociale. La commutativa, che concerne i rapporti tra gli uomini, " regola gli scambi tra le persone nel pieno rispetto dei loro diritti. La g. commutativa obbliga strettamente; esige la salvaguardia dei diritti di proprietà, il pagamento dei debiti e l'adempimento delle obbligazioni liberamente contratte. Senza la g. commutativa qualsiasi altra forma di g. è impossibile " (CCC 2411). La g. distributiva riguarda i rapporti della società (famiglia, comunità religiosa, Stato, Chiesa) con l'individuo; " regola ciò che la comunità deve ai cittadini in proporzione alle loro prestazioni e ai loro bisogni ". " I superiori attuino con saggezza la g. distributiva, tenendo conto dei bisogni e della collaborazione di ciascuno, e in vista della concordia e della pace " (CCC 2236). La g. legale aiuta l'individuo a sottomettersi al servizio del bene comune: perché " riguarda ciò che il cittadino deve equamente alla comunità " (CCC 2411). La g. sociale è assicurata dalla società " allorché realizza le condizioni che consentono alle associazioni e agli individui di conseguire ciò a cui hanno diritto secondo la loro natura e la loro vocazione. La g. sociale è connessa con il bene comune e con l'esercizio dell'autorità " (CCC 1928). C'è anche una forma di g. che concerne ciò che l'uomo deve a Dio come creatore: la virtù di religione che sfocia, nella vita cristiana, nel culto di Dio come Padre. Rendere culto a Dio come Creatore e Signore è compito della virtù di religione, ma rendere il culto a Dio Trinità è compito del dono di pietà come rendere l'onore al padre carnale e alla patria terrestre. Il mistico giusto onora tutti in quanto appartengono a Dio; offre il culto ai santi e il rispetto alla Parola di Dio o ai superiori. Il giusto mistico viene in aiuto, di conseguenza, ad ogni povero di qualsiasi tipo. Qui si tocca il livello mistico della g. I diritti e i doveri umani e cristiani che regolano i rapporti tra le persone scaturiscono dalla coscienza dell'unione (comunione con Dio e con i fratelli) dall'amore-dono, dalla presenza del Signore nella vita del cristiano, ma soprattutto dal dono dello Spirito Santo che guida tutti i rapporti del mistico cristiano con la sua luce e le sue ispirazioni interiori in mezzo alla comunità ecclesiale e civile.

III. FORTEZZA. 1. Il cristiano è consapevole dei mali che minacciano la dignità umana nei suoi diritti e nei diritti di intere nazioni e dei beni difficili da realizzare per costruire una civiltà dell'amore. Il peccato ha reso difficile l'attuazione della f. perché ha falsato sia l'autonomia dell'uomo che la sua capacità di vivere la morale di Cristo, nonché una vita mistica. Tale situazione esclude anche il bene arduo e un vero eroismo dalla vita cristiana di ogni giorno nelle piccole cose. La f. mistica è totalmente sotto l'influsso dei doni dello Spirito Santo. 2. Nell'AT cantando " mia forza e mio canto è il Signore " (Sal 118,14), l'israelita aveva viva coscienza della forza di Dio, della sua onnipotenza e della debolezza umana. Quando l'uomo presume di essere indipendente da Dio e da solo tenta di ottenere la felicità e la sua grandezza, le potenze del male lo asservono ed egli comincia a servire gli idoli. Nel NT l'arcangelo Gabriele afferma: " Nulla è impossibile a Dio " (Lc 1,37). Gesù che è " potenza di Dio " (Rm 1,16) afferma: " Non abbiate paura " (Mt 14,27) e " senza di me non potete far nulla " (Gv 15,5) prevedendo che " voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo " (Gv 16,33). La potenza divina che viene da Gesù per mezzo dello Spirito Santo (cf At 1,8) è concessa ai discepoli per realizzare l'opera salvifica nel mondo; annunciando coraggiosamente il messaggio evangelico (cf At 2,29; 4,31), dando la testimonianza a Cristo (cf At 4,13), restando fedele, stabile e fermo nella fede e nelle buone opere (cf 1 Cor 7,25; 16,13; Gv 15,4-9) con la pazienza e perseveranza fa progredire il discepolo nell'uomo interiore; per la buona causa egli è capace di " dare la vita " (Gv 15,13). In tutte le dimensioni della vita cristiana ci fortifica lo Spirito Santo (cf Ef 4,24; 6,10; cf CCC 1695). La lettura storico-salvifica e sociale della f. nel Vaticano II invita a superare l'etica individualistica e ad allargare i propri orizzonti alla dimensione sociale, nazionale ed internazionale (cf GS 30), da una parte, e a ritrovare l'impegno per la costruzione del regno cioè la dimensione storico-salvifica, dall'altra (cf LG 35). Così la f. cristiana deve cambiare la sua fisionomia interiore. " La f. è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene. Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli nella vita morale. La virtù della f. rende capaci di vincere la paura, perfino della morte, e di affrontare la prova e le persecuzioni. Dà il coraggio di giungere fino alla rinuncia e al sacrificio della propria vita per difendere una giusta causa " (CCC 1808). " Il martirio è la suprema testimonianza resa alla verità della fede; il martire è un testimone che arriva fino alla morte. Egli rende testimonianza a Cristo, morto e risorto, al quale è unito dalla carità. Affronta la morte con un atto di f. " (CCC 2473). 3. La virtù della f. è una capacità interiore (disposizione, qualità, abito operativo) che permette all'uomo la realizzazione del bene personale e comunitario arduo, superando le difficoltà incontrate fino alla morte; modera la struttura irascibile dell'uomo, rafforzandolo contro le paure e moderando la sua aggressività nel vincere le difficoltà; forma un essere prudente che esprime lo stile di vita del cristiano. La virtù della f. ha due atti principali: sustinere e aggredi. Il primo consiste nel sopportare il male presente, dominando le paure, il secondo nell'attaccare il male, moderando l'audacia. Il primo (sustinere) rafforza le virtù affini come la pazienza, la perseveranza, la longanimità che aiutano a realizzare il bene nonostante le difficoltà. L'attacco (aggredi) potenzia le virtù della magnanimità e della magnificenza. Il martirio è considerato dalla tradizione cristiana l'atto supremo della f. I vizi contrari alla f. sono da una parte la viltà, che fa abbandonare il bene morale a causa della paura, per eccesso di paura, la spavalderia dall'altra per difetto di paura. La temerità non tiene conto del pericolo e fa andare incontro al pericolo di perdere la vita senza valido motivo. La f. del sustinere ha il carattere della resistenza al male, mentre la f. dell'aggredi quello dell'impegno attivo, dell'intraprendenza creativa nella vita sia personale che sociale. La virtù di f. (acquisita ed infusa) al grado eminente, che è quella del mistico, impedisce all'anima di spaventarsi di fronte alla morte e davanti all'ignoto che supera la natura umana. Il dono della f. in-forma la f. mistica, dono dello Spirito non solo nei momenti eccezionali come quelli del martirio, ma anche nel normale quotidiano.

IV. TEMPERANZA. 1. La virtù della t. è già nominata nel libro della Sapienza come una delle quattro virtù principali (cf Sap 8,7). Nel NT sia Gesù (cf Mc 4,19) che Giovanni (cf 1 Gv 2,16) mettono in guardia contro le concupiscenze che soffocano la nascita e la crescita della Parola di Dio e del suo amore nel cuore dell'uomo. S. Paolo raccomanda la vita secondo lo spirito e non secondo la carne (cf Gal 5,16-26), ricordando che il corpo è tempio dello Spirito Santo (cf 1 Cor 6,19). L'insegnamento sull'astinenza, sulla sobrietà, sulla castità e sulla verginità come pure contro i loro vizi (gola, fornicazione, adulterio, ecc.) è costante nella Chiesa fino al Vaticano II. Il Catechismo della Chiesa Cattolica definisce la t. " la virtù morale che modera l'attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell'uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell'onestà " (CCC 1809). 3. Gli uomini dediti alla contemplazione dei misteri divini testimoniano la necessità della t. L'esperienza quotidiana se non è nutrita della Parola di Dio e non è illuminata ed ispirata dallo Spirito Santo difficilmente può superare le difficoltà derivanti dell'affettività in tutte le dimensioni della vita. La condizione necessaria della t. costituisce da una parte il pudore e dall'altra l'onestà. La t. nelle sue specie come l'astinenza (digiuno), la sobrietà, la castità con la verginità, dall'uomo spirituale intrapresa per la contemplazione di Dio, è fortemente connessa con la passione, la croce e la risurrezione del Signore. Il fine e la regola di essa è la beatitudine. Il digiuno come espressione della penitenza aiuta ad elevare più liberamente lo spirito alla contemplazione delle cose spirituali e alla gloria eterna che Cristo, risorgendo, ha inaugurato. In una visione globale e unitaria, la virtù della t. tende a dare un'impronta di autodominio, a creare uno stile di vita, a gestire la corporeità (inclusa la sessualità) e tutti i rapporti con sé, con gli altri, con il mondo e con Dio nella prospettiva della comunione delle persone basata sull'amore-dono, pertanto è segno eminente del regno futuro.

Note: 1 STh I-II, q. 61, a. 5.

Bibl. Prudenza: A. Dagnino, s.v., in DES III, 2058-2061; G.P. Evans, Cardinal Virtues: Prudence, Justice, Fortitude, Temperance, in Aa.Vv., The New Dictionary of Catholic Spirituality, Minnesota 1993, 114-117; R. Garrigou-Lagrange, Le tre età della vita interiore, 4 voll., Roma 1984; D. Mongillo, s.v., in NDTM, 1048-1065; J. Pieper, Sulla prudenza, Brescia 1965; R. Saint-Jean, s.v., in DSAM XII2, 2476-2484; Tommaso d'Aquino, STh I-II, q. 61; II-II, qq. 47-56. Giustizia: J.M. Aubert, s.v., in DSAM VIII, 1621-1639; M. Cozzoli, s.v., in NDTM, 498-517; A. Di Geronimo, s.v., in DES II, 1189-1193; J. Pieper, Sulla giustizia, Brescia 1965; Tommaso d'Aquino, STh I-II, q. 61; II-II, qq. 57-122. Fortezza: H.U. von Balthasar, Cordula ossia il caso serio, Brescia 1969; Ch.-A. Bernard, s.v., in DSAM V, 685-694; T. Goffi, s.v., in DES II, 1020-1024; E. Kaczy_ski, s.v., in NDTM, 459-468; J. Pieper, Sulla fortezza, Brescia 1965; Tommaso d'Aquino, STh I-II, q. 61; II-II, qq. 123-140. Temperanza: J. Pieper., Sulla temperanza, Brescia 1965; U. Rocco, s.v., in DES III, 2453-2454; R. Saint-Jean, s.v., in DSAM XV, 142-149; Tommaso d'Aquino, STh I-II, q. 61; II-II, qq. 141-170.

E. Kaczyski

VIRTÙ EROICA. (inizio)

I. La nozione nel corso dei secoli. Il concetto di v. fu scoperto da Aristotele ( 322 a.C.) nel linguaggio del popolo ed egli, all'inizio del l. VII dell'Etica nicomachea, lo riallaccia al brano dell'Iliade nel quale il vegliardo Priamo piange la morte di Ettore, le cui virtù avevano sfiorato la natura degli stessi dei (I. II, c. XXIV). Secondo lo Stagirita, la v. non è opposta alla " normale " malignità bensì alla bestialità nella quale l'uomo non è, in alcun modo, capace di dominare i propri affetti. Senza toccare realmente la sfera divina, la v. supera ogni misura di virtù umana. Ma non si può negare che gli uomini dell'antichità vedessero la v. realizzata soprattutto nella fortezza.

I grandi teologi del Medioevo, commentando Aristotele, si vedevano confrontati con il concetto e con il contenuto della v. La loro vera difficoltà consisteva nella nuova realtà di uomini, non più pre-cristiani bensì battezzati e dotati della grazia, nonché nell'esistenza delle virtù teologali di fede, speranza e carità, oltre l'umiltà. Si faceva, tuttavia, strada la coscienza che un grado straordinario di tutte le virtù non è possibile senza la presenza dei doni dello Spirito Santo.

La soluzione fu trovata soltanto nel '600 dal francescano conventuale Lorenzo Brancati ( 1693), secondo cui l'uomo che possiede l'abito della v. deve fare il bene expedite, prompte et delectabiliter sempre sotto l'influenza dei doni dello Spirito Santo. L'espressione habitus indica, fra l'altro, che gli atti della v. devono essere compiuti spesso. Benedetto XIV ( 1758) seguì il Brancati: " ...virtus christiana, ut sit heroica efficere debet, ut ea habens operetur spedite, prompte et delectabiliter supra communem modum ex fine suprannaturali, et sic sine humano ratiocinio, cum abnegatione operantis et affectuum subiectione ". L'elemento essenziale è costituito dall'elevazione dell'abito virtuoso che va oltre il livello delle virtù possedute dalla grande maggioranza degli uomini. E tale concetto è rimasto inalterato fino ad oggi benché la Chiesa sottolinei più fortemente il fatto che l'invito alla v. è rivolto a tutti i cristiani.

II. Nella concezione odierna. Secondo Royo Marin, " il costitutivo essenziale della mistica, ciò che la distingue e la separa da tutto il resto, è dato dall'attuazione dei doni dello Spirito Santo al modo divino e sovrumano, che produce ordinariamente un'esperienza passiva di Dio o della sua azione divina nell'anima ". Tutti gli autori, infatti, sono d'accordo sul fatto che mistica è sempre esperienza e che in questa esperienza affetto e speculazione non si escludono; al contrario, tale esperienza di Dio, tramite Gesù Cristo, presuppone l'attività dei doni dello Spirito Santo nell'anima. D'altronde, come si è visto, anche le v. devono la loro presenza nell'uomo ai medesimi doni.

Jordan Auman, senza trattare in modo dettagliato delle virtù eroiche, osserva: " In mezzo alle sofferenze che stanno causando una sensazione di totale assenza di Dio, l'anima continua a praticare le virtù in un grado eroico ed in una maniera che è più divina che mai (...). E evidente, perciò, che l'unico elemento mistico che non manca, neppure nelle terribili notti, è l'attività sovrumana dei doni, intensa nei periodi della purificazione passiva ".

L'importanza delle virtù eroiche per la teologia mistica si rivela nel fatto che l'unione mistica dell'anima diventa, in qualche modo, visibile soltanto grazie alle virtù eroiche, onde Aumann afferma: " Se la Chiesa canonizza solamente coloro che hanno praticato abitualmente le virtù infuse in grado eroico, irraggiungibile alle virtù in assenza dell'influenza dello Spirito Santo, operante a modo della divinità, ne segue che la Chiesa canonizza esclusivamente coloro che sono mistici ". Non sorprende che il processo di canonizzazione non prenda in considerazione la questione se un individuo abbia goduto della contemplazione infusa. La contemplazione e gli altri doni mistici, collegati con l'evoluzione normale della grazia santificante (e non, nota bene, le gratiae gratis datae, non necessarie alla perfezione) sono grazie intime che conferiscono al mistico l'ineffabile esperienza del divino. Da qui risulta che i doni, come tali, possono sfuggire all'esame di coloro che stanno verificando la santità di un servo di Dio. Essi possono divenire noti solamente in maniera indiretta, tramite i loro effetti meravigliosi, che sono le virtù praticate in grado eroico, ed è ciò che conferisce ad esse (le virtù) tale intensità sovrumana ed eroica. La causa di tale fenomeno è puramente interna, perciò dobbiamo applicare il principio del diritto canonico: De internis non iudicat Ecclesia. La Chiesa si occupa soltanto di ciò che è evidente all'esterno e può essere provato da una testimonianza: l'esercizio delle virtù cristiane in grado eroico.

III. Virtù e mistica. Le virtù eroiche sono, quindi, niente altro che il lato, in qualche modo visibile, della vita mistica, in sé nascosta. J. Aumann dice giustamente che nella Chiesa primitiva non esisteva quella distinzione concettuale tra eroismo morale e vita mistica che caratterizza le epoche successive, specialmente gli ultimi tre secoli: " Nei primi secoli del cristianesimo, il soprannaturale, interpretato come sinonimo di eroico e sovrumano, è stato considerato l'atmosfera normale per la Chiesa di Cristo ". E, malgrado i peccati naturalmente commessi, questo " standard " rimase fissato dalle persecuzioni e dai conseguenti martiri e durava ancora ai tempi di Giovanni Crisostomo e di Agostino. Gli espedienti della teologia morale moderna, i tentativi di ridurre la legge di Cristo all'" umanamente tollerabile " erano ancora impensabili.

Bibl. J.M. Aubert, Vertus, in DSAM XVI, 485-497; J. Aumann, Teologia spirituale, Roma 1991; A. Eszer, Il concetto della virtù eroica nella storia, in Aa.Vv., Sacramenti, Liturgia e Cause dei Santi. Studi in onore del card. Giuseppe Casoria, Napoli 1992, 605-636; R. Garrigou-Lagrange, Les trois âges de la vie intérieure, prélude de celle du ciel, II, Paris 1951, 582-631; T. Goffi, Eroismo, in NDS, 478-493; R. Hofmann, Die heroische Tugend. Geschichte und Inhalt eines theologischen Begriffs, München 1933, XIII e 220; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 307-340.

A. Eszer

VISIONE BEATIFICA. (inizio)

Premessa. La v. è la conoscenza immediata, diretta e chiara dell'Essenza divina, la quale, per la sua infinita immaterialità e attualità, si unisce senza mediazione di specie intelligibili all'intelletto umano, intrinsecamente elevato nella sua capacità conoscitiva dal lume della gloria emanante dalla grazia santificante giunta alla sua perfezione. Dal punto di vista della mistica interessano soprattutto due problemi: 1. Se la v. possa venir concessa nella vita presente; 2. Quale influsso abbia sullo sviluppo della vita spirituale, specialmente quella mistica.

I. Quanto al primo problema, non mancano teologi che negano genericamente tale possibilità. Tuttavia s. Agostino e s. Tommaso ritengono che Dio saltuariamente (per modum actus) e miracolosamente, cioè sospendendo l'uso dei sensi, possa elevare l'intelletto alla v. Poiché il modo connaturale all'intelletto umano in tutte le sue operazioni è la dipendenza dalle specie attinte dai sensi, una tale conoscenza dell'Essenza divina è " miracolosa " ed essendo " per modum actus ", non costituisce l'uomo " comprensore ". Queste condizioni i due santi dottori le vedono in due soli episodi: la visione di Mosè sull'Oreb (cf Es 33,18) e il rapimento di Paolo al terzo cielo (cf 2 Cor 12,2-4). Alcuni teologi hanno creduto di poter affermarlo anche della visione di Elia, parimenti sull'Oreb, all'ingresso della caverna, quando Dio gli si fa presente nel mormorio di un vento leggero (cf 1 Re 19,12-13). Oggi gli esegeti sembrano meno propensi a queste interpretazioni e sottolineano piuttosto la trascendenza assoluta di Dio, inaccessibile in questa vita ad ogni conoscenza umana diretta e immediata.

Tra coloro che seguono s. Agostino e s. Tommaso, vari concedono tale privilegio anche alla Vergine, per il noto principio mariologico: quello che nell'ordine della grazia si afferma dei santi, si deve dire preminentemente di Maria, se non vi sono ragioni contrarie. Ora, la v. " per modum actus " rientra nell'ambito della grazia santificante. Inoltre, Maria appartiene all'ordine ipostatico per la sua divina maternità, ed è intimamente associata alla persona e ai misteri di Cristo. Parimenti, è " forma " e modello della Chiesa. Ella indubbiamente ha goduto della pienezza della vita mistica.

Secondo Giovanni della Croce, ella fin dal primo istante fu elevata all'alto stato di unione e mai fu mossa ad agire da " forma " umana, ma sempre dallo Spirito Santo.1

In tempi più vicini a noi ha fatto discutere il caso di Lucia Mangano, nata a Trecastagni (Catania) l'8 aprile 1896, morta a San Giovanni La Punta (Catania) il 10 novembre 1946. Sono state dichiarate eroiche le sue virtù. Questa serva di Dio nei suoi scritti riferisce che, a cominciare dal 28 ottobre 1933 e sino alla morte, ha goduto della v. Ha scritto anche che si è trattato di un caso unico in tutta la storia, in grado inferiore sola alla v. che fu concessa alla Vergine santissima dal primo istante della concezione, in modo stabile e perfetto.

L'affermazione della Mangano è stata avallata senza riserve dal suo confessore e direttore spirituale ed ha trovato il consenso di alcuni teologi, mentre altri hanno reagito negativamente. Il fatto, in verità, contrasta con tutta la tradizione teologica, poiché la v. sarebbe stata goduta per ben tredici anni, e fuori di ogni estasi. Stupisce, poi, l'affermazione di un privilegio unico in tutta la storia, come pure che la Madonna ne avrebbe goduto permanentemente sin dal primo istante del suo concepimento. Forse la difficoltà di esprimere in concetti teologicamente precisi la ricchezza dell'unione mistica, ha potuto far equivocare. A me pare che i fenomeni descritti dalla Mangano coincidano largamente con quelli descritti da Giovanni della Croce nel commento delle ultime quattro strofe del Cantico spirituale e nella Fiamma viva d'amore. Ma il santo Dottore, uomo molto esperto di queste realtà, ed anche profondo teologo, ha nettamente affermato che non si tratta della v. bensì solo di un vestigio o preludio.

II. L'influsso della v. sullo sviluppo della vita spirituale si esercita in due direzioni: a. stimola efficacemente a tendere alla perfezione; b. nei gradi della vita mistica costituisce come un anticipo e preludio della vita beata.

a. L'influsso come stimolo nasce dalla conoscenza del valore della v. in ordine alla piena realizzazione dell'uomo: valore che viene messo in luce dalla divina rivelazione accolta e vissuta nella fede. In questa luce la v. appare nel suo ruolo fondamentale di via alla beatitudine. Questa viene seminata nel cuore dell'uomo con l'accettazione della fede e va crescendo nella misura in cui, con la profonda meditazione e assimilazione della fede, l'uomo conosce più vivamente che la v. mette in possesso del Sommo Bene e del fine ultimo in cui ogni desiderio di felicità dell'uomo trova il suo appagamento. Il desiderio e l'aspirazione alla felicità costituiscono la molla che spinge l'uomo all'azione. La divina rivelazione illumina il contenuto e la grandezza della v.: il suo rapporto con l'eterna felicità, gli ostacoli che impediscono e i mezzi che ne favoriscono l'azione dinamica per il progresso: l'ascesi, la povertà di spirito, il distacco affettivo, la preghiera, la grazia sacramentale, la direzione spirituale, ecc. Una forte " presenza " della v. aiuta efficacemente anche a sopportare e valorizzare le non piccole prove della vita. Questo vigoroso dinamismo si sviluppa soprattutto per mezzo del contatto amoroso con la Parola di Dio e con l'orazione. L'insegnamento evangelico sulle " fallaci ricchezze ", quello paolino sulla provvisorietà di tutte le cose umane e la consistenza delle realtà eterne (cf 2 Cor 4,18), hanno molta efficacia per dare slancio alla vita spirituale.

b. Nel quadro della vita mistica la v., oltre che come punto di riferimento per gli scrittori nella descrizione delle loro esperienze e nelle elaborazioni teologiche, è presente come anticipo e preludio della vita eterna. Per spiegare questa complessa fenomenologia bisogna tener presente che vi è un nesso intrinseco di sviluppo dalla grazia alla gloria: rapporto che s. Tommaso esprime dicendo che la grazia è virtualmente la gloria, e che la gloria è la grazia perfetta. Nel suo sviluppo la grazia si va rivelando fin nelle sue ricchezze virtuali: l'inabitazione trinitaria si va manifestando come realtà di presenza e di donazione delle Persone divine; la grazia santificante come elevazione radicale per la partecipazione della natura divina; le virtù teologali si fanno sentire come i dinamismi che fanno vivere la vita divina realizzando una inesauribile unione con Dio-Trinità; i doni dello Spirito Santo fanno crescere quello che Paolo chiama " l'uomo interiore " sempre più passato sotto il regime dello Spirito. Spesso a questo sviluppo dell'organismo soprannaturale si accompagnano carismi eccezionali che portano l'esperienza e la penetrazione dei misteri, fonte di ineffabili delizie.

Per questo motivo, s. Giovanni della Croce, ricco di esperienze e fornito di eccellente teologia, ha potuto descrivere in modo mirabile, nel commento alle ultime strofe del suo Cantico spirituale e nella Fiamma viva d'amore, i più alti stati e attività della vita mistica quasi in un confronto con la vita beatifica. E, pur distinguendo nettamente l'una e l'altra, ha mostrato nell'unione mistica più elevata come un vestigio della v.2 Sulla stessa linea s. Teresa, specialmente nel Castello interiore,3 sottolinea che la massima unione tra Dio e l'anima (matrimonio spirituale) avviene nel più profondo dell'anima, che è continua a livello abituale (abito), in una ineffabile mutua donazione e fruizione amorosa. La santa nella sua esperienza nota che, mentre si spengono i desideri impetuosi di morire per andare a godere Dio, divampa lo zelo per salvezza delle anime.

Note: 1 Cf Salita del Monte Carmelo III, 2,10; 2 Cf Cantico spirituale A, 39,6; Fiamma viva d'amore B I, 1.6; III, 81-83, ecc.; 3 Cf Castello interiore VII.

Bibl. Aa.Vv., La Mistica I, in particolare: G. Helewa, L'esperienza di Dio nell'Antico Testamento, 117-180 e R. Penna, Problemi e natura della mistica paolina, 181-221; I. Colosio, Inchiesta teologica sul paradiso, Firenze 1964; R. Garrigou-Lagrange, La Madre del Salvatore, I, Firenze 1953 c. 3, a. 6. Giovanna della Croce, I Mistici del Nord, Roma 1981; Joseph a Spiritu Sancto, Cursus theologiae mystico-scholasticae, 4, d. XXII, Romae 1951; A. Martinelli, La Madonna e Lucia Mangano. Saggio di mariologia mistica contemporanea, S. Giovanni La Punta (CT) 1959; S. Pesce, E possibile la visione beatifica in un'anima viatrice?, Catania 1965; A. Piolanti, Visione beatifica, in EC XII, 1485-1493; L. Reypens, Dieu (connaissance mystique), in DSAM III, 883-929; A. Royo-Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 903-904; J.-B. Terrien, La grâce et la gloire, Paris 1931.

R. Moretti

VISIONI. (inizio)

I. Nozione. La visione è la percezione di un oggetto attraverso gli occhi corporali. Per estensione e analogia, spesso si applica ad altri sensi e alla comprensione. Nella mistica le v. sono percezioni soprannaturali di oggetti naturalmente invisibili agli occhi. Il primo a parlare di una distinzione tra varie specie di v. è stato s. Agostino la cui classificazione è passata nell'uso comune.1

II. Classificazione. Vi sono v. corporali, quelle, cioè, in cui il senso della vista percepisce una realtà oggettiva naturalmente invisibile all'uomo. Non è necessario che l'oggetto che si percepisce sia, per esempio, un corpo umano di carne ed ossa, basta sia una forma esteriore sensibile o luminosa. Per v. immaginarie si intendono quelle rappresentazioni sensibili interamente circoscritte all'immaginazione che si presentano soprannaturalmente allo spirito. Per v. intellettuali si intendono quelle che si verificano mediante una semplice v. dell'intelligenza senza impressione o immagine sensibile. Sono diverse, secondo s. Teresa d'Avila,2 dalla percezione naturale dell'intelligenza per il loro oggetto (quest'ultimo di solito, supera la forza naturale dell'intelligenza), per la loro durata (durano molto nel tempo), per i loro effetti (amore, pace, desiderio delle cose celesti...).

Le v., dono di Dio, sono gratis datae non solo a beneficio dei singoli che ne godono, ma per il bene di tutti.

III. Sul piano paranormale, che entra nell'ambito della parapsicologia, si può avere la visione senza l'aiuto degli occhi e la visione attraverso corpi opachi.

1. La visione senza l'uso degli occhi. Il padre Thurston descrive quattro casi: la signora Croad leggeva col tatto (ed era divenuta cieca). La domestica del dr. Haddock descriveva figure senza l'uso degli occhi. Una fanciulla vedeva con la punta del naso e col lobo dell'orecchio. Un'altra fanciulla poteva leggere con varie parti del corpo.3

Nel 1981 a Shanghai si fece uno studio molto accurato su individui che mostrarono di vedere con varie parti del corpo.4

Le immagini - dicono i soggetti - compaiono dapprima nella loro mente come segni disordinati: punti, linee, poi si organizzano gradualmente in parole.

I professori Collins e Bach-y-Rita della Smith Kettelwell Institute of Visual Science di San Francisco, hanno escogitato una protesi che permette di vedere, sia pure meno bene, con la pelle e anche di udire.5

2. La visione attraverso i corpi opachi è stata accertata più volte. Rimandiamo per i vari casi alla chiaroveggenza. Qui riferiamo soltanto il caso seguente. Una fanciulla di Beirut, dopo aver guardato nella direzione del sole, si copre il capo con un fitto velo e guarda nella direzione della terra. Questa le appare trasparente. Vede l'acqua e gli oggetti che vi si trovano dentro.6

Note: 1 S. Agostino, De gentile ad litt. 1,12, c.7, n. 16: ML 34, 459; 2 Teresa d'Avila, Castello interiore, VI, 8, 2; 3 H. Thurston, Fenomeni fisici del misticismo, Alba (CN) 1956, 395-409; 4 Zheng She, Parapsychology is it Real?, in China Reconstructs, 30 (1981), 50ss.; 5 B. Hars, Voir sans jeux, in La Recherche, 5 (1974), 884-886; 6 P.G. Gearon, Le spiritisme, Paris 1932, 106-107.

Bibl. J. Aumann, Teologia spirituale, Roma 1991, 499-502; S. De Fiores, Veggente, in NDS, 1662-1677; V. Marcozzi, Fenomeni paranormali e doni mistici, Cinisello Balsamo (MI) 19932, 19-24; A. Royo Marin, Teologia della perfezione cristiana, Roma 19656, 1064-1070.

V. Marcozzi

VITA TEOLOGALE. (inizio)

I. I termini e la realtà. 1. La tradizione neotestamentaria. L'unione con Dio, nella tradizione cristiana, è il nucleo più sublime della rivelazione della vocazione umana e, nello stesso tempo, la condizione più ardua ad essere descritta, la più delicata ad essere educata: la gloria della meta è la croce della via. Lo mostra anche la storia delle interpretazioni.

I termini che tradizionalmente sintetizzano la proposta su questa relazione si leggono per la prima volta insieme, in 1 Cor 13,13: " Queste dunque le tre cose (ta tria tauta) che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità ". Tale testo è tanto riccamente evocativo nel suo enunciato quanto enigmatico nell'interpretazione.1 Probabilmente esso è il risultato di un cammino di coscientizzazione vissuta nel popolo di Dio che, meditando sulle esigenze della nuova alleanza in Cristo, aveva identificato in queste tre sia le prerogative nelle quali si concretizza e si configura la fisionomia delle persone che consentono a Dio di essere Dio nel popolo di cui si prende cura e di cui si compiace, sia i criteri in base ai quali verificare l'autenticità del credere, del confidare nella sua misericordia, dell'amarlo con tutto il cuore, la mente, la forza (cf Mc 12,28ss. e par.). La Bibbia di Gerusalemme (EDB) in nota al testo scrive: " Tre cose: il gruppo delle tre virtù teologali che appare in Paolo già da 1 Ts 1,3 e gli è forse (l'ed. francese ha sans doute) anteriore, ritorna spesso nelle sue Lettere, con diverse variazioni nell'ordine: 1 Ts 5,8; 1 Cor 13,7-13; Gal 5,5ss.; Rm 5,1-5; 12,6-12; Col 1,45; Ef 1,15-18; 4,2-5; 1 Tm 6,11; Tt 2,2. Cf Eb 6,10-12; 10,22-24; 1 Pt 1,3-9, 21s. In più si trovano insieme fede e amore: 1 Ts 3,6; 2 Ts 1,3; Tm 5; costanza e fede: 2 Ts 1,4; carità e costanza: 2 Ts 3,5; cf 2 Cor 13,13 ".

Queste " tre cose " riassumono gli atteggiamenti che strutturano il rapporto con Dio uno e multiforme. " Se ci si interessa al senso dell'esistenza cristiana, la speranza è ciò che lo determina. Se si considera ciò che in-forma quest'esistenza, bisogna nominare la carità. Se si domanda quale ne sia il fondamento bisogna nominare la fede ".2

Quando oltre a queste poche testimonianze paoline si approfondisce la ricerca sulla rivelazione neo-testamentaria delle "tre", la difficoltà di reperire dei contesti di conferma diventa grande. Si parla dell'una o dell'altra di esse separatamente, ma non delle tre insieme.

La loro sintesi è frutto dell'elaborazione della tradizione teologica e scaturisce dall'insieme della rivelazione dell'economia del tempo pieno. La v. è il riflesso della partecipazione della vita delle Persone divine in Gesù Cristo, connota le più alte operazioni con le quali noi partecipiamo ad essa, entriamo in relazione con loro; è reciproca all'autodono del Padre in Gesù Cristo e nello Spirito, dispone all'autodono nostro a Dio-con-noi per essere noi-con Dio in Gesù Cristo.

La dottrina che le concerne collega in certo modo la narrazione degli eventi salvifici, che vanno dall'Incarnazione alla promessa e al dono dello Spirito nella risurrezione, narrata dai sinottici e da Giovanni, e lettura di essi compiuta dal resto della letteratura neotestamentaria. Lo Spirito di Gesù Cristo è il soggetto primo delle attività a cui consentiamo con le nostre operazioni. Questa comunione di reciprocità è descritta con accenti diversi nei testi del NT, letti nella scia della lettura unificata della Parola che ha compiuto Gesù nell'incontro con i discepoli di Emmaus (cf Lc 24,27).

Le iniziative che la teologalità abilita a vivere sono di persone membri del Corpo di Cristo vivificato dallo Spirito. Le persone che le compiono sono il soggetto prossimo non il primo né l'unico della loro attività, le loro sono operazioni che Cristo attua nella sua Chiesa e che questa vive in lui a cui ci unisce il suo Spirito.

La v. nella sua unità di vita in carità è la vita del popolo di Dio che è stato radunato in Cristo e in lui ha sperimentato la misericordia (1 Pt 2,10). Egli lo ha fondato nella possibilità di dire nello Spirito "Abbà Padre" e di lasciarsi introdurre nella conoscenza che egli ha del Padre e che solo attraverso di lui è irradiata nel mondo e di protendersi in lui verso quella grazia che sarà data quando egli si rivelerà (cf 1 Pt 1,13).

L'annunzio che l'Incarnazione del Verbo costituisce il tempo pieno, che in Gesù Cristo siamo stati adottati nella filiazione adottiva (cf Gal 4,4), che Gesù risorto ha effuso lo Spirito, che questi vivifica la Chiesa nella quale ci unisce al Cristo che svela il mistero del Padre, orienta le persone che lo accolgono in un dinamismo di relazione divina. La vita di Dio in Cristo e nello Spirito è stata effusa nell'umanità e la fonda nella conoscenza che suscita in essa il desiderio di un più autentico rapporto con le Persone divine e dell'attesa di convergere verso la piena manifestazione della gloria.

Lo statuto teologale della vita in Cristo e nello Spirito era stato preparato dall'economia dell'AT, tutta ordinata ad annunciare la venuta di Cristo redentore dell'universo e del suo regno messianico e testimone permanente di una pedagogia divina che in Cristo raggiunge la sua meta (cf DV 15 citato da TMA 6). Cristo non parla a nome di Dio, in lui Dio stesso parla nel suo Verbo eterno.

2. Dalle "tre cose" alle tre virtù teologali: a. I primi dodici secoli. 1 Cor 13,13, anche se con alterne vicende, non ha mai smesso di focalizzare la ricerca della comunità credente. Questo scandaglio, attento e perseverante, è sfociato in un patrimonio di convinzioni e di esperienze a cui la Chiesa fa riferimento nella sua missione di guida nel cammino di sequela e di obbedienza allo Spirito. Queste tre cose sono state considerate come aspetto centrale del consenso a non rendere vana la riconciliazione in Cristo (cf 2 Cor 5,19s.). I Padri e gli autori spirituali hanno ribadito l'importanza di queste prerogative. La teologia non è arrivata subito a riconoscere il carattere unitario e virtuoso e teologale della santa triade. Il cammino verso questa sintesi è stato lungo e progressivo. Ancora Pietro Lombardo ( 1160) all'inizio del secondo millennio considerava la carità attività che lo Spirito Santo opera nei fedeli. Riteneva che la persona umana potesse credere e sperare in Dio, ma non amarlo.

Ammetteva una distinzione tra fede e speranza e la carità. Per la sublime dignità di quest'ultima, riteneva che lo Spirito Santo amasse in noi ma non attraverso noi come nella fede e speranza. Tommaso d'Aquino apportò l'ultimo tocco a questo processo, riconoscendo che sarebbe misconoscere l'opera dello Spirito, più che sublimarla, ritenere che la carità non è operata attraverso noi.

Quest'esperienza e questa riflessione convergono nella sintesi della Summa Theologiae,3 nella quale le più luminose intuizioni della tradizione vengono riprese e innervate in una vigorosa visione della vita secondo lo Spirito. Ivi l'Aquinate precisa il senso della qualifica di virtù teologali con la quale già alcuni autori precedenti ne avevano designato i dinamismi; le considera le più alte manifestazioni dell'esistenza in Cristo. Sono teologali perché " hanno Dio per oggetto: attraverso esse siamo ordinati rettamente in Dio; perché esse sono infuse solo da Dio; e infine perché esse vengono trasmesse nella Scrittura solo per divina rivelazione ".4 Questa concentrazione teologica è ricca di importanti valenze.

Affermare che le tre sono virtù, significa riconoscere che le operazioni che esse abilitano a compiere rientrano nell'esercizio delle potenzialità umane elevate dalla grazia, e perciò investire le persone della responsabilità di volersi soggetto delle azioni nelle quali si relazionano, in reciprocità di rapporto con Dio che si rivela verità di sorgente, amore che ama per primo (cf 1 Gv 4,8,19; 5,1,5,10), forza e sostegno del suo popolo (cf 1 Pt 5,7). Egli chiama a vivere per sempre nella comunione trinitaria. La persona è vero soggetto delle operazioni intellettive ed affettive con cui si relaziona a Dio, ma lo è in e con lo Spirito del Cristo presente in essa. I doni dello Spirito sono distinti ma non separati da lui che ne è la sorgente; essi suppongono non escludono la sua azione vivificante nell'anima in grazia e sono donati per permettere una vera comunione di conoscenza e di amore con le Persone divine. Questa presenza è origine della trasformazione che eleva e perfeziona le potenzialità conoscitive, di affidamento e d'amore e infonde in esse energie divine per corrispondere personalmente alla conoscenza in cui sono conosciute e all'amore in cui sono amate. Nonostante la loro inadeguatezza alla perfezione della patria (hic imperfecta... caritas perficitur in patria),5 esse sono vere, autentiche virtù: conferiscono un vero potere di agire con prontezza, spontaneità, gioia. In questo modo, tra l'altro, viene estesa notevolmente la sfera di azione delle potenze umane e si include in essa la relazione specifica con Dio, reciproca a quella che il Padre instaura in Cristo e nello Spirito con l'umanità. Enumerando tre virtù teologali, Tommaso unisce la carità alle altre; ne riconosce la singolare grandezza e le attribuisce il compito della rettificazione del vivere, il ruolo di forma nei confronti di tutto il dinamismo morale che in e per essa diventa meritorio della vita in eterno nella Trinità santa. E un modo di pensare che qualifica l'orientazione teologale della vita in Cristo, collega intimamente il vivere nel tempo e la visione di Dio.6

Il carattere virtuoso della teologalità la sottrae all'incostanza del dilettantismo, alla precarietà dell'emotività, all'infrarazionale e la vincola al dinamismo dell'intelligenza e della volontà inabitate dallo Spirito. La spontaneità nella v. è punto di arrivo, contesto della conversione permanente e della perseveranza nello sperare contro ogni speranza (cf Rm 4,16 ). Il rapporto con Dio si costruisce mediante le operazioni della persona mossa divinamente a volere liberamente ed influisce sui dinamismi personali senza falsarne le caratteristiche e le prerogative. L'unione con Dio non cresce se le persone non si coltivano nell'amicizia che egli abilita a vivere.

Legare la v. alla grazia è ribadirne contemporaneamente l'origine e la destinazione divina e la radicazione nella storia che in Cristo avanza verso la riconciliazione piena. La grazia è donata in Cristo e in vista di lui unisce a sé la Chiesa; essa conferisce una soggettività nuova, cristico-ecclesiale in forza della quale la persona vive e opera nella, con la e per la comunità adunata per essere nel tempo testimone della misericordia del Padre. La grazia della teologalità, nella sua natura più profonda, è dono; è sempre ricevuta e non si stacca mai dalla sua sorgente, è in permanente derivazione dal donante e in radicale tensione comunionale con lui. L'atteggiamento fondamentale della persona fedele è l'implorazione, l'epiclesi: Padre manda il tuo Spirito a santificare i nostri cuori per perseverare nell'amore soprattutto nelle ore della prova. La grazia è elargita gratuitamente, ma non in modo arbitrario o imprevidibile, abilita a fare della nostra attività il dono con il quale offriamo a Dio l'omaggio di noi stessi, illuminati dalla rivelazione nella quale egli si è auto-manifestato nel popolo nel quale condividiamo la misericordia nella quale ci unisce a sé. Si diventa credenti per dono, non per caso, e si persevera per amicizia perché si vuole essere in Cristo nel Padre. Senza una intelligente, saggia e perseverante educazione dell'intelligenza e dell'affettività sensibile e volontaria, senza una costante purificazione dell'immaginario, una perseverante vigilanza sulle tendenze ereditate dalla condotta antica, la partecipazione alla vita del popolo di Dio non si sviluppa in verità e libertà. Sembra che la teologia morale e quella spirituale non abbiano sufficientemente valorizzato questa decisiva operazione teologica.

b. Crisi al tempo della Riforma. Nel movimento culturale ed esistenziale culminato nella Riforma, la riflessione teologica più che la tradizione pastorale e ascetico-spirituale, per motivi diversi ma convergenti, ha sviluppato un'altra visione della realtà. La triade è stata valorizzata nelle sue componenti più che nel suo aspetto unitario.7 Ciascuna delle virtù è stata considerata sempre più isolatamente e la riflessione su di esse è diventata sempre più di carattere dogmatico più che teologico morale. La carità è diventata oggetto quasi esclusivo della teologia spirituale soprattutto nella sua accezione di amore per Dio.

c. Verso una nuova sintesi. Il Vaticano II nomina diverse volte fede, speranza, carità, ma non le denomina virtù. Le presenta nel contesto della vita in Cristo e nello Spirito come esplicita il rapporto reciproco che i Padri hanno descritto tra theologia ed oikonomia, tra il mistero della vita intima di Dio e le opere con le quali egli si rivela e comunica la sua vita (cf CCC, 236) nella economia del "tempo pieno", dei "tempi ultimi", del "tempo della Chiesa", dell'era di Pentecoste (cf per esempio CCC 731ss. e molti altri contesti), questa visione situa la v. nel contesto delle missioni divine e delle relazioni reciproche tra Cristo e lo Spirito, che vivifica e rende vivificante la Chiesa, adunata dalle Persone divine, guidata da esse nella crescita nell'identità di comunione che scaturisce, riflette ed anela alla comunione trinitaria, che s'irradia nella sua missione nel mondo quale sacramento di unità e di pace.

La verità secondo cui lo stesso Spirito porta tutti per le vie misteriose che egli conosce in contatto con la pasqua del Cristo (cf GS 22) fonda l'attenzione alla vitalità della teologalità al di fuori dei confini della Chiesa visibile, chiede di rimanere aperti ai segni della sua presenza nella storia.

Negli anni più recenti sempre più spesso i Papi hanno fatto riferimento alle "tre virtù teologali". Il Catechismo della Chiesa Cattolica offre un saggio di lettura più ampia ed articolata della teologalità. Ne parla chiaramente e ripetutamente (nn. 1812-1829; 2655-2658 e passim), le ripropone nella loro unità quale dimensione della professione di fede; della celebrazione del mistero pasquale (CCC 2656); della vita in Cristo e nello Spirito (CCC, parte 3); della preghiera cristiana (nn. 2656ss.). Questa proposta chiarisce l'orientamento dell'esistenza cristiana, connota il vertice della contemplazione, favorisce il discernimento della sincerità e dell'autenticità dell'obbedienza alla rivelazione; accompagna la celebrazione del mistero della pasqua e l'esperienza dell'intelligenza amorosa e della sintonia fedele all'economia della salvezza. Questa pluralità di punti di riferimenti lascia intravvedere in quale contesto e in quale orizzonte si situi la nuova valorizzazione di questo dato centrale del patrimonio cristiano.

II. La santa triade.8 1. Contesto antropologico della teologalità. L'attività connotata da verbi come credere, sperare, amare, suppone nel soggetto che la vive la consapevolezza di esistere in un mondo nel quale sussistono dei rapporti che interessano la persona, l'interpellano, la inducono a prendere posizione. Nelle azioni che detti verbi esprimono il soggetto opera nella e per l'attività che altre persone compiono e che si moltiplica nella e per la sua compartecipazione. Sono azioni a convergenza plurima e costituiscono la relazionalità interpersonale e comunionale nella realtà nella quale le persone sono inserite. Riferendomi ad una categoria liturgica, si potrebbe dire che hanno carattere responsoriale: il popolo si inserisce nella lode proposta, la rilancia riassumendone ogni volta, in prospettiva diversa e nuova, la tematica. Quando questa relazione si intensifica, la persona comincia a sperimentare una trasformazione in forza della quale non si lascia coinvolgere perché obbligata dal di fuori, ma perché una forza interna la vincola al punto che le riuscirebbe difficile disattenderne il dinamismo. Perdono di mordente le pretese e si qualifica l'attesa nei confronti di sé per sintonizzarsi nella comunicazione nella quale è accolta. " L'amore implica sempre la confidenza, il desiderio, l'attesa rispettosa della libertà dell'altra persona, del dono non manipolabile che essa può fare di sé; privarlo di quest'attesa sarebbe ucciderlo " (A. von Speyr). Inizialmente la persona si percepisce "tu" del rapporto nel quale partecipa; poi man mano che il processo di comunicazione si qualifica in un cammino di autodono e di fedeltà, comincia a scoprire che il volto, la notizia, l'evento che interiorizza, la costruiscono in una nuova identità, la svelano in un io di proporzione sempre più unionale, ampia, intensa. Più il rapporto cresce e si intensifica, più la persona partecipa del noi nel quale i suoi dinamismi diventano con-vocati, con-donati, con-divisi. I volti, le parole, gli eventi che si accompagnano a questa coscienza potenziano docilità all'ascolto, saggezza di discernimento, affidamento, fiducia, speranza, consenso, amore, ecc. Nessuna di queste è esperienza isolata, ognuna si sviluppa quando la persona condivide e partecipa conoscenza, esperienza, sollecitudini, speranze, gioie. Chi dichiara, attesta, proclama: ti amo, mi fido di te, mi affido a te, confido in te, spero in te, ho fiducia che quanto mi dici è vero, credo che quanto prometti si realizza, professa di assecondare un rapporto che incide in modo determinante sulla sua vita e ne configura intimamente i tratti. Queste attività confermano il carattere relazionale della perfezione personale e potenziano l'interdipendenza e la solidarietà che vincola le persone le une alle altre e tutte insieme alla realtà nella quale comunicano e dalla quale sono unite, in cui sono se stesse. La vitalità di questa comunione rinsalda i rapporti di amicizia e di solidarietà, di conoscenza e di riconoscimento mutuo, si alimenta di fiducia, potenzia il protendersi insieme verso il non ancora delle possibilità e potenzialità personali e comunitarie, rinvigorisce la forza di farsi carico delle debolezze umane senza cedere a compromessi e connivenze ambigue e senza irrigidirsi nella condanna e nella discriminazione. In questa dinamica di relazionalità, la persona oltre che essere attratta, appagata e rasserenata dalla amabilità nella quale è accolta, è spinta a volersi a sua volta amabile, a donare fiducia, a fondare affidamento, a rendersi credibile, verace, veritiera, accogliente, ospitale, amica. E costruita nella sua verità dall'azione nella quale lascia accogliere.

Quando questo cammino entra in fase di stasi o di stanchezza, la persona si isola, diventa ricurva su se stessa, le sue potenzialità decrescono, i rapporti diventano muti e sfociano in quelle deviazioni che rendono penosa e inquietante la vita personale ed associata.

2. Tre virtù una sola gratuità. La questione non è di parole, concerne l'aspetto più sublime della visione cristiana del vivere e permanentemente l'inventiva della comunità credente che si proclama tutt'intera chiamata alla santità nella vita trinitaria, e perciò universalmente impegnata a illuminarne la via alla beatitudine. Sebbene nelle persone che vivono in peccato grave senza aver rinnegato la fede, quest'ultima e la speranza possono esistere anche senza la carità (cf DS 1544, 1578, 1963, 2312, 3803), nelle persone che vivono in grazia le virtù teologali costituiscono una realtà unitaria, si irradiano ed operano in modo articolato, anche se ognuna di esse ha la sua struttura propria. La comunione con l'invisibile amato e creduto senza esser visto (cf 1 Pt 1,12) è totalmente iscritta in questa partecipazione della vita di Dio che prepara all'unione con sé il popolo che Cristo raduna nel suo corpo, forma alla disponibilità, all'affidamento a colui che solo ha il potere di conoscere nei cuori gli atteggiamenti di cui egli solo è origine prima e destinatario. La suprema espressione di questa fedeltà è la gratuità reciproca a quella del Padre, colui che è origine di e in ogni iniziativa. Più le persone si lasciano unire da lui, più cresce in esse la sollecitudine, la sete che è la sua: che tutte le sue creature lo riconoscano e pervengano alla fruizione della sua beatitudine donata in Cristo. E un'esperienza stimolante e pacificante per coloro che non pongono limiti e resistenze all'irradiazione della misericordia; essa resta muta, priva di trasparenza in coloro che cercano garanzie e avalli che legittimano i calcoli e le autodifese. Il mistero in cui la fedeltà si sviluppa e vive è la luce che la illumina, la tenebra di cui è circonfusa, è la forza di attrazione che la stimola; solo la gratuità riesce a penetrare e a cogliere la bellezza di entrambe. Il Padre si dona non si lascia imprigionare, accoglie non diventa possesso, rende partecipi del suo disegno, non è sorgente di discriminazione e di divisione. La sua presenza è percepita da coloro che non pretendono segni diversi da quelli che egli dà nella sua Parola e nell'economia della sua sapienza. Il credente non ipoteca il compiacimento del Padre, lo implora; confida nella di lui fedeltà; attua con perseveranza quanto il popolo propone e gli indicativi che ne orientano il vivere.

3. V. e rettitudine umana. Le operazioni delle virtù teologali partecipano le prerogative di quelle tipicamente umane, coinvolgono i dinamismi di intelligenza ed affettività di cui la persona è dotata e relazionano con Dio, attraverso la mediazione della comunità in cui il Padre ci raduna rendendoci Corpo di Cristo. Le virtù teologali si distinguono dalle altre azioni umane per il fatto che orientano e fanno convergere la persona nella relazione con Dio. Questa non potrebbe sussistere se la persona non fosse retta nelle manifestazioni della sua vita, non fosse attenta e vigile, capace di tenersi in mano, di raccogliersi nella disponibilità al Mistero e nella docilità ai segni e alle parole con cui si rivela e nella volontà di farsi carico della crescita della comunità di salvezza in cui è parte. La relazione con Dio non distrae dai compiti umani, abilita a viverli in profondità e anche a lasciarli conformare nella sua misericordia salvifica. Non si è fedeli se si bara con l'umano e non si è radicalmente e pienamente umani se si disattende e si omette la relazione con il mistero della nostra origine e della nostra pienezza. Il dilettantismo e l'arbitrio sono del tutto esclusi dalla v., la quale sorge e cresce quando la persona è disposta a consentire al Dio vivente e, perciò, a distaccarsi dagli idoli che popolano la mente, il cuore, l'immaginazione. Dio parla nel silenzio delle parole che non vengono da lui e nell'ascolto operativo e trasparente dello Spirito.

La v. si vive in atti umani che pur distinti e diversi, scaturiscono dalla stessa origine, la grazia di Dio; sono vivificati dalla medesima sorgente, la presenza inabitante dello Spirito; coinvolgono tutta la persona e le imprimono un moto centripeto convergente nell'ascolto della Parola e nel consenso amoroso a quanto essa trasmette e alla meta in cui fa sperare.

La riflessione su queste virtù anche quando prende l'avvio dalla struttura dei dinamismi umani, dalla dinamica del desiderio di bene e di pienezza che orienta la persona e ne dinamicizza i processi sfocia sempre nella epifania di Dio che, per gratuita bontà, effonde se stesso e chiama ed ammette la persona alla partecipazione della sua vita. Questi processi non sono contrastanti se non diventano alternativi. Dio è uno. Ha creato l'umanità, l'ha ordinata a sé, l'ha costituita nella tendenza al bene supremo, agisce in e con essa perché si apra in libertà e gratuità alla sua attrazione, si è rivelato per ricondurre l'umanità nel suo amore. Le virtù teologali sono habitus infusi in noi nella grazia e abilitano a operare in reciprocità con l'azione di Dio. L'unione con lui avviene in operazioni di cui la persona graziata è vera origine.

III. Dimensione contemplativa della v.: virtù-doni dello Spirito Santo-beatitudini. 1. Vivere in unione con Dio non è avere delle idee su di lui, è farlo entrare in noi, accoglierne e viverne la Parola, camminare nelle sue vie, crescere nell'amore nel quale ci ama, seguirlo a modo suo e non nostro, accettare che ci introduca nella ineffabile esperienza della sua misericordia. Quando questa vocazione diventa stile di vita quotidiana, caratterizza, qualifica e rende significante la presenza nella comunità credente e il dinamismo di essa nella storia, attraverso processi di purificazione che, vari quanto le persone che li vivono e i contesti nei quali sono inserite, sfociano tutti nella conformazione alla misericordia del Padre che vuole tutta l'umanità salva in Cristo. E un cammino che, come i giorni nei quali si snoda, va di alba in alba attraverso notti di mistero e di trepidazione, di riposo e di gemiti. In genere questo processo lo si abbina alla carità e alle fasi della crescita di essa: incipiente, proficiente, perfetta, in realtà investe nello stesso tempo la fede e la speranza. Le tre crescono insieme e insieme qualificano la partecipazione amorosa e credente nell'ora del Cristo. Le notti oscure della fede sono non meno lunghe, sofferte e salutari di quelle che vive la carità che si lascia ferire dalle situazioni che implorano misericordia e che mettono a prova la speranza quando la "sventura" incombe sulle persone e le comunità e il solo aiuto che si può condividere è sostenersi nel non soccombere.9

Le virtù teologali hanno per oggetto Dio stesso, bene supremo e fine ultimo; perfezionano le facoltà umane in modo che possano corrispondere all'attrazione che egli esercita nelle modalità e nelle vie che a lui sono proprie. Credere è sperare nella conduzione con cui egli porta eventi e persone nella piena conformazione nella sua vita; è amarlo nell'amore nel quale egli ama. La perfezione che conferiscono anche se in conversione permanente, non vince del tutto la inadeguatezza della mens umana in ordine a Dio. Lo Spirito Santo viene in aiuto alla nostra infermità e con i suoi doni rende le persone docili ad ubbidire alla mozione con la quale le unisce al Cristo che le conferma nella conoscenza, nella fiducia, nell'amore con cui conosce il Padre, si abbandona a lui, lo ama,10 in un rapporto più intenso, più personale, più consenziente. Frutto della docilità, dell'obbedienza a questa mozione dello Spirito sono le operazioni, beatitudini non solo nel loro aspetto di operazioni meritorie messe in atto dalla persona, quanto e più ancora di fruizione del premio che si accompagna alle opere delle virtù che preparano direttamente la contemplazione: la visione iniziale e la gioia della filiazione divina partecipata.11 E il rapporto perfezionato nella vita mistica, che si sviluppa, più che nella dinamica delle opere che dispongono in modo diretto ed immediato alla contemplazione, in quella della fruizione iniziale della filiazione. Inabitata dallo Spirito che rende accogliente del dono di sé che il Cristo conferisce a chi consente all'attrazione del Padre, la persona comincia a sperimentare la gioia e la pace della vita beata. Le opere della persona che è mossa dallo Spirito sono più dello Spirito che della persona. Una intensa espressione di questa docilità si vive quando la persona si lascia ferire dalla miseria umana, specie da quella che rende disattenti e ribelli al Padre e, spinta dalla misericordia stessa del Padre, implora con gemiti e lacrime la conversione delle persone e la pace per l'umanità e la Chiesa. Questi atteggiamenti costitutivi permanenti dell'essere cristico, secondo un'interpretazione molto convincente di 1 Cor 13,13 permangono anche nell'eternità. Ireneo lo afferma: la persona umana ha sempre da apprendere da Dio sempre più grande,12 Origene lo segue.13 Con essi concordano anche alcuni esegeti contemporanei.14

Quando, come " bambini appena nati si brama il latte dello spirito e si gusta quanto è buono il Signore " (cf 1 Pt 2,2; Sal 34,9), la persona diventa sempre più attratta da questo desiderio di vita con Dio e disattende le sollecitudini che riguardano il "come", il "quando"; il "dove" o altre simili che inquietano le fasi iniziali della vita in Cristo. Si pensi per esempio come amarlo senza averlo visto; come credere senza vederlo; come sapere se lo si ama o meno; come esultare di gioia indicibile mentre si consegue la meta della fede, la salvezza (cf 1 Pt 1,8s.); come si manifesta l'amore agapico in una storia dominata dall'odio, dagli egoismi, dalle autodifese; come si configura il credere e il cantare i canti della patria in terre straniere (cf Sal 136,4) popolate da idoli, prigioniere del visibile, incapaci di aprisi all'essenziale che è invisibile agli occhi (A. Saint-Exupery); o ancora, come sperare nella vittoria sulla morte quando questa, con il corteo delle manifestazioni che la precedono e l'accompagnano, è l'unica realtà che sperimentiamo in un mondo in cui nascere è cominciare a morire; che comporta rendere conto della speranza (cf 1 Pt 3,13); rendere credibile la fede nella vittoria di Cristo sulla morte, sull'inimicizia (cf Ef 2,14-16), sul peccato (cf 1 Pt 2,24); in che modo, per quale via egli l'ha vinta; a quali condizioni la vittoria sua diventa quella delle persone che in lui diventano popolo (cf 1 Pt 2,10); o come si configura in concreto lo stile di vita, quali sono i lineamenti interni e i tratti esterni, di coloro che vivono tra i "pagani" e che sono "stranieri e pellegrini" nel mondo (1 Pt 2,11; cf anche 2,11-4,12); come risolvere le questioni non con criteri individualisti ma nella sintonia con il popolo che partecipa "alle sofferenze di Cristo" (1 Pt 4,13)?

2. Docilità al Mistero. L'esperienza della vita trinitaria. Le suddette preoccupazioni si attenuano e la verità rifulge quando gli occhi dello spirito si aprono all'amorosa presenza invisibile nella quale le persone si vedono pietre vive del tempio della misericordia. Nella radice di contemplare la realtà del tempio è dominante con-templum. " Anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un tempio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo " (1 Pt 2,5).

Il dono della contemplazione è l'espressione più concreta di quello che è il " punto essenziale per cui il cristianesimo si differenzia dalle altre religioni nelle quali si è espressa sin dall'inizio la ricerca di Dio da parte dell'uomo. Nel cristianesimo l'avvio è dato dall'Incarnazione del Verbo. Qui non è soltanto l'uomo a cercare Dio, ma è Dio che viene in Persona a parlare di sé all'uomo e a mostrargli la via sulla quale è possibile raggiungerlo " (TMA 6).

Il Padre accoglie nel suo regno, ammette nella visione incoata della sua gloria e chiama con il dolce nome di figlio-figlia (cf Mt 5,1ss.) le persone che, nella docilità allo Spirito, coltivano la trasparenza del cuore e si dedicano alle opere della pace. Dio Trinità inabita le persone in grazia; la sua presenza si manifesta nelle maniere più diverse e raggiunge gradi di intensa tenerezza.

La contemplazione non è alternativa all'operare virtuoso. Si va di virtù in virtù attraverso tempi di contemplazione e di contemplazione in contemplazione, attraverso l'autodono nella vita virtuosa, nelle opere di pace. Contemplare è autodonarsi a Dio che si dona a noi nel corpo del suo Cristo e ci accoglie in esso per irradiare attraverso esso misericordia, giustizia e pace.

Anche se in alcuni stati di vita l'esperienza della contemplazione passa per fasi diverse, essa si accompagna sempre alla disponibilità del desiderio che la volontà salvifica universale del Padre si compia in tutta la persona di ogni persona. Ogni persona contempla da sola, ma nessuna persona che contempla è sola; Dio si manifesta nel popolo della vita e per il popolo della vita. Le persone riconciliate in Cristo e nello Spirito alla docilità filiale al Padre, comiciano a fare l'esperienza della nuova ineffabile soggettività espressa nel " non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me " (Gal 2,20), e che rende radicale la sollecitudine per la salvezza del mondo del peccato, per la pacificazione dei popoli, per l'irradiazione missionaria del Vangelo. Cristo nel suo Corpo rivela ed incarna la misericordia del Padre ed essa trae misura dalla gratuità dell'amore ferito e vulnerato dalla miseria dell'umanità nella dura concretezza della sua realtà. Giovanni Paolo II nella Dives in misericordia attesta: " "Credere nel Figlio crocifisso" significa "vedere il Padre" (cf Gv 14,9), significa credere che l'amore è presente nel mondo e che questo amore è più potente di ogni genere di male, in cui l'uomo, l'umanità, il mondo sono coinvolti. Credere in tale amore significa credere nella misericordia. Questa è, infatti, la dimensione indispensabile dell'amore, è come il suo secondo nome e, al tempo stesso, è il modo specifico della sua rivelazione ed attuazione nei confronti della realtà del male che è nel mondo, che tocca ed assedia l'uomo, che si insinua anche nel suo cuore e può farlo "perire nella Geenna" (Mt 10,28)... Nel compimento escatologico la misericordia si rivelerà come amore, mentre nella storia umana, che è insieme storia di peccato e di morte, l'amore deve rivelarsi soprattutto come misericordia ed anche attuarsi come tale. Il programma messianico di Cristo - programma di misericordia - diviene il programma della Chiesa " (nn.7-8). Quando la persona è ferita dalla misericordia per Cristo e dalla misericordia che egli ha vissuto nella sua pasqua e che ha ispirato la sua donazione d'amore, comincia a sintonizzarsi con quelle misericordie delle menti e dei cuori che nel corpo di Cristo sperimentano che le piaghe prodotte materialmente dall'odio, più in profondità sono aperte dalla misericordia che fa fluire la guarigione che il Padre opera. Questa visione della realtà è veicolata dalla Parola di Dio a condizione che la si legga non solo in riferimento al significato che i termini hanno nel linguaggio comune o nell'uno o nell'altro contesto in cui si parla di fede, speranza, amore presi isolatamente, ma in quello della vita e delle opere di colui che ha rivelato quello che ha appreso dal Padre (cf Gv 15,15). La rivelazione della teologalità e, in particolare, della carità che ne costituisce il vertice, implica il riferimento sia all'Amore di sorgente, la vita trinitaria di cui le "tre" sono partecipazione e a cui orientano; sia alla piena rivelazione di esso avvenuta nella pasqua del Cristo e nel dono dello Spirito che raduna e vivifica la Chiesa nella carità. Le teologie, nel vissuto che le ispira, nei principi architettonici e nei criteri interpretativi che le orientano, hanno tentato di armonizzare quest'insieme, ma esse non sono mai complete e ogni era della storia della Chiesa deve camminare con la Parola per coglierne le esigenze. Molte di esse concordano nel ritenere che la contemplazione è l'operazione delle virtù teologali perfezionate dai doni e cioè dalle potenzialità che lo Spirito attua in noi per farci convergere nella Chiesa, con animo unificato, in Dio fine ultimo di ciascuno di noi, dell'umanità, della creazione. Tali doni iniziano alla vita trinitaria nel corpo di Cristo, nella creazione rinnovata.

Lo Spirito Santo li infonde in noi e nelle persone docili alla sua azione e mediante essi permette di superare le imperfezioni che accompagnano gli atti delle singole virtù. Tutti i doni sono ordinati a questa perfezione che ha la sua espressione nell'attività della sapienza.

I gradi di perfezione delle virtù teologali sono quelli stessi della vita cristiana, essi passano dallo stato incipiente, proficiente e pervengono al perfetto e cioè alla unificazione della conoscenza, dei desideri nell'amore di comunione con le Persone divine e nella conformità alla loro volontà.

3. Vieni Signore Gesù. La Pasqua-Pentecoste, la nascita della Chiesa corpo di Cristo, popolo di Dio, tempio dello Spirito, rende cristico-ecclesiale il dinamismo della v., nei cristi del Padre condotti dallo Spirito. La vita in grazia da cui le virtù teologali derivano, e che rinsaldano, è partecipazione alla passione della Chiesa che porta a compimento l'opera del Cristo (cf Col 1,24) per la piena manifestazione della gloria del Padre. La sorgente e il vertice della v. è trinitaria, perciò pasquale ed ecclesiale perché nel corpo di Cristo la vita del Padre è effusa e in esso l'umanità conosce il Padre, gli obbedisce, lo ama e lo glorifica. La vita della e nella Chiesa è la sorgente, il contesto, la forma della vita teologale e la vita della Chiesa scaturisce dalla pasqua del Cristo. Il Mistero annunziato, celebrato, vissuto, contemplato nella Chiesa è la chiave ermeneutica ed il contesto esistenziale della teologalità. Di ognuna delle virtù teologali si può dire ciò che il CCC dice della fede: " ...E atto personale... non è un atto isolato. Nessuno può credere da solo ...nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno si dà l'esistenza da sé. Il credente ha ricevuto la fede da altri e ad altri la deve trasmettere " (n. 166). " La fede della Chiesa precede la fede del credente che è invitato ad aderirvi " (Ibid., n. 1124). " La Chiesa è il sacramento dell'azione di Cristo che opera in essa grazie alla missione dello Spirito... i "sacramenti... fanno la Chiesa" in quanto manifestano e comunicano agli uomini, soprattutto nell'Eucaristia, il Mistero della comunione del Dio Amore, Uno in tre Persone " (Ibid., n. 1119). " La Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede... le ricchezze (della tradizione) sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega... la comunicazione che il Padre ha fatto di sé mediante il suo Verbo nello Spirito Santo, rimane presente ed operante nella Chiesa... per mezzo (di essa) introduce i credenti a tutta intera la verità e fa risiedere in essi abbondantemente la parola di Cristo " (DV 8, citato nei nn. 78-79). Questa pericoresi tra vita ecclesiale e vita personale non toglie nulla alla ricchezza di quest'ultima per il fatto che la moltiplica, che la genera nella forza e nella luce che le viene dal Capo di cui è il corpo, dallo Spirito che la vivifica, dall'amore del Padre da cui scaturisce e che la beatifica nella sua pienezza. Nel concreto dell'esistenza questa partecipazione è luminosa, gioiosa e sofferta insieme. Il rischio e il coraggio di volersi sempre, nel tempo buono e in quello burrascoso, immersi nella comunione del Corpo mistico che ha in sé persone sante e peccatrici, che aspirano alla luce e brancolano nella notte; il perseverare nella fedeltà con atteggiamento di condivisione non di selettività fa sì che la carità assetata di luce si apra alla contemplazione. Purtroppo le tendenze individualiste e autonomiste alimentate dalla " vuota condotta ereditata dai... padri " (1 Pt 1,19) rendono ardua questa radicazione ecclesiale. Esse sono il fuoco che prova il valore della fede e sono anche esse che fanno sì che torni a "lode, gloria ed onore" dei credenti nella manifestazione di Gesù Cristo, amato senza essere stato visto e creduto senza vederlo (cf 1 Pt 1,7ss.).

La Dei Verbum esprime la professione ecclesiale sulla natura, la genesi-crescita e l'oggetto di questa fede che abilita a vedere nella luce che scaturisce dalla sua sorgente. Come ogni conoscenza umana parte dal sensibile così tutta la conoscenza della fede scaturisce dalla parola e radica in essa 16 in una penetrazione che non si stacca dal testo e non si arresta ad esso, si lascia attrarre e portare da esso nel mondo del Mistero da cui viene, di cui parla, verso cui è in esodo (cf Is 55,11), al quale accompagna gli eletti, stranieri e pellegrini (cf 1 Pt 1,23; 2,11). Nel suo cammino si irrobustisce per la potenza di Dio che, attraverso essa, custodisce per la salvezza il popolo rigenerato nella risurrezione di Cristo e vivo nella speranza nell'eredità conservata nei cieli e prossima a rivelarsi negli ultimi tempi (cf 1 Pt 1,3-5). In due millenni di storia questa parola che è ieri, oggi, sempre, è cresciuta nell'intelligenza di amore del popolo che, avendone gustato la dolcezza ne diventa sempre più avido, e in essa prepara la mente all'azione che lo porta a fissare ogni speranza in quella grazia che sarà data quando Gesù Cristo si rivelerà (cf 1 Pt 2,1; 1,13). La conoscenza contemplante della fede trascende la razionalità, non ne contraddice le esigenze di verità; la dischiude e la proporziona alle dimensioni dell'eudokia del Padre che si rivela ai piccoli e che è conosciuto nella conoscenza nella quale il Figlio lo conosce e si compiace di ammettere coloro che ama (cf Mt 11,25-27); legge la realtà in contesto di connaturalità, di unione affettiva. Quando questa fede-conoscenza è pervasa dai doni di intelletto e di scienza, si illumina della luce epifanica nella quale la parola rivela il mistero dell'amore (cf 1 Gv 4,8) nascosto da secoli in Dio, rivelato in Gesù Cristo (cf Ef 1,9ss.), sorgente della speranza e della forza che sostiene il popolo pellegrino nel breve tempo dell'afflizione e delle prove (cf 1 Pt 1,6) e alimenta la fonte da cui scaturisce la guarigione che fluisce dalle piaghe che l'iniquità apre (cf Is 53,5; 1 Pt 2,25).

Questa esperienza diventa apofatica e si riveste di valenze ineffabili quando la persona lascia le redini della conduzione della propria vita allo Spirito, non per stanchezza, pigrizia, comodo, calcolo, paura, ma perché ferita dall'amore misericordioso. Allora la sete della persona si lascia accogliere e vivificare in quella del Figlio unigenito che sale dalle profondità di Dio che ci desidera (cf CCC 2560, 2561) diventa epiclesi silenziosa, ammirativa, vigilante, implorante, confidente; percepisce le sfumature della sintonia del Mistero; vive la pace dell'abbandono; rinuncia a sapere il come e il quando degli eventi e delle cose che il Padre tiene celati nel suo mistero di amore, spera e confida in lui e si lascia santificare nell'obbedienza d'amore alla verità (cf 1 Pt 1,22). Gli scrittori spirituali indicano questo stato con i termini più diversi: passività, apofasia, non conoscenza... Prendendo in prestito una felice espressione tipicamente cristiana delle liturgie d'Oriente e d'Occidente, oserei parlare di "parresia", " vale a dire semplicità schietta, fiducia filiale, gioiosa sicurezza, umile audacia, certezza di essere amati " (CCC 2778 e tutto l'a. 2 sul Padre Nostro).

Note: 1 Cf tra altri F. Dreyfus, Maintenant la foi, l'esperance et la charité demeurent toutes les trois (1 Cor 13,13), in Analecta Biblica, 1718, (1963), tutto il numero; 2 H. Schlier, Nur aber Bleiben diese Drei. Grundniss des Christlichen Lebensvollzuges, Einsideln 1971, 12; 3 Cf STh I-II, q. 62, aa. 1-4; 4 Ibid., III, q. 62, I c; 5 Ibid., II-II, q. 23, a. 1, ad 1; 6 Cf Ibid., I, q. 43; 7 Cf O.H. Pesch, La teologia delle virtù e le virtù teologiche, in Con 23 (1987) 3, 116-141; 8 Clemente Alessandrino, Strom. IV, 7: PG 8, 1265; 9 Cf S. Weil, L'attesa di Dio, Milano 1984, 88; cf tutto il cap. "L'amore di Dio e la sventura", 84-101; 10 Cf STh I-II, q. 68, a2c; 11 Ibid., I-II, q. 69, a. 1, ad 2; 12 Adversus haereses, II, 28,3; 13 Com. in Joh., X, 43; 14 F. Dreyfus nell'a.c. così afferma: " menei esprime l'appartenenza al mondo delle realtà eterne, che realizza già da ora una presenza anticipata del mondo che viene " (p. 412).

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D. Mongillo

VITTIMA. (inizio)

I. L'antropologia, attraverso lo studio dei miti, delle letterature e dei costumi dei popoli, ci consente di pensare ad una universalità del fatto sacrificale, di cui v. è la voce più significativa. Nella nozione e nell'esperienza vittimale c'è una sorta di passività o coatta o accettata o voluta che si manifesta esteriormente come umiliazione (solitudine, debolezza, espropriazione di sé) e stato di estrema abiezione.

Questo è soprattutto manifesto nei sacrifici umani, prima che intervenga, come un processo di sostituzione, l'uso di vittime " più umane ", cioè di animali che esprimono qualcosa in più della loro animalità e, per questo, si avvicinano a espressioni umane e salvano i sacrifici dalla loro disumanità.

Le motivazioni del gesto sacrificatore non sono così univoche e tuttavia sono degne di considerazione, come quelle di chi parla di " violenza sacralizzata ", oppure di catarsi, come scaricamento di sé su qualcuno o qualcosa (il capro espiatorio). E questo a pro del singolo o della stessa società. Oppure si parla di offerta propiziatoria (do ut des) o di libero dono di sé ad una Entità avvertita come superiore alle forze dell'uomo.

Le modalità del gesto sacrificatore comprendono una certa istituzionalità, onde distinguere il sacrificio dalla violenza criminale e dargli così una sorta di valore sublimante e, perciò, una certa ritualità, sia che si tratti di gesti sacrificali religiosi o di esecuzioni di Stato o di crimini mafiosi. Né sono da dimenticare socialità e spettacolarità del gesto sacrificale: la prima è indicata nel senso di un protagonismo che, in qualche modo, è collettivo e così il suo esito; la seconda, come momento catartico, esemplare o ludico del sacrificio.

A margine di queste modalità, e con un significato meno pregnante, ma non meno concreto, stanno i gesti sacrificali (e dunque le vittime) meno istituzionalizzati, rituali e spettacolari: quelli che interessano nell'intera vicenda storica fino ad oggi le " vittime della società ": gli schiavi, gli oppressi, i deboli, gli stranieri, tutti gli emarginati a motivo della loro diversità razziale, sessuale o religiosa. Nella folla delle vittime senza nome, esse stanno come un sacrificio innocente dentro una storia disumana.

II. Nella Sacra Scrittura. Gesù, il Cristo di Dio, " entrando nel mondo " (Eb 10,5) ha dato compimento ai sacrifici antichi (Messale 331), anzi li ha resi inutili (cf Eb 10,9) con un sacrificio nuovo, dove lui è vittima e sacerdote (cf Eb 5,8-9). Nella logica dell'Incarnazione, anche i gesti sacrificatori umani sono stati come assunti quali " figure " di una realtà " altra ". L'episodio di Isacco sacrificato (cf Gn 22) racchiude in sé il riferimento a Cristo; è figura della vittima sacrificata nell'obbedienza a Dio. Il Servo di JHWH allude anche nei dettagli all'Agnello portato al sacrificio nelle condizioni descritte: passività-mansuetudine, solitudine-silenzio, espropriazione di sé-abbandono. Tutta la tematica dell'agnello pasquale in Esodo fino all'Apocalisse fonda una spiritualità vittimale.

Le motivazioni del gesto sacrificale, nella prospettiva biblica, sono rapportate al senso del peccato e al bisogno di un riscatto, dettati da una sana coscienza e rivelati dalla santità della Legge: riscatto che solo Dio può compiere e che noi possiamo solo invocare come esito del sacrificio. Motivazione più positiva quella che tiene conto dell'istinto di generosità del creaturale che il peccato non ha estinto nel cuore dell'uomo e per il quale l'uomo fa libero dono di sé o di qualcosa di sé onde entrare in comunione con Dio. Questo esito è rappresentato da una catarsi personale e collettiva che si opera con il sacrificio di salvezza in obbedienza al Padre, per mezzo della morte redentrice del Figlio, nel fuoco dello Spirito eterno (cf Eb 9,14). Nel sangue di Cristo si compiono l'espiazione (cf Rm 3,25), l'eliminazione dei peccati (cf Eb 9,14) e la restaurazione di uno scambio d'amore che dalla parte di Dio mai era venuto meno. Questo esito è rappresentato pure da una comunione personale e collettiva che si opera con il sacrificio di lode del Cristo nel culto spirituale da lui reso al Padre, in una liturgia interiore di offerta e di obbedienza che nasce con il " Sì, vengo " pronunciato dal Verbo nel seno del Padre, quale espressione della sua volontà amante che si offre come vittima innocente per l'espiazione del peccato degli uomini incapaci di un vero riscatto. Per esso, con il perdono, vengono da Dio la benedizione, l'amore per sempre, la vita. Anche gli aspetti concreti del sacrificio diventano nella logica di un'incarnazione trasfigurante simbolo di una realtà spirituale: l'altare è l'interiorità del cuore, il fuoco è l'azione bruciante e consumante dello Spirito, il sangue in olocausto è il sacrificio di sé, il fumo che sale al cielo è come " il profumo soave per il Signore " (Lv 1,9).

Istituzionalità, ritualità, socialità, spettacolarità sono modi che rimangono anche nella visibilità dell'unico Sacrificio, che giunge fino a noi: rimandi di fedeltà, di memoria, di solidarietà e di grandezza che hanno il loro centro nella celebrazione dell'Eucaristia, memoriale della pasqua di morte e di risurrezione del Signore che ha dato il suo Corpo " per voi " (1 Cor 11,24) ha versato il suo Sangue " per voi " (Lc 22,20).

III. Nell'esperienza ascetico-mistica. Mentre i mezzi di comunicazione sociale ci fanno sempre più certi della violenza, dell'indifferenza, del disamore, creando vittime tra i non-ancora nati, i bambini, gli anziani, i disabili, i socialmente più deboli, più scialba si fa la considerazione teologale del cristiano quale associato alla Vittima. Resta forte l'impegno a favore delle vittime della società e anche alla condivisione, ma resta scarso il riferimento ai motivi spirituali che lo sorreggono. Un'immagine più evangelica e purificata di Dio ha posto in ombra gli aspetti più severi e più esigenti dell'ascesi cristiana, mentre la psicologia analitica ha posto in sospetto ogni accenno alla mortificazione cristiana e alle norme limitative e passive della vita spirituale. Una cultura del benessere, poi, e un'antropologia anche lecita e degna della felicità, una riscoperta evidente del valore della corporeità, della sessualità, di un lavoro profittevole e di una fruizione serena della bellezza del mondo hanno velato o sottaciuto gli aspetti sacrificali del vivere, rendendo l'uomo più indifeso dinanzi alle circostanze avverse.

I discepoli del Signore, in ogni tempo, sanno di essere associati alla pasqua di Gesù e, per mezzo del battesimo, incorporati alla sua missione sofferente e al destino glorioso di lui. Particolare considerazione vittimale hanno, nella tradizione vivente della Chiesa, i martiri, i vergini e gli innocenti, ma lo spettacolo delle sofferenze dell'umanità fa pensare alla croce di Gesù come al centro delle sofferenze del mondo, sopportate prima di lui e da lui portate su di sé nella forma di una divina condivisione di tutto l'umano " escluso il peccato " (Eb 4,15) fino all'umiliazione estrema della croce, quale gesto ultimo della filantropia di Dio; sopportate dopo di lui con l'unico sguardo possibile: quello di un amore di compassione che non teme la profondità degli inferi e la possibilità del " silenzio di Dio " nella notte oscura della fede.

Portare ogni giorno la nostra croce (cf Mt 16,24), svolgere i nostri compiti umani con serietà e impegno, partecipare al sacrificio della Vittima vittoriosa, mediante le sofferenze derivanti dalla lotta a ciò che è male in contrapposizione alle inutili sofferenze che ci procuriamo seguendo ciò che è male, accogliendo con serenità le fatiche e le diminuzioni dell'età e della vita fino alla pena del morire come ultimo atto sacrificale di sé: questa può essere la modalità concreta e quotidiana di un " voto vittimale " che è presente e riscontrabile nelle varie agiografie della tradizione cristiana. Espressione singolare di quel " voto ", sempre da sottomettersi al discernimento di persone più mature, è il voto di sostituzione, vita per vita, perdita di sé per la salvezza altrui, ma alla condizione provata che tutto avvenga nel clima positivo di un amore " più grande ".

III. In conclusione, occorre anche avvertire che, dal punto di vista antropologico, un discorso sul tema della v. non è privo di qualche difficoltà derivante dall'ambiguità genetica del fenomeno sacrificale.

Dal punto di vista teologico, l'immagine di Dio come somma giustizia e l'urgenza di una adeguata riparazione del peccato meriterebbero, nel loro ambito, una convincente esposizione.

E evidente che, anche dal punto di vista attuativo, nei casi soggettivi, possono crearsi dei rischi, indulgendo, anche involontariamente, a forme vittimistiche non adeguate alla prospettiva paolina del completamento in noi di " quello che manca alla passione di Cristo " (Col 1,24).

Bibl. Aa.Vv., Il sacrificio, in Ser 29 (1995), tutto il numero; R. Girard, La violenza e il sacro, Milano 1992; G. Manzoni, Victimale (Spiritualité), in DSAM XVI, 531-545; P. Molinari, Martire, in NDS, 903-913; S. Spinsanti, Spiritualità odierna del martirio, in Ibid., 913-917.

C. Massa

VIZIO. (inizio)

I. Il termine. Nel senso più ampio il termine sta ad indicare una carenza, una difformità, una deviazione. Nel senso morale, si contrappone a virtù ed indica un orientamento più o meno costante e profondo verso il male. Può consistere anche in una radicalizzazione di atteggiamenti per sé validi, ma bisognosi di essere bilanciati e integrati da altri parimenti validi.

Nel v. si realizza il pervertimento delle emozioni e dei sentimenti mediante la ripetizione di atti negativi: " Il peccato trascina al peccato; con la ripetizione dei medesimi atti genera il v. Ne derivano inclinazioni perverse che ottenebrano la coscienza e alterano la concreta valutazione del bene e del male ". Si ha allora una crescente predisposizione e dipendenza dal male accompagnati da una pari attenuazione del senso del rimorso, anche se non si arriva a " distruggere il senso morale fino alla sua radice " (CCC 1865).

II. Nella tradizione cristiana. Partendo da elenchi presenti nella Sacra Scrittura e arricchendoli con le acquisizioni della riflessione etico-spirituale, la tradizione catechetica e ascetica ha provato a tracciare cataloghi di vizi sostenuti da preoccupazioni soprattutto pedagogiche. Il criterio più diffuso è quello delle virtù alle quali i vizi si oppongono o il collegamento con i peccati capitali. Il CCC privilegia quest'ultima classificazione. " Sono chiamati capitali perché generano altri peccati, altri vizi. Sono la superbia, l'avarizia, l'invidia, l'ira, la lussuria, la golosità, la pigrizia o accidia " (n. 1866). Analogo è l'elenco presente nella tradizione orientale: gola, lussuria, avarizia ira, accidia, vanagloria, superbia.1

III. Impegno contro il v. Per l'unità, che è propria della persona, il v. determina assuefazione e dipendenze a livello psico-fisico che permangono anche quando si decide sinceramente di distaccarsi da esso. Il cammino di liberazione dovrà integrare saggiamente l'impegno della volontà con la chiarificazione e l'integrazione dei bisogni nel nuovo progetto di vita. Il rispetto della gradualità del cammino è indispensabile se si vogliono evitare rese scoraggiate: dovrà essere sostenuta e stimolata, evitando però con cura che possa trasformarsi in alibi deresponsabilizzante.

Ciò esige un approccio pedagogico che sviluppi innanzitutto il senso critico verso la stessa esperienza dei bisogni, per coglierne l'effettiva consistenza alla luce della dignità e dell'integralità della persona, sottraendosi alle diverse manipolazioni. Diventa così possibile evidenziare l'illusione di bene e di felicità che il v. racchiude in sé, aprendo il cammino al suo effettivo superamento, quindi, alla realizzazione vera dell'uomo chiamato al bene sommo della comunione trinitaria, fonte di felicità autentica.

Note: 1 Cf T. _pidlík, Manuale fondamentale di spiritualità, Casale Monferrato (AL) 1993, 310.

Bibl. G. Grieco, I sette vizi capitali, viaggio nel pianeta delle passioni umane, Cinisello Balsamo (MI) 1990; B. Honings, s.v., in DES III, 2668-2670; G. Moretti Parliamo di vizi e di virtù, Bologna 1992; J.A. Rony, Les passions, Paris 19805; A. Solignac, Vertus et vices, in DSAM XVI, 497-506; T. _pidlík, Manuale fondamentale di spiritualità, Casale Monferrato (AL) 1993, 304-320.

S. Majorano

VOLONTA. (inizio)

I. Il termine. v. dal latino voluntas (in greco: boulé) significa generalmente la facoltà umana di tendere al conseguimento di un fine, di un risultato, almeno vagamente conosciuto. Nel linguaggio assume molte variazioni di senso a seconda del contenuto dell'espressione, degli specificativi impiegati e perfino del tono della voce. Sinonimi di v. sono: volere, voglia, desiderio, preferenza, passione, benevolenza, intenzione, disposizione. Per antonomasia, con uno specificativo assoluto, è Dio (divina volontà); per sineddoche, è un atto volitivo o la disposizione pratica alla realizzazione del voluto o il soggetto capace di volere oppure il contenuto del volere; per metafora si parla di v. degli animali e della natura.

Nella filosofia greca, dato il prevalente interesse dei greci per l'intelletto e la conoscenza, la v. fu ritenuta una facoltà imperfetta in quanto protesa a un oggetto di cui era priva. Socrate ( 399 a.C.) pensava che l'intelletto, valutando ciò che è bene o male, condizionasse le scelte della v.; Platone riteneva l'amore (eros) caratteristica della v., cioè forza (dèmone) che tende alla completezza. Aristotele ( 322 a.C.), riconoscendo che Dio è " atto puro ", senza nessuna potenzialità ad ulteriore perfezione, escludeva una v. protesa a un bene non posseduto. Gli stoici ed altri, alla ricerca di stati interiori di impassibilità (atarassìa, apatìa, adiaforìa), deprezzavano le espressioni della v. come il desiderio, la speranza.

Il pensiero cristiano presenta Dio come essenza-natura d'amore, ossia assoluta v. di bene verso tutto ciò che è stato scelto da lui ab aeterno ad essere perfetto nell'amore. L'uso della parola v. nella Bibbia presenta molteplicità di significati senza preoccupazioni filosofiche. La v. umana deve adeguarsi alla v. divina, secondo il precetto di Cristo ai discepoli: compiere la v. del Padre, sostenuti dal suo esempio e dalla sua grazia (cf Mt 7,21; 12,50).

Nella teologia anche la v., in riferimento al suo precipuo valore di libertà, viene riconosciuta " attenuata dal peccato "; 1 solo con la grazia del Cristo viene abilitata a conseguire i beni soprannaturali. I teologi medievali, riconoscendo che tanto l'intelletto che la v. erano stati risanati dalla grazia, discussero sul primato dell'uno o dell'altra. Alcuni (Alberto Magno, Tommaso d'Aquino), seguendo Aristotele, davano il primato all'intelletto che conosce l'essenza del bene, pur attribuendo alla v. un'indispensabile funzione nel conseguimento del bene concreto. Accordarono un certo primato alla v. allorché l'oggetto dell'intelletto è Dio, superiore alla capacità intellettiva dell'uomo, per cui è meglio l'amore a Dio, che la sua conoscenza. Per Tommaso, le due facoltà nel loro attivismo si richiamano reciprocamente.

Altri (Ugo di San Vittore, Enrico di Gand, Duns Scoto), esaltando nella v. la funzione amorosa che tende al bene o l'attività della v. che domina sull'oggetto della potenza intellettiva ed è autonoma, davano il primato alla v. (volontarismo). La v. libera di Dio costituì l'universo senza alcuna predisposizione intellettiva. Così il credente accetterebbe la verità rivelata solo per fede e la teologia offrirebbe in prevalenza precetti da osservare.

Pensatori moderni (Berkeley, Leibniz) ritengono la v. fondamento della psiche umana e le attribuiscono un valore pratico (Kant), cioè una prevalenza sulla ragione teoretica. Molte altre sfumature sul primato della v. furono offerte da altri pensatori, fino a contrapporre al cartesiano " cogito, ergo sum " un " volo, ergo sum " (Maine de Biran). Solo gli idealisti (Croce, Gentile) cercarono di cancellare il volontarismo e l'intellettualismo identificando v. e conoscenza, autocoscienza e processo volitivo.

II. Nell'esperienza mistica. I mistici cristiani, nell'esperienza più elevata dell'orazione contemplativa e dell'unione amorosa con Dio, non hanno presenti le preoccupazioni filosofiche e teologiche del primato della v. sull'intelletto o viceversa, ma solo quel misterioso divenire dello spirito umano che, intimizzandosi con il soprannaturale, sperimenta insieme conoscenza e amore di Dio e delle cose in Dio, intuizione e brama di queste realtà, illuminazione ed ebbrezza di e in esse. Il rapporto uomo-Dio si semplifica sempre più fino a scoprire che le distinte funzioni (intellettiva, volitiva e memorativa) vengono superate e che lo spirito nella sua esistenziale unità viene immerso nel divino che è la luce intellettuale piena d'amore.

Teresa d'Avila diceva che la libera v. umana, se vuol progredire nell'esperienza mistica, deve sottoporsi ad una forte ascesi per salvaguardare la propria libertà dalle seduzioni terrene 2 e donarsi poi completamente a Dio senza preoccuparsi dell'attività intellettiva, specialmente nell'orazione di quiete. Lo scopo dell'orazione è la conformità della v. umana a quella di Dio.3

Giovanni della Croce scriveva: " Alcuni affermano che la v. ama solo ciò che prima è appreso dall'intelletto, però ciò va inteso in senso naturale... ma, soprannaturalmente, Dio può benissimo infondere e aumentare l'amore, senza infondere e aumentare conoscenza distinta ".4 Aggiungeva che, essendo Dio luce e amore, si comunicava alla persona umana in modi distinti: " A volte si percepisce più notizia che amore, altre volte più amore che intelligenza... oppure tutta notizia e niente amore... tutto amore senza alcuna notizia ".5 Per il Dottore mistico un atto di v. fatto con amore divino vale assai più di tutte le visioni e comunicazioni celesti.6 Il cammino della perfezione o dell'unione con Dio procede con la purificazione (notte) della v., mediante l'esercizio della carità divina che distacca la persona dagli affetti terreni, dalle passioni naturali, dalle opere anche soprannaturali, per indirizzarsi al possesso della v. di Dio, fino ad amare Dio con la forza dello Spirito Santo.7 E questi che muove la v. all'amore di Dio 8 fino a unificare le due v.9 Soltanto così la v. umana è veramente libera e generosa.10

Note: 1 DS 792; 2 Cf Cammino di perfezione 10, 1; 3 Cf Castello interiore, II, 1,8; 4 Cantico spirituale B, 26,8; 5 Fiamma viva d'amore, 3,49; 6 Salita del Monte Carmelo II, 22, 19; 7 Notte oscura II, 4,2; 8 Cantico spirituale 17,4; 9 Ibid., 38,3; Fiamma... o.c., 1, 28; 10 Ibid., 3,78.

Bibl. Aa.Vv., L'educazione della volontà, Brescia 1986; R. Assagioli, L'atto di volontà, Roma 1977; P. Chauchard, Dominio di se stesso. Psicofisiologia della volontà, Roma 1988; L.M. Faber, Psicopatologia della volontà, Torino 1973; M. Gibbas, Come rafforzare la volontà per superare ogni ostacolo, Padova 1981; T. Goffi, Ascesi, in NDS, 65-85; A. Lipari, s.v., in DES III, 2677-2683; A.M. Maslow, Motivazione e personalità, Roma 1978; P. Ricoeur, Filosofia della volontà, Genova 1990; P. Rahner, s.v., in Id. (cura di), Sacramentum mundi, VIII, Brescia 1977, 680-682; L. Secco, Educazione della volontà, Brescia 1983; A. Solignac, s.v., in DSAM XVI, 1220-1248.

G.G. Pesenti

WEIL SIMONE. (inizio)

I. Vita e opere. Scrittrice e pensatrice francese, nasce a Parigi il 3 febbraio 1909. Ebrea di famiglia borghese, educata nell'agnosticismo, si dichiara nel 1938 cristiana, ma per solidarietà ai più poveri, gli increduli, quindi per vocazione, decide di non ricevere il battesimo. Secondo quanto afferma G. Hourdin,1 pare, però, che pochi giorni prima di morire si sia fatta battezzare da un'amica. Nel 1934-1935 insegna filosofia, ma lascia l'insegnamento per lavorare come operaia nelle officine Renault, per condividere, in fabbrica, la condizione degli operai. Nel 1936 combatte a fianco dei repubblicani spagnoli durante la guerra civile. Gracile, malaticcia, sofferente, muore consumata dalla tisi, a soli trentaquattro anni, nel 1943, ad Ashford, in Inghilterra.

Oltre agli articoli pubblicati su varie riviste durante la sua vita, i suoi scritti, per lo più appunti, lettere, pagine di diari e pensieri, sono stati editi postumi con i seguenti titoli: La connaissance surnaturelle (CS), Paris 1950; La condition ouvrière (CO), Paris 1951; Cahiers I (CI), Paris 19511, 19702, Lettre à un religieux (LR), Paris 1951; Cahiers II (CII), Paris 19531, 19722; Attente de Dieu (AD), Paris 1966; Intuitions pré-chrétiennes (IPG), Paris 1967; Pensées sans ordre concernent l'amour de Dieu (PSO), Paris 1962; La pesanteur et la grace (PG), Paris 1969; L'Enracinement (E), Paris 1970; Écrits de Londres (EL), Paris 1957 Ecrits historiques et politiques, Paris 1960.

II. Esperienza mistica. " Cristo è disceso e mi ha presa " (AD 45). W., agnostica, dopo l'esperienza spirituale del Portogallo (1936) e di Assisi (1937), da Solesmes (1938) in poi, " subisce " - passività mistica - la " costrizione ", l'" impresa " di Cristo che la incontra da " persona a persona " (AD 45), senza mediazione di uomini né di concetti né di sforzo ascetico (AD 36). Incontro assolutamente inatteso (AD 45) che ella vive come un essere " violata " (AD 155) e che è, in effetti, una reale esperienza mistica soprannaturale.

Il Cristo che l'ha incontrata è il Cristo crocifisso. " La croce produce su di me lo stesso effetto che su altri produce la risurrezione " (LR 58-59). La croce, per lei centro del cristianesimo, è suprema " contraddizione " (fondo ultimo della realtà e criterio di verità), " sventura " (storica e ontologica) e anche suprema " mediazione ". È distanza infinita tra Dio e Dio (AD 106) e vicinanza infinita. Cristo in croce è lo " sventurato ", contraddizione e mediazione vivente (PSO 114; 89; 120), e " mediazione tra Dio e Dio, tra Dio e uomo, tra uomo e uomo, tra uomo e cose, tra cose e cose " (IPG, 252; CII, 11ss.). La croce è, pertanto, " punto di intersezione tra questo mondo e l'altro " (E 238-239; PG 97-98), perciò luogo di mediazione ove gli estremi irriducibili s'incontrano e la contraddizione si risolve nella suprema armonia. È il dialogo tra Dio e Gesù (AD 103) regalato all'universo. " In principio era la mediazione ", commenta a proposito del prologo giovanneo. Perciò è rivelazione.

L'esperienza mistica di Cristo crocifisso le capovolge non la realtà, ma il punto di vista su di essa, perciò può affermare che la mistica fornisce la chiave di tutte le conoscenze (CS 43).

La " creazione " non manifesta l'onnipotenza di Dio, ma la sua " diminuzione ", perché dietro di essa, affidata dall'Amore al " caso " e alla " necessità " (CII 183-184), egli si ritira e si nasconde, permettendo così all'uomo di esistere e di esistere come un " io " libero. E già passione, svuotamento. Di lì Dio attende l'uomo.

Al movimento di " creazione " l'uomo risponde con la " de-creazione " (PG 41-47) che consiste nel passare dal creato nell'increato seguendo le tappe relative alla discesa di Dio: rinunzia alla forza, distacco, povertà, attenzione, desiderio, amore, morte. Se l'uomo acconsente alla morte, l'io scompare veramente e l'anima può dire: " Io sono Dio crocifisso " (PG 94; AD 62).

L'universo, infinitamente pieno di luce soprannaturale (CII 47) e di simboli, grida di essere letto diversamente (PG 135; 137; CO 356ss.). E un sacramento.

Anche la storia cammina verso Cristo che si è incarnato in tutti i popoli e personalmente in Galilea. Egli è il ponte tra le culture, le razze, le religioni, i tempi.

Nella vita sociale e politica la " forza " ha sradicato l'uomo. Occorre radicarlo di nuovo nella terra, nella famiglia, nella patria e nel soprannaturale (E 370). Il soprannaturale elimina la forza e fa nascere la " compassione ", virtù sociale per eccellenza. Le strutture sociali hanno il compito di sviluppare nell'uomo la facoltà del " consenso " che egli, da solo, eserciterà davanti al mistero. " La prova che uno ha incontrato Dio non sta nel modo di parlare di Dio, ma nel modo in cui parla delle cose terrene " (CS 96).

W. rinunziò alla cattedra di filosofia, si fece operaia e contadina, visse tra digiuni, preghiere e lotte per i poveri, cercando e ricreando le relazioni perdute e attendendo Dio e la morte (CS 257; EL 34; 214; 185-200); e di fatto morì, vivendo la morte mistica, sola, in terra straniera, consumata dal fuoco interiore.

Per la serietà della vita e la ricerca dell'Assoluto, ella è una testimone che ha vissuto in anticipo l'angoscia dei tempi nuovi e ha aperto serie speranze perché si ricucino i tempi e si creino ponti tra i diversi e specialmente tra il naturale e il soprannaturale. Per questo motivo, si propone come esempio di speranza combattiva e di mistica rassegnazione al mistero del dolore necessario, insito in ogni creatura umana.

Note: 1 G. Hourdin, Simone Weil, Paris 1989, 223ss.

Bibl. Opere: Oeuvres complètes, 7 voll. annunciati (sono apparsi solo i voll. I e II), Paris 1950-51. In italiano le opere di Simone Weil sono in corso di pubblicazione per i tipi della editrice Adelphi: sono già apparsi i Quaderni (voll. 4) ed altre opere. Studi: F. Castellana, Simone Weil, la discesa di Dio, Napoli 1985, con vasta bibliografia; A.A. Devaux, s.v., in DSAM XVI, 1346-1355; G.P. Di Nicola - A. Danese, Simone Weil. Abitare la contraddizione, Roma 1991; G. Fiori, Simone Weil. Une femme absolue, Paris 1987; G. Hourdin, Simone Weil, Paris 1989; G. Kahn (cura di), Simone Weil: philosophe, historienne et mystique. Paris 1978; I. Kælin, L'expérience mystique de Simone Weil et la foi théologale, in Aa.Vv., Réponse aux quéstiones de S. Weil, Paris 1964; G. Kempher La philosophie mystique de S. Weil, Paris 1978; S. Pétrement, La vie de Simone Weil, Paris 1973; E. Salmann, s.v., in WMy, 517-518.

F. Castellana

ZEN. (inizio)

I. Il termine. Costituisce la forma giapponese del cinese Ch'an, a sua volta derivato dal sanscrito Dhyâna. Significa meditazione, ma su certe basi storico-filosofiche originali. Il buddismo del Budda e degli antichi monaci (theravâda), conservato nel Canone pâli di Ceylon e dell'Asia del sud, ha una sua filosofia, definita al di fuori di questo ambiente come Piccolo Veicolo (hinayâna): l'uomo sulla terra, malgrado le sue illusioni, non è che un insieme provvisorio essenzialmente doloroso; per liberarsene sono inutili e vani il ricorso agli dei o le penitenze. L'uomo non può liberarsi che da solo del suo essere doloroso; egli deve disilludere la sua mente ingannata dalle credenze e dalle esperienze correnti: azione svolta essenzialmente mediante la separazione dal mondo e la meditazione. E per deviazione che, nel tempo, è nata nel buddismo una corrente pietista nella quale i cercatori sperano e chiedono soccorso ai predecessori già pervenuti ad una liberazione. L'unico vero mezzo di " disillusione " è la meditazione di cui il Budda, spiegato da alcuni suoi successori, ha descritto i gradi progressivi, i più alti dei quali portano, come si è detto, il nome di DhyânaCh'anZen.

Storicamente, questa corrente radicalmente meditativa, è stata introdotta, via Cina, in Giappone: nel sec. XII attraverso Eisai, nel XIII attraverso Shôyô Daishi. Il primo si rifaceva alla tradizione cinese Linji (giapponese Renzai).

Essendosi molto sviluppato, lo z., attraverso il suo metodo e il suo spirito, ha fortemente segnato il Giappone, soprattutto dal sec. XVI in poi e in particolare per mezzo dei monaci: nell'amministrazione, nella diplomazia, nelle costruzioni, nei giardini, nel teatro (il nô), nella cerimonia rituale del tè, in quelle dei funerali, ecc.

II. Il metodo dello z., lo za-zen (=sedersi-meditare), è essenzialmente uno svuotamento della mente che tende ad un vuoto definito da coloro che lo raggiungono luminoso e beatificante; esso richiede parecchi elementi diversi. Gli uni riguardano la situazione economica del soggetto, sufficientemente dotato, sostenuto e distaccato per non preoccuparsi del pane quotidiano; altri, il contesto in cui si stabilisce la ricerca: deserto, parco solitario, convento, come pure il luogo di residenza: abitazione in disparte o almeno camera chiusa e silenziosa; i ritmi dell'orario devono essere regolari e rigorosamente osservati; il cibo e il riposo ridotti. Tutto, d'altronde, dev'essere fatto in armonia.

Gli atteggiamenti corporei sono importanti nella meditazione: posizione seduta su gambe incrociate, in lotus, corpo e testa dritti e immobili, mani giunte l'una sull'altra, palme in alto. Immobilità " chiusa " che concentra l'energia.

Sono ancora più importanti gli atteggiamenti psicologici di base: lasciare scorrerre sistemi ed anche idee come sabbia tra le dita, perfino i contenuti religiosi; svuotare la mente; non " attaccarsi " né al proprio pensiero né alla propria persona.

Tutto ciò sarebbe, d'altra parte, inefficace se non ci si fosse dapprima e sempre più " lavati " moralmente, poi invasi dalla divinità. Lo yoga tradizionale, cugino del buddismo antico, ha indicato otto tappe per giungere al fine. Yama, il controllo che bandisce violenza, menzogna, furto, impurità, attaccamento al possesso; Nîyama, purezza positiva attraverso ascesi, studio, disponibilità, dunque equilibrio interiore; âsana, posizione e condizione esterna che, come si è detto, risulta favorevole alla concentrazione, prânâyama: disciplina di una respirazione ritmata e rallentata; pratyâhara, controllo degli organi di collegamento con l'esterno: i sensi, perché scompaia quello che sta intorno: dhârana, fissazione del pensiero o meglio suo superamento, verso il fine unico: la scomparsa di ogni forma; e così samâdhi, identificazione con questa assenza-notte che i praticanti chiamano pienezza e luce, il satori.

Questo cammino è lungo, pericoloso, esposto a molte deviazioni e illusioni; non si può percorrerlo giudiziosamente se non sotto la direzione di un maestro, esperto su una via che egli stesso ha percorso. Su questo punto, lo z. è d'accordo con molti metodi d'interiorità: il discepolo deve manifestare al maestro scelto fiducia e obbedienza totali, cieche. E la scuola fondata da Shôyô Daishi, il Sôtô, che ha sottolineato molto fortemente la sospensione di ogni pensiero e l'apertura all'impensabile impensato. Di qui la pratica corrente dei maestri che assegnano ai loro discepoli, per la ruminazione meditativa, dei kôan, cioè dei problemi e degli enunciati insolubili e assurdi; è scontato che l'accanimento sui kôan produca un'esplosione finale, un scatto prodotto da una circostanza spesso insignificante e che serve da bang al vuoto finale che dà la felicità.

III. Z. e cristianesimo. Tutti i cercatori dell'Ultimo, in ogni religione unanimamente sottolineano che " non si trova che abbandonando ", e che questo spogliarsi, materiale e spirituale, è una prova terribile, che esige un coraggio grandissimo. Questo in ogni caso merita rispetto. Tuttavia un paragone tra cristianesimo e z. richiede delle riflessioni più precise.

1. Il cristiano trova nello z. molti consigli ascetici che favoriscono in realtà ogni esperienza di vita interiore; li trova spesso anche nella sua via, ma ritrovarli altrove può stimolarlo ancora di più.

2. Lo z. non ha la fede in un Essere supremo personale, onnipotente e onniamante, il cui amore ha fatto sgorgare, liberamente e senza calcoli, la creazione e poi ha offerto all'umanità l'Incarnazione e la morte redentrice. L'uomo dello z. non è salvato da Dio; si salva da se stesso.

3. La via dello z., buddista, parte dall'universalità di un dolore universale da fermare; la via del cristiano parte da una doppia convinzione: quella del suo peccato e della sua incapacità di salvarsi da solo, ma la guida personale di un maestro esperto ed equilibrato è realtà indispensabile.

4. Lo z. vede il " dramma " alla portata delle sue forze; il cristianesimo lo vede come ispirato e condotto dall'amore di Dio. Lo z. crede nell'energia autosufficiente; il cristianesimo in una " energia ", richiesta ma insufficiente e soccorsa dall'Amore.

Bibl. Alcuni teologi e contemplativi cattolici hanno studiato, con competenza ed equilibrio, il problema dell'uso dei metodi zen per la vita interiore cristiana: J.-M. Deschanet, Yoga per i cristiani, Modena 1976; H.M. Enomiya-Lassalle, Zen, via verso la luce, Roma 1961; Id., Meditazione zen e preghiera cristiana, Roma 1979; A.E. Graham, Le Zen chrétien, Paris 1965; J. Masson, YogaZen, in NDS, 1723-1736; Id., Mistiche d'Asia, Roma 1995; Y. Raguin, La sorgente. La meditazione orientale e l'esperienza mistica cristiana, Cinisello Balsamo (MI) 1990.

J. Masson

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